Handy e Pato

La prima è stata una soriana tigrata rossa (color salmone) e non ha fatto neanche in tempo ad avere un nome, la chiamerò Rossina. E' comparsa una mattina nel giardinetto della casa di  montagna a Lanzada in Valmalenco; sarò stato l'ottanta.

Come molte gatte voleva la compagnia, ma anche l'indipendenza. Ha incominciato a seguirmi nel mio girovagare; prima nei giri intorno a casa e poi anche per i sentieri; un giorno mi è venuta dietro da San Giuseppe a Chiareggio passando per gli alpeggi; un po' davanti, un po' dietro. Ogni tanto spariva dentro le baitelle del formaggio e poi ricompariva. Si comportava come un cagnolino, ma aveva l'indipendenza dei gatti.

E' andata avanti così per una settimana; poi siamo tornati a Villasanta e me la sono portata a casa con l'intenzione di acclimatarla nella colonia di gatti che vivevano nei ruderi del vecchio circolo di via Verdi. La sera la chiudevo nel box, ma dopo due giorni è scomparsa e ho pensato che avesse adottato un'altra famiglia, sperando che non fosse finita male tra le macchine di via Mazzini.

E' stata Rossina a scatenare in famiglia la passione per i gatti. Le gatte della colonia di via Verdi partorivano in zone irraggiungibili, da cui solo loro riuscivano a salire e scendere, un po' arrampicandosi e un po' saltando. I piccoli crescevano e quando avevano fame iniziavano i loro concerti di chiamata delle madri. Noi stavamo al quarto piano, nel condominio costruito a fianco della nostra vecchia casa, dove un tempo c'era il tabaccaio di via Mazzini, il signor Valentini (ul tabacheè) che, negli anni 50 vendeva un po' di tutto.

Ad un certo punto le madri, pronte per il calore e per la prossima gravidanza, li portavano giù da quei muri, tetti e ruderi prendendoli tra i denti per la collottola e li mollavano sulla via Verdi; adesso dovete arrangiarvi. Arrivarono così, in un giorno di fine giugno due tigratini: lui era pezzato più che tigrato (macchie nere su un fondo marrone), ed era buono come il pane; lei aveva una splendida tigratura longitudinale grigio argento, era vivacissima, ma era quasi cieca. Un occhio era completamente chiuso e ricoperto da una spessa crosta per i postumi di una congiuntivite purulenta e l'altro era sulla stessa strada.

Bruna si è impietosita; non sapevamo nemmeno che esistessero i veterinari, e a Villasanta non ce n'erano; ma lei aveva i suoi giri in ospedale, legati all'impegno nel consiglio dei delegati, ed è stato così che portammo la gattina al reparto oculistico dell'ospedale vecchio dalla dottoressa Lauri (anche lei impegnata tra i delegati). Pulizia, visita, terapia. L'occhio chiuso aveva ormai la cornea quasi completamente opaca e l'altro era rovinato per metà.

Fu così che i due cuccioli ebbero un nome legato all'handicap: lei si chiamò Handy e lui avrebbe dovuto essere Cap, ma Daniela preferì Pato e con loro, e la piccola Dany, sono andato in montagna.

Eravamo del tutto digiuni di conoscenze su come si tengono gli animali; mangiavano quel che c'era, con aggiunte di milza, polmone e fegato (presi dal macellaio) e scarti della affettatrice che arrivavano dalla cooperativa (fondi di prosciutto cotto, grasso, fondi di salame). Le tre bimbe (Daniela, Sara e Valeria) integravano la dieta catturando i saltamartini e dandoglieli da mangiare (e un giorno ne vomitarono una quantità industriale).

La casa di Lanzada era fuori paese, aveva sul davanti un giardinetto recintato da una cancellata in ferro da cui i gatti potevano andare e venire e la strada lì davanti congiungeva Chiesa a Lanzada: la strada per le dighe della Valmalenco con un traffico di giorno e di notte e nessun limite di velocità.

Handy e Pato iniziarono a perlustrare i dintorni e a mettere il naso sulla strada; Handy vedeva solo le cose vicine che finivano nella porzione di cornea ancora trasparente; era semicieca, ma vivacissima; Pato la seguiva e la proteggiava.

Mi ricordo di quella volta che portai a casa un disinfettante spray e li spruzzammo dopo averli messi sul tavolino da campeggio in lamiera rossa. Le pulci, lucide, nere e cornee, cadevano morte come sabbia sparsa nel pelo, erano pienissimi. A Villasanta, nella vecchia camera di Daniela, è rimasta una foto di quella operazione, l'unica immagine rimasta di Handy e Pato.

Poi una sera, mentre stavamo cenando ci bussarono alla porta. Era un passante che ci avvertiva: guardate che sul ciglio della strada c'è una gattina morta. Corsi fuori sconvolto; era Handy, con il corpo intatto, la testa ciondoloni, la lingua fuori e una strisciolina di sangue che colava dalla bocca semiaperta. Di fianco a lei c'era Pato che la guardava e non capiva.

Fu una mezza tragedia; la misi in una borsa di plastica; le bimbe la vollero vedere; piangevamo tutti; feci una buca nel prato a monte del giardino e ci misi Handy. Pato, da quella sera entrò in casa e cambiò il modo di rapportarsi ai gatti.

Quando tornammo a Villasanta venne anche lui al quarto piano; era un gatto tranquillo e non ci furono problemi nell'abituarsi a rimanere in casa. Cresceva; lo portavo dal veterinario (il dottor Prati che aveva aperto l'ambulatorio in via Mazzini) che rinviò un paio di volte la vaccinazione a quando fossero terminate tutte le terapie connesse alla crescita, allo sverminamento e così via.

Quando nel pomeriggio mi mettevo in tinello a leggere, o davo qualche lezione privata, lui arrivava, saltava sul tavolo e poi si acciambellava sulle mie spalle e rimaneva lì a farmi compagnia. Come tutti i gatti maschi era un patatone alla ricerca di coccole e di contatto fisico. Aveva 9 mesi.

Ma non era finita, un pomeriggio, di ritorno da scuola lo trovai in cucina in posizione a sfinge, miagolava dal dolore e in giro c'erano vomito e feci semiliquide. Telefonai a Prati e, con Daniela che piangeva, ci fiondammo a Monza nel suo ambulatorio in via Cavallotti. Eravamo soli perché Bruna era nel bresciano per un corso sindacale resdenziale.

Prati lo visitò e fu subito esplicito: gaestrenterite virale; prognosi infausta all'80%. Ci diede qualche terapia, ma mi disse che l'unica era aspettare e idratarlo. Mi ricordo che andammo alla farmacia di turno, sulla curva di via Vittorio Emanuele, a predere le flebo.

A casa lo misi su un puff marocchino di cuoio di fianco al letto. Stava sempre più male e aveva dolori atroci con qualche miagolio disperato. Non riusciva già più a stare nella posizione a sfinge e stava sdraiato di fianco perdendo l'urina.  Sopravvisse sino al primo pomeriggio del giorno dopo; lo lasciavo in camera sul suo puff e andavo ogni mezz'ora a controllarlo. Verso le quattro lo trovai morto.

Mi ricordo che il giorno dopo, al Frisi tentai di spiegare a qualche collega che ero in lutto, mi veniva da piangere, ma gli uomini mi guardarono stupiti mentre trovai più solidarietà tra le donne.

Non ci davamo pace; viveva in casa, come era stato possibile. Prati ci disse che i virus potevano essere arrivati da noi sotto la suola delle scarpe; le vaccinazioni erano ancora poco diffuse e le due pandemie feline, la rinotracheite e la gastroenterite erano endemiche in molte colonie.

Pato venne incenerito e per 6 mesi, per ragioni cautelari, Prati ci sconsigliò dal prendere altri animali, poi trascorsa la quarantena arrivò Clio, nata in un giardino condominiale di una ricca casa monzese. La sua mamma adottiva era di cultura classica, di qui il nome di una musa, quella della storia.

Clio è stata con noi 19 anni e di lei parlerò un'altra volta.