Occidente – Il diritto di strage – Ferdinando Camon

Quando questo libro è uscito, nel corso del 1975, lo abbiamo discusso e recensito sul Quotidiano dei Lavoratori ma, preso com'ero dagli impegni di redazione e dalla politica al primo posto, leggevo poco le nostre pagine culturali e così ne sono rimasto orfano.

Me ne rammarico perché la sua lettura mi avrebbe aiutato ad essere meno schematico; a capire il nemico. Uso molto raramente la parola nemico, ma in questo caso ci vuole. Il nemico non l'avversario, o il competitor, perchè stiamo parlando dell'irrazionalismo nazista che stava dietro il terrorismo nero, quello delle stragi.

Per combattere in maniera efficace anche le cose più assurde e sanguinarie bisogna comprenderne il percorso, il tipo di argomentazione anche se irrazionale, anche se l'ideologia a volte si mescola con la patologia psichiatrica come è certamente nel caso di Franco, il protagonista.

Oggi abbiamo di fronte un terrorismo di altro tipo alimentato da ideologie fondamentaliste di tipo religioso in nome delle quali tutto viene ammesso, ma alcune considerazioni sul ruolo della strage e sulla funzione del terrore rimangono valide.

Il romanzo di Camon, ambientato a Padova, è diviso in sei parti e cinque di esse sono dedicate alla nascita, alla evoluzione e all'atto finale (la strage) del Gruppo d'Ordine la organizzazione paramilitare di Franco: 1) festa grande 2) ricognizione 3) Organizzazione 4) analisi 6) la strage. Un capitolo è invece dedicato a Potere Rivoiluzionario  la organizzazione di estrema sinistra messa in piedi da Miro che si dedica alla guerriglia urbana e al lavoro politico-insurrezionale al Pertrolchimico di Marghera.

Basta aver vissuto anche superficialmente quegli anni per individuare Ordine Nuovo e Franco Freda  da una parte e Potere Operaio e Toni Negri dall'altra.

Quella su Potere Rivoluzionario è una parentesi che serve a Camon per tracciare un rapido schizzo della Padova dai 50 mila universitari, del principio maoista della scintilla che può dar fuoco alla intera prateria, del polo industriale di Marghera. Sono interessanti le descrizioni delle dinamiche individuali che portano Miro alla scelta rivoluzionaria partendo dalla Azione Cattolica o la sua elaborazione teorica sul piano del capitale che lo porta a scoprire che le sue analisi e conclusioni sono le stesse che, sull'altro fronte, elabora il nemico di classe.

Ma, come dicevo, Potere Rivoluzionario  sta in Occidente solo per consentire a Camon di descrivere il contesto in cui si trovavano ad agire i gruppi segreti della destra terroristica; lo scopo del romanzo è quello di comcentarsi sul Diritto di Strage.

Durante le indagini sulla strage di Bologna, come ebbe modo di sottolineare il PM, negli atti processuali, furono ritrovate in una delle sedi clandestine, ricopiate a mano, intere pagine di Occidente utilizzate dai terroristi come bagaglio teorico del proprio agire.

Come sottolinea Camon nella introduzione alla edizione del 2002, lui stesso rimane sorpreso : "Quello che m'interessava era il lungo viaggio degli stragisti verso la conquista e l'applicazione del «diritto di strage». Credevo  d'interpretarli, e cioè che questo diritto fosse già chiaro dentro di loro. Non supponevo che dentro di loro fosse chiara e definitiva la conclusione, e cioè che le stragi andavano compiute e che, più vaste erano, più erano efficaci, e, più innocente era il materiale che sacrificavano, più erano giuste; ma che l'itinerario conoscitivo ed etico, insomma il ponte che portava a questa conclusione, non era stato costruito. La mia intenzione era di spiegare il «diritto di strage» alle vittime e alla gente come me. Non credevo che avessero bisogno di spiegazione gli autori."

Fa impressione leggere la coversazione che Camon ebbe con Freda dopo l'uscita del libro. Freda, ritenuto colpevole della Strage di piazza Fontana dalla magistratura ma non più perseguibile per effetto di una precedente assoluzione, dichiara alla fine della conversazione:


Freda: Io credo che un capo deve pregare il suo Dio prima di prendere determinate decisioni. Sì. E poi, voglio regalarle una citazione, prima di chiudere questa nostra conversazione: «innocente non chi è incapace di peccare, ma chi pecca senza rimorsi». Non conosco l'autore, forse il gobbo marchigiano… la mia risposta, alle sue domande.
Camon – Cioè, in sostanza: è innocente colui che si autoproclama innocente?


Ho sentito Camon raccontare queste cose in una recente intervista su Rai Scuola e continuare dicendo, ci siamo lasciati così e io ho capito che mi aveva detto di essere il responsabile della strage di piazza Fontana.

L'argomento del diritto di strage, sviluppato nelle diverse parti è condensato nel titolo, ma la cosa interessante è che i diversi capitoletti che le compongono consentono a Camon di lasciarsi andare, di lasciar perdere il filo del discorso per descrivere il suo Veneto, la sua tradizione, i meccanismi psicologici dei protagonisti.

Per esempio, nel bel mezzo di una festa in collina in  cui si raduna la bella gioventù di estrema destra compaiono due paragrafi dedicate ai Collegi religiosi per educande e alla vita di Sant'Antonio. La ricognizione di Franco tra i colli padovani, alla ricerca di una cascina abbandonata in cui collocare la sede operativo-militare del gruppo d'ordine, dà l'occasione per descrivere la miseria dei contadini di montagna che vivono una esistenza sub-umana.

Franco ha l'ossessione della morte e tutta la quarta parte è dominata dalla psicanalisi e dai percorsi contorti del suo cervello.

Festa grande descrive i giovani aristocratico borghesi tra cui operano i neonazisti e in mezzo a cui compare Il Maestro, un personaggio che dà la linea, che sta in quel mondo ma non è di quel mondo, che viene ascoltato, appunto, come un maestro. Mi sono chiesto a quale pensatore dell'irrazionalismo novecentesco intendesse riferirsi Camon, ma non ho trovato riferimenti.


CITAZIONI


Il Maestro: Di giorno si chiamano per telefono, da un giardino all'altro della città, per lunghe comunicazioni che non dicono nulla ma si aspettano molto, non dai giornali che non comprano, non dalla radio che non ascoltano, ma da qualcosa, da qualcuno, che forse è anche vicino ma giustamente si tiene nell'ombra, per rivelarsi al momento opportuno. Nessun estraneo e ammesso nella loro cerchia, tranne il Maestro.

Il Maestro lo si distingue subito dai discorsi che fa, dal ruolo che assume, dal posto che occupa. Egli è necessario ma complementare: presenzia alle riunioni ma vien lasciato in disparte, è lasciato in disparte ma non è mai solo.

Progettativi e imitativi L'uomochenonsale è necessariamente non libero, in mille modi determinato. Ma è giusto che sia così, è lui stesso che lo vuole e lo accetta. L'uomo comune, il cosiddetto democratico, è sostanzialmente schizoide: il suo atto non ha domani perché il suo pensiero rifiuta il passato, lo schizoide vuole essere all'opposizione, egli è sempre a sinistra, è – se non antisociale – almeno antitradizionalista, e non soltanto anticonvenzionale.

I medici dovrebbero accorgersi, nelle scuole, negli asili, nelle case, che persino nei processi mentali infantili c'è già il preannuncio di tutto questo, insomma della vocazione alla mediocrità come obbedienza, come il marchio di fabbrica della natura, e nello stesso tempo della vocazione a lasciarsi guidare verso l'alto o a delegare gli altri a salire verso l'alto.

Il bambinocomuneschizoide perfettamente ignorante dirà a casa di sapere il latino, scriverà sempre sopra le righe, parlerà un francese con una buona erre. I Centri di Assistenza alla Maternità e all'Infanzia dovranno diventare centri di catalogazione e classificazione, in base ai test attitudinali, dei bambini imitativi, nati per una vita entro un piano di relazioni orizzontali, e dei bambini progettativi, nati per una vita di relazioni verticali.

Dovranno nascere archivi con questi nomi, in ogni comune, negli uffici d'igiene, dove sono aggiornate le schede delle vaccinazioni Sabin, del vaiolo, dell'antitetanica. Perché infliggere ai bambini imitativi il tipo di educazione che può essere sopportato solo dai progettativi, significa produrre in loro un danno irreparabile, fargli del male, non volergli bene… adesso nascono più bambiniimitativi. I progettativi confusi tra gli imitativi cercheranno lo stesso di salire, ma li vedi dibattersi a vuoto e ricadere come colombi con un'ala sola: usano il megafono, urlano negli scioperi, fondano cellule, rapinano banche, poi con i milioni intasano il water. Una nazione tutta di imitativi, ma ciascuno al suo posto, vale più di una nazione con progettativi fuori posto».

Legge e morale: «Io soffro», «Io credo» Eccola l'umanità, la coscienza collettiva, la «maggioranza giovane»: una marea di giovani col giaccone di Mao, la barba di Castro, le idee di Lenin, oziosi perché non bisognosi, malvestiti perché ricchi, a dar lezione di morale perché impuri. Sarebbe una colpa – il pensiero attraversò la mente di Franco come un raggio spietato – individuarne con certezza qualcuno, uno, seguirlo fino a casa, fargli la posta sei giorni e al settimo giorno, fuori mano, senza lasciar traccia, ridurlo in poltiglia? Non diciamo per la giustizia, cioè legalmente: per la legge sarebbe un delitto, certo; ma moralmente? Quando legge e morale s'identificavano, perché detenuti dallo stesso potere, venivano forse condannati i Crociati?

Lo statocaos: Io vivo (pensò tristemente) fra lo stato dell'Uno, lo stato del papa, lo stato dell'ordine, e lo statomassa, lo Statocaos, lo stato senza razza e senza sangue; tra lo stato dell'Uno cioè di tutti e lo Stato di tutti cioè di nessuno; in mezzo c'è un finto stato, questo. Perché la costruzione si compia, occorre un sacrificio: quando i contadini e i pastori costruiscono una casa, gettano la prima pietra sulla propria ombra, immolandosi. Io sono (pensò con rassegnazione) l'Agnello del DioStato».

I nazimaoisti: Com'è stato scritto più volte da un nostro Maestro, noi siamo oggi contro tutto il sistema: domani saremo per un altro sistema. Domani distingueremo i nostri nemici. Oggi non rifiutiamo nessuno, e siamo pronti a studiare forme di collaborazione in comune, anche con i camerati separati, in questa stanza e fuori, in Italia e fuori, in Europa e fuori.

E' stato un errore che abbiamo pagato a caro prezzo quello di credere che i camerati per operare insieme con noi dovessero trovarsi d'accordo attorno all'ideaforza dell'Europa: adesso riconosciamo cavallerescamente che il guerrigliero boliviano è più vicino al nostro stile di vita che non lo spagnolo pretesco o il banchiere americano; riconosciamo che il popolo guerriero del Nord Vietnam, col suo spartano stile di vita, ci è più gradito del budello italiota o franzoso o del giudeo inglese.

Per anni abbiamo parlato dell'Europa come se fosse Europa, senza renderci conto che era ormai America. L'Europa non è che una parola con cui fare i gargarismi…

Incendiano una fabbrica? Bene, a qualunque partito siano iscritti gli operai. Sequestrano un aereo in volo? Bisogna arrivare al punto che non solo gli aerei, ma le navi, e i treni, e le strade siano insicure: bisogna ripristinare il terrore dei pirati, il terrore dei briganti, la paralisi della circolazione. Questo è anche lo scopo dei nostri nemici: riconosciamo dunque che hanno, essi, il punto di partenza in comune con noi. E al di fuori di noi e dei nostri avversari, con le nostre stesse idee ci sono milioni di uomini oggi in Italia.

A questo schieramento d'uomini – che da soli non avremmo potuto creare, ma che il sistema stesso ha prodotto, come l'organismo infetto genera da sé gli anticorpi -, a queste moltitudini che sono stufe, annoiate, sofferenti per tutto ciò che esiste, noi facciamo arrivare la lieta novella: che ci siamo anche noi. Esse ci aspettano.

Diamo un segno, inequivocabile, della nostra presenza: ci riconosceranno. Ci seguiranno, perché ciò che vogliamo è ciò che esse vogliono: la distruzioe del mondo borghese. Cerchiamo di scoprire i pavidi, gli incerti, e mostrar loro proprio ciò che temono di scoprire da soli: che il male borghese è inguaribile, nessuna terapia è possibile, nessuna operazione chirurgica è ormai efficace. Occorre accelerare l'emorragia e sotterrare il cadavere. Noi dobbiamo convincerli che non si può edificare nulla fin tanto che rimangono anche solo le rovine: l'unica, la sola condizione per costruire uno Stato nuovo è che dei regimi borghesi siano spazzate via perfino le macerie».

Il povero vuole vivere: «Il povero vuole vivere… solo noi gli toglieremo di dosso la morte. Noi vogliamo propiziare, esasperare, accelerare i tempi dell'autodistruzione dell'Occidente, rompendo le norme che tengono in vita questa fase di assestamento politico. La nostra norma di condotta sia: massima intransigenza nell'essenziale, massima elasticità nella tattica funzionale».

Il mito della democrazia: La democrazia, in virtù della quale il potere viene dal basso e poggia sulla maggioranza, ha come corollario l'esclusione di ogni competenza: perché la competenza è una superiorità, e come tale non può essere che di una minoranza. Ma vi sono ragioni più profonde e più generali per smascherare il mito della democrazia: la ragione del potere e la ragione del comando.

«Quanto al potere, è evidente che il superiore non può venire dall'inferiore; il popolo non può conferire un potere che non ha: il vero potere sul popolo può venire solo dall'alto, e può venire legittimato solo attraverso la sanzione di un'autorità spirituale: la nostra storia è piena di simili epoche, uniche epoche in cui l'umanità sia stata felice. Quanto al comando, è contraddittorio presumere che lo stesso popolo possa essere nello stesso tempo comandante e comandato: sarebbe come pretendere che il medesimo essere sia contemporaneamente in atto e in potenza…

Mai il popolo si governa da sé: farglielo credere è uno strumento per governarlo. Per farglielo credere che è stato inventato il suffragio universale: si dichiara di trasformare in legge l'opinione della maggioranza, ma chi lo dichiara ha tutti i mezzi per far sì che l'opinione della maggioranza coincida con la propria opinione. Guai se non fosse così: non dobbiamo dimenticare che in una folla l'insieme delle reazioni mentali prodotte dagli individui che la compongono forma una risultante la quale non corrisponde nemmeno al livello medio, bensì a quello degli elementi inferiori.

Colpire il nucleo della vita: Per essere persona bisogna  provarlo: un atto eroico, un sacrificio può non bastare: è lo stile del sacrificio che può salvare. Arrecare danni al regime è un errore: il regime te ne chiederà conto. Ma provocarne la disintegrazione, questo è il rimedio. Occorre un'esplosione da cui non escano che fantasmi.

«Ci sono organismi unicellulari che, schiacciati, risorgono, e mutilati si riuniscono: ma in ognuno c'è un organo delicato dov'è la sede della vita: noi dobbiamo colpire quel nucleo come fanno gli antibiotici, noi dobbiamo dare lì al sistema un colpo tale che ogni coscienza si rimetta a noi con tutta la docilità, con tutta la gratitudine per qualunque cosa faremo di essa. Occorre che il nostro gesto sia così chiaro, da far nascere in tutta la popolazione, inerme e inginocchiata, due sole risposte e nessun dubbio: "Sono loro", e "Finalmente"»

La morte «Perché pensa alla dannazione, ora?».
«Perché è come se fossimo tutti morti, siamo morti. Noi vivevamo per l'eternità: ci hanno tolto l'eternità. Ciò che non è eterno non dura neanche un attimo. Io vorrei che le pene non avessero mai fine, per essere sicuro di esistere per sempre. Credo che se tutti credessero così, sarebbe così. Se nessuno lo crederà, non sarà così.
Bisogna che crescano quelli che credono, e che diminuiscano quelli che non credono. Le crociate si son fatte per questo: per diminuire di numero i noncredenti»…

«Ecco, è questo il problema. Io… io non riesco a sopportare di morire… naturalmente. La morte naturale mi è intollerabile. Non riesco a rassegnarmi all'idea della morte… del mio corpo morto… fermo… mentre lì intorno tutti gli altri vivono e si muovono» …

Perché conta solo colui che «fa». Ecco, se Franco avesse dovuto ridurre all'osso le sue convinzioni, non avrebbe potuto trovar di meglio che un paio di frasi del genere: non voleva morire naturalmente, voleva prima fare qualcosa o, se questo non era possibile, disfare. Se avesse dovuto ridurre ancora di più il suo sistema, a una sola frase, per essere coerente avrebbe dovuto dire che voleva che la gente si ricordasse di lui. Chissà se l'altro aveva capito, perché era proprio lì il punto importante, il nucleo della sua personalità. ….

La strage è un dovere:  Le direttive avevano questa caratteristica: restavano sempre anonime, e a lungo andare cominciò a verificarsi un fenomeno paradossale, imprevisto da tutti: gli stessi esecutori delle direttive non erano più sicuri di essere stati proprio loro, c'era sempre qualche particolare diverso, o di troppo o di meno, qualcosa di falso, di storto, di bizzarro, a segnare la pista lungo la quale la polizia partiva per ricostruire i fatti: quella pista approdava sempre a un altro, e dunque perché non credere che il colpevole fosse lui? Non aveva un alibi, si era contraddetto, aveva mentito, ma infine, se era innocente, perché non esibiva una prova, un indizio, niente?

E poi, ecco la spiegazione: nulla impediva che una direttiva venisse interpretata ed eseguita da più persone, ma che la riuscita dell'attentato spettasse – per caso, per abilità, per errore – a un altro, quello che la polizia incastrava. Gli appartenenti al Gruppo vivevano in un'atmosfera d'irrealtà: parlavano, e non capivano il senso delle loro parole; ascoltavano, e non erano sicuri che qualcuno avesse parlato; leggevano, ma le parole era come se cambiassero significato. Benché fosse un gruppo, ognuno capiva di essere solo: accanto a lui, l'Idea. Darle un volto era la scelta fra vivere o sparire.

Il volto cambiava ad ogni attimo. Così il progetto di esecuzione di una direttiva: strada facendo, si capovolgeva. Ma le conseguenze non cambiavano in nulla. S'inseguiva uno scopo progettando un attentato: si otteneva lo stesso scopo eseguendo un attentato di segno opposto. Questo era, alla fine, l'unico elemento sicuro, garantito, inconfutabile: l'attentato era sempre proficuo, la causa dell'Occidente aveva bisogno di stragi. L'attentato era un richiamo: stampa, radio, televisione, manifesti murali, discorsi pubblici, ciclostilati, volantini ripetevano l'eco.

Parevano sempre in ascolto, e quando l'attesa si faceva lunga sembrava che l'opinione pubblica ne soffrisse. Oscuramente, coloro che ripetevano l'eco avvertivano nel richiamo la voce dei figli; e coloro che chiamavano sentivano, nell'eco, la risposta dei padri. Pareva che gli uni, smarriti, cercassero di ricongiungersi agli altri, scavalcando ciò che li divideva, la storia: come se gli uni e gli altri avessero scoperto, d'improvviso, il pericolo di morire da soli, e attraverso il rito delle stragi celebrassero una comunione nella morte, che li garantiva dal terrore.

I padri rivivevano nei figli un tempo che avevano vissuto: ed era come se prolungassero la loro esistenza, dando al futuro un senso conosciuto. I figli vivevano il tempo della violenza come un mito grandioso perché aveva riempito tutto il secolo, che ormai precipitava: occorreva soltanto purificare quel mito dalla colpa dell'origine, un marchio di sconfitta, e dunque di viltà. Ed era come rivivere il secolo sin dall'inizio, recuperando il tempo prenatale, e portando a compimento un'impresa che travalicava l'esistenza, liberandola finalmente dalla mancanza di senso.

Così, in Europa, la morte degli innocenti – viaggiatori addormentati in una sala d'aspetto o in una carrozza ferroviaria,  contadini riuniti in festa nella piazza, scioperanti incolonnati in corteo, clienti in fila agli sportelli delle Poste o di una banca – era, per i sopravvissuti, non solo una garanzia, ma una prova d'immortalità: si poteva uccidere, dunque si era in grado di esportare la morte. I figli uccidevano, e dunque gettavano ciò solo che li separava dai padri: l'innocenza. Erano come loro, le generazioni separate dall'accusa, dal dubbio e dal sospetto si ricomponevano.

L'Italia era come la Germania, la Spagna e la Grecia: l'Europa divisa dalla spartizione delle responsabilità si riuniva nella stessa colpa, e dovunque si scopriva – da parte delle nuove generazioni – o si riscopriva – da parte delle vecchie – che uccidere funziona di per sé stesso, non in dipendenza di chi è ucciso: una persona vale l'altra, cioè nulla, mentre il gesto vale molto: il gesto è un simbolo, ed essendo un sacrificio ha bisogno solo di materia vivente. Nel sacrificio non c'è nessun odio da parte di chi sacrifica verso chi è sacrificato: al contrario, può esserci l'amore …

Chi fa la strage – individuo o gruppo – può non essere malvagio: il bene che porta è così grande che soltanto lui può compierlo, da solo o col suo gruppo. La storia, la massa non possono.

L'nformazione: Noi viviamo in un'epoca in cui il giornale val più di chi lo compra, la notizia vale più delle vittime che racconta: pur di occupare spazio in quel giornale, pur di dare occasione a quella notizia, ci sono in ogni città d'Europa gruppi disposti a uccidere a caso: più è casuale, più il delitto è efficace.

Non serve più che il re, il presidente, il ministro si sentano insicuri: occorre che si senta insicuro l'uomo qualunque, la donna in casa, l'insegnante a scuola, il viaggiatore in treno, il vecchio sulla soglia, la folla in piazza, il pubblico al cinema. Perché il potere non è più nel re, nel presidente, nel ministro: il potere è nella folla, e per spingere la folla nella direzione voluta nessun'arma è migliore del panico, e il panico si diffonde coi giornali, e lo spazio sui giornali si ottiene con l'attentato o la strage.

I giornali non occorre comprarli perché annuncino l'esistenza dei gruppi eversivi: lo spazio per l'annuncio si compra con la morte, due morti fanno notizia un giorno, dodici morti una settimana, ma se non lasci passare un mese bianco dodici morti non basteranno per un'ora, perché la società si va mitridatizzando. Uccidendo un vecchio non gli togli la vita, ma soltanto quello spezzoncino di vita che gli resta. Uccidere un vecchio non è un omicidio, ma mezzo omicidio, o un terzo. L'omicidio completo è l'infanticidio. E la notizia più lunga può crearla soltanto una strage di bambini.