Il codice dell’anima – James Hillman

Chi mi segue su Facebook  avrà visto nei giorni scorsi una serie di post con brani tratti da questo libro e, leggendo con attenzione, si sarà anche chiesto se sono impazzito.

Un materialista-riduzionista che si mena via dietro ai miti platonici e si dedica alla teoria della ghianda e al daimon che sta al nostro fianco nel corso della vita …

Ringrazio una cara amica che mi ha segnalato questo libro e che un giorno ha anche provato a riassumermi la teoria della ghianda con io che ogni tre parole interrompevo e obiettavo e lei si incazzava.

Comunque la pensiate, paragnostici, amanti del disegno di dio nel mondo, immanentisti, razionalisti assatanati, si tratta di un libro che merita di essere letto perché potete anche non ritrovarvi nel discorso coerente che Hillman costruisce, ma comunque sarete affascinati dai riferimenti biografici a personaggi dell'arte, della storia, dello spettacolo (all'inizio) e dalla capacità di analisi (per tutta la seconda metà del libro).

Quando mi sono avvicinato alla filosofia della scienza (eravamo nel 1969) il professor Geymonat mi diede da leggere, come testo principale d'esame, Le strutture della scienza di Ernst Nagel e poi all'esame mi chiese cosa ne pensavo. Ricordo ancora la risposta perché ha segnato una svolta nel mio modo di rapportarmi alla cultura, e un po' anche alla vita:

Professore, noi (eravamo in tre esponenti del movimento di fisica) siamo venuti qui alla ricerca di un senso per la razionalità scientifica: cosa c'è sotto, cosa c'è dietro, qual è la linea giusta?

Dal Nagel ho capito che la linea giusta non esiste, che, in fondo, non è importante quale sia la tesi che difendi: l'importante è che tu la sottoponga ad esame, che adotti il punto di vista contrario, che la metta alla prova, che ne esamini gli elementi di forza e quelli di debolezza. La linea giusta non esiste, ma il modo giusto di rapportarsi alla conoscenza, sì.

Hillman secondo me è così e, per questa ragione, non vi faccio il riassunto ma mi limito a ripubblicare i post già messi su Facebook e un intero capitolo dedicato al tema della libertà e necessità, come assaggio. Buona lettura.


il sogno, l'immaginazione, l'ambiente, la complessità, …

La via opposta alla riduzione della natura al semplicismo cerebrale consiste nell'espandere la nozione di cultura fino a un'idea di ambiente molto più comprensiva.
Se ambiente significa, letteralmente, ciò che c'è intorno, allora si deve intendere tutto, ma proprio tutto, ciò che c'è intorno.
Infatti la psiche inconscia sceglie in modo arbitrario tra le cose incontrate quotidianamente nell'ambiente. Informazioni minuscole e banali possono avere effetti psichici subliminali giganteschi, come mostrano i residui diurni nei nostri sogni.
Perché diamine siamo andati a sognare proprio quella cosa lì? Gran parte della nostra giornata passa inosservata e non sarà mai più ricordata, ma ecco che la psiche pesca i rottami che galleggiano nell'ambiente e li consegna al sogno. Il sogno, l'impianto di riciclaggio dell'ambiente, trova nella spazzatura i valori dell'anima.
Il sogno: un artista che si appropria di immagini presenti nell'ambiente per richiamarle alla memoria più tardi, in pace.
Poiché lo spazio in cui ci aggiriamo è fatto di realtà psichiche che influiscono sulla nostra vita, dovremo ampliare la nozione di ambiente nel senso di una «ecologia del profondo», partendo dall'ipotesi che il nostro pianeta sia un organismo vivente, che respira e si autoregola.
Poiché qualunque cosa abbiamo intorno può nutrire la nostra anima in quanto alimenta
l'immaginazione, là fuori è pieno di materia animica. E allora perché non ammettere, con l'ecologia del profondo, che l'ambiente stesso è intriso di anima, animato, inestricabilmente fuso con noi e non già sostanzialmente separato da noi?
La visione ecologica restituisce all'ambiente anche l'idea classica di providentia: l'idea che il mondo provvede a noi, bada a noi, ci accudisce perfino. E ci vuole vedere intorno.

(pag. 196-197)


Una teleologia debole e senza pretese …

Dirò di più: ciò che conta non è tanto stabilire se un'interferenza abbia o no uno scopo; è importante, piuttosto, guardare con occhio sensibile allo scopo e cercare il valore nell'imprevisto. L'occhio sensibile allo scopo parte dal presupposto che gli eventi possono effettivamente essere accidenti.

Il mondo è governato dalla follia non meno che dalla saggezza, dal caos non meno che dall'ordine. E altrettanto fatalistico e teleologico il credere nella casualità del cosmo quanto lo è il credere in un disegno cosmico. L'occhio sensibile allo scopo si limita a scrutare ciascun «accidente», come vengono chiamati questi eventi, per leggervi ciò che esso dice di sé.

(pag. 255)


Essere ironici, autoironici e un po' sornioni …

Il diavolo può impersonare la figura del Briccone, dire arguzie, fare il buffone, danzare la giga, giocare burle, ma l'umiltà terragna dell'umorismo gli è totalmente estranea.

L'umorismo, come indica la parola stessa, inumidisce e ammorbidisce, conferendo alla vita un tocco ordinario; poiché incoraggia l'autoriflessione e prende le distanze dal senso di importanza personale, l'umorismo è fumo negli occhi per il delirio di grandezza. In quanto ci pone su un gradino più basso, è essenziale per crescere cioè discendere (si veda il capitolo II). La risata che dà riconoscimento alla nostra assurdità di comparse nella commedia umana è altrettanto efficace per scacciare il diavolo dell'aglio e della croce per scacciare i vampiri.

Lo aveva capito Chaplin, che nel suo film Il grande dittatore non si limita a ridicolizzare Hitler, ma rivela l'assurdità, la trivialità e la tragicità dell'inflazione demonica.

(pag. 276)


La mediocrità non ha senso …

La nostra sociologia, la nostra psicologia, la nostra economia (insomma, la nostra civiltà) sembrano incapaci di apprezzare il valore delle persone che non emergono e le relegano nella mediocrità dell'uomo medio di intelligenza media.
Perciò il "successo" finisce per assumere tutta quella esagerata importanza: offre l'unica via di fuga dal limbo della media.
Stampa e televisione vengono a pescarti soltanto quando piangi dopo una tragedia, quando dai in escandescenze davanti alla platea, o quando ti metti in posa per spiegare che cosa ne pensi; dopo di che, ti butta nuovamente nel calderone della mediocrità indifferenziata.
I media sanno adulare, celebrare, esagerare, ma non sanno immaginare, e dunque non sanno vedere.
In parole povere: non esiste una mediocrità dell'anima. l due termini sono incompatibili. Provengono da territori diversi: «anima» è singolare e specifico; "mediocrità» ti prende le misure con gli strumenti della statistica sociologica: norme, curve, dati, confronti.
Potrai anche risultare mediocre in tutte le categorie sociologiche, perfino nelle tue aspirazioni e realizzazioni personali, ma la maniera in cui si manifesta la tua mediocrità sociologica creerà un picco unico e irripetibile in qualsivoglia curva a campana. Non si danno taglie che vanno bene a tutti.
(Pag. 317)


E per finire un intero capitolo su telos e ananke

IX IL DESTINO

FATO E FATALISMO

«Ma se l'anima sceglie il proprio daimon e sceglie la propria vita, quale capacità di decisione ci rimane?» si chiede Plotino. Dov'è la nostra libertà? Tutto ciò che viviamo e chiamiamo nostro, tutte le nostre faticate decisioni devono essere, in verità, predeterminate.

Siamo intrappolati dentro il velo dell'illusione, convinti di essere gli autori della nostra vita, quando invece la vita di ciascuno è già scritta nella ghianda e noi non facciamo altro che realizzare il piano segreto inciso nel cuore. La nostra libertà, si direbbe, consiste soltanto nello scegliere ciò che la ghianda si prefigge.

Per sgombrare il campo da questa erronea conclusione, chiariamo meglio le prerogative del daimon, cerchiamo di essere più precisi circa l'ampiezza dei poteri della ghianda. Su che cosa agisce e quali sono i suoi limiti?

Quando diciamo che è la causa di certi comportamenti durante l'infanzia, che cosa intendiamo per «causa»? E per «intenzione », quando diciamo che si propone una particolare forma di vita, per esempio, il teatro, la matematica, la politica? Ha in mente un termine ultimo, magari addirittura un'immagine della cosa già realizzata e una data per la morte? Se è così potente da determinare fatalmente l'espulsione da scuola e le malattie infantili, che cosa intendiamo per «determinismo »? E, infine, se è la ghianda a trasmettere il senso che le cose non sarebbero potute essere altrimenti, che anche gli errori sono stati necessari, che cosa intendiamo per «Necessità »?

Le risposte a queste domande stanno al centro del nostro libro. Perché, se questi temi non vengono formulati con chiarezza e affrontati sino in fondo, finiremo o per abbandonarci al fatalismo o per abbandonare questo libro alla pura fantasia. Il fatalismo è l'altra faccia, la grande seduzione, dell'Io eroico, che in questa civiltà del fai da te, dove l'asso piglia tutto, ha già un tale peso sulle proprie spalle. Più pesante è il carico, più forte è la tentazione di deporlo o di trasferirlo su un portatore più grosso e più forte, il Fato per esempio.

L'Eroe è l'America personificata. L'Io eroico è sbarcato con i Padri pellegrini dal Mayjlower, si è spinto con Daniel Boone nelle terre selvagge, solo con il suo fucile, la sua Bibbia e il suo cane, cavalca solitario con John Wayne nei canyon dell'Arizona, protegge gli interessi della sua industria, e alla malora il resto del mondo. Questo Io si è aperto la sua strada nella foresta vergine e ce l'ha fatta a dispetto di tutti i concorrenti e i predatori. Anche al femminile, come Cappuccetto Rosso, deve far fronte alle molestie rapaci del lupo che incontra sul suo sentiero solitario.

Questo fardello, di trovarti sempre solo con il destino che ti sei fatto con le tue mani, in un mondo pieno di figure in agguato che cercano di imbrogliarti, rende la vita una battaglia continua. Se non abbatti gli ostacoli e non ti fai avanti a gomitate, c'è il rischio di «rimanere indietro » a scuola, o di avere un rendimento al di sotto delle tue capacità, e allora ti spediscono dallo psicologo perché tu possa superare i tuoi « blocchi» psicologici o le tue «fissazioni ».

Devo fare progressi, a partire dall' asilo. Devo svilupparmi, arrampicarmi, difendermi; solo in questo modo avrò la certezza di esistere, giacché quella è la definizione eroica di esistenza. Certo, non è il massimo del divertimento, einfatti, quando Cappuccetto Rosso si ferma un attimo a cogliere fiori da mettere nel cestino pieno di ogni ben di dio per la nonna, subito spunta il lupo tutto denti.

In questa definizione paranoide della vita – la vita come lotta, come competizione per la sopravvivenza, con l'altro o alleato o nemico -, il fatalismo offre una pausa di respiro. Sta scritto nelle stelle; c'è un disegno divino; quello che accade, accade per il meglio nel migliore dei mondi possibili (ricordate il Candido di Voltaire?). Il mondo non pesa più sulle mie spalle, perché in realtà lo porta il Fato e io sono in grembo agli dèi, proprio come dice Platone nel suo mito. lo vivo il particolare destino che è uscito dal grembo di Necessità. Perciò non importa ciò che scelgo.

Del resto, la mia non è vera scelta; l'idea di scelta è un'illusione. La vita è predeterminata. Questo modo di ragionare è fatalismo, e non c'entra niente con il fato. Riflette un sistema di credenze, un'ideologia fatalista, non già le Moire, le Parche, che il mito platonico ci mostra mentre suggellano il destino di ciascuno e avviano il daimon verso la nostra nascita. Esse non predeterminano affatto i singoli eventi della vita, come se la vita fosse una loro costruzione.

L'idea che la grecità aveva del fato semmai è questa: gli eventi ci accadono, e gli uomini «non possono capire perché una cosa è accaduta, ma, visto che è accaduta, evidentemente "doveva essere"». Post hoc, ergo propter hoc. Dopo l'evento (post hoc), diamo una spiegazione di ciò che l'ha fatto accadere (ergo propter hoc).

Non stava scritto nelle stelle che nell'ottobre del 1987 dovesse verificarsi un crollo della Borsa, ma, dopo che il crollo c'è stato, troviamo delle «ragioni» che dimostrano come fosse inevitabile che esso avvenisse proprio in quel mese.

Per i greci, la causa di tali infausti eventi sarebbe il fato. Ma il fato causa soltanto gli eventi insoliti, che non rientrano nello schema. Non è che ogni singolo fatto sia chiaramente delineato in un superiore disegno divino. Una siffatta spiegazione totalizzante è fatalismo, primo passo verso la divinazione con i tavolini che ballano, verso comportamenti passivo-aggressivi in cui si mescolano remissiva sottomissione e rancorosa ribellione al destino.

Meglio dunque immaginare il fato come una momentanea «variabile che si interpone ». C'è un termine, in tedesco, Augenblicksgott, che indica una divinità minore che ci passa accanto rapida come un battito di ciglio producendo effetti momentanei. Le persone religiose parlerebbero di un angelo che intercede per noi. Ecco, più che un compagno costante, che affianca i tuoi passi tenendoti per mano durante tutte le crisi della giornata, il fato interviene nei momenti più inattesi e ti strizza l'occhio o ti dà una bella spinta.

Dopo esserti studiato ben bene il mercato, vendi le tue azioni; il giorno dopo, viene annunciata la fusione con un'altra società e le azioni che hai appena venduto salgono del trenta percento. Al traguardo, il vento cade e la barca avversaria ti supera di abbrivo e vince per un secondo. Però, se ritiri tutti i tuoi investimenti e nascondi il denaro dentro il materasso perché non è il tuo destino stare nel mercato azionario, oppure se decidi che non eri destinato a vincere quella regata, e forse nessun'altra, anzi non eri destinato a fare vela, e che quel vento caduto all'improvviso è un segno che indica come tu non sia in armonia con gli elementi e vendi la tua barca e passi a fare roccia o ti lasci andare alla depressione: queste sono scelte tue, derivanti dal significato che tu leggi nell'andamento della Borsa o del vento.

Il fatto di scorgere la mano del Destino in quegli eventi infausti ne eleva l'importanza e il senso, e consente una pausa di riflessione. Invece, il credere che l'avere venduto nel momento sbagliato e l'avere perso per un secondo decidono per te della tua vita: questo è fatalismo. Il fatalismo scarica tutto sul destino. Non serve a niente andare a votare, offrirsi come vigile del fuoco volontario, anzi non serve a niente avere un corpo di vigili del fuoco, tanto se le disgrazie devono succedere, succedono. I bastoncini dell'IChing ti diranno che cosa il Fato vuole che tu faccia.

Questo è fatalismo. Il cogliere la strizzatina d'occhio del fato è un atto di riflessione. E’ un atto del pensiero; mentre il fatalismo è uno stato del sentimento, un abbandonare la ponderazione, l'attenzione per i particolari, il ragionamento rigoroso. Anziché riflettere a fondo sulle cose, ci si abbandona all'umore più generico della fatalità. Il fatalismo spiega la vita globalmente. Qualsiasi cosa accada può essere inserita dentro la capace generalità dell'individuazione, del mio viaggio, della crescita. Il fatalismo consola, perché non fa sorgere interrogativi. Non c'è bisogno di analizzare, se davvero tutto combacia.

Il termine greco per indicare il fato, moira, significa «parte assegnata, porzione ». Così come il fato ha solo una parte in ciò che succede, allo stesso modo il daimon, l'aspetto personale, interiorizzato della moira, occupa solo una porzione della nostra vita, la chiama, ma non la possiede. Moira deriva dalla radice indoeuropea smer o mer, «ponderare, pensare, meditare, considerare, curare».

E' un termine profondamente psicologico, in quanto ci chiede di analizzare da vicino gli eventi per determinare quale porzione viene dall'esterno ed è inspiegabile, e quale mi appartiene, attiene a ciò che ho fatto io, avrei potuto fare, posso ancora fare. La moira non è in mano mia, è vero, ma è solo una porzione. Non posso abbandonare le mie azioni, o le mie capacità e la loro realizzazione, nonché la loro frustrazione o fallimento, a loro, agli dèi e dee, o al volere della ghianda daimonica.

Il fato non mi solleva dalla responsabilità; anzi me ne richiede molta di più. In particolare, richiede la responsabilità dell'analisi. E non intendo una sorta di psicoanalisi in formato ridotto. Non intendo l'affibbiare la colpa a una causa, dicendo: «E' stato il daimon a fare accadere questa cosa. E' il mio destino. Non posso evitare di commettere errori in Borsa: mio padre non mi ha mai seguito; mia madre aveva le mani bucate; da piccolo non mi hanno mai dato una somma fissa la settimana e quindi non ho mai imparato ad amministrare il denaro. Sono autodistruttivo. . . ". E via di questo passo, a dare la colpa a una catena di cause, per ritornare alla fine alla superstizione parentale.

Quando i greci volevano analizzare un evento infausto e oscuro, andavano dall'oracolo per domandare a quale dio o dea dovessero offrire sacrifici in relazione al problema, al progetto o all'affare in questione. Questo, primo, per circoscrivere più esattamente il problema; secondo, per compiere con maggiore precisione le offerte propiziatorie. In base a questo modello, l'analisi cerca di scoprire quale Fato, o mano archetipica, chiede attenzione e commemorazione. Noi commemoriamo la parte del fato quando, dopo avere annunciato un progetto, anche il più banale, aggiungiamo: «Deo concedente ", «Se Dio vorrà ", come dicono gli irlandesi.

«Allora, ci troviamo alla stazione, se Dio vorrà". Io ho intenzione di andare alla stazione e mi organizzo di conseguenza. Ma può succedere qualcosa di contrario e allora faccio cenno alla parte da attribuirsi al fato dicendo: «Deo concedente ". Oppure tocco legno. I vecchi ebrei devoti quasi non pronunciavano frase senza rammentare la possibilità che intervenisse una disgrazia imprevista a contrastare le loro intenzioni. Questi intercalari o il toccare legno, per rammentarci degli imprevedibili interventi del fato, ci riportano al daimon. Perché il daimon coglie di sorpresa. Con i suoi interventi contrasta le mie intenzioni, a volte con un impercettibile moto di esitazione, altre con una fulminea infatuazione per qualcuno o per qualcosa. Queste irruzioni improvvise sembrano di poco conto e irrazionali; si può benissimo ignorarle; eppure comunicano anche un senso di importanza, che può farci esclamare, retrospettivamente: « Il destino».

«TELOS» E TELEOLOGIA

Il fatalismo infonde l'impressione che ciò che accade nella mia vita tenda verso un fine lontano e nebuloso. C'è qualcosa in serbo per me. Sono destinato a diventare un cantante, o un torero. Sono destinato ad avere successo, o a essere maledetto, offeso, sfortunato, o a morire in un certo modo o in un certo giorno. L'immagine con la quale sono nato non soltanto mi spinge dall'inizio, ma anche mi attira verso una/ un fine.

«Teleologia» è il termine usato per indicare la convinzione che gli eventi abbiano una finalità, siano attirati da uno scopo verso un preciso fine. Telos significa «scopo, fine, adempimento ». Si contrappone a «causa» nella nostra accezione moderna. La causalità domanda: «Chi ha dato il via a questo evento?», e immagina gli eventi come sospinti da dietro, dal passato. La teleologia invece domanda: «Qual è il fine? », e concepisce gli eventi come indirizzati verso una meta. Sinonimo di teleologia è finalismo, la concezione secondo cui ciascuno di noi, e come noi l'universo stesso, muove verso una meta finale.

Questa può essere definita in molti modi: riunione con Dio e redenzione di tutti i peccati; lenta entropia che porterà alla stasi; l'evolversi inarrestabile della coscienza fino alla dissoluzione della materia nello spirito; una vita migliore, o peggiore; catastrofe apocalittica o salvazione divina. La teleologia conferisce una logica all'esistenza. Fornisce un'interpretazione razionale dello scopo a lungo termine della vita e legge qualsiasi cosa accade nella vita come una conferma di questa visione a lungo raggio: per esempio, come volontà di Dio, disegno divino.

Se però lasciamo cadere il suffisso «logia» e ci atteniamo a «telos», possiamo ritornare al suo significato originale, formulato da Aristotele: «ciò per cui ». Vado al supermercato a comperare un po' di pane e un litro di latte.

Non perché mi sia venuta la visione di un'umanità migliore; non per una precisa filosofia che governa tutte le azioni, compreso il fatto di essermi sposato e di avere avuto figli ed essermi acquistato una macchina per poter andare al supermercato a comperargli da mangiare: questo darebbe a tutti i «Perché?» un'unica e definitiva risposta teleologica. No, telos fornisce una ragione limitata, specifica per cui compio la mia azione. Si immagina, sì, uno scopo per ogni azione, ma non formula uno scopo dominante per tutto l'agire in generale; quello sarebbe teleologia o finalismo. Al telos basta dire che sono andato al supermercato per comperare la colazione per la mia famiglia. Così ci vengono risparmiati tutti i massimi sistemi circa il fare colazione: la teologia dell'accudimento, il simbolismo del pasto del mattino, l'etica del dovere, la pseudopolitica dei «valori della famiglia », la psicologia dei bisogni e dei desideri, l'economia della spesa alimentare, la fisiologia del metabolismo mattutino. Ci sono un mucchio di ideologie sul fare colazione che possono soddisfare la nostra visione teleologica della vita. Molti dèi siedono alla tavola della prima colazione. Ma il telos, lo scopo, del pane e del latte e della corsa al supermercato è soltanto quello di poter fare colazione. Prima mangiamo, poi parleremo.

La ghianda sembra seguire appunto questo schema circoscritto. Non indulge in filosofie di ampia portata. Ti fa battere il cuore, esplode in un accesso di rabbia, come nel piccolo Menuhin. Eccita, chiama, pretende; ma raramente offre uno scopo grandioso. La forza di attrazione dello scopo è intensa e improvvisa; ci si sente molto risoluti. Ma in che cosa consista esattamente lo scopo e il come arrivarci rimangono nel vago. Il telos può essere duplice a volte, o addirittura triplice, e non sapersi decidere se cantare o ballare, se scrivere o dipingere. Lo scopo di solito non si presenta come una meta nettamente inquadrata, bensÌ come un'urgenza indefinita, che turba, unita a un senso di indubbia importanza.

Due episodi dell'infanzia del regista cinematografico e teatrale svedese Ingmar Bergman mettono in risalto il determinismo indeterminato della ghianda. Da bambino, Bergman era portato a dire bugie e spesso era incapace di distinguere tra fantasia e realtà, o, come dice lui, «tra magia e pappa d'avena ». A sette anni lo portarono al circo, un avvenimento che lo precipitò «in uno stato di febbrile eccitazione ». Il momento cruciale fu quando vide «una fanciulla vestita di bianco che cavalcava intorno alla pista su un gigantesco stallone nero. « Fui preso da un amore travolgente per quella ragazza. L'avevo chiamata Esmeralda e la inserivo in tutti i miei giochi di fantasia. . . Un giorno, dopo avergli fatto giurare di mantenere il segreto, confidai al mio compagno di banco, di nome Nisse, che i miei genitori mi avevano venduto al circo Schumann e che presto avrei lasciato famiglia e scuola per essere addestrato a diventare acrobata in compagnia di Esmeralda, la quale era considerata la donna più bella del mondo. Subito il giorno dopo, la mia fantasia fu smascherata e profanata. «La mia maestra considerò l'episodio cosÌ grave da scrivere a mia madre una lettera molto preoccupata. Venni sottoposto a un tremendo processo; mi misero con le spalle al muro, e venni umiliato e svergognato pubblicamente a casa, oltre che a scuola.

«Cinquant'anni dopo, domandai a mia madre se ricordava la storia della mia vendita al circo. . . Possibile che nessuno si fosse in terrogato sulle ragioni profonde che potevano indurre un ragazzino di sette anni a desiderare di andarsene da casa? Mia madre rispose che non era la prima volta che li preoccupavo con le mie bugie e fantasie. Angosciata, si era rivolta al pediatra, il quale aveva insistito sull'importanza che i bambini imparino presto a distinguere tra fantasia e realtà. La mia insolente e lampante bugia andava punita di conseguenza. «Dell'amico traditore mi vendicai inseguendolo per tutto il cortile della scuola con il coltello da scout di mio fratello. E quando una maestra si buttò in mezzo per fermarmi, cercai di ammazzare pure lei. Così mi espulsero da scuola e mi presi una solenne battuta. Poi il falso amico si buscò la poliomielite e morì, con mia grande soddisfazione. . .

Ma non smisi di fantasticare su Esmeralda, anzi le nostre avventure diventarono sempre più pericolose e il nostro amore sempre più appassionato ». Questo episodio è così denso di elementi: c'è la disperata importanza di trovare un luogo concreto (il circo) in cui i due regni, magia e realtà, possano fondersi; c'è il primo incontro con Anima, la fanciulla bianca sul cavallo nero, e con la follia amorosa (la visione romantica è fuori dal tempo, sicché l'età di Ingmar non ha importanza rispetto all'eternità dell'emozione archetipica); ci sono il rischio di vita e di morte, la sensazione di essere disposti a uccidere o a morire per la propria visione; le contromisure disciplinari del mondo «reale» di insegnanti, dottori, genitori; il valore del «segreto» e la tragedia cosmica del tradimento che separa violentemente fantasia e realtà, cielo e terra, le Esmeralde e le pappe di avena.

Benché l'episodio riverberi di cose importanti e rechi tracce del carattere e della vocazione di Bergman, non lascia intravedere preannunci della sua futura carriera, non contiene messaggi. Insomma, non c'è teleologia, non c'è determinismo, non c'è fatalismo.

Il secondo racconto, più direttamente connesso con la vocazione di Bergman, riguarda il cinema. «Più di tutto, desideravo un proiettore cinematografico. L'anno precedente, mi avevano portato al cinema per la prima volta, a vedere un film intitolato Black Beauty, mi pare. . . Tutto è cominciato di lì. Mi prese una febbre, che non mi ha più lasciato. Quelle ombre mute, con le loro facce pallide, guardavano me e parlavano con voce inudibile ai miei sentimenti più intimi. Sono passati sessant'anni, e nulla è cambiato: ho ancora quella febbre». Il Natale seguente: «La distribuzione dei doni di Natale si faceva davanti alla tavola imbandita. Furono portate le ceste piene di regali, mio padre, sigaro in bocca, bicchierino di rosolio davanti, era l'officiante; incominciò la distribuzione. . . Fu allora che scoppiò il dramma del proiettore.

L'avevano regalato a mio fratello. «Lanciai un urlo straziante. Come una furia, mi gettai sotto il tavolo, dove continuai a imperversare, finché non mi imposero di smetterla. Allora mi precipitai di sopra, in camera dei bambini, bestemmiando e imprecando, meditando la fuga, finché, esausto per il dolore, mi addormentai. Mi risvegliai verso sera. . . Sul tavolino bianco pieghevole, tra gli altri regali di mio fratello, stava il proiettore, con lo sfiatatoio ricurvo, le bellissime lenti di ottone, la ruota dentata per la pellicola. In un lampo, presi una decisione: svegliai mio fratello e gli proposi un affare. Gli offersi i miei cento soldatini di latta in cambio del proiettore. Poiché Dag possedeva un nutrito esercito e giocava sempre alla guerra con i suoi amici, l'accordo fu presto raggiunto con piena soddisfazione di entrambi. « Il proiettore era mio. . .

L'apparecchio includeva anche una scatola quadrata color viola contenente alcune lastre fotografiche di vetro e una piccola bobina di pellicola da 35 mm color seppia. . . La scritta sul coperchio spiegava che il titolo del film era "La signora Holle". Chi fosse questa signora Holle, nessuno lo sapeva, ma anni dopo scopersi che era un personaggio del folklore nordico, l'equivalente della Dea dell'amore dei paesi mediterranei. La mattina dopo, mi chiusi nello spazioso guardaroba dei bambini, collocai il proiettore su una scatola dello zucchero, accesi la lampada a petrolio e diressi il raggio di luce sulla parete imbiancata a calce . . .

Sul muro, apparve l'immagine di un prato. In mezzo al prato, addormentata, giaceva una fanciulla con indosso una specie di costume nazionale. Incominciai a girare la manovella! Impossibile descrivere quello che seguì: non trovo le parole per esprimere la mia eccitazione. Ma ancor oggi posso, in qualunque momento, rievocare il puzzo di metallo surriscaldato, l'odore di naftalina e di polvere, la sensazione della manovella nella mia mano. Rivedo il rettangolo tremolante sulla parete. «Girai la manovella e la ragazza si svegliò, si mise seduta, poi, lentamente, in piedi, stirò le braccia, mi volse le spalle e scomparve sulla destra. Se avessi continuato a girare la manovella, la ragazza sarebbe tornata a sdraiarsi sul prato, avrebbe rifatto gli stessi gesti tutte le volte che volevo. «Si muoveva ».

La storia del proiettore di Bergman chiarisce la differenza tra causalità (l'essere sospinti da dietro, dal passato) e teleologia (l'essere attirati verso una meta). Alla domanda sul perché quel ragazzino desiderasse così disperatamente il proiettore da essere disposto a cedere un intero esercito pur di averlo, la causalità risponde: «Ne aveva visto uno in precedenza ed era curioso. Quando suo fratello lo ricevette in regalo, la rivalità fraterna, risalente alla prima infanzia e all'ordine di nascita, fece esplodere l'invidia. Prima ancora, c'era stato l'episodio del circo con il suo cavallo nero, poi riecheggiato nel puledro nero del primo film che Bergman ricorda, in cui viene prefigurata la liberazione ("essere venduto al circo" come forma passiva di "scappare di casa") dall 'atmosfera moralistica e oppressiva della famiglia di suo padre pastore.

Oppure il piccolo Bergman desiderava il potere sopra la madre, sopra la Donna, da fare muovere quando voleva, semplicemente girando una manovella». La causalità, ovvero ciò che la filosofia classica (aristotelica) chiamava «causa efficiente», cerca di rispondere alla domanda: «Che cosa ha dato inizio a quel movimento?», risalendo all'indietro attraverso una serie di nessi ipotetici, una catena di eventi che si presumono collegati e messi in moto ciascuno da quello precedente. Ammettiamo pure che tutti gli anelli siano davvero collegati, e che ciascuno spinga il successivo come in una fantastica macchina di Rube Goldberg; il primissimo anello è comunque sospeso a quella che rimane una pura congettura: perché l'immagine di un cavallo nero e non un'altra, perché l'affascinante Esmeralda, perché il circo?

A che cosa è collegata quella prima, spontanea, indimenticata passione?Risposta (per noi): chiediamolo al destino. E il destino risponde così: Ingmar Bergman, regista cinematografico in nuce, ha avuto la sua visione all'età di sette anni, se non prima. Non lo sapeva, non poteva prevederlo, ma un daimon aveva scelto gli eventi che resero Esmeralda così irresistibile e in seguito così necessario il proiettore. Non che il destino avesse in mente un piano teleologico o la meta finale diIl settimo sigillo oIl flauto magico.

Tuttavia, è la visione destinale del daimon a infondere a quei particolari eventi un senso di importanza emotiva; di lì la febbre, l'eccitazione, le parolacce. Non il suggello definitivo del destino, ma un annuncio.

Lasciatemi chiarire ancora una volta la distinzione tra l'idea circoscritta di telos e l'ampia categoria di teleologia; se non altro, perché mentre la prima è utile, la seconda di solito non lo è. L'idea di telos conferisce valore a ciò che accade, perché considera ciascun evento come dotato di uno scopo. Le cose avvengono per un qualcosa. Hanno un'intenzionalità.

Il ragazzino Ingmar non inventava bugie per caso; le sue storie si indirizzavano verso uno stile di vita e una carriera in cui le «bugie» non solo hanno senso, ma sono necessarie all'illusione propria di quel lavoro. Prima ancora di avere a disposizione un palcoscenico o una sceneggiatura, Bergman stava già facendo teatro, nella vita. Il guardare gli eventi della sua infanzia attraverso le lenti del telos li trasforma da mere bugie e capricci e pensieri ossessivi in espressioni delle Necessità della sua anima.

Telos conferisce un valore agli eventi. Ma basta aggiungere il suffisso «logia », e subito quel valore acquista un nome. Viene detto qual è l'intenzione del capriccio e dell'ossessione. La teleologia osa pronunciare il nome dello scopo.

C'è una grande presunzione in simili predizioni, perché le bugie di Bergman potrebbero rientrare anche nel modello del falsario, del « creativo» della pubblicità. Il cavallo nero avrebbe potuto portarlo in molte direzioni; Esmeralda, la signora Holle e l'immagine in bianco e nero sul prato avrebbero potuto significare fare il pittore o il lenone, il disegnatore di moda o il travestito. Il definire lo scopo come se una precisa finalità teleologica attirasse Bergman a sé «( Sei destinato a fare teatro, le donne avranno un ruolo decisivo, la fantasia è il tuo mestiere, sarai tu a muovere le fila») è pura presunzione. E una mutilazione, anche. Perché, se sai già quale sia lo scopo di un sintomo, derubi il sintomo delle sue peculiari intenzioni. Perdi rispetto per il suo autonomo scopo e in questo modo ne sminuisci il valore.

Il sistema teorico di Freud era perfettamente in grado di dichiarare che cosa ci fosse dietro alle ossessioni infantili, eppure Freud diceva che la pratica della psicoanalisi richiede di celare, astenersi, mantenere il riserbo. Freud non permise alla pratica della psicoanalisi di diventare teleologica, benché pensasse che tutti i fenomeni in atto nell'analisi avessero un telos.

La ghianda non si comporta tanto come una guida personale, quanto piuttosto come uno stile mobile, una dinamica interna che conferisce alle occasioni il sentimento che abbiano uno scopo; di lì quel senso di importanza: questo momento, apparentemente banale, è significativo, mentre quell'evento apparentemente importante, non conta poi molto. Ecco, diciamo che alla ghianda interessa di più l'aspetto animico degli eventi, è più attenta a ciò che fa bene all'anima che a ciò che noi pensiamo faccia bene a noi stessi. Si spiega, allora, perché il daimon di Socrate lo esortasse a non sottrarsi alla prigione e alla condanna a morte. Quella morte faceva parte dell'integrità della sua immagine, della sua forma innata. Una morte – nell'arena, al gabinetto, in un incidente d'auto, non importa – può avere senso rispetto all'immagine e alla sua traiettoria, anche se non ne ha per noi e per i nostri progetti.

GLI ACCIDENTI

Seguire la traiettoria con dedizione è abbastanza facile. Il più delle volte lo sentiamo, quello che dobbiamo fare. L'immagine del cuore può avanzare forti pretese e chiederci di essere fedeli. Il difficile è dare un senso agli accidenti, a quelle banali folate di vento che ci fanno deviare dalla rotta e sembrano ritardare il progettato approdo nel porto teleologico.

Le folate che ci trattengono sono diversivi? O hanno, ciascuna, il proprio particolare scopo? Contribuiscono, prese tutte insieme, a far avanzare la barca, magari verso un altro porto? Se la nostra bussola è puntata troppo fissamente sul lontano orizzonte e se la nostra visione teleologica sa esattamente dove dovremmo andare e come fare per arrivarci e dove ci troviamo ora, non riusciremo a scoprire alcun senso negli accidenti avversi.

Dirò di più: ciò che conta non è tanto stabilire se un'interferenza abbia o no uno scopo; è importante, piuttosto, guardare con occhio sensibile allo scopo e cercare il valore nell'imprevisto. L'occhio sensibile allo scopo parte dal presupposto che gli eventi possono effettivamente essere accidenti. Il mondo è governato dalla follia non meno che dalla saggezza, dal caos non meno che dall'ordine. E' altrettanto fatalistico e teleologico il credere nella casualità del cosmo quanto lo è il credere in un disegno cosmico.

L'occhio sensibile allo scopo si limita a scrutare ciascun «accidente», come vengono chiamati questi eventi, per leggervi ciò che esso dice di sé. Perché l'anima vuole accomodarlo dentro la sua forma.

Bette Davis in collegio, età sette o otto anni, impersona Babbo Natale. Sull'albero ardono candeline vere, sotto ci sono i regali. Mentre allunga la mano per toccarli, la sua manica sfiora una candela. In un attimo, il fuoco, attraverso il costume, arriva alla barba di bambagia. «Di colpo, fui avvolta dalle fiamme. Mi misi a strillare dal terrore. Udii delle voci, sentii delle mani che mi avvolgevano in una coperta . . . Quando poi me la tolsero, decisi di tenere gli occhi chiusi. Quando si nasce attrici! Avrei fatto credere di essere cieca. "Gli occhi!"

Mi sentii percorrere da un brivido di piacere. Ero perfettamente padrona della situazione ». La scena dell'incendio non era stata allestita dalla ghianda, ma Bette Davis riuscì a trasformarla in un pezzo di teatro. La forma innata di una persona incorpora in sé gli accidenti. Il carattere è il destino.

Prendiamo adesso l'infanzia di due grandi cuochi. Pierre Franey, nel paesino della Borgogna dove era nato, era solito catturare le trote a mani nude, poi se le mangiava appena scottate con una maionese alle erbe aromatiche; allevava conigli, ammazzava lui stesso i polli; esplorava i prati il mattino presto in cerca delle montagnole di terra lasciate dalle talpe, perché le foglie del tarassaco, così imbianchite lì sotto, erano più dolci.

Crebbe, insomma, «in intimo rapporto con il cibo che mangiavamo ». Sono accidenti grezzi quali dovevano capitare a qualsiasi ragazzotto del paese, ma l'immagine di Franey li cucina al modo raffinato del cuoco di professione. ]ames Beard, cuoco, consulente di cuochi, scrittore di libri di cucina, supremo gourmet, era nato che pesava quasi sette chili (alla madre quarantenne sarà venuto un accidente nel partorirlo!).

E’ come se il corpo natale di Beard fosse stato scelto dalla sua anima per incorporare appieno i gusti e gli aromi che dovevano costituire il suo genere di vita. Il suo primo «accidente » fu anche la scena della sua «prima avventura gastronomica. Mentre andavo in giro gattoni, capitai vicino alla cesta delle verdure, scelsi una cipolla gigante e me la mangiai, buccia e tutto. Credo che questo mi abbia segnato per la vita».

Franey e Beard: due esempi di come il dai mon utilizza le situazioni accidentali. A diciotto anni, Churchill, giocando a fare l'eroe, si ferì alla testa e si lese un rene. «Durante la convalescenza trovò se stesso, dal punto di vista intellettuale». 12 La forma non solo integra la caduta, ma se ne nutre. Mentre era in collegio, il fratello maggiore di James Barrie batté la testa pattinando sul ghiaccio e morì.

La madre si ammalò per il dolore e rimase chiusa in camera per anni a piangere la perdita del figlio prediletto. Il piccolo Jamie (aveva sei o sette anni all'epoca) le teneva compagnia e si sforzava di farla ridere; madre e figlio si raccontavano storie a vicenda, lei di tipo biografico, lui di fantasia. La ghianda aveva dato forma all'incidente, al dolore e all'isolamento secondo l'immagine di J. M. Barrie, scrittore di avventure fantastiche.

L'incidente che rese il disegnatore e umorista James Thurber cieco da un occhio, e alla fine anche dall'altro, quando era ancora ragazzino (il fratello l'aveva colpito con una freccia) non stabilì la rotta della sua vita né la arrestò. La forma trova uno scopo e si piega ad accomodarlo dentro di sé, come le precoci doti di scrittore di Thurber, come «il tratto ingenuo» 14 delle sue vignette fuori misura, dalla strana scala e prospettiva.

Il presidente Nixon aveva una particolare passione per Tom Sawyer. Non è affatto insolito trovare quel libro citato fra le letture infantili degli americani, e Nixon aveva fin da ragazzo una grande passione perla lettura e la scrittura. «Gli piaceva soprattutto l' episodio in cui Tom convince Ben Rogers a dipingere al posto suo lo steccato, al punto che l'aveva imparato a memoria. A distanza di quasi cinquant'anni [alla CasaBianca] . . . sapeva recitare tutto il brano senza un errore » . Piccole (?) cose accidentali, che ci portiamo dietro dall'infanzia e che ricevono significato dall'anima.

La famosa stilista Coco Chanel, che nel 1924 inventò il « piccolo abito nero " dalla forma essenziale,trascorse l'adolescenza in un rigido orfanotrofio di monache. Fu una vera prigione per lei, tanto che volle eliminare dai documenti e dalle sue memorie ogni traccia di quel luogo e di quegli anni. «Non mi chieda che cosa provo . . . Si può morire più volte, durante la vita » ebbe a dire in un'intervista.

Ma l'austerità classica dei suoi modelli, la loro simmetrica perfezione, l'uso costante di neri, bianchi e grigi riproducono, nonostante la cancellazione dalle memorie, gli «accidenti " rimossi. Ciò che le serve, l'anima lo usa. Sono strabilianti, anzi, la saggezza e il senso pratico che essa dimostra nell'utilizzare accidenti e disgrazie. Saggezza in greco era sophia «< filo-sofia » è dunque l'amore per la saggezza) e aveva un significato molto pratico, riferito in origine alle arti che richiedono destrezza manuale, in particolare all 'arte del timoniere.

La saggezza del timoniere si manifesta nell'arte di compiere minimi aggiustamenti con la barra del timone,in accordo con le variazioni accidentali delle onde,del vento, del carico. Il daimon, facendo costantemente la stima di eventi che sembrerebbero farci deviare dalla nostra rotta, insegna appunto questo tipo di saggezza. Che è anche filosofia: amore per le piccole correzioni, per le minime integrazioni di cose che a prima vista sembrerebbero non entrarci.

Taluni filosofi chiamano tale attenzione al singolo evento «salvare il fenomeno », salvarlo, cioè, dalle traiettorie metafisiche delle teorie. Questi movimenti accidentali né ostacolano né promuovono il progetto principale. Piuttosto, ne correggono la forma, come se la rotta e la barca stessa fossero ristrutturate dalle risposte dell'anima agli eventi della vita. Esiste un'arte del crescere, cioè discendere; è la saggezza di osservare le cose con un occhio ai loro effetti. L'idea di continui aggiustamenti e movimenti non è né nuova né strana.

Già in Aristotele l'anima era concepita insieme come la forma e il motore dei corpi. La forma, che è data dall'inizio come immagine della parte assegnataci, si sposta via via che noi ci muoviamo. Questa forma (alla quale stiamo dando molti nomi intercambiabili: immagine, daimon, vocazione,angelo, cuore, ghianda, anima, modello, carattere) rimane fedele alla sua forma.

Ci sono accidenti che travolgono la barca, scompaginano la forma. Per esempio, gli shock da bombardamento,come venivano chiamate le psicosi traumatiche rilevate durante la prima guerra mondiale; gli stupri sotto minaccia fisica; gli scontri ad alta velocità; la crudeltà ricorrente e violenta.

Eppure, alcune anime sembrano assumerseli e addirittura collaborare con essi, mentre altre vi rimangono fissate, impastoiate,e si dibattono nel vano tentativo di trovarvi un senso,come si osserva negli incubi ricorrenti dei veterani del Vietnam.

Viene da chiedersi: la ghianda è stata dunque così deteriorata da questi accidenti che la sua forma rimane incurabilmente lesa, una Gestalt che non può chiudersi, un timone irrimediabilmente spezzato, che non risponde più alle sterzate del timoniere?

Il fatalismo risponde: Tutto è nelle mani degli dèi. Il finalismo teleologico aggiunge: Tutto ha un fine nascosto e fa parte del tuo sviluppo.

L'Eroe dice: Occorre integrare l'Ombra oppure ucciderla; lasciati alle spalle la tragedia, la vita deve continuare. In ciascuna di queste risposte, l'accidentale, come categoria, si dissolve, assorbito nella filosofia più vasta del fatalismo, del finalismo, dell'eroismo. Io dico che è meglio mantenerlo come un'autentica categoria dell' esistenza, che obbliga a riflettere su di essa. Un grave incidente esige risposte. Che cosa significa, perché è accaduto, che cosa vuole?

Questo aggiornare continuamente le nostre valutazioni è come le scosse di assestamento dopo un terremoto. Può darsi che l'incidente non sarà mai integrato, però potrebbe rafforzare l'integrità della forma dell'anima, aggiungendovi perplessità, sensibilità, vulnerabilità e tessuto cicatriziale.

La teoria evolutiva considera gli incidenti accaduti a Churchill, a Chanel, a Thurber, a Barrie come i tipici traumi giovanili, che con l'andar del tempo possono essere sublimati, trasformati e integrati. Il Tempo guarisce tutte le ferite.

La teoria della ghianda dice più semplicemente che la caduta di Churchill, la perdita dell'occhio di Thurber, il lutto della madre di Barrie e l'adolescenza monastica di Coco Chanel appartengono coerentemente alla loro ghianda. Non nel senso che quegli accidenti giovanili fossero predetti dalla ghianda come iscritti in un disegno divino, né che siano stati determinanti per la successiva carriera, incanalandola a forza in un percorso definito.

Piuttosto, sono stati« accidenti necessari », necessari e accidentali insieme. Sono stati gli strumenti per far emergere la vocazione, modi in cui la ghianda ha espresso la propria forma e ha dato forma alla loro vita. Nel caso di Churchill c'erano voluti un trauma improvviso e una lenta convalescenza; in quelli di Barrie e di Chanel una lunga segregazione. In quell'orfanotrofio, Chanel imparava la disciplina, e anche Barrie, raccontando storie alla madre inferma, stava facendo il suo tirocinio; mentre la forma interiore di Nixon aveva scelto l'esempio, per lei più utile, dell'abilità di Tom Sawyer nel manipolare il prossimo.

NECESSITÀ

E ora, l'ultimo pezzo grosso, il personaggio che Platone colloca nel punto centrale del suo mito: Necessità, colei che ruota il fuso sul quale è avvolto il filo della nostra vita. Ricordate il racconto? La dea Ananke, o Necessità, siede sul trono, circondata dalle Moire, sue figlie, compagne e aiutanti. Ma è lei, Ananke, a stabilire che la sorte scelta dall'anima è necessaria: non un accidente, non buona o cattiva, non già nota né garantita, semplicemente necessaria.

Ciò che viviamo è necessario che lo viviamo. Necessario per chi? Per che cosa? Per lei, la dea Necessità. E necessario perché è necessario?

Ma questa non è una risposta. Dovremo rifletterci sopra. Chi e che cosa è Ananke? In primo luogo, è tra le più potenti potenze del cosmo: Platone cita soltanto due grandi forze cosmiche: Ragione (nous, la mente) e Necessità (Ananke).

Ragione risponde per ciò che possiamo comprendere, ciò che segue le leggi e gli schemi dell'intelletto. Necessità opera come una causa« mutevole » o, come si traduce a volte, come causa «errante» o «erratica ». Quando una cosa non combacia, sembra fuori posto o strana, rompe lo schema consueto, allora più probabilmente lì c'è la mano di Necessità. Pur determinando la sorte che viviamo, i modi in cui esercita la sua influenza sono irrazionali. Ecco perché è così difficile comprendere la vita, perfino la propria.

La sorte della mia anima deriva dal principio irrazionale. La legge che l'anima segue è quella di Necessità, che è erratica. Non stupisce che noi lettori si sia attratti dalle biografie e dalle autobiografie: perché in esse si può intravedere come agisce nella vita umana l'irrazionale Necessità.

Ma benché il dominio di Necessità sia assoluto e irreversibile, il suo determinismo è indeterminato. Imprevedibile. Abbiamo già incontrato in molti dei capitoli precedenti questa idea di una causa irrazionale: le spiegazioni genetiche fondate sulla teoria del caos (capitoloVI), i ragazzini che svicolano nei territori fantastici dei fumetti e della letteratura di appendice (capitoloVII); il «qualcos'altro» che irrompe nelle intenzioni, come quando di punto in bianco Ella Fitzgerald si mette a cantare benché fosse salita sul palco per danzare, o come quando Barbara McClintock dimentica il proprio nome.

E abbiamo visto la causa erratica all'opera in molti casi di rifiuto della scuola e di espulsioni, e nell'improvvisa percezione da parte del mentore della bellezza e delle potenzialità dell'allievo (capitoloV). Anzi, lungo tutte queste pagine, non abbiamo fatto altro che seguire l'itinerario tortuoso di Necessità, osservando il suo modo di operare e avvertendo il suo inesplicabile e innegabile potere. Tale innegabile potere è reso visibile dalle immagini antiche e confermato ulteriormente dall'etimologiadella parola Ananke.

Essa deriva da un'antica radice semitica riconoscibile nei termini usati, per esempio nell'antico egizio, nell'accadico, nell'aramaico e nell'ebraico per significare «angusto », «gola», «costringere», «strangolare», o per indicare il giogo dei buoi e il collare degli schiavi.

Ananke ci stringe alla gola, ci tiene prigionieri, ci trascina come schiavi. Esiste un rimando reciproco tra immagini mitologiche e patologie. Lo ha detto chiaramente Jung: «Gli Dei sono diventati malattie ». In nessun altro caso il dio che è nella malattia si manifesta con maggior forza e trasparenza che nella dolorosa costrizione al petto dell'angina pectoris e negli stati di angoscia che ci paralizzano. E anche «angina» e «angoscia » vengono da Ananke. Insomma, non si può sfuggire alla Necessità.

Necessità non vuole cedere, non può sottomettersi: ne cedere.

Così Kant definisce l'equivalente tedesco di Necessità, Notwendigkeit: «ciò che non potrebbe essere altrimenti». A questo punto, diventa straordinariamente facile comprendere la nostra vita: comunque siamo, non potevamo essere altrimenti. Niente rimpianti, niente strade sbagliate, niente veri errori. L'occhio della Necessità svela che ciò che facciamo è soltanto ciò che poteva essere.

Dice T. S. Eliot: «"Ciò che poteva essere" è un'astrazione / Che resta una possibilità perpetua/ Solo nel mondo delle ipotesi. / Ciò che poteva essere e ciò che è stato / Tendono a un solo fine, che è sempre presente ».

Mentre eseguiamo un'azione, mentre compiamo una scelta, noi siamo convinti che vi siano delle opzioni. Opzioni, Soggetto agente, Scelte, Decisioni: sono gli slogan di cui si nutre 1'IO. Ma se alziamo per un attimo gli occhi dall'azione in cui siamo impegnati e ci fermiamo a riflettere, ecco l'implacabile sorriso di Necessità a dirci che, qualunque scelta compiamo, è esattamente la scelta richiesta da lei. Non poteva essere altrimenti.

Nell'istante in cui la decisione accade, essa è necessaria. Prima della decisione, tutto è ancora aperto davanti a noi. Perciò, assurdamente, Necessità si fa garante solo del rischio: in ciascuna decisione rischiamo tutto, anche se poi ciò che alla fine viene deciso diventa immediatamente necessario.

Sostenendo che Necessità ha messo mano in tutti i momenti decisivi della mia vita, posso giustificare qualsiasi cosa io faccio. Parrebbe che sia possibile sfilarci di dosso le briglie della responsabilità: lo dicono le carte, sta scritto nelle stelle. Tuttavia, questa inflessibile dea dominatrice riesce a farmi venire un tremito su ogni decisione che prendo, perché non c'è prevedibilità nella sua erratica irrazionalità.

Solo conil senno di poi posso trovare la certezza e dire che era tutto necessario. Che cosa curiosa: la vita può essere preordinata, ma non prevista. E gli errori, allora, dove sono? Com'è che possiamo sbagliarci, perché ci sentiamo in colpa? Se tutto ciò che accade è necessario, come mai il rimorso?

Dal momento che la Necessità incorpora come necessaria qualsiasi decisione io prenda, allora la Necessità va immaginata come un principio inclusivo che riaggiusta l'immagine di ciascuna vita in modo da includervi tutte le azioni di quella vita, una per volta,quali che siano. Abbiamo sempre addosso il collare, ma il collare è adattabile. E’ il giogo di Necessità che produce la familiare sensazione di essere comunque incastrati, comunque vittime delle circostanze, anelanti alla liberazione.

So bene che ciò che doveva essere doveva essere, eppure, ciò nonostante, provo rimorso. Necessità dice che anche il rimorso è necessario,come sentimento, fa parte del mio giogo, ma non si riferisce a ciò che in pratica avrei potuto o dovuto fare di diverso. Interpretare in questa maniera la Necessità rende i nostri errori qualcosa di profondamente tragico invece che peccati di cui pentirci o accidenti a cui rimediare. Le cose non possono, non avrebbero potuto essere altrimenti.

Inesorabilmente, tutto si tiene, errori fatali compresi, e il corso della Necessità prosegue sino in fondo, finché le corna del toro trovano la tua pancia. Occorre un cuore grande per accettare il collare che strangola. Il più delle volte, noi rifiutiamo gli assurdi, irrazionali eventi che ci capitano addosso. Il più delle volte,cerchiamo di ignorare le interferenze; finché il cuore non attira la nostra attenzione su di esse, suggerendo che forse sono importanti, forse sono necessarie. L'intelletto è l'ultima facoltà ad arrendersi; di solito inizia un tiro alla fune tra la chiamata del cuore e il piano della mente, si crea dentro ciascun essere umano un conflitto che ripropone i due principi platonici, nous e ananke, la ragione e l'irragionevole Necessità.

Beninteso, la mente può procrastinare la chiamata, reprimerla, tradirla. Non saremo necessariamente puniti e dannati per questo. Il daimon non è necessariamente un demonio che incalza, un segugio del paradiso cristiano.

Vendetta non è una delle figlie di Necessità. Anzi, la Necessità si riferisce soltanto a ciò che non poteva essere altrimenti, o a ciò da cui non potevamo fuggire. E fuggire non è un peccato, perché Necessità non è una moralista. La fuga potrebbe fare parte del destino della mia anima e della sua immagine tanto quanto potrebbe farne parte l'affrontare il pericolo e offrire il petto alle frecce.

Sulla fuga Harry Houdini costruì la sua carriera. Era la sua vocazione. «Inventava di continuo» la propria vita, sfuggendo così alla prigione della «verità pedantesca». Riusciva a tirarsi fuori da qualsiasi trappola gli ponessero davanti, comprese quelle dei dati anagrafici- tipo: luogo di nascita (il Wisconsin o l'Ungheria?); data di nascita (24 marzo o 6 aprile?); nome di battesimo (Ehrich o Erik?); e da ultimo anche il cognome (Weiss), che cambiò in quello, inventato, di «Houdini »dopo avere letto a diciassette anni la vita di Robert Houdin, un famoso mago francese dell'Ottocento. Houdini non fece che sconfiggere la Necessità, usando ogni possibile trucco mercuriale. Povertà, Disoccupazione, Pregiudizio, Insuccesso: nessuna di queste meschine divinità poté trattenerlo. Non c'era camicia di forza, cella di prigione, camera blindata da cui non riuscisse a liberarsi; l'impresa che più esaltò il suo pubblico fu quando si fece chiudere ermeticamente, legato e incatenato, in un baule di metallo calato in acque ghiacciate, e poi si liberò e risalì in superficie.

Sfuggì a tutte le bare del mondo esterno, per soccombere senza scampo alla morte che andava lentamente preparandosi nel suo robusto corpo muscoloso sotto forma di appendicite cronica, diventata un giorno peritonite. Non assomiglia, la storia di Houdini, a quella di Manolete, e di ciascuno di noi? L'occhio della ghianda legge la storia a ritroso. Come c'era un toro in attesa per Manolete, così per Houdini era in attesa l'infiammazione all'appendice, una Necessità ineludibile, data a lui insieme con la sua ghianda, un'ombra proiettata sopra gli sforzi fuori della norma e le strabilianti imprese della sua lotta eroica: solo all'ultimo, sul letto di morte, Houdini disse alla moglie: «Incomincio a essere stanco, non ce la faccio più a lottare».

Perfino l'artista della fuga si scontra con la Necessità. Le catene di Ananke sono al tempo stesso visibili e invisibili. Quando il «ciò che non poteva essere altrimenti» accade, la spiegazione più plausibile su come funziona la vita e sul perché le cose accadono nel modo in cui accadono è la teoria della ghianda.

Più ti mantieni fedele al tuo daimon, più sei vicino alla morte che appartiene al tuo destino. Ci aspettiamo che il daimon abbia prescienza della morte, che la evochi prima di un viaggio aereo o durante una malattia improvvisa. E’ questo il mio destino, la mia ora? E quando le pretese della nostra vocazione sembrano innegabilmente necessarie, di nuovo compare la morte: «Se faccio quello che assolutamente devo fare, ne rimarrò ucciso; ma se non lo faccio, ne morirò».

Essere o non essere la mia vocazione: sempre e ogni volta, questa è la domanda. Forse è appunto questa intimità fra vocazione e destino la ragione per cui evitiamo il daimon e la teoria che ne sostiene l'importanza. Preferiamo inventare e professare teorie che ci leghino strettamente ai poteri dei genitori, che ci appesantiscano di condizionamenti sociali e di determinanti genetiche; in tal modo possiamo eludere il dato di fatto che queste profonde influenze sul destino sono niente di fronte al potere della morte. La morte è l'unica Necessità assoluta, la Necessità archetipica che governa il disegno creato dal filo della vita che essa, insieme alle sue figlie, le Parche,volge sul fuso. La lunghezza del filo e l'irreversibilità del suo moto sono parte di un unico e medesimo disegno; e non potrebbe essere altrimenti.


James Hillman

Il codice dell’anima

Carattere, vocazione, destino 
Traduzione di Adriana Bottini
gli Adelphi 2009, 7ª ediz., pp. 409isbn: 9788845923630