1960-1962: inizia l’Hensemberger
III edizione – maggio 2024
La prima superiore ha coinciso con la fine dell’esperienza del Collegio e, poiché mentre facevo la III media, la fabbrica era stata chiusa era cambiato notevolmente lo status sociale della mia famiglia. Passammo dall’essere una famiglia numerosa di imprenditori ad essere una famiglia numerosa con un padre quarantacinquenne che doveva inventarsi un lavoro. La prima decisione fu che il secondogenito (cioè io) non avrebbe fatto il Liceo Scientifico, ma l’ITIS e mio fratello Fabio che non pareva nutrire grande interesse per lo studio, anziché alle medie, venne mandato all’avviamento.
Iscriversi all’ITIS non era però così semplice; la scuola era a numero chiuso perché, in quel momento, c’era solo una classe per ogni specializzazione del triennio e si puntava molto sulla qualità.
Mia madre fece alcune visite al padre-padrone-fondatore dell’Hensemberger, l’ingegner Antonio De Majo, prima di ottenere il via libera. Negli archivi dello scientifico Frisi, quando ci insegnavo, rintracciai una domanda di iscrizione sub condizione in ci si diceva che sarei andato al Frisi se non mi avessero accettato all’Hensemberger.
l’Hensemberger, un po’ di storia
La scuola nasce nel 1945 come sezione staccata dell’ITIS Feltrinelli di Milano ma ha quasi subito l’autonomia e un Preside che ci credeva, l’ingegner De Majo. Erano altri tempi, gli ITIS nascevano come scuole dotate di autonomia amministrativa e con un fortissimo rapporto con il mondo delle imprese e ciò voleva dire possibilità di fare investimenti con mezzi propri e autonomia nelle poltiche di assunzione e gestione degli aspetti premiali.
Me ne sono reso conto sfogliando il registro dei verbali del Consiglio di Amministrazione e la prima che che vidi è che De Majo, appena nominato fu spedito a fare un tirocinio di tre anni in FIAT. La scuola venne intitolata a Pino Hensemberger lungimirante industriale del primo 900 con una azienda che produceva accumulatori per le ferrovie, i tram e la nascente industria delle auto. Il figlio di Pino, Nino faceva parte del consiglio di amministrazione della scuola.
Nel dopoguerra De Majo ha fatto crescere la scuola e nei primi anni 60 c’erano corsi serali per disegnatori meccanici per le nostre industrie di macchine utensili; appena si era sviluppata nella zona nord di Monza una fiorente industria metallurgica per l’alluminio e i suoi derivati, di Majo aveva aperto la specializzazione in metallurgia, la seconda in Italia, dopo Brescia che forniva periti alle industrie siderurgiche di Sesto San Giovanni. Una delle sue ultime creazioni fu il corso per superperiti, dopo il diploma, che anticipava di 40 anni gli Istituti Tecnici Superiori che vanno ora per la maggiore.
La scuola raccoglieva fondi anche lavorando direttamente per le imprese dell’area brianzola che venivano, a pagamento, ad effettuare le prove sui materiali nell’avanzatissimo laboratorio di tecnologia.
il primo impatto
L’Hensemberger era allora in via Enrico da Monza (nel retro dell’attuale istituto professionale Olivetti): edificio grigio, cortile in terra battuta. Fummo accolti in cortile dal preside De Majo in panciotto e farfallino che fece personalmente l’appello e ci mandò in classe. Per me che arrivavo da quattro anni di collegio era tutto nuovo, avevo un’aria da bambino per bene e i grandi, dai bidelli ai professori, mi sembravano davvero grandi.
I compagni: eravamo una trentina; un piccolo gruppo l’ho conservato sino in quinta, pochi per via delle bocciature e della scelta della specializzazione che ci avrebbe dirottato su tre percorsi distinti (meccanica, elettrotecnica, metallurgia). Tra i villasantesi Colnago di S.Alessandro, Giovanni Messa e Luigino Sacchi.
I banchi: erano in legno a tre posti e d’altra parte si trattava di un vecchio edificio che ospitava l’Hensemberger dal dopoguerra dopo una fase iniziale in via Appiani.
I professori: la professoressa Mandelli di Italiano, il professore di falegnameria (Santacaterina con l’aiutante Decio), la professoressa Brioschi di disegno (sorella dell’economo e braccio destro di De Majo dalla fondazione), il professore di Matematica Quattrone, la professoressa Ferrario di Inglese, il professor Civetta di aggiustaggio.
I trasporti: a seconda dei giorni usavo la bici o l’autobus della autorimessa Vimercati che gestiva la tratta Villasanta Monza con capolinea in piazza Daelli. Da Villasanta passava anche l’Oggiono che, per qualche corsa, aveva ancora l’autobus con il rimorchio.
Venire in pulman era l’occasione per socializzare e anche per vedere qualche ragazzina. Non faccio nomi ma qualcuna (Bianconi, Canossiane) era bella e irraggiungibile. Si viaggiava piuttosto pigiati; i primi a scendere, tra cui mio fratello Sandro, erano quelli del Frisi (alle scuderie della villa Reale) con fermata alle Missioni Estere, poi noi dell’Hensemberger e le ragazze delle Preziosine che scendevamo al ponte di Lecco mentre il grosso arrivava sino in piazza Trento.
i professori e le materie
Mandelli
La professoressa Mandelli mi ha insegnato-invogliato a leggere e scrivere ed è stata con noi anche in seconda. Avevamo un quaderno (il quaderno delle cronache) in cui dovevamo, una volta la settimana, scrivere il racconto di un evento importante che ci era accaduto. Le cronache, con una certa regolarità, venivano lette in classe e la professoressa quando voleva sentire qualcosa di bello faceva leggere quella di Cavalletti.
Mi ha invogliato a leggere la grande letteratura europea e così, nell’estate della prima e in quella della seconda, mi sono letto autonomamente un po’ di autori russi e francesi (qualche edizione BUR e poi la biblioteca civica). Il quaderno delle cronache è stato importante perché la scelta libera dell’argomento e il fatto di non dover argomentare, ma piuttosto raccontare, mi toglieva le ansie che tutti abbiamo provato di fronte al tema di italiano: come incomincio? quanto lo faccio lungo? cosa metto come conclusione?
Santacaterina
Del corso di falegnameria (quattro ore di pomeriggio) ho un ricordo molto piacevole a differenza di quello di aggiustaggio. Stavamo in un sotterraneo con quei bellissimi banconi da falegname con la morsa in legno, i fori per infilare spine che consentissero di stringere pezzi di varie lunghezze, la raspa, il mazzuolo, gli scalpelli, la sega a lama trapezoidale (il saracco), la pialla, la tuta cachi che si comprava dal Dassi Gomma con lo stemma dell’Hensemberger.
Ho acquisito manualità e controllo. Dopo aver appreso le tecniche elementari nell’uso degli utensili abbiamo passato l’anno a realizzare i principali incastri (a coda di rondine, a L, a torre, ..); cose che allora usavano i falegnami e che ora si vedono solo nei mobili antichi.
Brioschi e il panino con il salame
Con la professoressa Brioschi ho preso il primo ed ultimo quattro della mia vita (e alla fine del primo trimestre anche 5 in pagella). Ero un ragazzino, portavo i calzoni corti sino a novembre (i peli sulle gambe, insieme agli ormoni, sono arrivati nell’estate tra prima e seconda).
La professoressa Brioschi ci doveva insegnare il disegno tecnico e si incominciava con fare la punta alle mine con la carta abrasiva, squadrare il foglio, scrivere in stampatello perfetto (ma senza il normografo). La prima tavola (quella del 4) era proprio una tavola di lettere e numeri, ripetuti in corpi diversi sulle diverse righe, sino a riempire l’intero foglio in formato A3.
Immaginate la polvere di grafite quando riempi con mine semigrasse un intero foglio; aggiungete le cancellature che, quando il foglio è pieno, lasciano aloni dovunque: una cosa poco bella da vedere già per conto suo. Poi metteteci il destino (cinico e baro …): a scuola ci venivamo in bicicletta (Villasanta Monza andata e ritorno due volte al giorno). La cartella stava sul cannotto o sul portapacchi dietro; dentro i libri, i quaderni, l’astuccio, le squadre e anche il panino da mangiare all’intervallo. Maledetto panino col salame.
Avete presente cosa succede quando il grasso di maiale viene a contatto con la carta porosa: trasuda e se poi trova dell’altra carta (la mia tavola era avvolta a cilindro) trasuda anche in quella e forma una macchia translucida che stona decisamente in una tavola da disegno. Il quattro mi ha fatto piangere, ma mi ha dato un bello stimolo e alla fine della II ero ormai un disegnatore provetto: fatica, testardaggine, esercizio.
Quattrone dormiva e faceva dormire
L’amore per la matematica e per la fisica non è certamente iniziato con il professor Quattrone, un omone calabrese che parlava un italiano approssimativo, ma soprattutto, nelle lezioni del pomeriggio dormiva dietro un paio di grandi occhiali da sole.
Nel corso del 60/61, ad anno già iniziato, fu introdotta una modifica a materie e programmi legata al mutamento organizzativo degli istituti tecnici da un modello 3 + 2 a quello attuale 2 +3 e il professore di matematica si trovò (mal per lui e malissimo per noi) ad insegnare anche fisica.
Della fisica ho un ricordo tragico con tutti quei t0, t1, t2, x0, … che non capivo cosa fossero. Per farla breve mi toccò andare a ripetizione per un bel mesetto da mio cugino ingegnere finché non cominciai a comprendere e a muovere i primi passi in autonomia.
Della matematica ricordo di aver trovato qualche difficoltà nella capacità di impostare problemi con uso delle equazioni. L’uso della matematica finalizzata al problem solving, mi fece molto bene sino alla capacità di utilizzarla autonomamente in quarta e quinta, dentro le discipline tecniche, fossero l’idraulica, la meccanica e soprattutto l’elettrotecnica e l’elettronica.
Ferrario
Per Inglese, materia per me nuova, visto che alle medie avevo fatto francese, nulla da dichiarare. Una professoressa tranquilla e abbastanza simpatica e acquisizione dei rudimenti di grammatica.
Il preside De Majo ci teneva molto allo spirito di appartenenza e dunque, non solo avevamo la tuta da laboratorio, color caki, uguale per tutti e con lo stemma della scuola, ma anche la tuta da ginnastica era una divisa. Una tuta nera con una vistosa H all’altezza del cuore. Nell’edificio non c’era la palestra e per fare ginnastica andavamo al vicinissimo campo di calcio dell’Oratorio San Gerardo.
Tra le ore di scuola (mi pare 34 comprensive di rientri pomeridiani) e cose da studiare non mi restava molto tempo libero e l’unico svago era il cinema (al Lux) la domenica pomeriggio (in prevalenza film storici, di quelli girati a Cinecittà nei primi anni 60). Alla fine della prima, media del 7 (che per l’Hensemberger era un bel risultato), borsa di studio della Provincia ed assegno di 120’000 lire usato per comperare la lavatrice automatica alla mamma.
l’estate
Venne l’estate, incominciarono a muoversi gli ormoni e incominciò anche la mia prima esperienza lavorativa, totalmente gratuita e decisamente utile. Da mia zia Giovanna, che aveva trasferito il negozio di scarpe da via Mazzini in piazza Camperio, c’era bisogno di qualcuno che desse una mano (perché mi pare che il figlio Franco destinato a subentrare fosse a militare) e così passai quasi due mesi a fare il commesso di negozio; mia zia conosceva tutte le donne di Villasanta (il numero di scarpa, i difetti del piede, …) e le donne chiedevano subito di lei. Le donne avevano misure dal 34 al 38 e solo in un paio di casi si arrivava al 39.
In un cassetto del banco c’erano anche degli strani rettangoli di cartone che venivano distribuiti alle famiglie bisognose o in difficoltà. Erano i buoni della San Vincenzo che la zia preparava già separati per le diverse famiglie (1 kg di zucchero, 1 kg di pasta, 1 kg di caffè, 1 kg di pane, 250 g di burro, …). Si consegnavano brevi manu senza troppa burocrazia con una annotazione su un quaderno) ed erano spendibili direttamente presso i negozi di Villasanta che si rivalevano poi sulla parrocchia.
Imparai a confezionare i pacchi, a registrare le consegne delle scarpe in riparazione, a salire sugli scaffali del retrobottega, a consultare ed annotare il quaderno delle consegne a credito e così passò la mia prima estate delle superiori.
la seconda nella scuola nuova
Nell’estate del 1961 l’Hensemberger fece il trasloco e il nuovo anno lo abbiamo frequentato nella nuova sede di via Berchet, quella dell’Hensemberger attuale.
La amministrazione provinciale aveva realizzato le sedi per i due istituti tecnici in forte espansione l’Hensemberger e il Mosé Bianchi in un’area di terreno compresa tra la via Cavallotti e la via Sempione e di lì a qualche anno si sarebbe costruito, sul lato di via Sempione, il Frisi.
La sede dell’Hensemberger era enorme per la grande quantità di laboratori e di aule speciali eppure nel giro di pochi anni, a causa del boom nelle iscrizioni fu necessario aprire la succursale agli Artigianelli e sedi staccate da cui sarebbero nati nuovi istituti tecnici per filiazione (Vimercate, Desio, Seregno, Cesano, Limbiate).
Del primo anno nel nuovo edificio ho pochi ricordi perchè noi di seconda non andavamo nei laboratori e nelle aule speciali, salvo per fare aggiustaggio e disegno e la scuola era molto compartimentata sotto il tallone di ferro del preside De Majo. Erano cambiati anche un bel po’ di compagni di classe tra bocciature, passaggi al serale e immissione di ripetenti.
Regola numero uno e unica: gli studenti usavano solo le scale laterali (quelle di sicurezza) mentre l’ingresso e l’uscita avvenivano dal sotterraneo dove c’era anche il parcheggio per bici e motorini. Lo scalone centrale era riservato ai professori. Su questi aspetti vigilava il custode Beltrandi, detto Speedy per via della rapidità nell’interloquire e per i baffett alla Speedy Gonzales.
L’attuale grande atrio con il busto in bronzo di Pino Hensemberger era il sancta sanctorum interdetto agli alunni e in effetti, nella presidenza, ci sono entrato per la prima volta, da Preside, solo nel 2008. Gli studenti interagivano solo con i professori stando in aula e al più si andava dal bidello al piano per comperare i panini (anche se c’era il bar, ma non era cosa per gli studenti).
aggiustaggio
Nulla da dire per Italiano e Inglese che proseguirono in continuità metodologica e con i medesimi professori. Ho un ricordo poco gradevole del corso di aggiustaggio (ben 6 ore settimanali in due moduli 4+2) . Il laboratorio era bello e nuovo, pesanti banconi a due posti con la morsa da ferro, ma lavorare con il ferro era meno gratificante che con il legno.
Bisognava spianare delle lastre di ferro dello spessore di mezzo centimetro e poi fare il solito incastro a coda di rondine. Con il legno, se sbagli un colpo, dai un colpo di raspa e ricominci; con il ferro è più dura; se sbagli un colpo butti via ore e ore di lavoro e puoi sbagliare mentre dai l’ultimo colpo di lima, puoi sbagliare anche con il seghetto quando intagli l’incastro; insomma una sana educazione alla sistematicità, all’ordine, al controllo dei movimenti, tutte cose poco amate dai sedicenni.
Abbiamo imparato ad usare il calibro ventesimale, il piano comparatore cosparso di blù di metilene che ti fa vedere tutti i peccati nella tua superficie che piana non è. Alla fine dell’anno, dopo aver lavorato onestamente, quasi tutti abbiamo comunque barato nella consegna del pezzo finale.
Noi di Villasanta l’abbiamo fatto fare agli attrezzisti della Colombo Agostino e, poiché i pezzi di ciascuno erano individuati da un numero progressivo punzonato, abbiamo fatto una colletta e abbiamo comperato i punzoni con i numeri uguali a quelli che si usavano a scuola.
Visto con gli occhi di oggi, non solo penso che sia stato un peccato abolire falegnameria prima e aggiustaggio poi, ma ritengo che alcune ore di lavoro manuale di vario tipo bisognerebbe farle fare a tutti, anche a quelli del classico: abituano al rigore, al controllo corporeo, alla manualità.
matematica
In matematica, in seconda abbiamo fatto le cose essenziali di algebra e geometria, ma anche la trigonometria (quella che allo scientifico si fa in quarta). Niente disequazioni, che ho imparato all’università conservandone l’approccio unitario: le disequazioni razionali e irrazionali, goniometriche e trascendenti sono una cosa unica, abituano a ragionare e a cogliere la fattispecie di ciò che fai. Tempo sprecato diluirle in 4 anni come si fa allo scientifico.
le scienze (fisica, chimica, biologia)
Secondo anno con la fisica, che incominciava a piacermi per via della elettricità. Anche i prof erano alle prime armi e scoprii l’anno dopo, studiando elettrotecnica, che alla mia domanda sul come mai gli uccelli non prendessero la scossa posandosi sui fili delle linee elettriche, mi era stata data una risposta demenziale: forse perché la pelle delle zampe è particolamente isolante.
Affinché ci sia passaggio di corrente bisogna collegare due punti a potenziale diverso e gli uccelli stanno su uno stesso filo, dunque …
In seconda è incominciato lo studio della chimica con una parte di chimica generale senza troppi fronzoli sui modelli atomici, ma con una grande attenzione alla chimica inorganica. Con un sano approccio da ITIS, attenzione alle proprietà dei principali elementi e questo approccio proseguì in terza con un corso di chimica organica e industriale orientato (nella prima parte) ai derivati del petrolio e alle proprietà degli idrocarburi e, nella seconda, ai processi industriali di produzione dei composti di interesse industriale (soda, acido solforico, alluminio, ipoclorito di sodio, …).
In quell’anno abbiamo fatto un bellissimo corso di scienze; l’unico corso di scienze della mia vita. Ci faceva lezione una professoressa molto professionale e molto mamma il che a 15 o 16 anni è un bene. Feci un bellissimo quaderno degli appunti multicolore; con mio fratello che stava allo scientifico facemmo l’erbario.
Si era nel 62 e dunque a scuola non si parlava ancora di DNA e di biochimica. Il corso si basava su elementi essenziali di citologia, organi ed apparati; tanta descrizione, classificazione e funzionamento degli stessi. La professoressa si chiamava Pasini. Da Preside ho cercato notizie su di lei nell’archivio dell’Hensemberger e ho scoperto che ha avuto una storia professionale molto lunga che iniziava addirittura a metà degli anni 30.
In scienze ho preso 9 e me ne ricordo perché è stato l’unico nove della mia storia scolastica. Nei tecnici, anche se eri bravo e autonomo, al più prendevi 8 (era come se la scala di classificazione andasse dal quattro all’otto anziché dall’uno al dieci).
De Molfetta
E disegno? Non c’era più la prof. Brioschi, ma un personaggio stranissimo (ingegnere o perito) che si chiamava De Molfetta. La conoscenza dei fondamenti del disegno meccanico era data per acquisita e De Molfetta, ex dipendente Isotta Fraschini (e innamorato delle medesime auto) cercava di insegnarci cultura e competenze del perito industriale. Diceva: quando lavorerete per una azienda dovrete essere rapidi di occhio, di memoria e di matita, così si carpiscono i segreti industriali. E si comportava di conseguenza.
Portava in classe dei pezzi meccanici; ci dava un certo tempo per osservarli, li metteva via e poi ci chiedeva o di fare uno schizzo a mano libera, oppure di ricostruire il pezzo tridimensionale facendone le proiezioni nel rispetto delle dimensioni. Dura; ma utile.
educazione fisica
Abbiamo avuto il professor Dante Tarca che ci avrebbe seguito sino al diploma. Tarca, che ha insegnato all’Hensemberger dal 51 all’83 era bello tosto sulla formazione di base; nel 64 avrebbe fondato l’ISEF a MIlano; in palestra seguiva i fondamenti al corpo libero e alle funi e pertiche ma, appena possibile ci portava a fare sport al campo dell’Oratorio di Triante.
problemi in famiglia
E fuori da scuola? In famiglia c’erano il solito tran tran e le solite ristrettezze economiche aggravate dal fatto che papà, un sera che stava andando in auto a trovare la zia Linda a Cusano Milanino, aveva investito una coppia di fidanzati che camminavano al buio sulla destra lungo la strada che da Nova Milanese porta a Cusano. Un morto e un ferito.
I pedoni, secondo il codice della strada avrebbero dovuto stare a sinistra ma, sull’altro lato c’erano le rotaie del tram, e dunque ci fu un concorso di colpa in un contesto in cui, per via della chiusura della fabbrica, erano rimasti in sospeso i pagamenti della assicurazione che non garantì alcuna copertura (fine degli ultimi soldi rimasti e processo penale).
Un’altra grana per papà … Di lì a poco venne però miracolato dalla Madonna delle Grazie. Pioveva, era in macchina con Guerrino sulla 600 multipla della ditta e vennero investiti da dietro da un mega autobus della ATM che li schiacciò e spinse la macchina contro un palo della luce. La foto rimase esposta nella galleria degli ex voto per diversi anni perché, non si sa come, ne uscirono indenni entrambi.
Abitavamo ancora in via Mazzini, ma la fabbrica era chiusa e svuotata delle macchine vendibili. Papà si stava riconvertendo al lavoro di sub agente assicurativo. Per me incominciavano le prime passioni per le moto e i motorini, il gusto dello smontare e rimontare. Per qualche mese ho avuto un motom (il 48 a marce e 4 tempi) recuperato da qualche parte di seconda mano. Nel cortile di cemento, con mio fratello Sandro, facevamo anche qualche partita a tennis.
Nella fase finale di quell’anno mi sono staccato dall’ambiente oratoriano di paese che incominciava a starmi decisamente stretto e ho iniziato a frequentare GS (Gioventù Studentesca) che allora, nella ricerca di un rapporto integrale tra religione e vita, segnava un momento di rottura con la chiusura e il conformismo di paese e famigliare.
In GS c’erano anche le donne e mia moglie l’ho conosciuta lì proprio in quell’anno. Importanti e significative le “tre giorni”, uscite residenziali (la prima a Varigotti con don Giussani ma negli anni dopo quelle in montagna nelle vacanze di Natale). Se ne parlerà in uno dei prossimi capitoli
Ultima modifica di Claudio Cereda il 20 maggio 2024
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