1952-1956: le elementari a Villasanta
III edizione – maggio 2024
La scuola Notari stava in piazza Daelli in un edificio che aveva ospitato in precedenza la sede del comune di Villa San Fiorano e, durante la guerra, il partito nazionale fascista, come racconto nel capitolo della mia autobiografia con mio padre che ci nascondeva gli antifascisti. Nel dopoguerra, oltre alla Notari c’è stato l’avviamento professionale ed ora ospita nuovamente le elementari (scuola Oggioni) ma l’ingresso era solo sul davanti da piazza Daelli di fianco ad una osteria.
Fino alla edificazione della nuova scuola elementare, inaugurata nel 1955 di fronte al Campetto, era frequentata dai bambini delle scuole di inseu, compresi quelli di San Fiorano e di S. Giorgio. Gli altri andavano in giù alla Parini, di fianco all’asilo delle suore Canossiane.
Ovviamente le classi non erano miste e dunque c’erano due classi in su e due classi in giù. Non mi ricordo in quanti fossimo, ma nel 46, in tutta Italia, c’è stato il boom delle nascite e la classe 46 è stata la più numerosa del dopoguerra, dunque eravamo certamente più di 30.
Le aule avevano i banchi in legno verniciati di scuro, di quelli a due posti con i due buchi dove stava il calamaio e il bidello, con il fiasco e il beccuccio a cannuccia, ci versava l’inchiostro.
Si andava a scuola con la blusina di satin nero con collettino bianco (che potete vedere nelle foto) e per tenere a posto i capelli la molletta di ferro. Le nostre cose stavano nella cartella (libro, quaderni e astuccio più o meno ricco). Gli zaini non sapevamo cosa fossero; li usavano i militari e gli alpinisti.
La mia maestra, dalla prima alla terza, è stata Claudina Sabbadini, una simpatica e autorevole vecchina che se ne è andata in pensione dopo averci lasciati alla fine della terza.
Si andava a scuola solo la mattina (compreso il sabato) e il giovedì era vacanza. In prima e seconda si aveva solo l’abecedario e, dalla terza, compariva il sussidiario perché iniziava la divisione in materie. Non c’erano, come ora, quei quintali di libri che piegano le schiene dei miei nipoti e che, secondo me, rischiano solo di creare nozionismo, quando non generano rifiuto e sono, in buona sostanza, totalmente inutili, anche perché comunque non bastano mai e si va di fotocopie.
i giochi collettivi nei cortili
Nel pomeriggio le compagnie per giocare non erano basate sulla classe di appartenenza ma ci si ritrovava per corte formando gruppi indipendenti dalla età (curt di sciuri, curt dal nustran, curt dal tabacon, curt di mort). Questi gruppi facevano poi le loro battaglie con quelli dei cortili adiacenti (cerbottana, tirazanchette). Come proiettili per la cerbottavano si usavano i bussolotti realizzati con striscioline di carta e saldati in punta con la saliva, mentre il tirazanchette era una forcella in filo di ferro ed elastici che usava come proeittili (abbastanza pericolosi) i chiodi ricurvi ad U (le zanchette).
la loera
Si giocava alla loera o lippa. Un bastone sui 40 cm che serviva da mazza e da unità di misura e la loera, un legno sui 15 cm appuntito alle due estremità. La partita iniziava colpendo la loera seguendo un rito preciso. Il battitore gridava loera e gli avversari rispondevano vuuna segno che il gioco poteva iniziare. La loera era tenuta di punta in mano e il battitore cercava di mandarla più lontano possibile (tipo base-ball). Ma se gli avversari la prendevano al volo eri fuori e toccava agli altri.
Poi avevi a disposizione tre colpi per mandare la loera ancora più lontano. Colpo secco su una punta, la loera saltava e bisognava colpirla al volo. Dopo il terzo tiro era finita; bisognava stimare la distanza dalla base misurata avendo come unità il bastone (quelli erano i punti). Non si doveva esagerare perché se la misura effettuata su richiesta degli avversari era inferiore al dichiarato si perdeva tutto.
Era un gioco che stimolava abilità manuali (nella realizzazione della loera), controllo e coordinazione dei movimenti, capacità di stimare distanze in una data unità di misura. I cortili avevano il fondo in terra battuta e si prestavano bene a far saltare il legnetto e l’unico problema era, quando la colpivi bene, di non finire nei vetri di qualche abitazione.
altri giochi
Oltre alla loera si giocava a nascondersi, a mago libero, a palla prigioniera o a palla avvelenata e si facevano delle grandi partite con le biglie o con le figurine.
Le biglie erano di due tipi in vetro, più pregiate, o in terra cotta colorate che si comperavano dal tabacon a una lira l’una. Si facevano sia gare scavando le piste nella terra batttuta del cortile, sia sfide in cui si trattava di colpire quelle messe a tre con una biglia sopra; e quando colpivi ti impadronivi delle quattro colpite.
Le figurine si comperavano all’edicola all’inizio di via Confalonieri, di fianco alla salumeria Teruzzi; mi pare che costassero 10 lire alla bustina; erano di un cartoncino semirigido e nel tempo ricordo: geografia, animali, calciatori, ciclisti. Si incollavano sull’ambum con la Coccoina (la colla pastosa che sapeva di mandorla) e con le doppie si facevano gli scambi o si giocava.
Il gioco delle figurine consisteva invece o nel lanciarle di taglio in modo che ruotando su sestesse andassero lontano o nel lasciarle cadere dall’alto in modo che si sovrapponessero a quelle già a terra. In ogni caso si trattava di giochi a premi. Mentre si giocava si approfittava per fare gli scambi sulle doppie. Il calcio era diffuso, ma non come ora e lo si praticava o all’oratorio o al campetto.
Nei primi anni delle elementari sono andato i colonia, una volta a Cervia e una volta a Porto San Giorgio. Per quella età il viaggio era lungo e segnava il distacco netto dalla famiglia. Le colonie le organizzava per cponto del comune il maestro Natalizi insieme al segretario comunale Ornaghi. Erano una cosa importante inaugurata dal fascismo e continuata con al repubblica.
Non ho ricordi particolari salvo il distacco dalla famiglia: vita spartana e mangiare povero. Una volta arrivarono in visita lo zio Alessandro insieme al signor Teruzzi (il salumiere di via Confalonieri). Non so se ci fosse di mezzo la banda, ma mi è rimasto in mente un regalo graditissimo. Portarono una di quelle lattte quadrate piena di biscotti della Osvego e dopo cena ci furono distribuiti tre biscottoi secchi a testa. Una sciccheria, me li ricordo ancora.
l’insegnamento in prima e dopo
L’insegnamento, nel dopoguerra, era molto tradizionale e si passava la prima ad imparare a riconoscere le lettere, poi le sillabe e infine le parole.
Prima di scrivere bisognava diventare ordinati nel rapporto con il foglio e nella padronanza della mano. Si incominciava già all’asilo con tutti quei lavoretti di foratura delle cartoline con gli spilli e, in prima, si continuava con le paginate di aste orizzontali, verticali ed oblique e poi avanti, una lettera alla volta, prima in corsivo e poi in stampatello.
All’inizio si usava la matita perché il passaggio alle penne con il pennino era piuttosto problematico: macchie di inchiostro se lo si intingeva troppo, impuntature sul foglio e successivo schizzo se si lavorava di punta. I pennini e i quaderni (copertina nera e bordatura delle pagine in rosso, si comperavano nella cartoleria della signora Sala in via Mazzini di fianco al panificio dell’Alfredo Corti ma mi pare che li vendesse anche il tabaccaio. Naturalmente, in ogni quaderno avevamo il foglio di carta assorbente usato per asciugare la pagina, ma anche, usandolo di spigolo per asciugare rapidamente le gocce di incjhiostro che cadevano regolarmente dal pennino sul quaderno.
I quaderni, a riga e a quadretti erano rigorosamenti distinti per classe perché c’erano le difficoltà a rispettare le dimensioni delle lettere, degli ascendenti e dei discendenti e la bella scrittura era oggetto di valutazione.
Nell’insegnamento c’è stata anche una parentesi democratica perchè la maestra Sabbadini (non si usava il nome come fanno oggi i bambini, ma il cognome) ci propose per alcune lettere dove erano possibili grafie diverse, di scegliere a maggioranza quelle che avremmo usato. Erano le maiuscole corsive quelle in discussione e questo è il modo con cui scrivo ancora ora, una scrittura corsiva che stupiva molto i miei studenti di liceo durante le lezioni di matematica. Le lettere strane le usavamo per designare i luoghi geometrici. Nella immagine ho messo a destra il simbolo che adottammo.
In prima, in seconda e in terza ci fu un bocciato; mi pare che il più bravo della classe fosse l’Ermanno Gilioli mentre il cognome più diffuso era Merlo. Ce n’erano ben quattro (Adelio, Luigi, Mario e Massimo). Tra i compagni di classe c’erano Ermanno Calcinati, Carlo Valentini (il figlio del tabaccaio), Giorgio e Lorenzo Fontana (che frequentavo anche fuori dalla scuola per via delle amicizie tra le famiglie di industriali), Renzo Erba, Tino Brambati (da San Fiorano), Luigino Sacchi e Luigi Colnago (che avrei ritrovato alle superiori), Carlo Viganò di S. Giorgio. La separazione dei sessi era molto rigida e non ho memoria di bambine. Quando è venuto il momento di conoscerle ero ormai in collegio.
Alla fine della seconda sapevamo leggere, scrivere e fare le addizioni e sottrazioni, mentre le tabelline iniziarono in terza. Non so se fosse che mia mamma non aveva tempo o perché avessi delle difficoltà ma, per un certo periodo della III, andai a ripetizione di tabelline dalla signorina … in un cortile di via Mazzini.
Sempre con la maestra Sabbadini iniziammo ad usare il sussidiario, ad affinare la calligrafia e le tecniche di scrittura usandi i quaderni a righe più piccole e anche a fare i primi problemi con una operazione. Non ho memoria di episodi con punizioni basate sulla violenza. La maestra Sabbadini, forse per via dell’età era autorevole e ci teneva a bada con lo sguardo e con la voce.
in quarta si cambia scuola e maestra/o
Nel passaggio tra la III e la IV abbiamo lasciato le scuole Notari e ci siamo spostati alla scuola nuova (quella del campetto) e abbiamo cambiato maestro; ci ritrovammo il maestro Polito che era anche l’equivalente del direttore, o almeno ne svolgeva le funzioni.
Nelle classi maschili, solitamente si aveva la maestra in prima e seconda e poi, dalla terza si passava al maestro (Natalizi, Polito, Battistini, Cirelli, …) in base ad un principio secondo cui con i piccoli serviva un volto femminile che richiamasse la mamma e poi quando si diventava grandi si passava al maschio, figura evidentemente più autorevole.
La nuova scuola aveva i finestroni e i banchi individuali. Il maestro Polito era un signore molto distinto e, anche se era di origine meridionale, aveva un’aria un po’ sabauda. In quarta, su sua indicazione, ho letto il mio primo romanzo: Sandokan alla riscossa di Emilio Salgari e, alla fine dell’anno, il maestro Polito mi regalò una Storia degli Stati Uniti, che ho ancora. Che differenza rispetto ad oggi, mi riferisco al leggere, a fare i temi, a fare i problemi con più operazioni. Nei vecchissimi ordinamenti la scuola elementare doveva servire a imparare a leggere, scrivere e far di conto e quelle tre cose semplici ma chiare si facevano.
Ma si studiava anche storia e geografia con un po’ di profittevole nozionismo. Capitali, confini, date, cartine mute. Mi ricordo che mio fratello Sandro vinse un concorso risponedendo correttamente alla domanda quali sono i grandi laghi nei pressi di Leningrado? Risposta: Ladoga e Onega.
Nell’inverno 55/56 Sandro, che faceva la quinta con il maestro Battistini si fece una brutta broncopolmonite e da quella malattia si crearono le condizioni che avrebbero portato il proseguimento della mia infanzia in Collegio. Io di salute stavo bene se si esclude qualche tonsillite e la allergia ai pollini che il dr. De Simoni, il medico di Villasanta, amico di papà, curava con delle belle iniezioni di cortisone a lento rilasciato. Il Depo-Medrol, lo stesso che mi hanno iniettato quest’anno nel canale vertebrale per attenuare i sintomi della stenosi.
Nel pomeriggio, insieme a qualche altro compagno che era stato selezionato per fare le medie, si andava a fare delle ripetizioni in preparazione dell’esame di ammissione a casa della maestra Sabbadini. Ci rafforzava sulla grammatica e ci insegnava i rudimenti della analisi logica. A quei tempi, oltre all’esame di quinta, c’era infatti l’esame di ammissione per poter andare alle medie e l’esame di ammissione verteva su un programma più ampio di quello di quinta.
Lei abitava in giù e la ripetizione di analisi logica fu una bella occasione per uscire da solo nel pomeriggio facendomela a piedi lungo tutto il paese lungo via Mazzini e via Confalonieri. Ma la quinta non l’avrei fatta a Villasanta, mio fratello Sandro, per ragioni di salute, fu mandato in Collegio in Liguria e io decisi di seguirlo.
Ultima modifica di Claudio Cereda il 17 maggio 2024
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