Il sol dell’avvenire: Gianfranco Pannone

Attendevo di vedere Il Sol dell’Avvenire (2008), il documentario dedicato al Gruppo dell’Appartamento di Reggio Emilia da cui prese origine uno dei componenti costitutivi delle Brigate Rosse, per iniziare l’esame dei film dedicati al tema del terrorismo. L’aspetto documentaristico e autobiografico è infatti, secondo me, fondamentale per capire.

Il gruppo dell’appartamento fu una Comune sessantottina caratterizzata dalla esigenza di rompere per poter discutere e organizzarsi liberamente e, a Reggio Emilia, rompere non poteva voler dire che rompere con il PCI.

Nel documentario si incontrano e si rivedono cinque personaggi di allora (tre confluiti nelle BR e due rimasti invece nell’orbita del PCI). I brigatisti sono Alberto Franceschini, Tonino Loris Paroli e Roberto Ognibene. Oltre alle testimonianze dei tre ci sono quelle di Paolo Rozzi e Annibale Viappiani e, a fare da contrappunto Adelmo Cervi (figlio di Aldo) che ci descrive in bicicletta il mondo di Reggio e Corrado Corghi, allora segretario regionale della DC, cattolico del dissenso che, in quegli anni interagì con il gruppo dell’appartamento.

Sinceramente mi aspettavo qualcosa di più, vista la presenza di Ognibene e Franceschini. Il primo rimane molto sullo sfondo mentre il secondo, insieme a Paroli, ci dice qualcosa di più. Tutti vengono da famiglie comuniste impegnate nel partito già durante il fascismo e che hanno avuto esperienze di lotta clandestina.

Gli elementi che portano alla rottura sono sostanzialmente due: la guerra del Vietnam e il tema della resistenza tradita. Si tratta di due elementi che fanno parte della esperienza di una intera generazione, ma il gruppo dell’appartamento, ad un certo punto organizza insieme al CPM (Collettivo Politico Metropolitano) di Renato Curcio una full immersion in una trattoria dell’appennino reggiano ed è lì che si prende la decisione del passaggio al lavoro illegale.

I cinque si ritrovano proprio in quella trattoria con una bonaria signora, quella di allora, che li tratta con simpatia e ricorda che, poiché erano in tanti, suo marito gli procurò da dormire nelle case del paese. Un dirigente dei servizi di sicurezza di allora del PCI racconta che loro furono informati della cosa perché alcuni dei partecipanti vennero poi al partito spaventati dalla piega che prendevano le cose e decisero di interrompere ogni rapporto con il gruppo (nel quale oltre ai già citati c’erano Lauro Azzolini e Prospero Gallinari). E’ interessante la dichiarazione sul fatto che a Franceschini furono anche fatte delle proposte (quali?) ma senza esito.

Mi aspettavo qualcosa di più su quella discussione e invece nel film c’è troppa solidarietà umana (perfettamente comprensibile) e troppo poco raziocinio. Va bene la piazza Lenin di Cavriago, va bene la visita al cimitero per scorrere l’album di famiglia dei partigiani, vanno bene i richiami al luglio 60 e ai “morti di Reggio Emilia”, ma forse sarebbe stata utile, da parte di una voce fuori campo anche qualche domanda imbarazzante. Ad un certo punto Franceschini afferma che lo scopo delle loro scelte non era quello di arrivare alla presa del potere, ma piuttosto quello di risvegliare un PCI dormiente e che l’errore fu quello di non capire che mentre negli anni 50 e nei primi anni 60 dentro il PCI esisteva, accanto ad un’anima moderata, anche quella rivoluzionaria, con la fine degli anni 60 avviene la trasformazione decisiva e il PCI si trasforma in forza di gestione e conservazione.

Perché dalla contestazione si decide di passare alla lotta armata? Perché alcuni lo fanno e altri no? E’ sufficiente l’appello al retroterra culturale? Franceschini ci svela che la pistola Luger a canna lunga puntata contro Idalgo Macchiarini da una mano guantata, gli fu regalata insieme ad una Browning bottino di guerra, dallo storico segretario della sua sezione con la raccomandazione di farne buon uso. Loris Paroli che non si è mai dissociato dalla esperienza delle BR, ad un certo punto fa una sottile distinzione tra terrorismo e lotta armata. Il terrorismo fu quello di piazza Fontana, non lo fu la nostra lotta e cita il dibattito interno relativo alla scelta di non usare l’arma bianca. Ha un attimo di commozione quando ricorda che  fu in carcere il periodo peggiore quando fu fatta la scelta di ammazzare quelli che parlavano e fa capire che diventammo dei mostri senza pietà.

Quel che è certo è che, come scrissi fin dal 1976, non si trattava di “provocatori infiltrati” come amava dire l’allra PCI ed è un peccato che, finché i protagonisti sono vivi e lucidi, e hanno pagato, non si costruisca un bell’archivio testimoniale che indaghi su certe dinamiche. Se ne riparlerà esaminando i film dedicati al sequestro Moro.

Questo è il link al film su youtube


Il mio giudizio: 6.5