1946-1963: la casa di via Mazzini

III edizione – maggio 2024

casa di via mazzini

Qui sono nato e ho passato la mia infanzia. La casa si trovava al primo piano sopra gli uffici e gli spogliatoi degli operai.

Nella foto, dopo la casa, sulla destra, si vedono l’Osteria dei Reduci e il passo carraio da cui si accedeva al magazzino del cuoio. E’ stata ripresa il giorno del funerale del nonno nell’estate del 1953.

come era fatta la casa

Ho ricostruito la planimetria a mente e dunque qualche proporzione nella dimensione dei locali potrebbe esere imprecisa. Dal cortile, di fianco agli uffici si saliva attraverso una tripla rampa di scale e si sbucava su di una ringhiera ad L larga poco più di un metro con la balaustra sostenuta, sopra e sotto, da tante stecche di ferro affiancate. Alla fine della scala c’era un piccolo slargo e se alzavi la testa vedevi la botola del solaio. Ho sempre sognato di esplorarlo, ma non mi ci hanno mai portato.

planimetria della casa

La ringhiera era una tentazione irresistibile e ogni tanto, la sera, e di nascosto dalla mamma, noi tre fratelli più grandi, messi uno di fianco all’altro, facevamo a gara a chi faceva la pipì più lontano giù nel cortile di cemento.

La sfida a chi la fa più lontano appartiene all’immaginario di ogni maschio, come le bambine che giocano a 1 2 3 stella. Sulla ringhiera si aprivano le porte di accesso ai vari locali della casa. Erano porte doppie: all’esterno una in legno pesante che non veniva quasi mai chiusa e, all’interno, delle porte vetrate di quelle a due battenti con il vetro gremolato e la parte più bassa in legno. La ringhiera terminava in uno sgabuzzino (0) che noi chiamavamo in fondo alle scope dove, come dice il nome, si tenevano i materiali di pulizia della casa, gli stracci e qualche scorta alimentare. Non ho mai sentito chiamarlo sgabuzzino, era in fondo alle scope (in fondo, perché stava alla fine della ringhiera).

le camere

La camera grande (1) era occupata da noi quattro fratelli (Sandro, Claudio, Fabio e Italo) e venne approntata quando Italo, nato nel 53, divenne grande a sufficienza per non rimanere più nella camera di papà e mamma. In quella occcasione la vecchia camera matrimoniale divenne la nostra e papàa e mamma si trasferirono in quella di fianco (4).  Sandro, Claudio, Fabio e Italo, sono nati lì nel letto matrimoniale.

A proposito della mia nascita la mamma diceva che sono sempre stato svelto; alle sette di sera lei stava stirando e alle otto ero già nato.

Passando dalla anticamera (2) si accedeva alla nostra camera, al bagno e, attraverso una porticina stretta, a quella (4) dove dormivano il papà, la mamma e Marco (nato nel 59).

Il bagno (3) aveva la vasca sulla parete di fondo e la usavamo il sabato pomeriggio riscaldando l’acqua con uno di quegli scaldabagni elettrici ad immersione che oggi non esistono più. Ci lavavamo in sequenza, noi tre più grandi, nella stessa acqua senza farsi troppi problemi. C’erano sia il water che il bidet, una sciccheria per quei tempi.

Eravamo dei privilegiati perché nelle case dei cortili di via Mazzini quasi nessuno aveva una stanza da bagno e ci si lavava in dal segion (la grande tinozza di legno che era utilizzata anche per il bucato). L’acqua calda per le piccole necessità veniva dalla cucina economica (presente in tutte le case) che, sulla destra, aveva un recipiente metallico stretto e lungo che si infilava nel corpo della stufa molto vicino alla fiamma.

La cucina economica inizialmente andava a legna e carbone, ma ad un certo punto, verso la fine degli anni 50, ci fu messo il bruciatore per il metano; ma non era più la stessa cosa.

Nella nostra camera, dipinta ad olio di un color verde smeraldo c’erano tre letti di quelli con i cassoni con le molle (che erano detti elastici), i comodini, una scrivania, un grande armadio nello stesso stile e il lettino per Italo messo di traverso.

Sulla parete verso via Mazzini, sotto una delle finestre, c’era anche una libreria con un centinaio di volumi, in maggioranza romanzi editi negli anni 40 e 50. Ricordo i volumi della collana La Medusa di Mondadori, le edizioni Bompiani dei romanzi di Cronin e i due romanzi di Fogazzaro, Malombra e Piccolo mondo antico in una edizione Mondadori rilegata e con copertina grigia.

I mobili della camera della mamma erano in stile anni 40 e, come i nostri, ci hanno seguito nel trasloco del 63 quando casa e fabbrica vennero demoliti.

la cucina

Una porta stretta dava accesso alla cucina (5), il locale più importante della casa. C’era un balconcino strettissimo che si affacciava sulla via Mazzini; lo si vede nella foto di apertura. Dal balcone si vedeva il giardino di villa Daelli che allora arrivava sino alla cappellina dei morti (c’era un parco nobile e non un condominio come ora). La nonna Elisa chiamava i Daelli, cachinfacia, facendo una contrazione di “quei dalla cà chi in faccia” (quelli della casa qui di fronte). Una dinastia che campava di rendita e che si è autodistrutta per cattiva gestione, ad un certo punto.

In cucina c’era tutto quello che usavamo per vivere: la cucina economica, le piastre elettriche e a gas per cucinare, una grande cappa ad aspirazione diretta,il frigo (enorme e rivestito di legno), il lavandino, una paio di credenze, tra cui una verniciata bianco panna in cui stavano tutte le stoviglie e le posate  e un grande tavolo su cui si cucinava e si mangiava.

C’era una grande caffettiera a ebollizione, in alluminio pesante, dove si versavano gli avanzi della napoletana mischiati a un po’ di cicoria tostata (l’ Olandese marca Elefante) e si utilizzava quell’intruglio nero per il caffelatte del mattino.

la prim colazione e il tabaccaio

Quando siamo stati abbastanza grandi, io e Sandro, a turno, andavamo verso l’inizio di via Mazzini a prendere il latte, dalla lattaia (che era gestita dalla famiglia Lavelli) e i panini di semola dall’Alfredo (Corti), vecchio amico di papà. Il latte era venduto in bottiglie di vetro della centrale di Monza, bottiglie con sezione poligonale, una imboccatura abbastanza larga con la chiusura in stagnola pesante che si metteva e levava a mano. La colazione era un rito e, a partire da una certa data, abbiamo incominciato anche a fare l’uovo sbattuto con lo zucchero che poi veniva inondato di caffè.

Di fianco a noi, subito dopo la via Verdi, c’era la tabaccheria dei Valentini; un locale piccolo dove il signor Valentini vendeva di tutto: il tabacco da tiro, le sigarette sfuse nelle bustine di carta, i toscani che prima dell’acquisto venivano lungamente palpati dagli acquirenti per saggiarne la stagionatura, i fiammiferi, i cerini, gli svedesi, il sale, lo zucchero, prodotti di drogheria, le caramelle, le cicche americane.

Mi chiedevo come potesse starci tutto in quel bugigattolo finchè, grazie al figlio che faceva le elementario con me, scoprii l’esistenza di un retrobottega-magazzino enorme che, senza finestre, occupava tutto il primo tratto della via Verdi.

vita di famiglia

La mamma, vuoi perché lavorava in ufficio (papà l’aveva conosciuta e puntata in questo modo), vuoi per ragioni di divisione del lavoro, non si occupava della spesa e del cucinare. A questi aspetti ci pensavano la nonna (che cucinava), la Maria e la Elena (per la spesa).

Maria ed Elena

La Maria (Milesi), originaria della alta val Brembana, stava con noi dalla mattina sino al tardo pomeriggio; era in famiglia dagli anni 30 e dunque era molto di più di una donna di servizio; il marito (Battista Bidoglia) faceva il camionista per i Pessina e suo fratello è stato l’ultimo cavallante di Villasanta.

Non avevano figli, così stava più da noi che a casa sua, faceva i mestieri, aiutava la nonna ed è rimasta come un pezzo della famiglia anche dopo la chiusura della fabbrica ed è persino venuta per un po’ a fare le pulizie anche a casa mia dopo il matrimonio.

Poi c’era la Elena, arrivata dall’alta Brianza (Ravellino, vicino a Colle di Brianza), poco dopo la nascita di Fabio (1949) e che è stata la vera mamma di mio fratello Italo, nato nel 1953, e praticamente cresciuto da lei. La Elena (che è morta di recente) viveva con noi e aveva la sua cameretta (8) nella quale ricordo che c’era anche un armadio ad una anta, con lo specchio  dove stavano la divisa militare di papà, il vestito da sposa della mamma e la sciabola da ufficiale di papà (che mi faceva una grande impressione). Ogni tanto la sfilavo dal fodero per guardare la lama tutta istoriata.

Durante la giornata la nonna Elisa stava prevalentemente nel locale di passaggio (6); era un locale stretto e lungo con qualche sedia e poltrona e, a partire dal 1955 ci venne messa la televisione. Il pavimento, come quello di tutti i locali, tranne la cucina e i bagni, era di linoleum. Dopo l’ora di pranzo nel locale lungo c’era il rito del caffè con il nonno, il papà e lo zio Pietro. Lo bevevano corretto con il Fernet mandando in giro un odore che noi bambini trovavamo insopportabile.

la nonna Elisa

La nonna Elisa era una donna piccola, molto grassa per via del diabete e con un sedere enorme accentuato dalla lussazione dell’anca che la faceva camminare ondeggiando. Due volte al giorno veniva una infermiera (si fa per dire) la Ginetta a fargli l’iniezione di insulina. Mi ricordo il bollitore in cucina, con la siringa da insulina che, a differenza di quelle normali, era più stretta e lunga e aveva il pistone in vetro blu.

Dopo qualche minuto di ebollizione si spostavano in camera per l’iniezione e uno dei ricordi che ho da bambino piccolo è questo sedere enorme, appoggiato sul letto, un corpo tutto sedere. Ogni mattina veniva anche la pettinatrice, la signora Netta, a spazzolarle e legarle i lunghi capelli.

Dalle prime ore del pomeriggio sino a sera stava in compagnia di una vecchina, Maria Maera (magliaia), a fare l’uncinetto e a biascicare un misto di preghiere tra cui il rosario con tutti i misteri dolorosi, gaudiosi, gloriosi a seconda del giorno della settimana. Mescolavano  il latino e il dialetto brianzolo con cui avevano deformato le giaculatorie.

Ero bambino ma, noi bambini già percepivamo la bestialità di talune frasi come per esempio “Deus, in adiutòrium meum intende…” (Dio volgiti in mio aiuto) che diventava, detto da Maria Maera “ven che Vitori ca s’intendum” (Vieni qui Vittorio che comunichiamo) e la nonna che doveva rispondere  “Domine, ad adiuvandum me festina” (Signore, affrettati a soccorrermi) diceva invece “dumandic a la mia Cristina” (chiedi alla mia Cristina). Erano uno spasso, ma anche un po’ noiose perché andavano avanti per ore. Quando arrivavano al Dio sia benedetto capivamo che avevano finito e tiravamo un sospiro di sollievo.

la sala

La sala (7) aveva i mobili in noce ed era perennemente chiusa se si esclude l’apertura della porta per ascoltare il radiogrammofono che stava lì dentro. Mi ricordo dell’ occhio magico (verde-nero) che reagiva alla sintonia, delle stazioni in onde medie che non recavano la frequenza ma il nome di città di tutto il mondo (Graz, Zagabria, Parigi, …) e poi il giradischi dove noi bambini acoltavamo le fiabe sonore.

Erano dischi a 78 giri della Durium in una specie di cartoncino con un rivestimento similplastico (ma la plastica non era stata ancora inventata) su cui c’era l’incisione. Avevamo Cenerentola, Biancaneve e Barbablù e quella di Barbablù era quella che mi impressionava di più; in particolare quando la protagonista, presa dalla irresistibile curiosità apriva la porta vietata e Barbablù, con una voce che pareva venire dall’oltretomba, la condannava a morire: anche tu come le altre ….

Usavamo la sala solo nelle feste di Natale, almeno finché c’è stato il nonno, che ci teneva a fare il grande pranzo di famiglia con tutti noi, le due figlie sposate (zia Giovanna e zia Linda) con rispettivi mariti e figli. Si mangiavano i bolliti misti, il pollo in gelatina, il vitello tonnato, i ravioli in brodo, il panettone e al pomeriggio si giocava a Mercante in Fiera con le fiches e noi bambini potevamo giocare con i grandi.

la parte finale della casa

La camera del nonno e della nonna ha continuato a farmi paura per un po’ di anni da quando, nel 53, venne allestita la camera ardente per la morte del nonno.

Da allora la porta di ingresso, se ero da solo, costituiva un tabù: rivedevo il nonno morto e immaginavo che si alzasse e venisse fuori. Trovavo inquietante anche la teca di vetro con Maria Bambina messa sulla cassettiera e, sul muro le foto giganti dei bisnonni. Il suo letto era ancora lì, le finestre erano quasi sempre chiuse e a me sembrava la camera dei fantasmi.

Il bagno (10), di fianco alla camera dei nonni aveva alcuni scalini dopo la porta e veniva usato prevalentemente come lavanderia (oltre che come bagno per la nonna).

Era stata acquistata una delle prime lavatrici tedesche, della Miele. Era un grande cilindro verticale di metallo pesante con al centro un aggeggio che ruotava alternativamente nei due versi e questa oscillazione ritmica determinava la lavatura.

L’acqua veniva immessa a secchiate e poi riscaldata con lo scalda-acqua a immersione. Lo scarico avveniva con un rubinetto nella parte bassa e, dopo aver fatto il risciacquo nello stesso modo, i panni venivano strizzati facendoli passare tra due rulli di gomma azionati a mano.

giochi e sadismo

Di pomeriggio, se non si stava nel cortile di casa, si andava in quello dove la zia Giovanna aveva il negozio (il primo cortile della via Mazzini): c’erano nostro cugino Enzo e anche il Franco, un po’ più grande, che aveva la carabina ad aria compressa con i piumini e i piombini. Ricordo che, oltre che con i cugini Locati, giocavamo con due sorelle Rosaria e Gabriella (Vimercati), e un fratello e sorella Daniele e Rosalba Ferrario. Gli altri cugini, Luigi e Giancarlo erano già grandi e non ci filavano molto.

Il lunedì pomeriggio facevamo una cosa orribile e, pensandoci oggi, mi chiedo come facessimo a reggerla (avevamo tra i 5 e 9 anni). Si andava tutti in bass ai erba, dove c’erano i macelli e assistevamo alla uccisione e squartamento di mucche e vitellini (a volte una, a volte due). Arrivavano con un camion o con il carro con il cavallo, venivano fatti scendere con un asse inclinato e legati fuori dal macello.

Il signor Tornaghi (che aveva la macelleria all’inizio di via Mazzini, dove poi è subentrato Pino Mapelli), detto ul balurda perché era sordomuto, era un omone e aiutato da un nipote li portava dentro. Poi mentre il nipote teneva la bestia ferma per la cavezza, gli dava un colpo di mazza e gli spezzava l’osso del collo. A volte il primo colpo non bastava e ne serviva un secondo. La bestia cadeva a terra e a questo punto veniva sgozzata. Dopo qualche anno imcominciarono ad usare, al posto della mazza, un metodo più sicuro: un pugnale che recideva di netto il midollo spinale a livelle cervicale.

Finiti i rantoli dell’agonia, la tiravano su per le zampe posteriori con un argano a mano e poi iniziava l’eliminazione della testa, delle viscere, degli organi interni, della pelle, … Il sangue a terra veniva lavato grossolanamente a secchiate, mentre la briglia centrale scaricava il tutto nella roggia che passava lì di fianco.

Sono passati molti anni prima che incominciassi a mangiare la trippa che avevo visto tirar fuori e lavare con gli spazzoloni. Con i vitellini era peggio, perché venivano issati per una delle gambe posteriori e uccisi con il taglio della giugulare senza alcun stordimento. Noi stavamo lì, guardavamo tutto e ce ne tornavamo a casa tranquilli. Cosa sarà successo alla nostra psiche?

I cortili di via Mazzini avevano tutti l’accesso verso ovest alla roggia perché c’erano ancora le pietre e i cilindri in cui si mettevano le donne per lavare i panni e, a loro volta, i cortili erano interconnessi da passaggi interni che usavamo per le scorrerie in occasione delle sfide tra bande. Ne parlerò in uno dei prossimo capitoli.

Poi a 10 anni sono andato in Collegio e ho lasciato l’ambiente del paese. Diventando più grande, quando ormai la fabbrica era chiusa, ma noi vivemao ancora lì, ho incominciato ad usare un locale adiacente alla casa (11) dove si trovavano vecchie macchine da ufficio e pratiche commerciali e amministrative del calzaturificio, una specie di archivio morto della ditta ormai chiusa. Su una delle pareti c’era una nicchia abbastanza grande e alzata da terra. Mi ci rifugiavo quando volevo stare solo e pensare.


Ultima modifica di Claudio Cereda il 11 maggio 2024


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