fascismo storia esseri umani – di Alvaro Ricotti

Ho finito di leggere il “Diario” di Galeazzo Ciano. L’ho trovato molto, molto interessante che mi ha aggiunto un tassello in più per la comprensione di quel fenomeno sociale che sconvolse l’Italia per vent’anni e che la portò irresponsabilmente in una guerra di aggressione accanto alla Germania nazista contro gli Stati democratici e contro l’URSS.

Ho letto tantissimi libri sul fascismo, sulla sua nascita, sulla sua affermazione e consolidamento, sulla sua ignobile conclusione. Una sequenza di fatti, di aggressioni, di violenze che non spiegano fino in fondo quel consenso che il regime di Mussolini raggiunse nel decennio che va dal 1930 al 1940. Certo il clima di paura, il controllo capillare e la censura nei confronti di qualsiasi forma di critica, di fatto la cancellazione di tutte le forme di espressione democratica compresa la rappresentanza sindacale, il tribunale speciale, l’introduzione del confino e la prigione preventiva per gli oppositori furono un fatto determinante.

Ma gli oppositori al fascismo erano la parte più politicizzata della popolazione, dai dirigenti dei partiti politici e dei sindacati agli intellettuali e i giornalisti, eliminati questi e fatti tacere con la violenza, la prigione, il confino o costretti all’esilio, al regime fascista non restava che la conquista facile del consenso delle masse attraverso una propaganda semplificata e populista facendo leva sul nazionalismo, sull’italianità, sulla necessità di riscatto di un popolo, allora abbruttito dalla povertà ma, a detta loro, erede diretto di una grande civiltà che aveva dominato il mondo e non riconosciuto, anzi osteggiato, dalle potenze democratiche europee.

il complesso di inferiorità

Riscattare quindi quel complesso di inferiorità che ci vedeva emigranti e pezzenti nelle Americhe e in Europa, considerati poco più che schiavi, era un fattore unificante di grande impatto. Il regime fece leva su questo desiderio di riscatto e si rappresentava a sé stesso e al popolo intero come lo strumento più efficace al raggiungimento di tale obiettivo.

Per il “popolo minuto” valeva questa narrazione che finalmente vedeva i nostri emigranti riconoscersi con orgoglio in una nazione al pari di quelle che li ospitava e che si sarebbero ben presto rassegnate a non considerarli più come feccia pezzente o bruta forza lavoro al pari di animali da soma, ma figli legittimi di una grande civiltà che avrebbe, come nel passato, contribuire a decidere le sorti del mondo.

Per gli intellettuali e la borghesia imprenditoriale questo nazionalismo spinto solleticava ben altre aspirazioni e sublimava altre frustrazioni. Queste categorie sociali erano ben consce di appartenere ad una giovane nazione che fino a cent’anni prima veniva considerata solamente una espressione geografica nei confronti di nazioni come l’Inghilterra, la Francia e anche la Spagna, nazioni con secoli e secoli di storia imperiale. I nostri intellettuali e i borghesi più evoluti, per riscattare la frustrazione di appartenere a un Paese privo di storia unitaria, dovettero recuperare un senso di appartenenza ad un impero estinto più di 1500 anni prima: l’Impero Romano.

la retorica

Il fascismo quindi introdusse una retorica e un lessico in cui violenza e magnificenza viaggiavano insieme, accompagnata da forme esteriori, divise, marce, sfilate ed emblemi, tutto a rafforzare quella che è stata definita estetica fascista in cui il gesto era molto più importante del contenuto; anzi nascondeva e mistificava un contenuto misero che a parole riscattava l’Italia proletaria, ma che nella realtà relegava le masse popolari in un ruolo estremamente subalterno rispetto alla grande borghesia, soprattutto reprimendo e opprimendo tutti quegli strumenti politici e culturali atti ad una sua reale emancipazione; in parole povere privando il popolo della libertà di esprimersi e di agire.

Da qui il recupero di forme e di gesti, di un lessico e di una retorica che si richiamava ai fasti dell’antico Impero Romano. I termini come legione o manipolo per designare le formazioni della milizia fascista entrarono nella consuetudine linguistica e organizzativa del fascismo; cosi come l’introduzione della data con un calendario parallelo con l’anno zero indicante la marcia su Roma del ’22 espresso, naturalmente, in cifre romane.

Di questa estetica fascista la forma più sublime era rappresentata dalla guerra, la guerra anche fine a sé stessa, dove poter esprimere al massimo le forme di retorica più esaltanti. Certo anche guerra di conquista per potersi equiparare ai grandi imperi coloniali europei.

I diari di Ciano

Ma tutto questo è raccontato e spiegato con dovizia di particolari dagli storici e analisti elencando fatti e documenti ufficiali dell’epopea fascista dal suo nascere fino al suo tragico epilogo. Soprattutto fatti e personaggi, quelli che normalmente si dice fanno la storia. Ecco, nei diari di Galeazzo Ciano, ho trovato qualcosa di più, anzi direi qualcosa di diverso.

Certo i fatti sono citati (solo alcuni) e anche i protagonisti di quei fatti, ma solo quelli che ricadevano sotto il suo agire di Ministro degli Esteri. Quindi, come libro di storia insegna ben poco, anzi bisogna già conoscere abbastanza bene sia i fatti che i personaggi che vengono citati altrimenti si capisce poco del contesto, proprio perché non è un libro di storia, né una autobiografia né una biografia autorizzata, ma un diario nel vero senso della parola, un testo non destinato alla pubblicazione e alla spiegazione dei fatti, ma solamente un promemoria che accanto ad alcuni fatti, sia personali che no, esprimeva giudizi, sensazioni, intuizioni e riflessioni.

Non si esclude che sia stato rimaneggiato dallo stesso autore perdendo quindi parte della spontaneità e autenticità del pensiero espresso al momento della sua stesura, ma comunque, anche se questa ipotesi risultasse vera, non inficerebbe lo spirito complessivo del suo scritto. Quello che era chiamato Sua Eccellenza il Conte Galeazzo Ciano non ne esce assolutamente assolto dalle sue responsabilità sulle malefatte del fascismo, anzi tutt’altro, anche perché il suo ruolo politico, militare e di rapporti familiare con Mussolini lo rende compartecipe di primo piano della tragedia in cui il fascismo precipitò l’Italia.

Le pagine del Diario non sono interessanti per le espressioni assolutorie, con i suoi distinguo, che Ciano rivolge a sé stesso, note probabilmente aggiunte o aggiustate in momenti successivi, ma per le considerazioni marginali che esprime nei confronti dei gerarchi che gravitavano attorno a lui, dai vertici militari con cui aveva a che fare per il suo ruolo di ministro degli esteri. Interessanti poi le note su suo suocero nel confronto del quale ha per lungo tempo dimostrato una accondiscendenza supina: Mussolini alla fine ha sempre ragione annotava, anche se di volta in volta, e sempre più spesso, lo mettesse in guardia nei confronti della asimmetrica alleanza con la Germania nazista.

In queste pagine, si notano che i suoi giudizi sono buttati li quasi per caso e dettati dalle emozioni del momento. Si rafforza nel corso del tempo sempre più la sua diffidenza per i tedeschi e le sue note generano reazioni schizofreniche nel Duce che oscillava tra sentimenti di rivalsa e di competizione, ma si concludevano comunque sempre nell’illusione di compiacere ai loro giudizi promuovendo azioni politiche e azioni militari del tutto sconsiderate. Le imprese militari erano quelle che gratificavano maggiormente il delirio di onnipotenza di Mussolini che, a dir del vero, erano timidamente osteggiate dai vertici militari per una consapevole inadeguatezza e impreparazione delle forze armate, ma poi servilmente eseguite.

Queste considerazioni vengono abbondantemente annotate nel Diario, ma poi Ciano come tutti gli altri gerarchi del PNF, dei vertici militari colpevolmente assecondavano il volere del Duce, come pure il recalcitrante monarca Vittorio Emanuele III.

schizofrenia dei comportamenti e razzismo

Per questo esprimo con il termine schizofrenico i vertici dell’apparato fascista e in primo luogo il suo capo. Ma ancor di più schizofreniche furono i comportamenti e le scelte del fascismo nel suo insieme in occasione della promulgazione delle “Leggi Razziali”. Sentimenti razzisti erano scarsamente presenti nel tessuto sociale italiano se non come frutto di un esasperato nazionalismo post bellico (15/18) nei confronti delle comunità slovene dell’Istria e di quelle Tedesche in Alto Adige, sulle quali venne esercitata una pressione di italianizzazione pressante e violenta. Quindi più un problema di nazionalismo che di razzismo vero e proprio.

Per quanto riguarda invece le popolazioni dell’Africa, specificatamente dell’Eritrea, si faccia riferimento, per quanto può valere, al testo della canzone Faccetta Nera che fu veicolo di propaganda ideale e dello spirito di autorappresentazione del fascismo nella sua guerra coloniale: “Faccetta nera sarai italiana”, anzi di più, “sarai romana e per bandiera avrai quella italiana” e poi “noi marceremo insieme a te e sfileremo davanti al Duce e davanti al Re” ecc.

Queste parole, scritte e cantate dal 1935-XIII E.F. (come si esprimeva allora la data) furono sostanzialmente abrogate nel loro significato originale tre anni dopo, nel ’38, con la legge “Per la difesa della Razza” sostenuta e anticipata dal “Manifesto degli Scienziati Razzisti” che vantavano la scoperta, appunto “scientifica”, dell’appartenenza della popolazione italiana alla razza ariana. In questo delirio pseudo scientifico, oltre alle “razze” africane, venne inserita nella discriminazione anche la “razza semitica”, gli ebrei insomma, come non appartenente al ceppo mediterraneo della razza ariana come tutti quanti gli italiani.

Fu reso evidente come il potere totalitario e un’ideologia aberrante piegasse e assoggettasse oltre che le coscienze anche gli stessi principi della logica scientifica.
La promulgazione della “Legge sulla difesa della Razza” vide come sottoscrittori, come era ovvio, oltre a Mussolini e al Re, “che si dispiacque (tratto da una nota del Diario) per i sudditi ebrei che per amor di Patria avevano combattuto nelle trincee durante la guerra ’15-’18”, anche la firma di Galeazzo Ciano.

un razzismo border line

L’antisemitismo, come dicevo, non era patrimonio culturale né del fascismo delle origini né degli italiani in genere, anche se tra gli intellettuali esistevano correnti di pensiero minoritarie antisemite.

Molti ebrei infatti sostennero il fascismo, anche in senso militante, alcuni ne diventarono dirigenti e funzionari; uno per tutti fu Aldo Finzi, eroe di guerra nel ’15-’18, collaboratore stretto dello stesso Mussolini, fascista dal ’20, provetto aviatore, creatore sostanzialmente della Regia Aeronautica di cui fu Vicecommissario, arma in cui raggiunse il grado di Tenente Colonnello, fu Sottosegretario agli Interni fino al delitto Matteotti nel ’24, carica dalla quale si dimise per ragioni tutt’ora poco chiare. Dopo l’introduzione delle leggi razziali si allontanò dal fascismo diventandone un oppositore tanto che nel ’41 fu inviato al confino e nel ’42 espulso dal PNF. Arrestato nel ’44 per connivenza con la resistenza romana fu fucilato il 24-05-1944 alle Fosse Ardeatine.

Lo stesso Mussolini fu foraggiato economicamente e spinto politicamente dalla sua, per lungo tempo, amante Margherita Sarfatti, ebrea imparentata con Natalia Ginzburg, fatta espatriata in America, con il consenso dello stesso Mussolini, dopo l’introduzione delle leggi razziali del ‘38.

Galeazzo Ciano nelle sue pagine del Diario annotò più volte, a ridosso della promulgazione della “Legge in difesa della Razza”, la stupidità e l’inutilità di un siffatto provvedimento, un inutile scimmiottamento dei provvedimenti antisemiti nazisti, forse non rendendosi conto dei tragici sviluppi che avrebbe potuto avere. Nonostante le sue timide perplessità le sottoscrisse, ma bisogna dire che poche voci si levarono per contrastarle, e si adeguò moralmente nell’indifferenza generale vivendole, come la maggior parte della popolazione, più come un lieve fastidio per dover rinunciare eventualmente ad un medico di fiducia o un collaboratore attento o ad un’insegnante per i propri figli.

La gravità etica e l’abominio morale non fu percepito a fondo, all’inizio, dimostrando una bassissima autonomia politica e al contrario un asservimento totale al potere e alla volontà del suocero che a volte (amorevolmente) criticava, ma molto spesso esaltava. È questo taglio personale, quasi intimo e conflittuale, che mi ha interessato; è la lettura che ne fa un uomo intelligente e per molti versi sensibile (interessanti le note sulla morte del padre e della sorella) di un periodo estremamente difficile e travagliato dell’Italia e dell’Europa; un conflitto tra una profonda ambizione e l’esercizio del potere da una parte e la ragione dall’altra, in cui è quasi sempre questa a soccombere.

Il suo ruolo di Ministro degli Esteri lo vide protagonista di primo piano sullo scacchiere europeo, organizzò fin dalla prima volta ogni incontro che Mussolini ebbe con Hitler, ebbe rapporti frequentissimi con Ribbentrop e quasi quotidianamente con gli ambasciatori di Francia e Inghilterra seguendo e condividendo le loro preoccupazioni e speranze nell’evitare la guerra e la loro delusione finale “…nell’ora delle decisioni irrevocabili.”

la storia e gli uomini che la fanno

Insomma ogni evento di politica estera dell’Italia dal ’37 al ’43, quando fu estromesso dal Ministero degli Esteri, comprese le vicende della Guerra di Spagna e l’annessione dell’Albania nel Regno d’Italia, furono quotidianamente annotate nel suo diario con i suoi entusiasmi e le sue perplessità. La lettura di quelle pagine mi ha stimolato una riflessione che posso così sintetizzare: la comprensione della storia passa attraverso l’analisi dei fatti nella loro concatenazione temporale e interdipendenza come fenomeni determinati dal confronto e scontro di interessi sociali e conflitti ideologici.

Ma i fatti che si susseguono pongono sempre di volta in volta diverse alternative al loro sviluppo ulteriore e il loro evolversi dipende dalla sensibilità, dal coraggio, dalla paura, dal cinismo, dagli interessi e dall’etica degli uomini in generale, ma soprattutto di quelli che hanno il potere di esercitare tali scelte. Quindi non tanto per esprimere un giudizio che la storia ha già dato e che condivido fino in fondo, ma per comprendere più in profondità i meccanismi psicologici e comportamentali di come l’evolversi dei fatti agiscono sulle scelte che gli uomini imprimono ai fatti stessi.

Nomi illustri della cultura del secondo dopoguerra, anche nomi che diventarono emblemi e “organici” alle forze politiche di sinistra e antifasciste fecero le loro esperienze negli organi culturali del fascismo come giornali e strutture organizzative di diretta emanazione del regime. Ci furono riviste come “Critica Fascista” diretta da Giuseppe Bottai, più volte ministro per tutto il ventennio, intransigente sostenitore della discriminazione degli ebrei, e giornali come “Il Tevere” fondato direttamente da Mussolini e diretto da Telesio Interlandi, fanaticamente antisemita, che videro spesso come collaboratori  dei giovani che si sarebbero trasformati, da lì a qualche anno, in protagonisti e dirigenti del grande movimento antifascista che  dette luogo alla Resistenza che gettò le basi dell’Italia repubblicana.

Ma fu soprattutto nei Gruppi Universitari Fascisti (GUF) che questi giovani incominciarono a misurarsi culturalmente e politicamente. C’è da dire che questi erano gli unici spazi fisici e culturali a loro disposizione, ma anche perché ottenebrati da una propaganda assidua, martellante e pervasiva vivevano, come la maggior parte degli italiani, in una atmosfera di indifferenza che cancellava la possibilità di una coscienza critica che solo con la convulsa caduta del fascismo il 25 luglio del 1943 ebbe la possibilità di sbocciare. Bisogna qui ricordare che ad organizzare quella famosa seduta del Gran Consiglio del Fascismo in cui si pose all’ordine del giorno l’esautorazione di Mussolini fu Dino Grandi, presidente della Camera dei Fasci e delle Corporazioni, con l’appoggio esplicito di Galeazzo Ciano.

Comunque, di quella schiera di giovani intellettuali aderenti ai GUF, cito solo un breve elenco dei nomi tra i più significativi: si va da Elio Vittorini a Antonello Trombadori, da Alberto Moravia (tra l’altro imparentato con i fratelli Rosselli) a Giorgio Bocca, da Giorgio Napolitano a Carlo Azeglio Ciampi, da Giorgio Strehler a Eugenio Scalfari, da Pietro Ingrao a Alessandro Natta, e moltissimi altri. Che tutti questi personaggi, che vissero da protagonisti nella lotta partigiana e nella rinascita culturale in una Italia democratica, avessero avuto frequentazioni anche intense con le strutture del regime fascista era cosa nota, ma per non rimuovere il passato e derubricare periodi di vissuto come semplici errori di gioventù, bisogna guardare a quelle vite, a quelle esperienze con occhi più attenti.

Mi chiedo, quali conflitti interiori, quali ribaltamenti di prospettiva furono capaci di compiere quei giovani, quali difficoltà psicologiche dovettero superare e quali ripensamenti sui valori etici in cui si erano formati, per giungere a quelle capacità di scelta che decenni di propaganda ed educazione, probabilmente militando nelle strutture giovanili come i balilla o gli avanguardisti, avevano pesantemente inibito? Non c’è dubbio che in alcuni prevalse l’opportunismo, opportunismo prima, durante il ventennio e opportunismo dopo, ma per molti altri furono momenti di scelte coraggiose che gli fecero fare i conti oltre con l’ambiente che li circondava soprattutto con sé stessi.

il fascismo

Il fascismo è una concezione di vita, una trasformazione dell’animo, una assunzione di valori etici particolari. Le marce, le divise, il saluto romano, i gagliardetti, fin anche l’estetica urbanistica furono i suoi aspetti collaterali, necessari a rendere visivo quella trasformazione sociale che aveva la sua vera essenza nella superficiale e grottesca interpretazione della teoria darwiniana applicata alle società umane, del potere al più forte e dell’oppressione e schiacciamento dei deboli.

Questa concezione dei rapporti umani è il tratto comune di tutti i fascismi, la linea di continuità che unisce i fascismi vecchi a quelli odierni. Non tengo in nessuna considerazione gli opinionisti e gli esponenti politici, generalmente di destra, ma non solo, che sostengono la fine del dualismo destra-sinistra o di un suo necessario superamento. Se si considera la Storia, secondo la locuzione di Cicerone, “Historia magistra vitae”, non capisco i commentatori e gli analisti politici di sinistra che in tutte le occasioni non fanno che ripetere il solito ritornello: “non esiste un pericolo fascista”, considerando, giustamente, come le esternazioni coreografiche di marcette, camice nere e saluti romani non siano l’essenza del fascismo, anche se queste, seppur marginalmente, non mancano, derubricandole a pura e innocua goliardia.

Questo è vero, ma non dimentichiamo che queste rappresentazioni “teatrali” che si riferiscono ad un fascismo datato e storicamente determinato esplicitano e interiorizzano dei contenuti valoriali. Il fascismo, quello vero, è appunto definito per suoi valori intimi, profondi, e nel desiderio e nel progetto di una società autoritaria individuata non solo in un esecutivo più forte, ma in un lento e continuo logoramento di tutte le procedure democratiche che contraddistinguono lo Stato di diritto viste e vissute come ostacoli per un esercizio del potere più efficiente.

Parallelamente si recupera il concetto di nazionalismo veicolato con la parola d’ordine Prima gli italiani e con l’ossessivo accompagnamento di termini come Nazione e Patria proposte come discriminante verso tutti quei cittadini che vivono, studiano, lavorano in Italia ma che sono nati da genitori provenienti da altri Paesi, soprattutto se sono di pelle nera, e questa la dice lunga sul loro intimo sentimento razzista. L’esternazione della fobica contaminazione e sostituzione etnica recuperata linguisticamente e concettualmente dal testo del “Manifesto per la difesa della Razza” ne è una conferma più che evidente.

Il continuo manifestare di questa destra di intolleranza per le diversità e il riproporre sempre di primo acchito soluzioni repressive e poliziesche nell’affrontare le complesse e a volte anche conflittuali dinamiche che pervadono la società contemporanea dimostra indiscutibilmente una sua origine culturale ben diversa da quella espressa dai conservatori moderni. Per quanto espresso sopra, individuo nella nostra destra di governo le radici di un fascismo mai sopito e per questo percepisco un pericolo per la nostra democrazia, ricordiamolo, nata dalla Resistenza contro il fascismo.

Se poi si considera che per varie ragioni, in un processo che dura da più di trent’anni, la coscienza critica del popolo italiano si sia praticamente atrofizzata per la responsabilità della destra berlusconiana con la proposta sottoculturale delle sue televisioni il gioco è fatto. Nell’indifferenza e nel fastidio per la comprensione della complessità sociale, la strada per l’affermazione dei valori della destra è praticamente spianata a meno di un sussulto di dignità culturale e politico che passa per un’opposizione puntigliosa a tutte le pseudo innovazioni avanzate in difesa di una italianità antistorica che questo governo tenta di proporre anche nel lessico. Ebbene sì, io considero gli esponenti di questa destra oggi al governo sostanzialmente fascisti.