Una sconfinata giovinezza: Pupi Avati

Una sconfinata giovinezza (2010) è dedicato alla malattia di Alzheimer attraverso il racconto di una esperienza di vita di due coniugi di successo, che si vogliono bene e che, improvvisamente, si trovano a fare i conti con la malattia che isola progressivamente da sè, dai propri affetti e dalla propria vita.

Il film mi ha colpito. L’ho visto in agosto e me lo sono riguardato adesso prestando attenzione alle cose che mi avevano colpito prescidendo dal richiamo alla malattia: il ritorno all’infanzia; i ricordi sugli amici, i giochi, gli ambienti.

La sceneggiatura nasce da un romanzo-racconto dello stesso Pupi Avati e la storia si svolge su due piani: c’è l’Alzheimer, ma con la scusa della malattia, ci sono il ritorno all’infanzia e la trasformazione di un amore coniugale in amore filiale. Di fronte alla scena del ragazzino che ritaglia i tondi delle figurine e li ficca nelle “agrette” delle bibite per giocare al “giro d’Italia” mi sono commosso: l’ho fatto anche io e i nomi erano gli stessi; Kobler, Nencini, Gaul, Bartali.

Lino Settembre (Fabrizio Bentivglio) fa il capocronista sportivo al Messaggero ed è uno dei volti delle trasmissioni TV di sport; la moglie Chicca (Francesca Neri) è una docente universitaria di filologia romanza con alle spalle una di quelle famiglie patriarcali emiliane con genitori, fratelli, cognate, nipoti che si ritrovano per il pranzo di Natale e per le occasioni canoniche.

Si affacciano i primi segni di perdita di memoria (inizialmente nella scelta dei vocaboli), poi pian piano nella costruzione dei concetti e del rapporto con il reale. Si passa attraverso le fasi classiche: l’ironia, la negazione, la scelta di nascondere fino alla diagnosi e alla esplosione dei sintomi.

Lino regredisce e Chicca vede nascere in lui, pian piano, il bambino che non hanno mai avuto. Sceglie di stargli vicino finché esplodono la rabbia e la violenza. Si allontana, ma poi ritorna per giocare al giro d’Italia.

Lino si ritrova dapprima smarrito durante una trasmissione in diretta TV, poi inizia a mischiare nei suoi pezzi componenti professionali e ricordi di infanzia finché, nella cerimonia di commiato dal giornale si rompono i freni inibitori ed escono i ricordi, quelli più intimi su Chicca, che mettono in imbarazzo tutti. E dopo i ricordi scoppia la violenza verso Chicca che gli ha rovinato la festa.

In un momento di scoramento Chicca si rivolge ad un collega con la moglie malata da tempo. Lui ha scelto di tenerla con sè e la scena di Chicca che viene presentata come “il tecnico che fa la punta alle matite colorate” è drammatica e dura. Chicca decide di provarci a tener duro.

Tutto il film è inframmezzato da ricordi di infanzia dopo la morte del padre in un incidente d’auto: il trasferimento dagli zii sull’Appennino bolognese, il cane Perché, i due amici e fratelli scombinati (quello con la palatoschisi, un po’ suonato, ma che sapeva le tabelline oltre il 10 e quello che fa risuscitare i morti), le prime sveltine con una coetanea, il ritrovamento del brillante dell’anello del padre tra i frammenti dei cristalli dell’auto. I ricordi fanno da pendant al procedere della malattia.

Un giorno Chicca ha un incidente d’auto fuori di casa e Lino si perde lasciato da solo all’ospedale; prende il treno e va a Bologna. Prende un taxi (Gianni Cavina) e si mette alla ricerca dei due fratelli; vuole ritrovare Perché e si perde definitivamente nelle brume dell’Appenino davanti ad un cimitero di montagna. En passant il taxista e la moglie che lo scorazzano per l’Appennino si prendono in cambio i 10 mila euro della liquidazione.


Il mio voto: 9; 10 alla interpretazione di Lino. Francesca Neri rimane bellissima anche quando la fanno invecchiare.