Si può essere umani anche in mezzo a una battaglia

La battaglia di Nikolaevka fu combattuta il 26 gennaio del 1943 dalla divisione alpina Tridentina, l'unica che aveva conservato un minimo di efficienza in mezzo alla tragedia,  per consentire ai soldati dell’ARMIR di uscire dalla sacca in cui li aveva chiusi l’Armata Rossa dopo la battaglia per Stalingrado e cercare di portare a casa la pelle in mezzo al gelo.

Tra gli eroi e i sopravvissuti di quella battaglia ci fu il sergente maggiore Mario Rigoni Stern che comandava un plotone di mitraglieri del battaglione Vestone.

Dovendo partecipare alla giuria per una gara di lettura e comprensione dei ragazzini delle elementari e delle medie di Monticiano su testi di costume montanaro (tratti dal bosco degli urogalli) ho deciso di fare un approfondimento incominciando con il primo romanzo Il sergente della neve.

La lettura merita. Confermo che è esistito un esercito di Italiani brava gente, almeno tra gli alpini. Sulla tragedia dell’ARMIR avevo già letto la testimonianza di Eugenio Corti (in Il cavallo rosso) e il libro di Rigoni Stern (una persona molto diversa da Corti per tipo di background culturale) mi ha impressionato sia sul piano letterario sia per l’umanità e il carattere del protagonista che racconta di sè. Certo è anche esistita una storia di infamie condotta dal nostro esercito e il cui culmine è stato toccato in Libia e in Etiopia. Ne parlerò recensendo il libro di Del Boca.

Il romanzo autobiografico di Rigoni è diviso in due parti: una più breve dedicata all'autunno inverno del 42 nelle tane sulle rive del Don gelato e una più corposa che descrive la grande marcia per tentare di tornare a baita.

Verso la fine, si incontra questo brano che vi propongo. E' importante perché è vero e perché il romanzo, uscito nel 1953 è stato largamente scritto tra il 43 e il 45, come si dice, a botta calda.


Corro e busso alla porta di un'isba. Entro. Vi sono dei soldati russi, là. Dei prigionieri?

No. Sono armati. Con la stella rossa sul berretto! Io ho in mano il fucile. Li guardo impietrito. Essi stanno mangiando attorno alla tavola. Prendono il cibo con il cucchiaio di legno da una zuppiera comune. E mi guardano con i cucchiai sospesi a mezz'aria. «Mnié khocetsia iestj» dico.

Vi sono anche delle donne. Una prende un piatto, lo riempie di latte e miglio con un mestolo, dalla zuppiera di tutti, e me lo porge. Io faccio un passo avanti, mi metto il fucile in spalla e mangio. Il tempo non esiste più. I soldati russi mi guardano. Le donne mi guardano. I bambini mi guardano. Nessuno fiata. C'è solo il rumore del mio cucchiaio nel piatto. E d'ogni mia boccata. «Spaziba» dico quando ho finito. E la donna prende dalle mie mani il piatto vuoto. «Pasausta» mi risponde: con semplicità.

I soldati russi mi guardano uscire senza che si siano mossi. Nel vano dell'ingresso vi sono delle arnie. La donna che mi ha dato la minestra è venuta con me come per aprirmi la porta e io le chiedo a gesti di darmi un favo di miele per i miei compagni. La donna mi dà il favo e io esco.

Così è successo questo fatto. Ora non lo trovo affatto strano, a pensarvi, ma naturale di quella  naturalezza che una volta dev'esserci stata tra gli uomini. Dopo la prima sorpresa tutt i miei gesti furono naturali, non sentivo nessun timore, né alcun desiderio di difendermi o di offendere. Era una cosa molto semplice: Anche i russi erano come me, lo sentivo. In quell’Isba si era creata tra me e i soldati russi, e le donne con i bambini un'armonia che non era un armistizio.

Era qualcosa di molto più del rispetto che gli animali della foresta hanno l'uno per l'altro. Una volta tanto le circostanze avevano portato degli uomini a saper restare uomini. Chissà dove saranno ora quei soldati, quelle donne, quei bambini. io spero che la Guerra li abbia risparmiati tutti, Finché saremo vivi ci ricorderemo, tutti quanti eravamo, come ci siamo comportati. I bambini specialmente. Se questo è successo una volta potrà tornare a succedere. Potrà succedere, voglio dire, a innumerevoli altri uomini e diventare un costume, un modo di vivere.


Sono cose che scrive un militare del 1921 partito volontario nel 1938 per andare alla scuola alpina di Aosta e che poi si è fatto la Francia, la Grecia, l'Albania e per finire la Russia. Si può essere in armonia tra gli uomini.