Bobo Maroni – di Lorenzo Baldi
Ho fatto politica in provincia di Verese per più di 20 anni, ma non ho mai incontrato Roberto Maroni. Quando cominciò a frequentare Democrazia Proletaria a Varese ero al Quotidiano dei Lavoratori e quella fu la mia sola parentesi politica fuori dall’ Insubria. E, pur ascoltando moltoolentieri il blues, non sono mai stato ad un concerto dei Distretto 51, la band nella quale suonava le tastiere.
Posso quindi parlare solo di come, dalle mie parti, lo si vedeva da lontano e, attraverso di lui, la Lega, che fu, all’inizio, parecchio snobbata. Uso il termine in modo specifico, da snob (un pensiero anche a Franca Valeri), perché si pensava ad un fenomeno passeggero e folcloristico: le canottiere, gli elmi celtici a Pontida e, un po’ più tardi, le ampolle con l’acqua del Po. La sinistra Ztl aleggiava già anche tra noi, freschi ex sessantottini e pure di provincia. Faceva eccezione, fino a un certo punto Bettino Craxi, che, nella sua passione garibaldina, indicava il partito di Bossi come un pericolo per l’unità nazionale ma, nei fatti, lo sottovalutò fino a rimanere vittima dello sventolar di cappi nell’aula di Montecitorio.
Peraltro, Roberto Maroni nel 1985 entra in Consiglio Comunale a Varese come unico consigliere del suo partito, con il 3% dei consensi. Bisognerà aspettare il 1992 per vedere il primo sindaco leghista nella roccaforte varesina e, solo due anni più tardi, Maroni sarà ministro dell’interno. Dopo quarant’anni di bipolarismo imperfetto, nella politica italiana comincia l’era dei cambiamenti veloci che ci accompagna ancor oggi: non eravamo abituati.
Con la Lega, in quel periodo, la sinistra ci parla, eccome! Innanzitutto tira un sospiro di sollievo quando, a poco più di 200 giorni dalle elezioni del 1994, Bossi stacca la spina al primo governo Berlusconi. Poi D’Alema cenerà a casa del Senatur con pan carré e sardine, innaffiati dal whisky portato da Buttiglione, sancendo così l’inedita maggioranza che vedrà Pds e Lega Nord sostenere il governo Dini.
Grande pontiere tra l’ex Pci e la Lega sarà per lungo tempo il varesino Daniele Marantelli, per due legislature consigliere regionale e in seguito parlamentare per il Pds e il Partito Democratico. In contatto con Maroni da quando l’uno era un giovane segretario di sezione comunista e l’altro, guardando ancora a sinistra, conduceva una trasmissione a Radio Varese, furono artefici della prima giunta comunale varesina a trazione leghista che potè vantare l’appoggio esterno del Pds.
E poi, come ha raccontato al Giorno lo stesso Marantelli, commemorando l’amico milanista Bobo, “nel Duemila era quasi fatta per un’alleanza al Nord che avrebbe portato lui a essere governatore della Lombardia, Massimo Cacciari del Veneto e uno tra Piero Fassino e Livia Turco del Piemonte. Una mossa che avrebbe cambiato le sorti anche della politica nazionale, e invece non andò in porto”. E poi, un ricordo personale, a proposito di storie varesine. Angelo Basilico, un altro comunista col quale abbiamo combinato un po’ di cose interessanti a Saronno durante gli anni ’80, poi segretario provinciale del Pci-Pds varesino dal ’91 al ’93, oggi dirige la Confesercenti di Como, guarda a destra e sostiene con orgoglio una continuità di matrice “popolare” con le sue radici a sinistra.
Questo per dire che le cose non sono mai bianche e nere e, se non lo sono le cose, lo sono ancor meno le persone. Non mi sembra difficile capire che Roberto Maroni è stato un personaggio, certo, controverso se si guarda da sinistra, o anche dal punto di vista di un centro liberale, ma anche un uomo che ha portato moderazione dove c’erano scontri molto aspri, ha perseguito politiche ispirate ad una buona dose di pragmatismo e non apparteneva ad una destra impresentabile.
Invitò il primo governo Berlusconi ad evitare la contrapposizione frontale con i sindacati, mentre fu il primo ministro dell’interno che non portasse in tasca la tessera democristiana (non male per chi, democristiano non voleva morire allora e, oggi, forse vorrebbe). In quel ruolo, non si abbandonò certo agli eccessi cui, purtroppo, abbiamo assistito negli ultimi anni e anche negli ultimi giorni.
Da ministro del welfare (2001-2006), in collaborazione col compianto giuslavorista Marco Biagi (non certo un cattivone neoliberista), contribuì a quella che, vista da lontano, appare una lenta e continua evoluzione del nostro sistema previdenziale verso l’indispensabile innalzamento dell’età pensionabile.
Il secondo passaggio al ministero degli interni (2008-2011) fu caratterizzato da ombre e luci. Sotto la sua gestione l’Italia fu condannata dalla Corte europea dei diritti umani per omesso soccorso in mare, mentre la proposta di identificare gli stranieri con le impronte digitali, allora assai discussa, è diventata pratica comune in tutta Europa (e per il passaporto di ogni cittadino). Lo constato e non mi piace.
Altre misure anticiparono una sensibilità sempre crescente verso gli incidenti stradali causati dall’uso di alcool e droghe. In collaborazione con l’allora ministr* per le pari opportunità, Mara Carfagna, portò a termine il decreto contro lo stalking, poi convertito nella nota legge 38.
Da segretario leghista dovette gestire il dopo Bossi e gli strascichi, anche giudiziari, della gestione finanziaria del partito. Quando andò a presiedere la Regione Lombardia, lasciò in eredità all’ Italia un ingombrante Matteo Salvini, del quale, probabilmente, individuò le indubbie capacità di successo mediatico: ma, di questo, non potremo essergli grati.
All’ultimo piano di Palazzo Lombardia, non fu probabilmente facile succedere al quindicennio targato Formigoni e alla sua crisi finale. Se l’Expo fu, tutto sommato, un successo (conseguito insieme a Beppe Sala, Letizia Moratti e Giuliano Pisapia), la riforma sanitaria aggravò la crisi della sanità territoriale e indebolì ulteriormente la figura del medico di base: errori gravi, emersi con prepotenza durante la pandemia.
Roberto Maroni fece un punto d’onore del referendum sull’autonomia, insieme al suo collega Luca Zaia, e un pizzico di demagogia non fu estraneo alla scelta. Stefano Bonaccini scelse la strada, più ortodossa, di un mandato da parte dell’assemblea elettiva e di un negoziato col governo centrale. Ma gli obiettivi dei tre non sembravano così distanti. Poi, venne la dilazione di chi era contrario e, in seguito, la pandemia. Ora, il tema è riproposto da Calderoli in un governo dominato da un partito centralista: vedremo.
Maroni si incaponì anche nella sperimentazione del voto elettronico: ci furono molte polemiche, ma il voto elettronico è una possibilità e, in Lombardia, la si è voluta sperimentare con risultati credibili. Quanti, oggi, sentono anacronistico il seggio, con il carabiniere alla porta, e non hanno voglia di andarci a votare?
Roberto Maroni spesso ha dissentito con i suoi colleghi leghisti, per nordismo federalista, come per sensibilità e per stile. Ma non ha mai voluto contrapporsi frontalmente ad altri leader della Lega: del resto, l’unico partito ancora ispirato a meccanismi di militanza e di leadership monolitica in uso nel ‘900. Tuttavia, per un po’, è stato una (l’unica) voce critica nei confronti dei successi e degli insuccessi di Matteo Salvini, assai prima che in questo ruolo venisse affiancato da Giancarlo Giorgetti, con lo stesso stile un po’ sotto traccia.
La sua rubrica Barbari Foglianti (parafrasi del raggruppamento dei Barbari sognanti” che lo portò alla segreteria della Lega) è stata un osservatorio interessante e acuto fino agli ultimi giorni di malattia. E così lo ricorda il giornale diretto da Claudio Cerasa.
A proposito di queste pagine di storia recente che hanno visto Roberto Maroni protagonista nell’arco di una quarantina d’anni, si dovrà pur convenire su un punto: che da tempo esiste una “questione settentrionale”, per certi versi speculare a quella meridionale; e che, senza affrontarla, nessun progetto politico riformatore, o anche conservatore, avrà molto respiro. A lui il merito di averla incarnata con convinzione, competenza e un certo garbo, non comuni nella sua forza politica.