La rancura – Romano Luperini

Romano Luperini non lo conosco di persona, ma ha fatto parte di un pezzo della mia vita. Erano i primi tempi di Avanguardia Operaia e quel gruppo di giovani che, a Pisa, facevano la rivista Nuovo Impegno, che avevano contribuito a scrivere le tesi della Sapienza affascinavano anche a Milano.

Mi ricordo una riunione con Cazzaniga e Campione da cui emerse che sarebbero rimasti per conto loro. Di quei tempi mi è rimasta in mente una copertina di un'altra rivista di area "Giovane Critica" diretta da Giampiero Mughini, sì quello finito a fare il grillo parlante nelle TV di Berlusconi, in cui c'è Snoopy con dei baffi alla Stalin e una nuvoletta che recita sarei stato benissimo con i baffi. Quelli del Potere Operaio Pisano presero poi strade diverse e Luperini, docente di letteratura italiana a Siena, arrivò a DP quando io me ne stavo andando.

La sua autobiografia romanzata mi è stata segnalata da Ennio Abate nel quadro di una discussione un po' animata in un gruppo FaceBook di reduci-affettuosi in risposta alla mia scelta di recensire i libri di Tito Barbini (Quell’idea che ci era sembrata così bella, Le nuvole non chiedono permesso, Caduti dal muro).

Nel mese di febbraio, in maniera un po' artigianale, ho messo mano alla riflessione letteraria intorno alla mia vita per fare il punto sugli elementi di continuità e su quelli di rottura, sui rimpianti e sui dubbi, sulle delusioni e la tristezza che ci ha lasciato la fine del comunismo. Così ho buttato giù di getto 28 capitoli della mia storia, senza grandi preoccupazioni editoriali e dando libero sfogo ai ricordi.

La storia di quelli della nostra storia mi affascina e penso che la autobiografia, in forma diretta o romanzata sia una occasione di crescita per sè ma anche per chi legge. Lo strano titolo (la rancura) viene da Montale (Ossi di seppia – Mediterraneo), di cui Luperini è uno studioso:


Giunge a volte, repente, | un'ora che il tuo cuore disumano | ci spaura e dal nostro si divide. | Dalla mia la tua musica sconcorda, | allora, ed è nemico ogni tuo moto. | In me ripiego, vuoto di forze, | la tua voce pare sorda. | Guardo la terra che scintilla, |  l'aria è tanto serena che s'oscura. | E questa che in me cresce | è forse la rancura | che ogni figliuolo, mare, ha per il padre


Dunque la rancura è il rapporto complesso con il padre che ciascuno di noi si porta dentro.

Il libro è fatto di tre parti separate: 1) Memoriale sul padre (1935-1945) 2) Il figlio (1945-1982) 3) il figlio del figlio (2005) e devo dire che è la terza, molto breve, quella che mi ha convinto di meno. Forse, fingendo di essere morto, e facendo ritrovare al figlio un carteggio in un casale che sta dalle parti dove vivo anche io, Romano ha voluto parlarci di qualche elemento nascosto di sè.

Il nocciolo del libro è la storia di due persone (o forse tre se ci mettiamo la madre, come ammette Romano in una recente intervista): Luigi Lupi e il figlio Valerio.

Nella prima parte c'è la storia della civiltà contadina negli anni 30, la povertà, lo studio come strumento di ascesa sociale. Per via di una pleurite Luigi rinuncerà all'Università e farà il maestro elementare. Andrà ad insegnare nella campagna lucchese e poi in città, sposerà una ragazza madre nipote del direttore didattico, fiero anticlericale e antifascista, seguirà l'iter dei giovani di allora in cui la scelta se andare dall'una o dall'altra parte sarà frutto parte del caso e parte del carattere.

Scuola ufficiali, fronte iugoslavo, 8 settembre, scelta di resistere, la resistenza in Slovenia, accanto ai titini ma autonomo (con le tragedie della resistenza da quelle parti), il ritorno a casa e una vita da solitario, sino al suicidio contro l'avanzare del Parkinson che gli sta togliendo l'autonomia. Al suo funerale si presentano con le bandiere rosse i vecchi compagni giunti dalla Slovenia.

Luigi era diventato socialista e non vedevo troppo bene le scelte politiche del figlio, prima l'adesione al PCI e poi la temperie del 68.


Anche ora che mio padre è morto e io posso scrivere di lui serenamente, senza più la rabbiosa rivalità che ci ha diviso e contrapposto per tanto tempo, non riesco a ricostruirne un profilo netto, a dire a me stesso: ecco, Luigi Lupi, mio padre, era questo. Cerco di immaginanni i suoi stati d'animo e le sue letture, le ansie, i progetti, il paesaggio in cui si muoveva, le persone che incontrava; ma qualcosa mi sfugge. Come se la sua immagine, quale si è impressa in me
bambino al suo ritorno dalla guerra, fosse deflagrata allora in tanti frammenti e io non riuscissi più a collocarli al loro posto. Anche se lo dissocio da me e mi sforzo di rappresentarlo non come mio padre, ma come Luigi Lupi, un personaggio oggettivo, vissuto in un momento oggettivo, in parte precedente alla mia nascita, la sua immagine non si ricompone, resta indecifrabile. O'altronde, mi dico, perché dovrei per forza ridurre a unità la sua persona, chiuderla in un disegno coerente, in un disegno prestabilito?
Scrivo per fanni perdonare il rancore che ho avuto per lui e per riconciliarmi con la sua figura, che ancora si torce dentro di me, e non per esprimere dei giudizi o indicare dei modelli. Se lui mi leggesse, vorrei che provasse stima per me più che affetto, che approvasse la mia onestà, il mio sforzo di verità. Fra noi non l'affetto era in questione, ma il bisogno di stima reciproca, una stima desiderata, ma mai confessata l'uno all'altro e mai apertamente concessa.

E poi questa difficoltà a delineare un profilo coerente non è dovuta solo all' impatto che lui, reduce di guerra, ebbe su di me, ma anche alla incerta qualità dei miei ricordi infantili, alle poche testimonianze che sono riuscito a trovare (qualche foto, due o tre lettere, i libri di storia sulla guerra partigiana), al carattere saltuario e frammentario e ai diversi punti di vista con cui le persone che lo hanno conosciuto e soprattutto mia madre mi hanno parlato di lui, e ai racconti stessi di mio padre, che con me parlava poco, per battute e accenni più che per narrazioni distese, e di poche cose, sempre le stesse: la sua vita da contadino quando era ragazzo e le sue avventure di partigiano.


Valerio cresce nella periferia di Pontedera insieme ad Ottavio compagno di avventure e di lotte. Ottavio finirà in Prima Linea così come era finito con i fascisti e poi fucilato dalla sua brigata slovena Nullo, l'amico d'infanzia di Luigi. Valerio e Ottavio diventano grandi proprio quando passa la legge Merlin e non potranno fare l'esperienza dei casini che aveva fatto Luigi insieme a Nullo.

Valerio non trascura nulla della sua infanzia compresa la pubertà, la prima erezione quando vede le gambe della madre, la prima masturbazione, l'adescamento al cinema da parte di un pervertito.

L'adesione al Pci viene con l'università, con i primi amori (Sandra compagna di Liceo, Silvia la figlia del professore universitario di Letteratura Italiana che gli fa da mentore), con i morti di Reggio Emilia e poi c'è un salto al 1978, alla morte di Moro quando Valerio è ormai un professore universitario.

L'ambiente è quello del gruppo dirigente di Democrazia Proletaria ed entrano in scena Francesco e Vittorio Foa. Francesco viene da Perugia e mi viene da dire che sia Francesco Bottaccioli (compagno dei primi tempi di AO) di cui ho trovato in rete questo resoconto scritto direttamente da lui: quando la politica era passione. Ne consiglio la lettura. Aiuta a capire come si viveva e cosa si pensava.

Francesco ricorda il gruppo dirigente di DP a Roma, con lui, Miniati, Foa e Luperini. E' la crisi generosa di quelli di DP. E allora se la rivoluzione non la vedremo mai, perchè continuiamo, che senso ha? – chiede Francesco, e Valerio replica:


La rivoluzione che vogliamo è fuori della nostra portata, e lo era anche nel 68, diciamocelo chiaramente. Intanto perché nessuno oggi è disposto a farla, se non poche decine, al massimo qualche centinaio, di compagni che sbagliano, o di stalinisti fanatici, a seconda di come preferiamo chiamarli… In questi ultimi anni la maggior parte di quelli che nel Sessantotto combattevano il sistema ha finito tranquillamente pe acettarlo. Poi, anche se facessimo la rivoluzione (e già questa frase è poco chiara, cosa significa oggi fare la rivoluzione? Dove sta il Palazzo d'inverno da assaltare?) non sapremmo dopo che pesci prendere …. Questo non significa però che bisogna smettere di lottare per obiettivi più modesti, ma possibili, tangibili. Ci sono le ragioni politiche, quelle di cui parla giustamente Vittorio Foa. Bisogna manenere aperto uno spazio per i movimenti di lotta, perché non siano schiacciati nella morsa tra repressione e terrorismo … Poi c'è la difesa dei diritti in Occidente, la solidarietà con i popoli che nel Terzo Mondo si liberano dall'imperialismo, e così via. E poi, e poi … possono esserci anche ragioni culturali e personali. Per me, almeno, ci sono


Cito solo una parte delle conversazioni tra Francesco e Valerio in cui entrano anche il pensiero debole e il femmminismo.

Foa suggerisce l'importanza di scoprire il filo della propria corrente perché così si scopre il filo della corrente della vita: c'è una coincidenza tra la nostra esistena e quella degli altri.


In ogni movimento rivoluzionario c'è un incontro iniziale tra la felicità individuale e quella collettiva, fra privato e pubblico. Sul piano politico questa è la linea della corrente. La rivoluzione è questa corrente. Le donne l'hanno capito. E infatti sostengono che bisogna partire da sè, dal privato, dai propri bisogni, dal proprio bisogno di felicità. Quando i due piani si separano, o quando il privato viene sacrificato alle ragioni pubbliche, come è accaduto nella storia gloriosa e in quella ingloriosa del comunismo, in quel momento si incomincia a sbagliare.


Entrano in scena una nuova donna, Ilaria,accanto alla moglie Sandra, una bella conversazione con Ottavio, che si presenta da lui prima di costituirsi dopo il crollo di Prima Linea, Vittorio Foa che commenta le immagini dei 40 mila della Fiat: "La risposta alla vostra domanda la danno le immagini che abbiamo appena visto. Abbiamo sbagliato tutto. La situazione è cambiata sotto i nostri occhi e non ce ne siamo accorti. Per la nuova sinistra, unita o no, si sono ristretti gli spazi, anzi direi che non c'è più spazio. Bisogna ripensare tutto".

Così Valerio ricorda i vecchi amici, i primi che iniziano a morire, il suicidio del padre, fa i conti con la fine del suo matrimonio e si ritira a Lucerena sulla Montagnola senese in un casale con un grande camino di quelli con le panche ai lati, senza acqua potabile e senza telefono. Continua ad insegnare all'Università e il vero Valerio, cioè Romano Luperini, insegna all'Università di Siena. Non è morto, come nel romanzo e nelle interviste parla di come sia uscito da quella crisi di DP mettendosi in analisi con Giovanni Jervis.


La rancura
Luperini Romano

Prezzo di copertina € 20,00)
2016, 306 p., brossura Editore    Mondadori  (collana Scrittori italiani e stranieri)