1962-1964: elettrotecnica il secondo biennio all’Hens

III edizione – maggio 2024

4b 1964 hensemberger

In prima fila accosciati da sinistra: Sergio Grandi, Carlo Carzaniga, Giorgio Torriani, Luigi Beretta, Luigi Sacchi, Ermes Nava, Beniamino Parolini, Enzo Grassi, Claudio Cereda. In seconda fila: Sergio Refaldi, Mario Segalini, Dario Brioschi, Natale Ornago, Roberto Crippa, Giuseppe Cavenaghi, Carlo Pioltelli, ing. Galasso, Luigi Mariani, Moreno Trevisi, prof. Antonio Bellia, Luigi Arosio, prof. Mario Truci, Alberto Sala, Felice Aresi, prof. Donato Vencia, Angelo Monti, Luigi Assali, Mario Calloni, Marco Lissoni, Giuseppe Cavaletti e sullo sfondo Andrea Mutti e Danilo Scamardi – tutti vestiti bene, non per la foto, ma perché a scuola si andava così

Per il triennio di specializzazione ho scelto elettrotecnica. All’Hensemberger c’erano solo tre trienni mentre per le altre specializzazioni si doveva andare a Milano (chimica e fisica al Molinari, nucleare ed elettronica al Feltrinelli). Da noi: corso A, primo piano, meccanica; corso B, secondo piano, elettrotecnica; corso C, terzo piano, metallurgia (una specializzazione inventata da De Majo, con una sola gemella nel bresciano, per tener conto della siderurgia di Sesto San Giovanni e delle fonderie del territorio).

un ITIS integrato nel suo territorio

I laboratori della scuola erano una cosa grandiosa: ricordo quello tecnologico al piano terra in cui venivano le aziende del territorio a fare le prove sui materiali (durezza, resistenza alla fatica, resilienza, elasticità, trazione) e pagavano. Credo che fosse il lavoro principale del capo ufficio tecnico e vice preside prof. MIgliorini.

Da Preside ho avuto modo di consultare i verbali del Consiglio di Amministrazione della scuola (con gestione finanziaria autonoma sino agli anni sessanta). Era una azienda ben gestita e flessibile nel rapportarsi al tessuto produttivo del territorio. Se serviva una macchina la si comprava, se serviva una specializzazione o un corso pre e post diploma, lo si apriva. Se servivano incentivi al personale si davano.

Da quei verbali ho scoperto che l’ingegner De Majo, appena nominato nel 45, fu mandato dallo Stato per uno stage di un anno alla Fiat, perché per governare un ITIS dovevi aver visto e assorbito la cultura industriale. L’autonomia finanziaria e quella nella gestione del personale ci spiegano perché, per tutti gli anni sessanta, la nostra istruzione tecnica abbia primeggiato nel mondo.

la scelta della specializzazione e i professori

In terza ho fatto crescere la barba anche se non c’erano ancora i baffi ed è stata una bella guerra con papà che non vietava, ma faceva dell’ironia. Questo, come dice mia figlia, è un dato di imprinting che mi è rimasto e, a suo dire, siamo identici.

Scartai meccanica per via dei miei rapporti infelici con il disegno, scartai metallurgia perché il mondo della siderurgia non mi attraeva; così scelsi elettrotecnica perché incominciavano a prendermi bene sia la scienza sia le sue applicazioni e pensavo che quello potesse essere il modo giusto per coltivarla.

A quei tempi elettrotecnica voleva dire: centrali idroelettriche, grandi macchine, grandi impianti di trasporto e distribuzione. Lo status della disciplina era ben definito sin dal primo novecento; l’elettrotecnica era uguale a se stessa da 50 anni e i laboratori della scuola, nuovissimi, erano assolutamente all’altezza.

Ricordo in particolare quello di misure elettriche, molto grande e con un set di macchine disposte prima dei finestroni lungo la via Cavallotti con cui si poteva fare assolutamente di tutto in termini di simulazione degli impianti di produzione ed utilizzo: grandi motori sincroni e asincroni, alternatori, dinamo e motori a corrente continua, il tutto in gruppi che potevano essere interconnessi.

1972 vegezzi e Marina

1972, il professor Vegezzi con la figlia Marina

In terza incontrai un professore di lettere di alto valore, il professor Augusto Vegezzi, piacentino di origine, futuro autore di un fortunato testo di storia per i licei e poi lungamente preside del liceo Banfi di Vimercate. E’ scomparso nel 2022 a 90 anni.

Allora a Monza era così, giravano docenti di prima grandezza; al Mose Bianchi c’era Franco Fortini e il professore di filosofia di mio fratello, al Frisi, era Renato Fabietti. Con Vegezzi (intellettuale di sinistra) mi trovai bene perché era un educatore vero che sapeva dare un senso all’insegnamento di Italiano e di storia in un ITIS.

Ti faceva discutere, non imponeva; rispettava le mie opinioni allora molto diverse dalle sue. Su sua indicazione lessi Il maestro di Vigevano di Lucio Mastronardi (ma prima chiesi il parere al mio confessore, don Giulio Oggioni, futuro arcivescovo di Bergamo che, essendo villasantesi veniva in oratorio la domenica mattina quando era libero dagli impegni di docenza al seminario di Venegono).

Nei temi, con Vegezzi, mi sentivo libero e così il passaggio in quarta fu traumatico; Vegezzi aveva chiesto e ottenuto il trasferimento a Milano. Con l’arrivo del professor Donato Vencia cambiarono obiettivi, metodi, concezione della cultura e passammo da un bel frizzantino al vino fermo. Nel primo tema in classe mi beccai un bel tre meno meno perché a suo dire ero andato fuori tema. Non mi restava che adeguarmi.

Cambiai la prof di Inglese e arrivò dal Frisi la prof Castoldi (mi pare fosse soprannominata Moby Dick). Era stata la prof di mio fratello e, nonostante l’aura temibile che la circondava, trasmessami anche da mio fratello, non ebbi assolutamente problemi.

materie tecniche extra-specializzazione

Ebbi l’occasione di fare un bel corso di tecnologia in cui studiai gli elementi essenziali delle proprietà dei materiali e dei processi siderurgici (dall’alto forno, ai convertitori, ai forni di fusione) e un corso altrettanto buono di meccanica generale perché allora il perito era pensato come un tecnologo che si specializzava, ma doveva comunque avere una competenza a 360° sulle cose essenziali.

Nel corso di tecnologia andamma più volte in laboratorio e ricordo il fascino delle prove di resistenza dei materiali: la resistenza alla trazione (fase elastica, snervamento e rottura), la sollecitazione di taglio, la durezza superficiale

Dopo il corso di chimica generale in II, ce ne fu uno di chimica organica e industriale dove ci occupammo dei grandi impianti chimici per la produzione dei composti chimici essenziali per l’industria (acido solforico, acido nitrico, soda caustica, acido cloridrico, ipoclorito di sodio, coloranti) e di tutte le problematiche legate alla produzione e distillazione degli idrocarburi.

Avevo acquistato da un compagno di classe un certo numero di reagenti (acidi, basi e sali) e nella cantina di casa (areata da uno sportellino in alto a livello del suolo esterno) mi divertivo con le reazioni. Spettacolare la produzione di ipoazotide (una miscela di ossidi di azoto di un bel colore rosso mattone) che si ottiene facendo reagire trucioli di rame con acido nitrico. Avevo un sale di cobalto che, a seconda della umidità cambiava colore e mi divertivo a scaldarlo in una provetta.

la reazione del sodio in acqua con sviluppo di idrogeno che si incendia

In un contenitore di vetro con il tappo a vite tenevo, immerso nella nafta un bel pezzo di sodio metallico. Lo si tiene nella nafta perchè a contatto con l’acqua (e basta anche solo il sudore o l’umidità atmosferica) ha una reazione violenta, sviluppa idrogeno che si incendia immediatamente. Il sodio è lucente e malleabile e basta prenderne un pezzettino con una pinzetta e buttarlo in acqua per vedrlo saltellare e incendiarsi.

Sempre in cantina mi ero attrezzato un piccolo laboratorio di elettrotecnica messo in piedi recuperando vecchi trasformatori provenienti dalla fabbrica chiusa di mio padre. Con dei raddrizzatori che mi ero procurato ci facevo l’elettrolisi e, con i soli trasformatori, la saldatura ad arco ed altri esperimenti in cui portavo alla incandescenza fili di rame piazziati su una basetta di legno sostenuti da chiodi che facevano da morsetti e misuravo i tempi necessari per la evaporazione del metallo ad alta temperatura a seconda dello spessore. Negli anni avanti mi sarei dilettato con la radiotecnica e un po’ di elettronica: produrre un amplificatore utilizzando le vecchie radio a valvole, costruire una chitarra elettrica.

Un altro laboratorio che ora non si fa più era quello di saldatura; due ore pomeridiane molto divertenti passate a fare pratica con la classe divisa in tre gruppi; un trimestre fiamma ossidrica e cannello ossiacetilenico, un trimestre saldatura ad arco, un trimestre fucina. L’aiutante tecnico che lavorava al maglio era soprannominato Vulcano. Con tutti quei laboratori l’orario scolastico era pesante: 34, 36, 38 ore, ma anche così ci si abituava al futuro lavoro in fabbrica (gestione del tempo e dei ritmi di lavoro).

sua maestà l’elettrotecnica

Last but not least, l’elettrotecnica: ovvero il testo di Olivieri e Ravelli e l’ingegner Bellini. Oltre all’elettrotecnica generale seguita dalle correnti alternate e trifasi e poi dalle macchine elettriche, c’erano misure elettriche, impianti elettrici e costruzioni elettromeccaniche con altri docenti; ma l’elettrotecnica all’Hens era l’ingegner Bellini.

La sua parola, in classe o nei discorsi tra studenti, equivaleva all’ipse dixit (l’ha detto l’ingegner Bellini). Con lui non si pedeva tempo e si lavorava, sin dal primo anno di specializzazione, sulla preparazione alla prova scritta dell’esame di diploma. I conti erano tanti e si facevano con il regolo calcolatore con due o anche tre cifre significative (inclusi i conti che richiedevano la trigonometria).

olivieri ravelli vol. 1 Elettrotecnica generale

Olivieri e Ravelli vol. 1 Elettrotecnica generale

L’Olivieri e Ravelli, edizione CEDAM marrone scuro, rilegato in tela e cartone a lettere d’oro, tre volumi (elettrotecnica generale, macchine elettriche, misure elettriche) è stato nella mia formazione quello che, all’università, sono state le Lectures on Physics di Feynman. Bellini faceva lezione; sottolineava le cose essenziali di teoria (tanto c’era l’Olivieri e Ravelli per gli approfondimenti) e poi tante applicazioni.

Prendevo appunti e poi li rielaboravo studiando sul testo. La ristesura degli appunti presi a lezione rielaborandoli con l’apporto dei testi è fondamentale per capire come stanno le cose e per introiettare la conoscenza.

Non eravamo in molti a lavorare così, c’era chi si accontentava di riuscire a fare i compiti in classe e c’era chi si faceva aiutare durante i compiti. Io ero per la sistematicità. Purtroppo di quei quaderni di appunti (elettrotecnica, matematica, meccanica, elettronica) non ho più nulla e la stessa cosa è avvenuta per quelli dell’università; prestati e mai restituiti.

Gli altri docenti delle materie di indirizzo non erano di pari valore, ingegneri neo laureati in attesa di assunzione e prestati (senza impegno) all’insegnamento.

In terza compresi bene i concetti di intensità di corrente e di differenza di potenziale e mi resi conto della spiegazione demenziale che mi avevano dato in seconda sugli uccelli posati sui fili di trasporto dell’energia elettrica. La corrente elettrica circola se metti a contatto punti a potenziale diverso e se stai su un solo filo sei al potenziale del filo e dunque non c’è passaggio di corrente.

la frattura della tibia

Nella primavera del 63 ci fu uncidente importante durante una lezione di educazione fisica al campo di calcio dell’oratorio di Triante con il professor Tarca.  Ero in azione in velocità e per un difetto di controllo del pallone finii in avanti sulla punta del piede destro.

Sentii un bel crack di osso che si rompe, mi ritrovai a terra e poi arrivò il dolore: frattura scomposta di tibia e perone della gamba destra. Mi caricarono in auto tenendomi in braccio e via verso il vecchio Ospedale San Gerardo. Il primo impatto fu con la messa in trazione perché per fissare la staffa di trazione ti trapano il malleolo e ci piazzano un cilindretto d’acciaio. A quei tempi la ortopedia chirurgica era di là da venire.

Il reparto era di quelli con quattro letti per parte e il corridoio in mezzo. Ero immobile nel letto bloccato dall’apparato di trazione con pesi e carrucole.  Furono 20 giorni di sofferenza e immobilità, poi 45 giorni di gambale gessato senza possibilità di appoggio, 30 giorni di stivale e poi altri 20 perché il callo non era giudicato soddisfacente. Totale 115 giorni.

Ricordo ancora con terrore i giorni di Ospedale in quel camerone, tra urla, odori corporei, sempre su schiena, padella e pappagallo. C’era un camionista a cui schiacciarono una gamba con un camion  in manovra mentre lui stava sotto. Dopo giorni di sofferenza gliela amputarono perchè stava andando in cancrena.

Quando levai l’ultimo gesso il mio polpaccione destro (tutti i Cereda hanno il polpaccione)  era ridotto a un terzo. Era il luglio del 63 e andammo al mare a Varazze; stavo meglio in acqua rispetto al camminare sulla sabbia. Mi sono rimasti un bel callo osseo e un accorciamento di quasi 1 cm e mezzo che alla lunga ha dato problemi alla mia colonna.

Dopo la prima settimana di stivalone sino all’inguine, in cui era stato prescritto il riposo a letto, ricominciai ad andare a scuola. Il mio compagno Luigino Sacchi mi veniva a prendere in Lambretta e, in qualche modo si arrivava all’Hensemberger dove mi prendeva tra le braccia e mi portava in tutti gli ambiti in cui non ce la facessi con le stampelle. L’ascensore c’era ma non era per gli studenti.

Altri tempi, ve li figurate con la 626 (il trasporto in moto, il trasporto in braccio)? Luigino Sacchi insieme al Sem è stato il mio compagno di studi nel triennio. Andavo a casa sua, nelle villette dietro l’acquedotto,  nei pomeriggi in cui non c’era laboratorio e rivedevamo le cose insieme. Ci vedevamo solo per studiare perché lui era impegnato con gli scout e faceva atletica leggera (lancio del disco).

Nel tempo libero mi impegnavo sempre di più in GS e mi apprestavo a fare il caporaggio dell’Hensemberger (ne parlo in un capitolo a parte). La giornata era strutturata così: scuola di mattina, scuola di pomeriggio, un salto in GS prima di cena, studio dopo cena. Mentre, fino a tutta la seconda, nel pomeriggio della domenica andavo al cinema a Villasanta, adesso c’era la caritativa: andavamo nei quartieri in espansione di Cinisello (le coree) a far giocare i bambini intorno a parrocchie che stavano nascendo (Robecco, Bellaria, Cornaggia).

dalla terza alla quarta: marachelle e autonomia

Nell’estate del 63 ci fu il trasloco dalla vecchia casa di via Mazzini al condominio Marinella di via Monte Sabotino, dal centro alla estrema periferia, dove c’erano ancora le vecchie cave, luogo impagabile di avventura per mio fratello Fabio.

Villasanta finiva al passaggio a livello di viale della Vittoria e più in là c’era solo campagna. Pochi giorni dopo il trasloco, morì la nonna Elisa e così non ci furono problemi nella disposizione delle tre camere (una per i genitori e il piccolo Marco e le altre due per noi quattro più grandi). Ironia della sorte il condominio fu costruito dalla impresa di Stefano Mariani, lo storico autista del calzaturificio, e l’acquisto fu reso possibile  dalla generosità del cugino Giancarlo Locati che si stava incominciando ad affermare come ingegnere civile e anticipò una quota dei soldi necessari.

La quarta fu un anno di passaggio da tre punti di vista: professionale, cultural-religioso, politico. Sul versante della autonomia mi ero comperato, con i proventi di una borsa di studio, la Lambretta 125, quasi subito truccata a 150 con la collaborazione di Roberto Zannini (il figlio di Tonino dell’omonimo garage). Aveva due anni meno di me; io gli davo una mano in qualche materia e lui smanettava con le moto avendo a disposizione l’officina. Si fece una lambretta da 125 a 200 cc che riusciva a mandare a un numero di giri spropositato e che alimentava con miscela al 12% per non grippare.

Una borsa di studio da 120 mila lire era un bel contributo, e ricordandomi della mia storia, da dirigente scolastico dell’Hensemberger mi sono subito dato da fare per rendere disponibili borse di importo significativo (sino a 1’000 €) per gli alunni meritevoli cercando di trasmettere il messaggio secondo cui ciascuno, nel bene e nel male, è artefice del suo destino.

Iniziavo anche a dare le prime lezioni private a studenti dell’Hensemberger delle prime classi, una attività che ho mantenuto anche da studente universitario.

A scuola si approfondiva la scelta dell’elettrotecnica; aspettavamo i due pomeriggi in cui si sarebbe fatto laboratorio di misure per unire teoria ed applicazione; carini i laboratori di costruzioni elettromeccaniche in cui si iniziava la progettazione e realizzazione di macchine elettriche, quelle che studiavamo sull’Olivieri e Ravelli. In terza abbiamo imparato a fare i cablaggi per la alimentazione delle macchine utensili con il filo di rame rigido, mentre in quarta ho costruito un trasformatore dalla progettazione, al dimensionamento e assemblaggio dei lamierini, alla realizzazione degli avvolgimenti.

laboratorio macchine utensili

laboratorio macchine utensili di un ITIS

Sempre sul versante della cultura tecnologica a 360° del perito ci fu anche l’esperienza del laboratorio di macchine utensili. La classe era divisa in due gruppi e alternativamente si lavorava al tornio o sulle macchine speciali (fresatrici, piallatrici, trapani).

Ho visto, ma non usato, la prima macchina a controllo numerico che lavorava con nastro perforato (era il1964).

Mi sono stupito nel vedere un tornio con mandrino a revolver che fabbricava bulloni con una serie di passaggi predeterminati in sequenza a partire da un’unica barra cilindrica d’acciaio: realizzazione della testa e del corpo, il filetto, la svasatura, il taglio con caduta del pezzo e inizio del successivo. Ad ogni colpo dato alla ruota di comando il portautensili ruotava ed iniziava una nuova operazione e, naturalmente, attraverso connessioni meccaniche opportune si poteva rendere automatica, anche questa operazione. Erano i primi elementi della automazione, ancora rigidamente senza uso della elettronica.

C’è un episodio che serve a spiegare bene che tipo di personaggio stessi diventando. Non ero ribelle, ma intransigente sì. Facevamo un corso di macchine idrauliche e termodinamica (il seguito di quello di meccanica fatto in III) con il solito docente preso in prestito: questa volta era un fisico, ricercatore del neonato gruppo di Fisica dello Stato Solido che insegnava per integrare l’assegno di ricerca (si chiamava Robero Oggioni). Persona molto simpatica e alla mano, ma aveva un difetto: appena entrato in classe si metteva davanti ai banchi, apriva il giornale (Il Giorno) e per 5/10 minuti si dedicava alla lettura.

Io stavo al primo banco e la cosa mi dava istintivamente fastidio perché mi sembrava una forma di maleducazione nei nostri confronti; così una mattina con un accendino diedi fuoco, da sotto, al giornale aperto davanti alla mia faccia. Come si sa, se si accende della carta da sotto, viene una bella fiammata; il professore capì che avevamo sbagliato entrambi non ci furonoi provvedimenti disciplinari e aumentò la stima reciproca.

Il contrario di ciò che mi accadde l’anno dopo quando, per un episodio di ben minore gravità rischiai di perdere l’anno, come vedremo nel prossimo capitolo. Il professor Oggioni fu il primo fisico da me conosciuto che facess il fisico. Esisteva gente che nella vita faceva lo scienziato. La cosa mi piacque molto.

Sempre in quell’anno ebbi il primo contatto con la matematica seria, l’analisi matematica, dopo che già in terza avevamo fatto l’essenziale di numeri complessi e geometria analitica. Il professore era Bellìa, un catanese con un accento fortissimo che sarebbe poi rimasto all’Hensemberger per tutta la sua vita. Il corso di matematica finiva in quarta e, pur senza grandi approfondimenti teorici, ma badando al significato di derivata ed integrale, appresi alcune tecniche che, unite alla padronanza dei numeri complessi, mi consentirono una certa autonomia nello studio delle correnti alternate e dei sistemi trifasi.

Fu una piacevole sorpresa scoprire che, dopo aver appreso i fondamenti, si poteva fare da sè realizzando in maniera elegante risultati applicabili alle materie di indirizzo senza dover usare le semplificazioni concettuali dell’Olivieri e Ravelli (dove non era previsto l’uso dell’analisi).

Mi è rimasta in mente la lezione dedicata alla definizione di limite: voi non sareste mai in grado di capirla, perciò ve la detto e voi imparatela a memoria, disse il Bellìa (preso un ε positivo piccolo a piacere, se è possibile trovare un δ positivo tale che quando …. allora …. ). Non so dirvi se avesse ragione; noi periti eravamo un po’ rozzi e amanti del lato pratico delle cose, ma a Fisica l’impatto con gli aspetti teoretici dell’analisi fu drammatico e da docente di liceo mi impegnai a fondo perché le difficoltà concettuali non fossero eluse ma comprese partendo dalle problematiche da cui nasceva la questione con una modalità in cui il rigore e la astrazione fossero introdotti con gradualità.

le visite aziendali

Nel corso della IV e della V abbiamo fatto diverse visite a grandi aziende del territorio.

Alla CGS (compagnia generale strumenti) di  Monza si fabbricavano ancora gli stumenti di precisione con cassetta in legno; gli stessi che usavamo nel laboratorio di misure oltre agli strumenti da quadro per le applicazioni industriali.

Vedemmo la catena per la produzione dei contatori a disco commissionati dalla Edison, poi ENEL, per la fatturazione dell’energia elettrica. Il passaggio di corrente richiesta dall’utente produce un campo magnetico che mette in rotazione un disco di alluminio collegato a un contagiri. La velocità di rotazione del diswco è correlata alla corrente richiesta. Così si misurava il consumo di energia elettrica in ambito domestico prima che arrivassero i contatori elettronici di oggi.

Alla Ercole Marelli di Sesto ci fu il contatto con la grande industria elettromeccanica: grandi motori e alternatori per le centrali. In quegli anni venivano realizzati i primi turboalternatori con dei rotori in acciaio lunghi 7-8 metri che dovevano fare 3’000 giri al minuto. Scoprimmo le limitazioni nel diametro del rotore (non più di 1 m) per gli effetti di flessione al centro e il rischio che il rotore, ad alta velocità si sradicasse dai cuscinetti. Scoprimmo che uno dei problemi, nella lunghezza (potenza) del rotore era quello della tenuta dell’isolamento dei conduttori alla temperatura prevista di funzionamento (intorno agli 80-90°).

Alla Magrini di Bergamo vedemmo gli interruttori di potenza per le centrali e la sala prove. Alla Philips di Monza visitammo la catena di montaggio per la produzione dei tubi a valvola. C’erano dei grandi banchi circolari con le operaie tutte in camice bianco che, in ambiente protetto, montavano a mano i diversi componenti della valvola (catodo, griglie, anodo).

Lo stesso carosello aveva fiamme a gas e quando il lavoro era finito si montava il bulbo in vetro, si faceva il vuoto e poi il bulbo veniva tappato a caldo. Fu il primo ambiente pulito che vidi nell’industria e mi tornò in mente anni dopo quando, alla SGS (ora ST Microelectronics), mi capitò di entrare nei reparti di produzione delle fette di silicio per la produzione di circuiti integrati e microprocessori dove non può entrare neanche un granello di polvere.

E’ impressionante come di queste cose, nonostante l’alternanza scuola lavoro, oggi se ne facciano meno di allora tra problematiche di sicurezza, scuola di massa e abbassamento della qualità, sia degli studenti sia della offerta formativa.

evoluzione cultural-religiosa

Sul piano culturale e religioso mi occupai di costituire un significativo gruppo di GS interno alla scuola (amici che rivedo ancora con piacere e che hanno preso strade molto diverse).

Intanto approfondivo alcune tematiche legate alla fase conclusiva del Concilio Vaticano II, leggevo le encicliche che ci aveva lasciato papa Giovanni (ormai morto) e trovavo un po’ esitante e non comunicativo il suo successore Montini (Paolo VI). Nel mio processo di crescita cominciavo ad avere l’impressione che la politica culturale di GS fosse un po’ chiusa sul versante sociale come spiegato nel capitolo dedicato a GS; il mio alter ego era il Sem Cavalletti che un po’ stava in GS e un po’ aveva rapporti con il circolo studentesco di Villasanta messo in piedi da mio fratello Sandro e da Peppo Meroni.

Nerl 1963 la domenica mattina i giessini andavano a messa alle 10:30 nella chiesa di San Pietro Martire a metà di via Carlo Alberto. Da questo appuntamento, nell’anno successivo, ne seguì un altro; finita la messa, con alcuni amici ci spostavamo in via Dante al circolo la Brianza a frequentare le riunioni della federazione giovanile socialista (veniva da Milano un deputato lombardiano che si chiamava Cresco e un avvocato amministrativista destinato a fare carriera Felice Besostri).

Iniziò così il mio spostamento a sinistra. Per qualche mese, all’inizio del 64, cercando di imitare mio padre, che era stato fascista e conservava un rapporto di adesione al fascismo nella sua versione sociale e repubblicana, mi misi a leggere il Secolo d’Italia comperato all’edicola al semaforo di via Prina con via Manara, dove c’era un edicolante contrabbandiere e fascista che mi guardava con simpatia. I missini non mi convicevano.

Leggevo anche, episodicamente, La Discussione (il settimanale della DC che arrivava in abbonamento a casa di Sacchi). Erano i primi passi, ancora confusi verso la passione politica. Nell’estate del 1963 era morto papa Giovanni e in quella del 1964 morì Palmiro Togliatti. Il mondo comunista mi era totalmente estraneo ma fui molto impressionato dalla enorme partecipazione popolare ai funerali di cui lessi le cronache su Il Giorno ai giardinetti della Villa Reale. La domenica comperavo l’Avanti che, nella edizione domenicale, era molto ricco di articoli di storia e cultura. Di lì a poco avrei scoperto Rinascita.

Ho aperto con la immagine della IV B. Molti dei compagni di classe non ci sono più, altri li ho persi di vista da tempo, per esempio il mio compagno di banco Alberto Sala che veniva da Cavenago e che ha lungamente fatto il direttore amministrativo della Telettra.


Ultima modifica di Claudio Cereda il 24 maggio 2024


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