Premierato e riforma-trappola
I presupposti di fatto che comandano il dibattito sul premierato sono due. Primo: gli Italiani hanno necessità oggettiva di un governo che sia capace di districarsi tra la giungla degli interessi individuali e di gruppo – tutti legittimi o quasi – per far prevalere l’interesse collettivo del Paese, che non è semplicemente la somma algebrica dei medesimi. Si tratta della somma della paralisi.
Secondo: la necessità oggettiva non si tramuta in una massiccia domanda soggettiva, perché i partiti e i movimenti che dovrebbero rappresentarla non ne sono convinti loro per primi. Quando si trovano a governare, si rendono conto che i bottoni della famosa stanza sono soltanto dei “trompe l’oeil” (inganni per la vista).Premono fortemente, ma non succede nulla. E perciò vorrebbero un governo “forte”. Ma quando passano all’opposizione sono ben lieti che il governo sia “debole”. Perché avviene questa “alternanza del non-governo”? Perché i partiti non riescono a porsi dal punto di vista generale del Paese, benché producano accese verbigerazioni sulla Resistenza, sulla Costituzione, sulla Patria, sulla Nazione. La fazionalità prevale sul Bene comune, comunque immaginato, per un intreccio di ragioni storiche più volte e da molti indagate.
Il Premier necessario e il premierato pasticciato
Questa breve premessa serve a spiegare perché il premierato che la Meloni sta cucinando rischi di bruciare in padella, prima di essere servito in tavola. Si intrecciano, in questa storia destinata ad un poco lieto fine, tre componenti: un’antica paura, la campagna elettorale in corso, i cattivi ingredienti della pietanza.
L’antica paura è quella de “l’uomo solo al comando”. Il semi-presidenzialismo della Commissione D’Alema del 1998 “spaventò” Berlusconi: c’era il rischio del “Prodi al comando”.
Nel 2006 il premierato di Berlusconi spaventò i DS: c’era il rischio del “Berlusconi al comando”. Nel 2016 fu Renzi con il suo referendum a spaventare la destra e molta sinistra, unite nella lotta contro “l’uomo solo al comando”. Nel 2024 è il premierato, targato Meloni, a far temere alla sinistra un capo “fascista”.
In questo maggio 2024, tuttavia, majora premunt! Servono voti per le elezioni europee. Tutti i sondaggi danno l’astensionismo in aumento. I partiti corrono pertanto a fidelizzare/fanatizzare l’elettorato più stretto. Perciò accendono i toni, fanno mosse teatrali. Così la sinistra chiama alla difesa finale della Democrazia.
Quanto ai cattivi ingredienti della pietanza, qui la prima responsabilità è della maggioranza di governo, che, dopo mesi di melina interna, è corsa alla presentazione di un modello di premierato gravemente lacunoso.
La melina interna: aveva come oggetto lo scambio premierato/autonomia differenziata tra FdI e Lega. La lacuna grave: i punti chiave della legge elettorale, elemento essenziale della nuova forma di governo, saranno decisi solo dopo il varo della riforma costituzionale.
Il disegno di Legge che sarà discusso al Senato il 18 giugno prevede l’elezione diretta del Premier, stabile per cinque anni. Ottimo! Ma, con quale maggioranza minima? Con ballottaggio? E come garantire che il Premier abbia la maggioranza dei voti nelle due Camere?
Se si usa la proporzionale, occorre un premio di maggioranza. Ma a quale altezza? Si era partiti dal 55%, si è scesi al 42-43%, ma la Lega scenderebbe anche sotto il 40%. Si tratterebbe di un’iper-minoranza reale nel Paese. La maggioranza di governo si riserva di rispondere a queste domande solo dopo l’approvazione della riforma costituzionale.
Se la maggioranza ha deciso sconsideratamente per pura propaganda elettorale di partire dal tetto, giacché le fondamenta – cioè la legge elettorale – non le ha neppure progettate, è però riuscita a fornire un alibi perfetto all’opposizione, che, Pd in testa, si è blindata nella ridotta valtellinese – absit injuria verbis! – della “Costituzione più bella del mondo” e della denuncia non del “salto nel buio”, ma nella dittatura. Alla Benito? Alla Orban?
Quando una “riforma” istituzionale diventa una trappola
Poiché ambedue gli schieramenti sono convinti di vincere, rifiutano accordi in Parlamento e puntano al referendum confermativo, che non abbisogna di quorum: un’altra anomalia pirandelliana.
Così ci troviamo stretti da una tenaglia: se il premierato non passa, il “non-governo” continuerà come prima e, perciò, peggio di prima. Perché il meglio/peggio non si definisce da tempo in Italia e poco anche in Europa: è il quadro geopolitico che decide e che sta peggiorando. Un governo istituzionalmente forte è la richiesta minimale dell’attuale situazione internazionale.
Se il premierato non passa, allora finiremo in una trappola di conflitti istituzionali, che sono l’anticamera di conflitti radicali tra soggetti sociali e soglia di guerre civili. “O la va o la spacca!” ha dichiarato la Meloni in TV. Se perdo, lascio la politica, aveva dichiarato bullescamente Renzi. Se perdo, “chissene frega!” declama spavaldamente la Meloni. Già, ma se si spacca l’Italia?
La sconsolante morale di questa storia è che sui partiti non soffia nessuno spirito costituente. Nessuna Pentecoste, solo una fragile Torre di Babele, nella quale tutti parlano e nessuno si capisce. A quanto pare, l’unico terreno condiviso di unità nazionale dei partiti è la spesa pubblica e, perciò, il debito pubblico. Terreno che una vasta parte della società civile frequenta volentieri. Perché lì i conflitti si sedano, dando a ciascuno qualcosa, secondo un efficace anacoluto ambrosiano, quello dei mercati del bestiame: “Chi al vusa pü sé, la vaca l’è sua”! E quando la biada finisce? “Stiamo consumando le sementi”, scrisse profetico il grande teologo protestante Karl Barth nel 1925, in piena Repubblica di Weimar.