vile … tu uccidi un uomo morto

Sono passati 14 anni dai fatti e ce ne sono voluti quasi 10 per arrivare ad una sentenza di primo grado. Ma l’obiettivo politico fu ottenuto sin dal 2010 da Silvio Berlusconi che doveva far fuori il numero 2 del Popolo delle Libertà, suo antagonista su questioni di contenuto e prospettiva politica favorevole ad una destra  laica, moderna ed europea.

Ieri sera, quando si è avuta la condanna in primo grado a 2 anni e mezzo a Gianfranco Fini mentre la compagna Tulliani, il cognato Tulliani e il suocero Tulliani si sono beccati ciascuno più del doppio mi sono detto, vediamo cosa scriveranno i quotidiani che, per conto del proprietario dei giornali medesimi, avevano dato il via alla campagna?

Mi aspettavo un comportamento da gentiluomini, visto che i reati più gravi, quelli connessi al riciclaggio, non sono  stati provati; Fini è stato condannato per aver autorizzato la vendita. Invece sono rimasto deluso. Metto in coda all’articolo, scegliendo fior da fiore, estratti dall’editoriale di oggi de Il Giornale. Di qui il titolo del mio articolo.

La vicenda si era incentrata su un aspetto duplice: Alleanza Nazionale, tramite i buoni uffici della famiglia Tulliani, vendeva ad una società off-shore, dietro cui stava Giancarlo Tulliani, che pagava con i soldi dell’imprenditore delle slot-machine Corallo, ad un prezzo molto conveniente, un mini-appartamento adiacente al casinò di Montecarlo.

L’appartamento era frutto di un lascito testamentario e la vendita a favore dell’occulto Tulliani per soli 300 mila euro, secondo le indagini, serviva a Corallo per sbiancare soldi sporchi. In cambio del favore Giancarlo Tulliani, avrebbe poi rivenduto  con un guadagno del 500% e restituito i 300 mila euro ormai ripuliti.  Le plusvalenze sono una costante, basta pensare a quella recente che ha visti coinvolti il duo LaRussa-Santanché con la casa di Alberoni ma l’occasione di far fuori Fini per un affare di famiglia era cosa ghiotta.

La sua compagna si è presentata al processo a marzo dichiarando: ““Ho nascosto a Gianfranco Fini la volontà di mio fratello di comprare la casa di Montecarlo. Non ho mai detto a Fini la provenienza di quel denaro, che ero convinta fosse di mio fratello … Il comportamento spregiudicato di mio fratello rappresenta una delle più grandi delusioni della mia vita“.

A sua volta Fini aveva dichiarato: “Quella dell’appartamento di Montecarlo è stata la vicenda più dolorosa per me… Loro insistettero perché mettessi in vendita l’immobile. Giancarlo mi disse che una società era interessata ad acquistarlo  ma non sapevo che della società facevano parte lui e la sorella: la sua slealtà e la volontà di ingannare e raggirare credo si sia dimostrata in tutta una serie di occasioni“. Vicenda dolorosa  perché ci sono di mezzo due figlie minori.

Ho deciso di parlarne perché da quello scandalo Fini ne è uscito con le ossa rotte e con la carriera politica distrutta: messo fuori dal Popolo delle Libertà e condannato alla irrilievanza.

La memoria è andata ad altri due personaggi che, sul fronte comunista, hanno fatto la stessa fine per aver osato spingere troppo sul pedale dell’acceleratore: Gorbacev con lo scioglimento dell’URSS e Achille Occhetto con lo scioglimento del PCI. La storia sarà grata ad entrambi, ma il primo in Russia è visto come il fumo negli occhi e il secondo, accusato di aver fatto troppo o troppo poco, a seconda dei punti di vista, è rimasto subito fuori dai giochi del PDS, DS, …

E che dire dell’altro grande innovatore culturale della sinistra italiana, Matteo Renzi. Con lui hanno tentato tutte le strade dello sputtanamento e una alla volta le sentenze gli stanno dando ragione.

Ed ecco allora gli estratti dall’editoriale di oggi del Giornale di Stenio Solinas


Leonardo Sciascia faceva risalire la nascita del «cretino di sinistra» agli anni Sessanta, «mimetizzato nel discorso intelligente, nel discorso problematico e capillare». Non aveva previsto però che trent’anni dopo, e avendo intanto celebrato di quel cretino la prevalenza e poi la decadenza, la legge del pendolo sarebbe andata a suonare l’ora della cretinaggine dall’altra sponda politica. Gianfranco Fini (condannato ieri a due anni e otto mesi per la «casa di Montecarlo») aveva tutto per incarnarla: parlava bene senza dire niente, era presuntuoso, era relativamente giovane, era sempre stato cooptato dall’alto, era cresciuto in un partito dove il cesarismo e il gregarismo la facevano da padrone. Era, ha scritto qualcuno, «il migliore dei suoi». E questo fa capire cosa e come fossero gli altri.

Come leader di partito, Fini fu il becchino del suo mondo. Lo fece vincere, ma seppellendolo. La conquista del potere trasformata in potere che dà la conquista, pura e semplice, senza complicazioni di sorta, senza un motivo, un sentimento, un pensiero. Il grado zero della politica, o il degrado, fate voi.

Anni fa, in un’intervista al Fatto Quotidiano, di fronte alla scelta monegasca fra l’essere ritenuto «un coglione» o l’essere considerato «un corrotto», Fini optò per la busta numero uno e da quella scelta contenuta in quella busta ancora oggi non si è più discostato. C’è da credergli sulla parola, non fosse che un politico coglione spesso fa più danni di un politico che si limita a rubare…

All’epoca Fini scambiò se stesso per un professionista e Silvio Berlusconi per un parvenu: nella logica del «delfinato», l’unica che conoscesse e che avesse praticato, l’età e i guai giudiziari avrebbero fatto il resto Il risultato fu che Berlusconi gli mangiò, letteralmente, il partito e l’altro finì (un verbo che sta per un nome) per lasciarsi irretire da una politica bizantina di Palazzo dove il meno esperto aveva alle spalle un quarto di secolo di intrighi. Non c’era partita, insomma.

In politica la stoltezza significa anche provincialismo. Se n’è accorto a sue spese Matteo Renzi, reo di aver scambiato Rignano sull’Arno per la Firenze dei Medici e aver confuso Calandrino con Lorenzo il Magnifico. Nel caso di Fini fu letale: non c’era uso di mondo, ci si ritrovava a fare il ministro degli Esteri senza mai essere andato oltre Anzio, ci si compiaceva di fare il sub immergendosi in acque vietate, ci si beava di salotti e rotocalchi, ci si illudeva sull’amore a cinquant’anni e su questo tema non andiamo oltre per una questione di stile. Tutto questo, paradossalmente, finì (idem come sopra) per fare di lui non tanto un odiatore di sé stesso, quanto del mondo da cui proveniva e in cui si era completamente formato. Si illuse che distruggendolo e disprezzandolo venisse fuori un altro io, un leader diverso. Solo che sotto quella camicia nera buttata nel cestino dei rifiuti c’era il nulla.

La vicenda di Montecarlo rimane esemplare non solo per la «coglionaggine» del leader, ma anche per quella dei suoi supporter e difensori dell’epoca, intellettuali più o meno intelligenti, politici più o meno navigati, pronti a gettare il cuore oltre l’ostacolo, a superare cioè in scempiaggine lo stesso numero uno…