la Costituzione non è il Corano
Valerio Onida, già presidente della Corte costituzionale, e già un sacco di altri incarichi al servizio di Comuni, Province e Regioni, esperto e consulente in controversie con lo Stato davanti alla Corte costituzionale e in conflitti fra il Consiglio superiore della Magistratura e il Ministero di giustizia o fra la Procura di Milano e le Camere, cattolico “adulto”, impegnato con l’Ulivo di Prodi nei primi anni ’90, candidato alle primarie per la scelta del Sindaco di Milano nel 2010, si è fatto promotore di un ricorso al Tribunale civile di Milano, perché il quesito referendario è, a suo avviso, troppo complicato e perciò poco comprensibile.
Pertanto, ne suggerisce lo spacchettamento, d’accordo, in questo, con un’area radicale. Sul ricorso hanno discusso, a lungo e approfonditamente, esperti e opinion- leader, sia per vagliarne la tenuta sul piano strettamente giuridico-costituzionale sia per valutarne i possibili impatti sullo stesso calendario referendario.
Lasciando volentieri la complicata materia agli esperti, che si muovono come angeli sulle punte di spillo giuridiche, qui merita forse una risposta la seguente domanda: perchè una quota parte del costituzionalismo cattolico è schierata per il NO?
Perché Valerio Onida non è solo. Ci sono Di Siervo, Balboni ed altri. Certo, contribuiscono alle motivazioni per il NO argomenti che vengono usati anche da altri costituzionalisti non cattolici, per es. da Zagrebelski: che il testo della riforma è un pasticcio, che i quesiti sono incoerenti, che, in particolare, quello riguardante la nuova composizione e i nuovi compiti del Senato è assurdo, che sta tornando un nuovo centralismo.
Ma, oltre l’approccio tecnico, che spesso si appoggia su argomenti a porta girevole, è decisivo per questa parte di costituzionalismo cattolico – quello della generazione post Dossetti e post Mortati – un comune humus politico-culturale, che si tratta di arare in profondità, per coglierne le ragioni.
Questa generazione è cresciuta sulla comune convinzione che la Costituzione sia un testo increato e perciò immutabile – Paolo Pombeni ricorda la famosa espressione critica di Scelba: “la Costituzione non è il Corano” -. Un testo che, semmai, si tratta solo di difendere e di attuare coerentemente. Le modifiche non vengono a priori escluse, ma nessuna è mai all’altezza. In particolare, questa ideologia comune esclude che si possa aprire la strada – mediante Italicum – al superamento di quella costituzione materiale che ha portato a sovrapporre il sistema dei partiti al sistema parlamentare.
Il sistema parlamentare era stato scelto durante il dibattito della Costituente, dall’odg. Perassi: “ La Seconda Sottocommissione, udite le relazioni degli onorevoli Mortati e Conti, ritenuto che né il tipo di governo presidenziale, né quello del governo direttoriale (NdR. quello assembleare dei partiti!) risponderebbero alle esigenze della società italiana, si pronuncia per l’adozione del sistema parlamentare, da disciplinarsi, tuttavia, con dispositivi costituzionali idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di governo e a evitare le degenerazioni del parlamentarismo”.
Non vedono i nostri illustri che proprio l’odg. Perassi è stato alla fine rovesciato in un “sistema direttoriale” dei segretari di partito e che la mitica centralità del Parlamento è divenuta la centralità dei segretari di partito e del loro governo assembleare. Sta qui d’altronde il centro effettivo dello scontro politico-culturale in corso: tra chi riduce la democrazia alla sola rappresentanza, facendo del governo un epifenomeno mutevole della rappresentanza stessa e chi pensa che sia giunta l’ora di dare al governo come istituzione lo stesso peso.
Ogni ipotesi di rafforzare la dimensione-governo fino a portarla ad un livello istituzionale pari a quello della rappresentanza viene immediatamente bollata come conato autoritario. E perciò va fermata. Ciò che la Costituente, alla fine, decise, relativamente alla seconda parte della Costituzione – il governo debole, per paura del 18 aprile dell’altro, sotto la pressione del quadro politico internazionale dell’incipiente guerra fredda dell’epoca – oggi viene presentato come dogma, come valore non negoziabile.
Ben altro fu l’atteggiamento di Dossetti, di Mortati, di La Pira. A chi auspicava un dettato costituzionale “senza prediche” sui valori e sui principi e quindi giuridicamente più preciso e cogente – era la posizione dell’odg. Bozzi – Dossetti e Mortati fecero notare (siamo al 25 ottobre 1946!) che “la materia costituzionale non può essere predeterminata, ma è qualcosa che si precisa di volta in volta, secondo gli interessi politici della classe dirigente, che provvede alla compilazione della costituzione”.
Tradotta oggi l’osservazione di Mortati e Dossetti, significa che le esigenze e le domande del presente devono spingere ad un’elaborazione costituzionale nuova. Dopo 70 anni di governi deboli, che hanno portato al declino attuale del Paese, di fronte alla crescente domanda di partecipazione e di esercizio di sovranità da parte dei cittadini, trincerarsi sulla difesa all’ultimo sangue dell’assetto uscito dal ’48 come se fosse l’essenza della democrazia, significa rassegnarsi al declino e all’insorgenza populistica, quale inevitabile reazione all’impotenza della politica.
Pensieri già anticipati da Roberto Ruffilli, assassinato dalle BR il 16 aprile 1988, quando partì dalla teoria dell’elettore arbitro e sovrano per proporre che al cittadino-elettore fosse riconosciuto il potere di scegliere tanto il proprio rappresentante in Parlamento quanto il capo del governo. Eversivo il cattolico e democristiano Ruffilli o conservatori gli attuali costituzionalisti cattolici del NO?