il 25 aprile a Milano
Il 25 aprile ero in piazza Duomo, abbarbicato sul lampione a venti metri dal palco delle autorità, e mi sono sciroppato i discorsi di Sala, di Scurati e di PIF. Non sono riuscito a resistere quando il dirigente della UIL ha cominciato a urlare la sua arringa in tonalità insurrezione, e me ne sono andato a guardare il corteo, talmente lungo che alle 16:30 arrivava ancora fino in fondo a via Manzoni.
Dai discorsi di tutti gli oratori si evinceva che in Italia c’è un pericolo fascista, se non un fascismo in atto, e questo sarebbe dimostrato dal fatto che la Meloni e quelli del suo governo non pronunciano la fatidica frase “Sono antifascista“. Leggo proprio oggi che lo dice anche la Litizzetto, quindi deve essere vero.
Ascoltando i discorsi del palco mi sono venuti in mente tanti ricordi.
Io sono nato il 20 aprile del 44 all’ospedale di Niguarda e mia mamma mi raccontava sempre di quando suonavano le sirene e lei correva giù per le scale verso il rifugio con me in braccio. Le veniva il magone tutte le volte che ci raccontava del bombardamento degli Alleati sulla scuola di Gorla e dei duecento bambini uccisi con le maestre. Ci raccontava che mio nonno, capo operaio alla Siemens, fu a un passo dall’essere bruciato vivo nei forni della fabbrica e si salvò solo per l’intervento di un operaio comunista che lo difese e garantì per lui. Diceva che la cosa più brutta del 25 aprile era che molte persone, conosciute da tutti nel quartiere per essere fascisti sfegatati, quella mattina uscirono di casa con il fazzoletto rosso al collo.
La mia famiglia non era “fascista”: era una famiglia operaia di Milano che si barcamenava tra le fazioni politiche per campare. Tra i parenti meno stretti ce n’erano un paio compromessi con il fascio, ma i miei non ci tenevano a frequentarli, perché volevano tenersi fuori dalla politica. “La politica è una cosa sporca” mi hanno ripetuto per anni, anche dopo la fine della guerra, e mi proibivano di leggere il Corriere perché parlava di politica (oltre che di cronaca nera).
Storie di piccola borghesia ex operaia milanese del dopoguerra. Questi ricordi mi riaffioravano nella mente mentre ascoltavo le arringhe che arrivavano dal palco. Il volume degli altoparlanti era talmente alto che gli slogan dell’esagitato gruppo filopalestinese, saldamente arroccato di fronte al palco fin dal mattino, si intuivano solo dal labiale.
Ho pensato: l’anno prossimo, a 80 anni dal ’45, vorrei che invece della Liberazione si festeggiasse la Riconciliazione. Vorrei che si formasse un CNR (Comitato Nazionale Riconciliazione). Vorrei che, liberi tutti di commemorare i propri morti, si decidesse che è ora di finirla e che è tempo di diventare adulti.
Io penso che la riconciliazione, che nasce dalla compassione e dal perdono, è un valore superiore anche all’antifascismo: lo contiene e lo veste di umanità.
So che molti si scandalizzeranno alla mia affermazione: ma se si è onesti con sé stessi, penso che lo si debba ammettere. Esprimo questo desiderio, anche se so che non si concretizzerà in tempo perché io possa vederlo avverarsi. Anche perché sono convinto che i grandi cambiamenti avvengono soltanto dopo le grandi catastrofi.
Tuttavia, con quel fondo di illuminismo che i miei compagni mi contestavano, spero ancora che la mia nipotina, che ha due anni, possa vivere in un mondo in cui la faziosità sia soppiantata dalla solidarietà.
Spero che qualcuno si farà promotore di un patto di riconciliazione tra le fazioni, destra e sinistra, fascisti e antifascisti e tutte le altre etichette “divisive” che gli esseri umani si inventano ogni giorno. Qualcuno che faccia il primo passo, che è la cosa più difficile ma anche la più nobile.
PS: Il 26 aprile ho trovato due articoli, uno su L’Inkiesta e uno su Huffington Post, che con la loro intelligenza e la loro arguzia mi hanno confortato, e mi sono sentito meno solo. Grazie, Helene e grazie, Guia.
Il 25 aprile che divide (e sui social ancora di più) – La Brigata Giannini e la liberazione dal senso del ridicolo