Marina Bellezza – Silvia Avallone

Il romanzo, invece che Marina Bellezza, l'avrei intitolato Andrea Caucino o forse Val di Cervo perché la nostra Marina, con quel cognome che si ritrova, sarà anche una una strafiga, ma quando si stringe il pugno resta poco anche a concedere il tema della contraddittorietà.

La storia ha due protagonisti principali e numerosi altri personaggi di contorno.

Marina Bellezza è una ventiduenne bellissima, dotata di un talento naturale, ambiziosa, desiderosa di emergere come cantante/soubrette dal mondo povero e triste della campagna intorno a Biella.

Vuole affermarsi a Tele Biella e poi passare a X Factor e Italia 1. Si porta dietro una infanzia difficile, una madre diventata tale troppo presto e un padre che tale non si è mai sentito e si dedica a giri loschi, al gioco d'azzardo e alla bella vita. La madre si rifugia quasi subito nell'alcool e il desiderio di Marina non è solo quello di emergere, andarsene, ma soprattutto essere riconosciuta da quella famiglia che le è mancata e che sarà sempre assente nei suoi momenti più importanti.

Marina non riescere mai a gustare il presente; è sempre in gara e, quando raggiunge l'obiettivo, si rende conto che non la interessava e alza l'asticella per poter competere ancora; quasi mai riesce a lasciarsi andare e, quando lo fa, si tratta di pause di breve durata rispetto alle sue inquietudini; è così nella carriera ed è così anche nel rapporto con Andrea.

Andrea Caucino è il figlio non desiderato dell'avvocato Caucino, sindaco di Biella ed esponente di Alleanza Nazionale. C'è un fratello maggiore Ermanno che corona ambizioni e desideri della famiglia: bravo a scuola, ubbidiente, educato, laureato in ingegneria, ricercatore a Tucson negli USA, con moglie americana. E' il sogno di papà e "l'amico/nemico" di Andrea che lo vede esposto in fotografia ogni volta che passa da casa (lui e solo lui), che sente la mamma dire di essere rimasta incinta di lui tre mesi dopo la nascita di Ermanno e di non aver dunque potuto gustare la maternità.

Andrea ha dentro di sè il modello del nonno che faceva il margaro, campava a contatto fisico con le sue grigio-alpine, faceva la transumanza tra la piana biellese e le montagne della val di Cervo, produceva il Maccagno. Il nonno era un mito per Andrea, era il suo rifugio dalla anaffettività che sentiva in famiglia e da bambino scapperà da lui dopo ave tentato di soffocare suo fratello.

Crescendo gli è rimasto il sogno di fare come il nonno per ribellarsi al padre. In quinta superiore prende 3 in un tema di simulazione dell'articolo di giornale su argomento socio-politico: "Le vacche da latte odiano il capitalismo e hanno ragione". La professoressa glielo fa leggere in classe e lo interrompe quando sta spiegando quanta merda produce una vacca in un anno e cose se ne possa fare.

Andrea a 14 anni tira i sassi contro le finestre di AN, dopo il liceo si iscrive a filosofia e poi passa ad Agraria, ma non la finisce; il suo chiodo fisso è quello di tornare al nonno, risistemare la vecchia cascina e mettersi a produrre il maccagno, remare contro la società che vede la sparizione dei contadini che, al più si limitano a vendere il latte ai caseifici.

Ci riuscirà ma in mezzo ci sono il rapporto intellettuale con Elsa una vecchia compagna di Liceo e di filosofia alle prese con una  tesi sui Quaderni dal Carcere di Gramsci, la ricerca di Ermanno (e Marina lo costringe ad andare negli States, ma lui scappa quando lo vede), il prendersi e riprendersi con Marina sino ad un matrimonio che entra in crisi già il giorno dopo, l'amicizia con gli sballoni Sebastiano e Luca. Andrea ama le sue vacche e la vita che lo costringono a fare: impegni costanti, niente tempo libero, ansie per le gravidanze, il parto di una primipara in mezzo a una tempesta di neve.

Silvia Avallone in val di Cervo ci è nata e dunque la descrizione del territorio e della sua decadenza che ci dà è molto interessante: i paesi di montagna svuotati, i capannoni industriali abbandonati con la crisi del settore tessile e laniero, i centri commerciali da Aiazzone in poi, lo squallore della bassa biellese ormai priva di identità. Il ritorno alla montagna e la descrizione del territorio sono le parti pù convincenti di questo romanzo; molto meno lo è la figura di Marina, ma forse Marina è vera e sono io che non capisco un certo tipo di mondo. Le ragazzine di Acciaio mi avevano stupito per contrasto con la vita della classe operaia di Piombino. Nel caso di Marina sono rimasto prima infastidito e poi annoiato.

I numeri di pagina si riferiscono alla versione digitale che dà 800 pagine contro le 509 della versione cartacea.


«Io non voglio diventare ricco, non voglio diventare famoso, non voglio vivere con l’assillo di essere di più o di meno degli altri!» Esplose, finalmente. «Quella vita lì è un inferno, l’ho visto quando mio padre è diventato sindaco, che avevamo tutti quei giornalisti in casa… A me non interessa. Mio fratello scrive sulle riviste d’ingegneria aerospaziale» sorrise, «gli pubblicano gli articoli con il suo nome, bello grande neanche fosse Obama… Io voglio essere invisibile, capisci? Non voglio lasciare traccia, voglio solo svegliarmi la mattina e stare bene!» Gridava. «Non posso sentirmi in colpa per questo. Non voglio vendermi la vita. Mio nonno si metteva a piangere quando gli moriva un vitello, quando ne vedeva nascere uno… Era un uomo felice!» (pag. 407)


Alcuni assessori, il sindaco e altri notabili si facevano largo per raggiungere le prime file in mezzo a orde di disoccupati, cassaintegrati, sottopagati che volentieri, in un’altra circostanza, li avrebbero linciati vivi. Non oggi però, non adesso: mentre fuori da quel recinto la crisi imperversava come un’epidemia, lì si poteva ancora fare finta che la vita, in fondo, fosse solo una grande festa. (pag 470)


Adesso beveva un caffè amaro sul lato stretto del tavolo, ascoltava il continuo lamento delle bestie sollevarsi dal fondo del silenzio. Era riuscito a levigare i sentimenti fino a renderli oggetti innocui, cavi al loro interno come gusci. Era riuscito a imporsi ogni genere di astinenza, come fanno i monaci e gli eremiti. Aveva disimparato a parlare, a desiderare. (pag. 524)


Gli animali si voltarono a guardarlo, sgranando i larghi occhi bruni. Sollevavano i musi soffiando forte dalle narici e si lamentavano per il dolore che le mammelle gonfie provocavano loro. Andrea prese la mungitrice, si chinò sotto il ventre di una gigantesca grigio alpina gravida di otto mesi.
Le accarezzò a lungo il muso. Le tastò la pancia per sentire il piccolo scalciare. Sperava solo che non fosse un maschio. L’idea di portare uno dei suoi animali al macello lo angosciava. Era sciocco da parte sua: vendere le bestie e farle macellare era parte integrante del suo mestiere. Eppure a questo non si sentiva ancora pronto.
Aveva imparato a distinguerle dai lineamenti del muso, dal modo di muggire. Di ciascuna teneva a mente i giorni fertili, l’andamento del ciclo mestruale. Prima di cominciare non si era mai reso conto di quanto l’allevamento del bestiame avesse a che fare con l’intimità femminile, e all’inizio ne era rimasto turbato. Ma ormai non ci pensava più.
(pag. 526)


È una specie di miracolo. È uno dei motivi per cui si sceglie una vita del genere. Il guadagno non è in denaro, non esistono ferie né tredicesime né ricchezze. Il guadagno è vedere i clienti che tornano perché il tuo burro, la tua toma, i prodotti che hai fatto con le tue mani, sono più buoni che altrove; è aspettare la nascita di un vitello; è imparare a leggere sulla superficie del cielo anche il più impercettibile sintomo delle stagioni, e accordare il ritmo del tuo corpo a quello della terra, la tua libertà alla sua. (pag. 532)


L’aveva aspettata sempre, si era lasciato umiliare. Aveva cercato di salvarla, senza riuscirci. Era una lotta inutile, senza scopo. Se n’era andata due volte, la seconda per fare televisione: Cenerentola Rock su BiellaTv 2000. Era fuggita a Milano, era tornata all’improvviso; dopo solo cinque giorni, senza certezze e senza ragionare, erano andati in Comune a sposarsi. E adesso, mentre mungeva guardandosi la fede al dito, Andrea si sentiva un immane cretino, un idiota e un pazzo.
Una mattina non troppo lontana lei avrebbe rifatto le valige e sarebbe scomparsa per l’ennesima volta. E magari sarebbe tornata ancora, per poi sparire di nuovo, come se giocasse a nascondino. Le persone non cambiano, perché non possono cambiare. Le persone come Marina non appartengono a nessuno, perché non riescono ad appartenere nemmeno a loro stesse.
(pag. 702)


«Alla fine, sono contenta che tu sia venuta. Sono contenta che abbiamo vissuto insieme in questa casa per un po’…» Voleva comportarsi da persona matura, dirle qualcosa di vero, qualcosa d’importante: «Tu ragioni sempre in termini di vittoria o di sconfitta, è sempre una gara a chi arriva primo, per te. Ma in realtà non è mai così semplice. Non si tratta di arrivare primi o ultimi». La guardò e aggiunse: «La vita funziona diversamente».
«Può darsi.» Marina si rimise gli occhiali da sole. «Ma ti dirò: non me ne frega niente di come funziona la vita.»
Elsa aprì appena le labbra, però le richiuse subito dopo. No, non valeva la pena continuare. Si scostò per lasciarla passare, e Marina se ne andò da quella casa, questa volta senza sbattere le porte e senza fare rumore, limitandosi a svanire tra le faggete mosse dal vento, in quel duro silenzio di massi e sterpi, che era solo silenzio e nient’altro.
(pag. 732)


Marina Bellezza

Silvia Avallone

Rizzoli, 2013, 509 pag, € 18,50