fine vita – diritti – bene: sono senza parole ma reagisco con pacatezza
Mettiamola così: io sono a favore dell’eutanasia tra gli umani e penso che tra qualche decina d’anni questo tema sarà sdoganato e diventerà indiscutibile come è accaduto per gli animali da affezione. L’unica differenza che vedo è che nel caso degli animali l’uomo si assume un diritto di decidere al posto dell’animale.
Mi spiace che la Camera abbia deciso in maniera peggiorativa rispetto allo status quo e penso che si tratti di un risultato che indica lo scollamento tra paese legale e paese reale.
Sta cambiando la nostra concezione della vita che perde il suo retaggio di sacralità ed avanza una idea della vita in cui si sfumano le differenze tra vita umana e vita dei mammiferi e alcune problematiche vengono viste come una questione di grado. E’ giusto ciò che è buono come sostiene il padre della bioetica laica Peter Singer.
Non voglio entrare nei dettagli tecnici di questa legge perché ho avuto l’impressione che si siano esercitati gli azzeccagarbugli per depotenziare persino le cose ovvie, ma voglio citare almeno un aspetto positivo: il fatto che i trattamenti per certi tipi di condizioni drammatiche rientrino nei LEA (livelli essenziali di assistenza) e che dunque le famiglie non saranno più lasciate sole con la scusa dei bilanci delle ASL.
Ho preso posizione più volte e vi rimando a qualche link:
Prendo dalla Stampa questo articolo di un grande scienziato che da anni lavora sul cancro ed è dunque abituato a vederne gli effetti devastanti nelle fasi terminali. Lui dice meglio di me tante cose che condivido.
UMBERTO VERONESI
Ho avviato sei anni fa in Italia la campagna di sensibilizzazione a favore del Testamento Biologico, per allineare l’Italia ai Paesi civilmente avanzati – ad esempio gli Usa, la Francia, la Germania, la Gran Bretagna – come è, e sempre è stato il nostro.
È stata per me una battaglia culturale per l’evoluzione di un pensiero in cui credo da sempre: il pensiero laico, libero, trasversale. Ho scritto, come autore unico o insieme ad alcuni dei nostri migliori giuristi, cinque libri sul tema della libertà e il diritto di accettare o rifiutare le cure in ogni circostanza, sulla base delle convinzioni personali. Questo è infatti l’obiettivo del Biotestamento ovunque nel mondo: mettere sempre al centro di ogni decisione la volontà della persona.
Avevo anche qualche ambizione in più. Ho sempre pensato che il testamento biologico – cioè l’espressione anticipata delle proprie volontà circa le cure che si vogliono o non si vogliono ricevere, in caso di perdita della facoltà di esprimersi di persona – potesse avere anche un valore educativo, perché obbliga ognuno ad affrontare i temi esistenziali, a dibatterli con altri e a interrogare se stesso su come vorrebbe concludere il proprio ciclo biologico, nel caso tale evento grave si realizzasse. Un dibattito utile quindi alla formazione di una personalità consapevole e cosciente sul grande tema dell’autonomia di decisione. La discussione su questi argomenti inizia nel mondo nel 1983, a seguito dell’incidente di Nancy Cruzan, che a soli 26 anni la fece piombare in uno stato vegetativo permanente irreversibile.
La sua famiglia, dopo varie petizioni e ricorsi, ottenne nel 1990 l’autorizzazione della Corte Suprema degli Stati Uniti alla sospensione della nutrizione artificiale. Da qui nacque il movimento right-to-die, per il diritto di morire, e i successivi movimenti civili per riappropriarsi delle decisioni di fine vita, di fronte a una medicina che stava diventando sempre più potente e invasiva, capace addirittura di tenere artificialmente in vita (se vita la possiamo definire) un corpo ridotto a un vegetale, senza coscienza, senza percezioni visive e uditive, né percezione del dolore.
Prima ancora, nel 1978, l’olandese Van den Berg scrisse «Medical Power and Medical Ethics», che in vari Paesi ha portato all’introduzione del «living will», la volontà di vivere, tradotto in italiano appunto «testamento biologico». In realtà la discussione sulla bioetica nasce in precedenza, negli Anni 70, quando l’americano Van Potter, con il libro «Bioethics, bridge to the future», coniò questo termine con un significato preciso: l’etica medica deve ispirarsi alla biologia della vita dell’uomo e opporsi all’invasione della tecnologia nella medicina.
Credo che molti bioeticisti non conoscano l’origine e il significato del pensiero di Van Potter. Cosa c’è di più tecnologico e artificiale che mantenere in vita forzatamente un insieme di organi? Eppure questo farà il disegno di legge approvato ieri, caso unico nel mondo occidentale: ci imporrà per legge la vita artificiale. E così chi, come me, si impegna per il progresso della cultura viene profondamente tradito. Ed è soprattutto tradita un’ampia parte della popolazione che si affida con fiducia alle istituzioni e alle persone che guidano il proprio Paese. La gente è molto più consapevole, cosciente e pronta all’autodeterminazione di quanto si possa pensare e, come rivelano tutti i sondaggi, è a favore del testamento biologico come strumento di espressione di volontà individuale.
Di fronte a questa realtà noi promotori originari del testamento biologico in Italia dichiariamo che è meglio nessuna legge che una legge traditrice, e chiediamo di fermare un iter legislativo che, anche qualora sfociasse nella approvazione di Camera e Senato, non potrà che ritornare nelle Corti e creare cause su cause e ricorsi su ricorsi. Il disegno di legge attuale infatti calpesta con evidenza l’articolo 31 della Costituzione italiana, oltre che la volontà della maggioranza dei cittadini. Senza questa legge, la questione di fine vita invece uscirebbe dai tribunali e ritornerebbe a essere discussa caso per caso, in scienza e coscienza dai medici e in libertà dai cittadini. Da tutti i cittadini, da chi crede nella sacralità della sua vita e la considera un dono di Dio e un bene non disponibile, e da chi invece crede nella sua inviolabile responsabilità e libertà.
Peter Singer: (da “ripensare la vita”)
Secondo comandamento antico: non sopprimere mai intenzionalmente una vita umana innocente
Il secondo comandamento va respinto perché è troppo perentorio per consentirci di affrontare tutta la varietà delle possibili circostanze della vita.
Noi abbiamo già visto fino a che punto lo si possa spingere, quando abbiamo esaminato l’insegnamento della Chiesa cattolica secondo il quale è moralmente sbagliato uccidere un feto anche quando l’aborto rappresenti il solo modo per impedire la morte sia della donna incinta sia del suo feto.
Per coloro che si prendono la responsabilità delle conseguenze delle proprie decisioni, questa dottrina è assurda. Per quanto possa essere terribile pensarlo, si può ben dire che nell’Ottocento e nei primi decenni del Novecento essa probabilmente ha causato la morte, dolorosa e non inevitabile, di un gran numero di donne ricoverate negli ospedali cattolici o curate da medici o ostetriche cattolici.
È ciò che accadeva, per esempio, quando durante il travaglio la testa del feto si bloccava e non si riusciva più a liberarla. Allora l’unico modo di salvare la donna era di compiere un’operazione nota come craniotomia, che prevedeva l’inserimento di un attrezzo chirurgico nella vagina e lo schiacciamento del cranio del feto. Se questo non veniva fatto, nel corso del parto morivano sia la madre sia il bambino.
Questa operazione ovviamente rappresenta l’ultima risorsa. Nondimeno, è raccapricciante pensare che, in un’emergenza simile, un medico animato dalle migliori intenzioni se ne stia a guardare, mentre madre e bambino muoiono. Eppure per un’etica che combina il divieto assoluto di sopprimere ogni vita umana innocente e la tesi che il feto è una vita umana innocente, non ci sono alternative.
Per la Chiesa cattolica riconoscere la liceità della craniotomia avrebbe voluto dire rinunciare o alla portata assoluta del suo divieto di sopprimere una vita umana innocente, o alla tesi che il feto è una vita umana innocente. Ovviamente, essa non voleva fare, e non vuole fare, né l’una né l’altra cosa. Il suo insegnamento resta il medesimo. Se oggi esso non produce più morti inutili di madri, è solo perché i progressi delle tecniche ostetriche consentono di liberare e rimuovere il feto vivo.
Un’altra circostanza in cui il secondo comandamento antico dev’essere abbandonato è quella in cui, come hanno sostenuto i membri della Camera dei Lord nel decidere il caso Bland, la vita non è più di nessun beneficio a chi la vive. Ma la sola eccezione al divieto assoluto di sopprimere una vita umana innocente che i Lord inglesi riuscirono a giustificare in quel caso, ossia lasciare intenzionalmente che una vita venga meno sospendendo o negando il trattamento, lascia aperto il problema dei casi in cui è meglio ricorrere a mezzi attivi per sopprimere una vita umana innocente.
La legge ha giudicato il dottor Nigel Cox colpevole del tentato omicidio di Lillian Boyes a dispetto del fatto che la paziente aveva chiesto di morire e che il medico sapeva che essa non aveva davanti sé niente, se non qualche altra ora di agonia. Non c’è bisogno di dire che nessuna legge, nessun tribunale e nessun codice di etica medica avrebbe imposto al dottor Cox di fare tutto il possibile per prolungare la vita di Lillian Boyes.
Se la donna, per esempio, fosse diventata improvvisamente incapace di respirare da sola, sarebbe stato moralmente e giuridicamente ineccepibile sia astenersi dal collegarla a un respiratore sia staccare il respiratore, nel caso in cui le fosse stato applicato in precedenza. Il solo pensiero di prolungare le sofferenze di Lillian Boyes è ripugnante e la decisione di porlo in atto sarebbe stata giudicata sbagliata sia dall’etica tradizionale sia da quella nuova.
Ma ciò dimostra solo quanta importanza assegni l’etica tradizionale alla sottile linea divisoria che separa la scelta di porre fine a un’esistenza sospendendo il trattamento e la scelta di ottenere lo stesso risultato con un’iniezione letale. L’atteggiamento dell’etica tradizionale è ben sintetizzato dal celebre distico: Non devi uccidere. Ma non occorre affatto che tenti spasmodicamente di prolungare la vita.
Questi versi a volte vengono pronunciati con tono ammirato e reverente, quasi racchiudessero il pensiero di qualche saggio antico. Un medico, scrivendo a «Lancet» per difendere il non-trattamento dei bambini affetti da spina bifida, ne parlò come del «vecchio detto che ci è stato insegnato quando eravamo studenti di medicina».
In realtà si tratta di versi che vogliono essere ironici. Una rapida occhiata alla composizione da cui sono tratti, ossia II nuovo decalogo (The Latest Decalogue) di Arthur Hugh Clough, basta a togliere ogni dubbio sulle intenzioni dell’autore; si direbbe che questi due versi, al pari di tutti gli altri del libro, vogliano mettere a nudo fino a che punto noi abbiamo dimenticato lo spirito dei dieci comandamenti originari. In qualche altro distico questa intenzione è inequivocabile. Per esempio in questo: Non adorare nessun idolo, tranne il denaro.
Clough, quindi, avrebbe avallato una visione ampia della responsabilità. Non basta non uccidere. Noi siamo responsabili anche delle conseguenze della nostra decisione di non tentare spasmodicamente di prolungare la vita.
Secondo comandamento nuovo: assumiti la responsabilità delle conseguenze delle tue decisioni
Anziché concentrarsi sul fatto che i medici intendano o no porre fine alla vita dei loro pazienti o che affrettino la loro morte sospendendo l’alimentazione invece che praticando un’iniezione letale, il comandamento nuovo insiste che i medici devono chiedersi se la decisione che, come prevedono, metterà fine alla vita di un paziente sia, tutto considerato, quella giusta.
Insistendo che noi siamo responsabili delle nostre omissioni non meno che delle nostre azioni, di ciò che deliberatamente ci asteniamo dal fare non meno che di ciò che facciamo, si può spiegare molto chiaramente perché i medici facessero male a seguire le indicazioni della Chiesa cattolica, quando la craniotomia era il solo modo di impedire che morissero insieme madre e bambino.
Ma questa soluzione del dilemma ha un prezzo: in mancanza di una qualche limitazione delle nostre responsabilità, il nuovo approccio etico può diventare estremamente esigente.
In un mondo che dispone di mezzi moderni di comunicazione e di trasporto, e in cui alcune persone vivono sull’orlo della morte per fame, mentre altre godono di grande agiatezza, c’è sempre da qualche parte qualcosa che possiamo fare, per tenere in vita un’altra persona malata o sottoalimentata.
Che tutti noi che viviamo in nazioni ricche, con una disponibilità di denaro molto superiore a quella necessaria al soddisfacimento delle nostre necessità, dobbiamo fare molto di più per aiutare i cittadini dei paesi poveri a raggiungere un livello di vita che consenta loro il soddisfacimento dei bisogni fondamentali, è un punto su cui quasi tutte le persone riflessive convengono; ma l’aspetto preoccupante di questa visione della responsabilità è che non sembrano esserci limiti all’entità del nostro impegno.
Se siamo responsabili di ciò che non facciamo, non meno che di ciò che facciamo, non è forse moralmente sbagliato acquistare abiti alla moda e pranzare in ristoranti costosi, quando con il denaro risparmiato evitando quelle spese potremmo salvare la vita di un uomo che da qualche parte del mondo sta morendo, perché non ha di che sfamarsi? Evitare di finanziare le varie organizzazioni di soccorso non significa rendersi colpevoli di un omicidio o di una colpa ugualmente grave?
Il nuovo approccio non implica necessariamente l’equiparazione dell’omesso salvataggio di una persona alla sua uccisione. Senza una qualche forma di proibizione dell’omicidio, la società non può sopravvivere; lo stesso non si può dire di una società in cui le persone non salvano i propri simili in stato di necessità, anche se si tratterà di una società più fredda e meno solidale.
Le persone disposte a uccidere normalmente fanno più paura di quelle disposte a lasciar morire. Nella vita quotidiana, quindi, ci sono buone ragioni per proibire più rigorosamente l’omicidio che l’atto di lasciar morire. Inoltre, mentre si può esigere da tutti che si astengano dall’uccidere persone che desiderano continuare a vivere, esigere dagli altri un’abnegazione eccessiva, per garantire un’assistenza a degli estranei, significherebbe porsi in netto contrasto con alcune tendenze forti e pressoché universali della natura umana.
Forse un’etica vitale deve consentirci di manifestare un grado moderato di parzialità nei confronti di noi stessi, della nostra famiglia e dei nostri amici. Questi sono gli spunti di verità presenti nell’idea fuorviante che noi siamo responsabili di ciò che facciamo, ma non di ciò che non facciamo.
Proseguire nella discussione di questi problemi concernenti la responsabilità di correre in aiuto degli estranei, esula dagli obiettivi di questo libro. Nondimeno due conclusioni sono già evidenti. Innanzitutto, la distinzione tra uccidere e lasciar morire è molto meno netta di quanto solitamente si creda; ripensare la nostra etica della vita e della morte può voler dire giudicare con maggiore serietà il fatto che non facciamo abbastanza per le persone a cui potremmo salvare la vita senza grossi sacrifici personali.
In secondo luogo, quali che possano essere le ragioni per preservare almeno parzialmente la distinzione tradizionale tra uccidere e lasciar morire, per esempio che è peggio uccidere delle persone che rifiutarsi di dar loro il cibo di cui hanno bisogno per sopravvivere, tali ragioni non valgono quando, come nel caso di Lillian Boyes, una persona desidera morire e la morte promette di riuscire più rapida e meno dolorosa, se prodotta da un atto (per esempio, un’iniezione letale) anziché da un’omissione (per esempio, lasciare che nel paziente si sviluppi un’infezione e non curarla poi con antibiotici).