bicicletta, quella volta che …
Con la storia della bici da corsa la mamma mi ha amorevolmente preso in giro per anni. Avrò avuto 10 anni e per Natale, io e Sandro, che aveva un anno e mezzo più di me, chiedemmo a Gesù Bambino, la bicicletta.
Gesù Bambino andò dal ciclista Gaiani che aveva la bottega di riparazione e vendita in via Mazzini, subito dopo i reduci e così la mattina di Natale ci ritrovammo le bici, praticamente identiche, cambio a tre rapporti, telaio in ferro, ma la mia aveva il manubrio da corsa.
Sandro, che era più snello, continuò a battermi in velocità e io mi beccavo i commenti: hai visto che la bici da corsa non c'entra? Vorrei vedere, stesso peso, telaio in ferro, l'unica differenza era la forma del manubrio. Quella non era una bici da corsa.
La bicicletta a casa nostra ha sempre avuto un ruolo importante e la mamma, morta a poco più di 80 anni per cedimento del cuore, ha sempre girato in bici. A Villasanta non era pensabile la sciura Anita senza la sua Bianchi nera con i freni a bacchetta. Anche negli ultimi anni continuava ad andare al Gigante a fare la spesa in bici portando a casa delle borse pesanti appese al manubrio.
Quando ero bambino ci raccontava che nel 41, mentre veniva dal Taboga verso Villasanta per andare a lavorare al calzaturificio, all'altezza del muro della Ca' Bianca era finita, lei e la bici, nel canaletto scolmatore tra la strada e il muro della villa. Stava leggendo una lettera d'amore di papà, sottotenente d'artiglieria in Friuli, che temeva di finire nel corpo di spedizione in Russia e, per l'emozione, si era menata via.
Dopo la pseudo bici da corsa, all'inizio delle superiori ho avuto una bici sport normale con i cerchioni da 28 e con quella mi sono fatto gli anni dell'Hensemberger: Villasanta-Monza, avanti e indietro due volte al giorno per le lezioni della mattina e i laboratori del pomeriggio. Non mi ricordo se fosse una Bianchi o una Legnano.
Nel periodo 61/63, la nebbia d'inverno era una cosa seria. Si andava in giù lungo la via Lecco usando la piccola ciclabile a fianco della mura del Parco e comperammo dei fischietti da calcio per farci sentire dalle macchine; non si vedeva a un metro.
Quando sono stato più grande le due ruote si sono munite di un motore: una Lambretta 125 truccata a 150, una Aermacchi 350 HD e poi a metà degli anni 90 il Guzzi Nevada 750 con cui andai a Capo Nord. Ma la bici ho ricominciato ad usarla quando, nel 1987, iniziai a lavorare a Milano. Facevo il percorso da casa alla stazione di Arcore o a quella di Monza.
tamponato nel Parco
Avevo due bici: una Bottecchia rossa, a tre rapporti, vinta attraverso un abbonamento a Rinascita. Quando la Bottecchia incominciò ad essere un po' datata e consunta, le affiancai una city bike della Adriatica di Pesaro, un gioiellino: cambio a 7 rapporti e deragliatore con 3 corone, telaio in alluminio, ruote da 28, pneumatici stretti ma battistrada artigliato, freni e cambio semiprofessionali della Shimano.
Le usavo alternativamente per andare ad insegnare allo Zucchi sfruttando il fatto che in piazza Trento, sul marciapiede, tra il monumento e l'UPIM, c'era un parcheggio custodito.
Partivo da casa in via Mantegna, entravo nel Parco a San Giorgio, sbucavo sul Cavriga poco prima del ponte sul Lambro, lo passavo e poi piegavo ancora a sinistra per seguire il Lambro sino alla Madonna delle Grazie, via Boccaccio, via Frisi (dietro le Canossiane) e da lì arrivavo in via Carlo Alberto. Sono stato così dettagliato perché su quel percorso sono accadute un po' di cose.
Una mattina, sarà stato il 94, ero partito con la Bottecchia un po' sul presto e nel Parco c'era quel chiarore del vedi e non vedi. Ho girato per imboccare il viale Cavriga e, fatti pochi metri, ho sentito il rumore di una frenata e le ruote che slittavano sull'asfalto. Ho capito cosa stava succedendo e ho incominciato a pedalare forsennatamente. La macchina mi ha colpito da dietro, ma l'intuizione aveva funzionato. Ho sentito un botto e sono stato sbalzato in avanti insieme alla bici mentre serravo con forza il manubrio. In quel periodo facevo molto scì da fondo ed ero abbastanza allenato alle decisioni repentine. Sono riuscito a fermare la bici senza cadere; la ruota posteriore era inservibile, ma ero salvo.
Era un signore di San Fiorano che stava andando a lavorare alla Angelo Cremona sul viale Zara all'inizio di Cinisello; era sopra pensiero e non mi aveva visto nonostante le luci e la palettina catarifrangente sino a quando, a 2 o 3 metri da me, mi aveva improvvisamente individuato cercando di inchiodare. Se non avessi avuto la prontezza di spirito di alzarmi sui pedali sarebbe finita davvero male. Sono i riflessi condizionati della Fisica. Ci scherzo su, ma è vero.
potevo morire
Qualche anno dopo, era il giugno 2007, stavo andando al Frisi per gli scrutini di fine anno. Avevo con me una 24 ore nera di quelle rigide con dentro tutta la documentazione per lo scrutinio (giudizi, prospetti riepilogativi, relazioni finali, programmi, …). Il primo scrutinio era alle 11 e verso le 9:30 uscii di casa. Stesso percorso, diversa la bici, la mia amata city bike che, da allora non c'è più.
Dopo l'incidente del 94 ero molto cauto nei tratti pericolosi, quelli aperti al traffico automobilistico, come la svolta a sinistra da via Boccaccio verso via Francesco Frisi: curva, auto in velocità su entrambi i versi di marcia, ogni volta mi auguravo che andasse bene (il ! sulla mappa). E anche quella mattina andò tutto bene.
Arrivai al passaggio pedonale semaforizzato di via Massimo D'Azeglio; attendevo il mio turno per attraversare e un vigile mi fece segno di attraversare nonostante il rosso; gli indicai il semaforo e lui, con aria seccata mi disse di andare "se glielo dico io, vada!". Questo è l'ultimo avvenimento che mi tornò in mente al risveglio.
Imboccai via Frisi sino a sboccare sulla via Carlo Alberto (zona a traffico limitato); stavo per svoltare a sinistra, come al solito, quando sentii il rumore di un motore che andava su di giri e mi vidi arrivare da sinistra una automobile in fase di accelerazione. Era a poco più di un metro e mi avrebbe preso in pieno sul lato sinistro.
Anche quella volta diedi un bel colpo di pedale per salvare almeno le gambe mentre mentalmente inveivo contro quel coglione perché certe cose si pensano anche quando si sta per morire. Nella mappa il mio percorso è quello in azzurro.
Il resto l'ho ricostruito dopo: mi prese di fianco all'altezza della ruota posteriore, perse il controllo della macchina e finì per fermarsi dopo aver sfondato la recinzione di un cantiere all'angolo tra via Frisi e via Carlo Alberto.
La mia city bike fu trascinata dentro il cantiere sotto le ruote dell'auto ma, grazie al colpo di pedale non ci lasciai le penne. Senza di esso mi avrebbe fracassate le gambe e trascinato con la bici contro la palizzata. Invece, dopo avermi sbalzato dalla bici, l'impatto mi fece finire di schiena sul cofano, un rimbalzo e finii a terra battendo la nuca contro il marciapiede di pietra sull'altro lato della strada. Non avevo il casco ma il colpo fu attutito dalla coppola di pile da fondista con cui giravo.
Mi sono risvegliato, pian piano, più di un'ora dopo; sentivo delle voci, ma ero legato dentro una cosa stretta e fredda; era il cucchiaio d'alluminio del 118. Non capivo chi fossi e dove fossi, poi mi resi conto di essere in un pronto soccorso (ero al S.Gerardo).
Mi stavo chiedendo cosa ci facessi; qualcuno parlava di via Carlo Alberto e allora mi ricordai del vigile che mi aveva rimproverato e del motore che accelerava. Per il resto nulla: a casa non c'era nessuno, il cellulare di Bruna non me lo ricordavo, ma lei faceva l'assessore all'assistenza e così feci chiamare il Comune. Poi mi ricordai degli scrutini e feci avvertire la scuola; per fortuna la borsa nera che stava sul portapacchi l'avevano portata con me.
Risultato: frattura della scatola cranica per fortuna senza bolle nè emorragie interne intradurali, frattura della seconda vertebra lombare, scoperta dopo la dimissione quando decisi, per conto mio, di fare una risonanza.
Quando in pronto soccorso mi fecero la radiografia del rachide mi chiesero se avevo mai fatto delle fratture alla colonna. Risposi, mezzo intontito come ero, che anni prima, su una morena glaciale ero scivolato e con il colpo di reni per restare in piedi avevo fratturato una apofisi trasversa. Era una dorsale, era una apofisi; c'era una frattura sulle lombari e riguardava il corpo vertebrale, ma decisero che era quella vecchia.
Così, dopo la dimissione dalla neurochirurgia, sino all'esito della risonanza, sono andato in giro in bici per una settimana senza nessuna precauzione e con una frattura fresca; roba da fare causa all'ospedale, ma le cause non sono nel mio DNA.
Non ci sono state complicazioni a livello cerebrale, ma il corpo vertebrale è passato da 4 a 2 cm. Me lo avevano anticipato. In quell'anno sono tornato a scuola verso il 15 di ottobre per il mio ultimo anno di insegnamento prima di diventare un DS.
Chi mi ha investito, come si usa in questi casi, non l'ho mai visto; era un ultrasettantacinquenne con la invalidità e per quello aveva il permesso handicap per girare in zona interdetta al traffico.
Era uscito da piazza Carrobiolo, senza guardare nè badare alla esistenza della via Frisi, e stava accelerando per affrontare la leggera salita verso il re di sasso. Qualche giorno dopo sono andato a recuperare la bici e ho visto sul marciapiede, all'altezza della Casa del Sole, la macchia scura del mio sangue; il segno è rimasto lì per un bel po' di tempo.
Dell'incidente, dei soccorsi non ho ricordi anche se, nei referti, hanno scritto che ero collaborativo. Credo di avere sperimentato come si muore. Non si sente nulla.
Per un po' mi è rimasto il terrore a muovermi in bici nel traffico; poi è passato. E' rimasto un odio profondo verso tutti quelli che, dentro il loro abitacolo si comportano in maniera pericolosa e senza riflettere sul fatto che possono uccidere; sono leggermente più basso e ancora adesso adempio ad un piccolo obbligo che ha risolto i problemi di colonna con cui combattevo da anni: una o due volte la settimana faccio 40 minuti di piscina.
C'è stato anche un risvolto burocratico importante. Ero nel percorso casa lavoro e dunque l'incidente era connesso alla attività di servizio ma l'INAIL inizialmente respinse la presa in carico perché non avevo usato i mezzi pubblici.
Ci provano sempre; feci ricorso e lo vinsi sostenendo che: a) ero in bici non in automobile b) ero in una zona a traffico limitato e dunque avrei potuto essere investito anche a piedi c) le fermate dell'autobus non erano vicinissime nè a casa nè a scuola d) avevo familiarità con il diabete e dunque l'esercizio fisico era consigliato e salutare.
La Bottecchia c'è ancora e la city bike è stata sostituita da una bici a pedalata assistita, a ruote larghe e più sicura. L'ho usata nei tre anni all'Hensemberger e ora qui tra i boschi uso una bellissima Scott-Genius biammortizzata, comperata usata e chi mi sta dando un sacco di soddisfazioni.