La Scuola Digitale non è un gioco
La Scuola italiana sta incamminandosi verso un sentiero di cambiamento radicale. E’ almeno quanto sembra emergere dal recente Piano Nazionale Scuola Digitale (PNSD), dove l’utilizzo di ausili digitali , siano essi ambienti virtuali o manufatti fisici, è messo a sistema con una serie di azioni ed interventi. Il Piano risponde a delle esigenze di rinnovamento didattico non solo dettate dall’ambiente esterno.
Ma nei fatti cosa è cambiato e cosa davvero cambierà? E soprattutto questo cambiamento è davvero in atto e come?
Prendo spunto da un mio recente post su Facebook, dove scrivevo, per rispondere a queste e altre domande: “La vera innovazione a Scuola , in questo momento, è rendere curricolare, integrare alcuni strumenti. Si può non fare, ma se lo si fa occorre una metariflessione ed una seria progettazione didattica altrimenti o nulla cambia o si procede a fare giochini”
Negli ultimi anni (possiamo parlare anche di 10 anni), la relativa semplicità di ausili tecnologici ha reso accessibile, anche ai non tecnici, l’introduzione di parole quale coding, realtà aumentata, ambienti immersivi, robotica educativa, serious games, smartphone e app, all’interno delle aule delle Scuole italiane.
Questi strumenti, pur affascinanti e stimolanti, non costituiscono di per sè una soluzione didattica, ma, anzi, se non accompagnati da una seria metodologia, possono anche creare misconcezioni e sfociare in una didattica inefficace.
La rete è piena di corsi di formazione online (si vedano i MOOC, massive online open courses) dove i docenti possono formarsi all’uso di strumenti quali i giochi educativi per veicolare conoscenze e competenze non solo disciplinari e anche informatiche, ma anche trasversali.
In questi corsi di formazione, molti dei quali frequentati anche dal sottoscritto, si creano comunità di scambio, si elaborano visioni e progetti. Il punto è che, spesso, dietro questi corsi di formazione, ci sono validissimi insegnanti, che hanno il potere di ispirare, ma che sono spesso fuori dalla didattica quotidiana. Insomma i formatori non sono essi stessi docenti di studenti under 18 e non sempre possono rispondere e domande del tipo.
- Come posso inserire un visore 3D mentre spiego le equazioni di secondo grado?
- O come posso parlare di pensiero computazionale mentre spiego la storia o il latino?
- E come posso discutere di mondi virtuali se molti ragazzi neppure conoscono quello reale?
Non sto giudicando affatto gli strumenti, ma sto puntando l’attenzione sul fatto che prima di inserirli occorre un cambio di progettazione didattica, occorre intraprendere un cammino metodologico che non sempre è uguale a quello fatto finora e soprattutto occorre anche porsi degli obiettivi didattici, in termini di efficacia che potrebbe anche portare un docente ad abbandonare alcuni strumenti (anche innovativi) a scapito di altri.
E’ per questo motivo che con i miei studenti ho introdotto la robotica educativa curricolare. Non utilizzo i robot per progetti pomeridiani o di accoglienza o per concorsi, ma essi, nelle mie ore di fisica, diventano un facilitatore procedurale per condurre esperienze sulla cinematica, la dinamica, la meccanica in generale. E’ poi conseguenza discutere di machine learning, di etica e di filosofica e spesso nascono anche lezioni multidisciplinari.
Allo stesso modo il coding non è solo pensiero computazionale, un algoritmo chiuso che ci aiuta a risolvere problemi , problemi a cui i ragazzi sono abituati leggendo anche la settimana enigmistica. Il coding diventa pensiero divergente e creativo per fare storytelling, per creare giochi didattici disciplinari, per costruire modelli teorici, e, nel caso della scienza, leggi fisiche, dotandosi di sensori esterni (a tal proposito invito a discutere di acustica interagendo con il sensore microfono con un learning game, che diventa anche un pretesto per discutere di dati ambientali).
La vera sfida resta oggi quella di rendere quotidiani certi strumenti, avere il coraggio di abbandonarne alcuni, che anche se stimolanti possono servire solo per intrattenere e ritornare ad una progettazione didattica dove il ruolo del docente non è solo quello di regista, ma di co-costruttore di conoscenza (e oserei dire di competenza) con i propri studenti.
E’ un docente il mio che sa essere anche ricercatore didattico, che lavora per prove ed errori, che sa creare una comunità di ricerca ed azione, che sa essere collaborativo e soprattutto sa ritornare sulla vecchia via se quella nuova non funziona, ma è anche un docente temerario che ama sperimentare e ama aggiornarsi.
E’ un docente che diventa artefice del proprio destino, ma che non è mai solo, è un docente che può farsi docente anche verso altri colleghi e non solo in corsi Mooc.
E’ un docente che riflette sul proprio intervento didattico e ne fa di questa riflessione uno stimolo per una indagine metodologica più profonda del suo operato, una meta-riflessione appunto.
E’ un docente che sa fermarsi e sa anche apprezzare una didattica lenta, fatta non solo da slogan o di ausili all’ultima moda. E’ in questa direzione che il Piano nazionale Scuola Digitale può assumere un senso didattico e può restituire efficacia al nostro lavoro.
Non è certo una stampante 3D, un robot o un mondo virtuale che rende digitale e forse innovativo il nostro intervento didattico. Anzi è proprio l’utilizzo forzato di certi strumenti che invoglierebbe gli studenti ad avere una visione solo ludica della scuola, a credere che certi risultati possono essere raggiunti senza fatica e spesso senza conoscenze tecniche forti, oltre a pensare di poter utilizzare qualsiasi metodo di indagine, anche non convalidato
Una collega un giorno mi dice: devo preparare gli studenti alla maturità e questi dovranno andare all’Università, a cosa potrebbe mai servirmi un robot o un videogioco per tutto questo?
Quando lo strumento digitale viene visto solo come spazio stimolo, allora esso ha una valenza minima. Occorre invece chiedersi: perché dovrei introdurre un robot o una stampante 3D nella mia didattica? Quali sono gli obiettivi che mi porta a raggiungere? Quali sono gli ambienti di apprendimento e le metodologie che dovrei utilizzare?
Occorrerebbe che tutte queste domande se li ponessero non solo i docenti, ma anche tutti coloro che si occupano della nostra formazione.