Il terzo polo ha un futuro? – di Giovanni Cominelli
Che cosa è il “Terzo polo”? Un’alleanza costruita all’ultimo momento e per necessità elettorali tra due piccoli partiti personali, che avevano/hanno in comune la cosiddetta “Agenda Draghi”. Alleanza preterintenzionale e improvvisata, perché determinata da fattori esterni.
Il PD aveva già escluso per odio viscerale Matteo Renzi, che era perciò costretto a marciare da solo. Ma anche Calenda aveva fatto altrettanto, per motivi di competizione, del tutto futili, che in politica spesso sono però quelli più forti, e aveva puntato su Letta. Poi il PD ha imbarcato la sinistra radicale di Fratoianni. Non molto consistente sul piano dei numeri, ma sufficiente per dare a Letta l’illusione del “campo largo” e agli elettori potenziali di Calenda l’idea di un pot-pourri incommestibile: incontro fatale e passeggero tra la furbizia dorotea di Letta – ma il doroteismo non è più quello di una volta – e le ingenuità di Calenda, tecnico prestato da poco tempo alla politica.
Ora, passate le elezioni con un risultato non strepitoso, ma solido, da qualche settimana Calenda e Renzi si alternano speranzosi al capezzale del PD, nell’attesa che tiri le cuoia. Perciò intervengono quotidianamente nel suo dibattito interno, mettendone in evidenza la confusione, le incongruenze, il vuoto ideologico e programmatico e rilasciando profezie sulla sua imminente fine. Per fatale contro-dipendenza, per un verso danno dell’agonia del PD una notizia forse esagerata, per l’altro sembrano più ossessionati del suo destino finale che della costruzione del proprio.
Eppure l’occasione di costruire una nuova sinistra liberale, socialdemocratica, laburista, in una parola “riformista”, pare presentarsi ora, proprio mentre gli eredi del PCI e della DC sono ancora rispettivamente impantanati, dopo circa trent’anni, nel massimalismo populistico e nel doroteismo deteriore.
L’urgenza di tre pensieri
Qui si possono proporre solo i materiali per quella costruzione. Non si tratta di avviare dei seminari di teoria politica, ma di fare delle scelte di impegno culturale-programmatico e politico relativamente alla forma-Stato, alla forma-governo, alla forma-partito.
Incomincio da quest’ultima, perché se ci deve essere un pensiero, ci deve essere un “Io” che lo pensa. D’altronde, circolarmente, un “Io pensante” è tale se dispone di un pensiero visibile. L’Io-che-pensa è il partito.
Un partito personale è un “Io pensante”? Solo nella misura e nei limiti in cui “l’uno che vale uno” ne è capace. I partiti a leadership personale, più o meno carismatica, sono fragili di pensiero. Perché se ne dà uno solo di uno solo. Perché non possono permettersi di sbagliare. Se sbagliano una mossa, hanno cedimenti strutturali né hanno capacità di autocritica e di autocorrezione. Così gli errori sono sempre frutto di destino cinico e baro o di congiure esterne. Il partito carismatico è un partito autocratico. Pertanto è incapace di innovazione, di partecipazione attiva e di formazione di un gruppo dirigente.
Ora, i partiti, e in primo luogo quelli personali – lo sono quasi tutti – sono in crisi verticale di legittimazione, perché la loro “forma” non risponde più alla domanda di partecipazione intellettuale e morale dei cittadini. I segretari di partito si sono trasformati in leader-boss carismatici, veri o auto-pretesi, i gruppi dirigenti sono diventati “cerchi magici”, i militanti sono fan settari e adoranti. Quanto al PD, ha messo in piedi una forma originale di autocrazia plurale, erede di quella storica del caminetto. Nelle sue correnti, tuttavia, continuano a funzionare i meccanismi personalistici.
Forma-Stato, forma-Governo, forma-Partito
Il primo riguarda la forma-Stato nazionale. Pensata nella seconda metà dell’Ottocento, sul modello rivoluzionario napoleonico, ha largamente dimostrato, almeno qui in Italia, di non essere in grado di unire il Paese reale e di saldare la grande frattura Nord-Sud.
Intanto è venuta avanti la crisi dello Stato-nazionale – che non significa crisi delle nazionalità – e si è affacciata una forma blanda, ma pur cogente di “sovranità europea”. E’ necessario pensare ad un assetto federale dello Stato, nella prospettiva della Federazione europea e dei rapporti già molto solidi di alcune Regioni del Nord con quelle transalpine e delle Regioni del Sud con quelle trans-mediterranee.
Calenda è statalista-centralista, romano-centrico, sulla scorta ideologica del vecchio Partito d’azione, e Renzi è municipalista. Il discorso federalista è stato lasciato alla Lega. Discorso fragile, che è bastato al Nord, ma solo fino a ieri. E poiché è largamente prevedibile che il neo-centralismo della Meloni non andrà lontano, ecco l’occasione: poche macro-Regioni responsabili. Il federalismo è LEP – Livelli essenziali di prestazione – e responsabilità.
Il secondo è quello della forma-Governo. Calenda non ci pensa proprio, in nome di antichi, radicati e sterili pregiudizi, mentre Renzi propone il Sindaco d’Italia. Eppure è evidente che se la forma-governo resta quella che conosciamo, scelta dai partiti e non dagli elettori, sarà esposta a ricorrenti tempeste di instabilità e di impotenza.
La promessa che fa regolarmente ogni vincitore, almeno dal 1994, è che il suo governo duri cinque anni. Gli ultimi a prometterlo, un mese fa, Meloni e Salvini. L’esordio al Senato non pare promettente. Non è nequizia degli uomini, è colpa del meccanismo previsto dalla Costituzione. Senza elezione diretta del Capo di Stato e di governo continueremo a stare a galla, immobili, nella palude, dalla quale c’è sempre qualche barone di Münchhausen che promette di tirarci fuori a forza di politica pura, afferrandosi ai propri capelli. Ahinoi, tutti i leader li hanno persi al cospetto degli elettori: vedasi alla voce “astensionismo”. Il sistema elettorale dovrà essere coerente con il fine di confermare e riprodurre il sistema istituzionale.
Il terzo pensiero è quello relativo alla forma-partito. Essa è conseguenza logica della forma-Stato e della forma-Governo. Non viene meno la funzione storico-istituzionale dei partiti di mediazione tra la società civile e lo Stato, ma lo spessore si assottiglia e, come Giano, rivolge una faccia verso la società e un’altra verso il potere e il governo. “Metterci le due facce” esige una grande capacità di intercettare il sapere storico-scientifico della società per interpretarla, di individuare le competenze per il governo, di accumulare l’impegno civile dei singoli, di educare alla politica le giovani generazioni.
Questa forma-partito deve essere regolata dalla legge. Un partito che non rispetta le regole fondamentali della democrazia liberale al proprio interno, come può educare alla democrazia i propri associati e soprattutto come la può praticare, quando colloca i propri uomini nelle istituzioni?