Il compromesso sociale – ricordi di ieri e storie di oggi – di Franco De Anna
Son passati tanti anni. Facevo un altro mestiere: Ufficio Studi economici della Camera del Lavoro di Milano.
La CGIL aderiva ancora alla Federazione Sindacale Mondiale (ricordo un convegno italo-sovietico sulla siderurgia a Milano, qualche anno prima…), ma aveva appena deciso di chiedere l’immissione alla CES (la Confederazione Europea Sindacale), e l’aveva ottenuta, per allora, come uditore (CISL e UIL già ne facevano parte…).
A Francoforte si tenne un coordinamento europeo, non ricordo proprio su quale argomento e feci parte della delegazione (unitaria). Uditore, appunto.
Ricordo un pranzo con i colleghi tedeschi della DGB e, a parte il fastidio di un cameriere alle spalle, delegato a riempire immediatamente il bicchiere appena vuotato, e la sontuosità del ristorante, ricordo soprattutto il dibattito a tavola sul fatto che, in coerenza con il modello partecipativo della DGB, in quegli anni (siamo sul finire dei ’70, crisi del modello fordista e crisi fiscale dello Stato..) il Sindacato tedesco provvedeva, se del caso, a farsi carico di una impresa in crisi; ristrutturava con i previsti “sacrifici” e restituiva al “mercato”.
Certo: in quei giorni anche una breve esplorazione del sistema della formazione professionale, alla cui gestione per esempio la IG Metal (i metalmeccanici tedeschi..) partecipava, mi aveva alimentato la vergogna non solo per il nostro “sistema” (spesso problema più da Procura della Repubblica che di politiche formative), ma soprattutto per l’elitarismo classista (da chiunque espresso) che caratterizzava il dibattito sulla nostra politica dell’istruzione. Contemporaneamente si santificava Don Lorenzo Milani e il tutti a scuola, ma guai a “toccare” il liceo classico…
Formazione e lavoro, nella RFT, erano non uno slogan, ma una “pratica” della politica del lavoro e dell’istruzione. Certo: la DGB era in grado di mantenere il salario degli operai in sciopero quando quest’ultimo diventasse “l’ultima carta” di una partita che gli strumenti della cogestione non consentivano di chiudere con un accordo soddisfacente…
Ma, insomma, da “comunista” e da “sindacalista” mi costava grande sforzo interpretativo comprendere un sindacato che assumesse in prima persona la responsabilità di “ristrutturare” imprese in crisi, risanarle e restituirle al mercato.
Il confronto a tavola, favorito dalla presenza di qualche dirigente sindacalista tedesco di origine italiana (noi immigrati…) fu piuttosto vivace: dati e parametri economici da un lato, richiami a principi e ideali (ideologie?) dall’altro… A un certo punto l’interlocutore, sorridendo e indicando la bistecca nel mio piatto mi disse “Beh… se vuoi mangiarla, prima devi uccidere il manzo…”.
Certo non un buon argomento di discussione, ma un'efficace rappresentazione della necessità del “compromesso”. “Quel” compromesso.
A distanza di qualche mese fui mandato “in vacanza” nell’altra Germania. Delegazioni straniere tra russi e inglesi (i comunisti inglesi – prevalentemente trotzkisti – rigorosamente e disciplinatamente iscritti al Partito Laburista…). I russi guardati dai tedeschi della DDR (in realtà prussiani…) come molti anni prima i torinesi guardavano i meridionali immigrati: mal tollerati come chiassosi, scomposti, maleducati e pigri.
Qualche visita in qualche fabbrica. L’armadio dei fucili nella saletta dell’equivalente del Consiglio di Fabbrica (le armi al popolo come garanzia della rivoluzione…). Il pannello con il grafico della produttività della fabbrica inesorabilmente diretto verso l’alto. La visita ai reparti rivelava in realtà gruppi sostanzialmente nullafacenti, ritmi rilassati, una organizzazione molto ma molto soft. Un modello che da noi sarebbe stato improponibile. (Anche per un tecnico marcatempo di una grande impresa chimica milanese, che qualche anno dopo ricoprì un ruolo fondamentale nella CGIL, in seguito esponente della “sinistra sinistra”… )
La discussione anche in quel caso inutile: i responsabili ribadivano la crescita inarrestabile della produttività. I cittadini tedeschi dell’Est viaggiavano con la Trabant: motore due tempi di 500 cc, iper inquinante. Carrozzeria di resine e fibre naturali (niente acciaio…) per altro da considerarsi innovativa, se non ci fossero stati problemi di riciclo… Se riuscivi ad acquistarne una, dopo avere pazientato una lunga fila d’attesa, dovevi subito ordinare la prossima, visto che c’era da aspettare almeno 10 anni…
Non c’era nulla da discutere sui diagrammi della produttività. Anche qui rimandava la necessità del compromesso sociale. Di “quel” compromesso: avete un lavoro assicurato, con ritmi blandi, servizi sociali come sanità e scuola, distribuiti “orizzontalmente” secondo pianificazione. Ma la consegna era: il vostro messaggio sia che tutto va bene e che meglio non si potrebbe. Insomma: se il modello è “pane e scuola” ci vuole Stalin a tenere il “compromesso”.
Come andò a finire sappiamo. Son vecchi pensieri, legati a quelle due “missioni” in terra tedesca che mi hanno accompagnato per anni. Qualche rielaborazione recente si lega a vicende sindacali attuali: dall’accordo FIAT di Pomigliano, validato dalla consultazione tra i lavoratori, al recente “referendum scongiurato” sui voucher, al più recente esito referendario di Alitalia.
Sempre un intersecarsi di gemiti di dolore e di grida di vittoria su ogni singola battaglia. A nascondere, spesso inconsapevolmente, che si sta parlando d’altro: le strategie avrebbero un altro orizzonte. Se non altro quei passati pensieri scongiurano la tentazione de’ vecchi come me: che “prima” fosse tutto meglio…