Giorno del ricordo – L’esodo di Arrigo Petacco – recensione

Domani, 10 febbraio, in base ad una legge del 2004 voluta dalla destra e alla fine approvata da quasi tutti, è il Giorno del ricordo. Il ricordo è quello delle tragedie e poi dell'esodo dei nostri connazionali vissuti nella regione giuliana e in Dalmazia. La vicenda giuliana è stata una vicenda di pulizia etnica condotta da popolazioni slave balcaniche che hanno poi dato largamente prova della propria inciviltà nel momento in cui lo stato Jugoslavo, inventato a inizio 900 dagli europei e costruito poi da Josif Broz (il maresciallo Tito), si disgregò finendo in una miriade di guerre civili di tutti contro tutti.

Per l'occasione mi sono riletto L'esodo (la tragedia negata degli italiani d'Istria, Dalmazia e Venezia Giulia, di Arrigo Petacco (edizioni Mondadori, 10 €, disponibile anche in e-book) e dalla rilettura, dalle conoscenze sulla civilizzazione veneziana dell'est adriatico nel secondo millennio e dalla visione della carta geografica mi sono detto: poveri noi, popolo destinato alla sconfitta e a far la parte di chi abbozza. In apertura viene riportata una citazione di Mussolini probabilmente pensata per qualcosa d'altro, ma quanto mai appropriata sul piano storico: "Quando l'etnia non va d'accordo con la geografia, è l'etnia che deve muoversi". E' quanto è avvenuto alla popolazione giuliana dell'Istria e della costa Dalmata e c'è voluto il 900 per cambiare i destini di quelle popolazioni che in passato, con la repubblica di Venezia prima e con l'impero asburgico poi, avevano vissuto in pace, commercio e tolleranza.

Il libro di Petacco (190 pagine) è fatto di soli tre capitoli: la questione giuliana, l'Adriatisches Kustenland (cioè la regione adriatica messa in piedi dai nazisti dopo il 43), Istria Addio.
 

Con l'impero Asburgico Trieste era la IV capitale (dopo Viennia, Budapest e Praga) e la regione limitrofa era necessariamente caratterizzata da molteplicità e dicotomie:

  • gli Italiani cattolici ma poi atei e irredentisti, fascisti, commercianti e professionisti, abitatori delle città
  • gli slavi cattolici tradizionalisti, filoaustriaci, poi comunisti, abitatori del contado 

Trieste sul piano commerciale e culturale ci ha rimesso con l'Unità d'Italia perché è venuta a mancare la sua vocazione cosmopolita.

Ma non si può parlare della regione giuliana senza parlare dei popoli balcanici e in primo luogo di serbi e croati uniti dalla lingua (sostanzialmente simile) ma divisi nella scrittura (cirillica o latina), dalla religione (cattolica od ortodossa); ma c'erano poi i bosniaci mussulmani, i montenegrini, le minoranze rumene e quelle ungheresi, gli albanesi, i kossovari. E' in questo baillame che gli inglesi decisero dopo la I guerra mondiale di appoggiare i serbi (da cui verranno i cetnici di Draza Mihaijlovic) mentre i fascisti e i nazisti appoggiarono i croati (da cui vennero gli ustascia di Ante Pavelic).

E' l'intervento tedesco ed italiano nei paesi baltici ad innescare l'ennesima miccia: gli inglesi cambiano cavallo ed iniziano ad appoggiare il maresciallo Tito un comunista croato che si pone l'obiettivo doppio di vincere la guerra contro i nazifascisti e ricostruire la grande nazione Jugoslava che vada dall'Albania a Sud sino all'Isonzo e al Tagliamento.

E' in questo quadro che scoppiano le mille contraddizioni: l'esercito di Tito punta alla rivoluzione socialista, ma prima di essa mette i compiti tipici del nazionalismo (incluso l'annientamento degli ustascia croati). I fascisti italiani che sono padroni di mezza Slovenia investono in infrastrutture, ma contemporaneamente puntano alla italianizzazione della regione. Le diverse nazionalità stanno passando dalla coesistenza alla guerra aperta e ciò che accadrà sarà solo la anticipazione in forma ridotta della guerra civile esplosa in via definitiva dopo la morte di Tito (le deportazioni, la pulizia etnica, i massacri).

I fascisti italiani, anche in Venezia Giulia e Dalmazia, esercitano la politica della doppiezza. Hanno allevato gli ustascia ma cercano di controllarne le spinte antisemite . Contemporaneamente non si tirano indietro in Dalmazia nella effettuazione di rappresaglie contro i partigiani e la popolazione.

Si arriva così all'8 settembre che, nella regione giuliana, è particolarmente tragico; l'esercito italiano si sfalda e l'esercito di Tito si appropria di tutto il materiale bellico delle nostre caserme e magazzini. L'Istria pullula di vessilli nazionali sloveni e croati mentre tra gli antifascisti italiani iniziano le prime perplessità. Il potere è nelle mani della polizia segreta di Tito l'OZNA e del Tribunale del Popolo di Pisino. Insieme ai gerarchi locali viene attaccata la struttura dello stato italiano: processo sommario e condanna a morte. Si passa poi alle azioni totalmente illegali: la gente viene prelevata di notte e buttata nelle foibe o annegata in mare (nelle località della costa), o fucilata nelle cave di bauxite. I prigionieri erano legati l'uno all'altro con il filo di ferro e giunti sull'orlo della foiba si sparava ai primi che trascinavano giù tutti gli altri.

Le foibe sono grotte carsiche di cui è piena tutta l'Istria. Da sempre erano utilizzate come luogo di smaltimento di scorie della lavorazione della bauxite, residui bellici, macerie. E ora esseri umani morti ma anche vivi. Le stime, per la fase 1943-1947 parlano di un numero variabile da i 10 e i 30 mila infoibati (non solo italiani)


Risale a questo periodo il caso di Norma Cossetto, una delle vittime simbolo a cui molte amministrazioni di centro-destra stanno dedicando delle vie tra le proteste degli antifascisti del politicamente corretto. Ma chi è? Ma perché lei? Ma è una strumentalizzazione... Poiché tra i miei lettori c'è una certa presenza di questi disorientati spendo qualche riga per presentare il caso anche se ci sono stati casi di servitori dello stato che meriterebbero altrettanta notorietà (tra carabinieri, finanzieri e ufficiali dell'esercito):

Norma era una giovane universitaria di 23 anni, studentessa a Padova e iscritta al GUF, che stava preparando la tesi di laurea sulla storia dell'Istria con il grande latinista antifascista e comunista Concetto Marchesi.

Il titolo era Istria Rossa (dal colore della terra ricca di bauxite). Norma girava i paesini dell'Istria, in bicicletta, per consultare gli archivi dei comuni e delle canoniche. Fu convocata nella ex caserma di Visignano il 26 settembre 1943 da un gruppo di partigiani comunisti (italiani e sloveni). Le fu proposte di aderire al movimento partigiano e dopo il suo rifiuto fu rilasciata per essere poi arrestata il giorno successivo.

Dopo un paio di trasferimenti finì con altri detenuti nella scuola di Antignana (vedi cartina) dove venne separata dagli altri, legata nuda ad un tavolo e stuprata. Rimase in quello stato per alcuni giorni e fu poi condannata a morte dal tribunale del popolo insieme ad altre 26 persone. Nella notte tra il 4 e 5 ottobre i condannati furono portati presso una foiba a Villa Surani. Le donne furono nuovamente violentate  e a Norma furono recisi i seni, spezzate gambe e braccia e ficcato in vagina un pezzo di legno. Quindi, con il solito rituale furono gettati nella foiba profonda 130 metri.

I responsabili furono individuati quando la zona venne rioccupata dai tedeschi. I corpi furono recuperati (26 + altri 10 gettati nei giorni successivi); i 16 partigiani responsabili furono individuati e costretti a vegliare la salma per una notte prima di essere fucilati. La famiglia Cossetto ha avuto complessivamente 6 infoibati (tra cui il padre che aderì alla milizia fascista dopo le notizie sul destino della figlia).

Dopo la liberazione l'Università di Padova, su proposta di Concetto Marchesi, le attribuì la laurea honoris causa e lo stesso Marchesi, a chi obiettava che Norma non era caduta per la libertà rispose che: “Era caduta per l’italianità dell’Istria e meritava più di qualunque altro quel riconoscimento”.

Il terrore durò all'incirca un mese ed è paradossale e tragico, ma vero, che gli Italiani dell'Istria, all'arrivo dei Tedeschi, abbiano dichiarato "Finalmente arrivano".


Il caso Cossetto si presta bene ad esaminare la complessità e le contraddizioni della questione giuliana interne al movimento antifascista e al movimento fascista.

Partiamo dai fascisti: gli esponenti della RSI e lo stesso Mussolini avevano sperato in una estensione ad est della repubblica sociale; ma i nazisti non si fidavano e costituirono il protettorato del Litorale Adriatico (Friuli, Venezia Giulia e Istria). I tedeschi puntavano alla germanizzazione dell'area e attuarono una politica di liberalizzazione nazionale mettendo sullo stesso piano slavi, italiani a tedeschi. In questo contesto solo la X MAS di Juno Valerio Borghese spingendo sul pedale nazional-patriottico e sulla indiscussa efficienza militare riuscì a mantenere un ruolo e un potere autonomo mentre i ministri di Salò e il segretario del PNF Pavolini venivano svillaneggiati (il ruolo della X MAS è complesso e non può essere discusso in questa sede).

Situazione analoga, ma molto più drammatica si ebbe entro il movimento antifascista. Dopo l'8 settembre una quota significativa di militari presenti in Jugoslavia passò alla lotta contro i tedeschi ma il sistema titoista, fondato sul primato del nazionalismo slavo, fece in modo di disperderne il contributo all'interno del paese (20 mila morti su 40 mila combattenti) riducendo al minimo la costituzione di unità combattenti italiane o comandate da italiani e spostandole comunque lontano dall'Istria.

Ci fu poi la decisione di inquadrare le Brigate Garibaldi all'interno dell'esercito di liberazione jugoslavo di cui ho trattato recensendo Porzus. Si vedono in giro troppe bandiere jugoslave e poche bandiere rosse commentavano i partigiani italiani obbedienti ma pensosi. In questo contesto ci furono sia interventi senza esito del governo Badoglio sugli alleati per discutere preventivamente le sorti della Venezia Giulia, sia contatti tra la parte sud del X MAS e formazioni partigiane non garibaldine.

Per farla breve, l'esercito Jugoslavo arriva a Trieste prima degli altri il 1° maggio del 45; il fatto è voluto. Tito libera Trieste 10 giorni prima di Zagabria e Lubiana e iniziano i 40 giorni della seconda occupazione jugoslava: di nuovo processi sommari, italiano vuol dire fascista e fascista vuol dire foiba. Le catture, a differenza che nel settembre 43, ora avvengono nelle città: Trieste, Gorizia, Monfalcone, Pola. In questo contesto muoiono uomini dello stato, gente comune, partigiani non comunisti e persino partigiani comunisti. Per 40 giorni siamo al terrore puro.

Si passa così al grande dibattito che porterà nel 1947 all'accordo di pace. L'Istria e la Dalmazia sono Jugoslave e la parte più a nord-ovest della pensola istriana (il Territorio Libero di Trieste)  viene divisa in una zona A amministrata dagli Alleati e in una zona B amministrata dagli Jugoslavi (si veda la cartina). Alla zona A vengono anche assegnate le enclave di Pola, Pirano, Parenzo e Rovigno.

Inizia l'esodo perché la zona B viene totalmente slavizzata e tra maggio e giugno ci sono già 20 mila profughi verso Trieste e verso l'Italia. Intanto a Parigi proseguono le trattative per la pace e gli alleati presentano, ciascuno, una propria ipotesi di confine: la proposta più favorevole all'Italia è quella degli USA e quella più sfavorevole quella dell'URSS; alla fine passerà con poche variazioni la proposta francese, la meno favorevole dopo quella russa (così Caporetto è finita in Slovenia).

Si parlò anche di plebiscito ma la proposta (avanzata da russi e americani) fu scartata dai nostri governanti timorosi del ruolo che avrebbero potuto giocarvi i comunisti italiani e preoccupati che il plebiscito giuliano aprisse la strada anche a quello in SudTirolo. Così, nel periodo dal 45 al 47 gli Jugoslavi promossero la completa slavizzazione delle zone poste sotto  il loro controllo mentre gli Italiani, pian piano se ne andavano.

Si arrivò così, il 10 febbraio 1947, alla firma del trattato. La questione giuliana fu anche teatro di un indegno intervento di quel Visinskij gia procuratore generale durante i processi di Mosca contro trotkisti e buchariniani. All'Italia non fu risparmiato nulla in termini di offese  nel migliore stile della propaganda stalinista secondo cui il nemico va anche annientato sul piano morale e Togliatti non trovò di meglio, per uscire dalle difficoltà, che inventarsi una finta trattativa diretta con Tito che Pietro Nenni commentò così: " Tito rinuncia a ciò che non ha e ci chiede ciò che abbiamo". Si fece finta di alzare il prezzo facendo rinunciare Tito a Trieste e gli si diede tutto il resto inclusa la piazzaforte di Pola che era totalmente italiana.

La delusione dei polesani fu tremenda e nel giro di 50 giorni tra gennaio e marzo del 47 se ne andarono con i dieci viaggi del piroscafo Toscana in 30 mila su 34 mila abitanti.

I polesani portarono con loro tutto ciò che potevano comprese le urne dei loro morti e in quei giorni ci fu la crisi dei chiodi. Servivano chiodi per imballare le proprie cose nelle casse dilegno e all'inizio ne furono assegnati solo 300 grammi a famiglia (arrivati con il primo viaggio del Toscana). I polesani avrebbero voluto diventare una comunità unita in Italia, ma nonostante le promesse, furono dispersi nella intera penisola con episodi davvero molto brutti di solidarietà comunista all'incontrario.

I profughi giuliani furono complessivamente 350 mila e non ricevettero dal nostro paese gran che in termini di solidarietà. Il loro nemico era un nemico antifascista e si usciva dalla guerra civile. Nel paese bisognava che le cose stessero al loro posto senza troppi contrasti e a sinistra si usava il metodo del lavare i panni sporchi in famiglia.

Fu così quando Tito stava con Stalin e fu ancora così anche dopo la rottura quando il PCI stava ancora con Stalin: sono cose delicate e c'è di mezzo la lotta di classe. Ne fecero le spese anche un folto gruppo di operai specializzati comunisti di Monfalcone che si autodeportarono in Jugoslavia per rimettere in piedi i cantieri navali di Fiume e di Zara. Nel 1948 ci fu la rottura tra Mosca e Belgrado e gli operai italiani (ribelli a Tito e fedeli al comunismo) furono deportati per essere finalmente liberati solo nel 1956.

La questione si è chiusa, ed è diventata definitiva, con il trattato di Osimo nel 1975. Italia e Jugoslavia, 30 anni dopo la fine della guerra, hanno ratificato l'iniquità e come si dice lasciamo  che i morti seppelliscano i loro morti.

Sì, ma a condizione di ricordare.