La mia storia in AO – di Armando Pioltelli
Armando Pioltelli è stato uno dei quadri che hanno maggiormente contribuito alla costruzione della sezione (poi federazione) di Monza e Brianza di Avanguardia Operaia. Era un pirellino diviso tra il CUB e la vita monzese, iniziata, sul piano dell'impegno, con la organizzazione dei Lavoratori studenti dell'Hensemberger.
La sua storia in AO e anche quella dopo, sposato con Valeria (scomparsa nel 2019), studentessa delle magistrali, dove era maggioritaria Lotta Continua, la racconta lui direttamente.
Rimane da aggiungere che il poderoso lavoro svolto in Consiglio Comunale a Monza, di cui Armando parla poco, è universalmente riconosciuto in città per via delle sue cronache dal consiglio comunale proseguite anche dopo la sua uscita dal consiglio.
I funerali di Armando si tengono martedì 15 febbraio presso la chiesa di San Rocco.
Intervista a Armando Pioltelli per la preparazione deli libro sulla storia di AO – Milano, 23 maggio 2018
Qual era il clima politico in cui sei cresciuto, nella famiglia o tra gli amici?
Sono nato nel 1949 a Monza. Mio padre era un socialista nenniano, ma era anche un cattolico. Mi sono dunque formato in questo ambiente.
Come ti sei avvicinato alla politica?
La selezione di classe l’ho provata sulla mia pelle. Dopo le elementari non c’erano le medie, c’era l’avviamento al lavoro, così ho fatto una scuola aziendale della Pirelli e a 16 anni sono entrato in fabbrica, inquadrato nella seconda categoria. Lavoravamo 6 giorni alla settimana, le ferie erano 12 giorni. C’era il cottimo, era pesante lavorare. Inoltre, a noi giovani ci mettevano a fare i lavori peggiori. Per fortuna lavoravo in un reparto ghetto, dove ho conosciuto persone come un operaio che era stato gappista con Giovanni Pesce.
Poiché la fabbrica era dura, decisi di studiare alla sera, così divenni un lavoratore studente, e mi iscrissi alle scuole serali, all’Hensemberger. Ero iscritto alla Cisl, poiché ero di formazione cattolica. Quando ci furono le lotte del 68 e del 69, la Cisl non aderì e io scioperai con i compagni della Cgil, poi mi iscrissi a quel sindacato.
Come e perché ti sei avvicinato ad Ao?
Tra i lavoratori studenti, conobbi Renato Di Palermo, che mi presentò Michele Randazzo, con cui facevamo i corsi di formazione politica la domenica a Cinisello. Fu così il mio contatto con Ao. Nel 1970 in 5-6 fondammo una cellula di Ao, alla pizzeria “Cigno blu”. C’erano Renato Di Palermo, Carletto Varisco, Michele Randazzo, Roberto Roveda, Massimo Peggio. Era un’unione tra ex Fgci, e cattolici di Gl o Gs.
Era una vita intensa: lavorare, studiare, sabato c’era la manifestazione, e la domenica sera la riunione della cellula. Una volta, il segretario della cellula, Stefano Fiorani, mi ammonì perché ero andato al cinema, piuttosto che alla riunione. Io pensai che eravamo diventati una chiesa, e a me questo non andava bene. Ho cominciato a capire che c’era qualcosa che non funzionava.
Cosa ricordi di Michele Randazzo?
Ricordo che ci faceva i corsi di formazione la domenica pomeriggio, e che è entrato nel “16 elastico”, cioè il direttivo di Ao doveva essere di 16, e Michele era fuori, poi è entrato anche lui, questo era il “16 elastico”.
A quali lotte hai partecipato nel comitato di agitazione dei lavoratori - studenti?
Sono stato tra i fondatori del comitato di agitazione dei lavoratori studenti. La prima cosa che abbiamo fatto è stato vendere “Lettera a una professoressa”, ne ciclostilammo 1.000 copie.
Era pesante essere lavoratore-studente: se eri assente per più di un quarto delle lezioni, ti bocciavano, e poi pagavamo alte tasse scolastiche, parte delle quali andavano alla Confindustria, cosa che trovavo insopportabile perché ero molto anticapitalista. Un giorno feci un tazebao per indire un’assemblea, ci trovammo in 1.000, e preparammo una piattaforma di lotta: riduzione delle tasse, no alla bocciatura per le assenze. La cosa andò bene, l’anno dopo pagammo meno tasse e ce ne restituirono anche un po’ di quelle già pagate.
All’Hensemberger divenni un leader. Ho reclutato molte persone in Ao. Anche il Cub Philips nasce grazie ai lavoratori studenti, alcuni dei quali entrano in contatto con Calamida. Così avvenne anche alla Candy.
Perché ti sei avvicinato ad Ao e quali differenze trovavi con le altre organizzazioni dell’estrema sinistra?
A Monza Lc era forte, ma erano casinisti. Anni dopo, molti compagni di Lc li ho visti poi passare al Psi. Quelli del Ms erano dei signorini, Ao invece mi piaceva perché insisteva sul fatto che occorre organizzarsi. Il leninismo era una forma di organizzazione. Ao aveva come riferimento i famosi quattro testi leninisti (“Stato e rivoluzione”, “L’estremismo malattia infantile del comunismo”, non ricordo gli altri due).
Cosa pensavi del Pci?
Col Pci ho avuto un pessimo rapporto. Quando hanno ucciso Annarumma mi recai alla sede del Pci per cercare protezione, perché girava voce che era meglio non dormire a casa propria, non mi fecero nemmeno entrare perché non ero del Pci.
Hai partecipato anche al Cub Pirelli?
Sì, molto, assieme a Cipriani, Cerea, la Pajetta, Mario Mosca, e qualche operaio.
Di cosa ti sei occupato in Ao? Avevi dei ruoli direttivi?
Nel 1974 mi hanno eletto nel Cc di Ao, a un congresso a Roma. Ero uno dei pochi operai di Ao, per questo mi mettevano in mostra. Ho fatto attività politica con Ao a Monza nei quartieri, ci siamo occupati della riduzione delle tariffe elettriche, abbiamo fatto i mercatini rossi.
Qual è la tua esperienza del periodo finale di Ao?
La fase di spaccatura l’ho vissuta abbastanza da lontano, perché ero alla cellula di Cinisello. Ricordo che c’era lo scontro col Pdup e con l’Ms. Erano diatribe infantili. La mia rottura con Ao è stata per la vicenda dell’espulsione di Spotti. Era un militante della federazione di Monza, che era la più grossa dopo Milano, aveva 400 iscritti. Spotti era un bravo ragioniere, lavorava in una concessionaria di auto, a un certo punto è stato chiamato al Qdl per fare l’amministratore.
Ha fatto i conti e ha visto che il Qdl non andava bene economicamente, l’ha detto e per questo l’hanno espulso in maniera ignobile, gli unici che furono dolci furono Gorla e Molinari, ma Vinci fu terribile. Pietro Spotti fu espulso in maniera ignobile. Fu un processo stalinista. Mi hanno sempre insegnato a sparare sul quartier generale, io in politica non ho mai avuto un rapporto fideistico. Io ho difeso Spotti, per questo mi era stato chiesto di fare autocritica, ma io me ne andai.
Dopo sono stato in Dp, sono stato eletto in consiglio comunale a Monza ma mi dimisi, non me la sentii di fare il consigliere comunale. Quando è nata Nuova Sinistra Unita io ne ho avuto abbastanza, da allora ho votato Pci. Mi sono iscritto al Pci quando è morto Berlinguer, perché una persona che muore così, sul palco di un comizio, è una persona che merita.
Poi sono stato in Rifondazione. Quando sono diventato segretario di Rifondazione a Monza, siamo passati dal 4 al 7%. In Rifondazione sono diventato amico di Giovanni Pesce, è stato un maestro per me, è stato un Che Guevara trent’anni prima. Sono stato anche consigliere comunale. Penso di aver fatto un buon lavoro, l’attività come consigliere è stata la mia massima gratificazione.
Ho abbandonato Rifondazione quando Bertinotti ha fatto cadere Prodi, poi i Ds mi hanno recuperato, ho fatto anche il consigliere comunale dei Ds per 5 anni. In quel periodo c’era l’Ulivo, che mi è piaciuto perché ho sempre pensato che uniti si vince. Ora sono nel Pd ma in seguito alle ultime vicende post elettorali, vorrei emigrare…
Sono rimasto iscritto a Cgil e Anpi, ma dopo il no al referendum sulla riforma istituzionale, con me hanno chiuso. La Cgil poi non rappresenta più i lavoratori, ormai fornisce solo servizi. D’altra parte, ci sono quei sindacatini stupidi, come Usb, che non contano nulla.
Ho capito che un ciclo era finito in occasione della sconfitta della Fiat. Me ne sono accorto quando andavo a Torino a fare i picchetti e non c’erano quelli della Fiat, c’eravamo noi.
Se sei sempre stato per l’unità della sinistra, cosa ci facevi in Ao, che era un partito che criticava la sinistra storica e la nuova sinistra, era un partito che divideva la sinistra?
Il mio più caro amico era del Ms, in Lc ho avuto dei cari amici, sono sempre stato unitario. La scelta di Dp mi era piaciuta perché voleva unire, ma si vedeva che era un matrimonio freddo, ognuno manteneva le proprie posizioni. Per me, l’unità della sinistra è un valore, ho in mente quel famoso striscione che noi della Pirelli portavamo alle manifestazioni, c’era scritto “uniti si vince”.
Nella sinistra c’è quel senso di invidia per cui quando uno è bravo e ha successo, viene attaccato, come Picelli, che era in gamba, aveva capacità militari, ma poi muore in battaglia in Spagna, colpito alle spalle, quindi non dal nemico, e gli negano qualsiasi onorificenza perché aveva parlato con quelli del Poum.
Anche Rifondazione era un sogno, poi Bertinotti ha fatto il disastro, ha affossato il governo Prodi. Se l’uscita a sinistra migliora la condizione della classe operaia, va bene, ma se ci dà Berlusconi, Salvini, i 5 stelle… Chi mi fa stare peggio lo considero potenzialmente alleato della destra. Io ho sempre pensato che uniti si vince. Questa atomizzazione della sinistra è un disastro. Adesso, per esempio, Leu quale prospettiva ha? Bisogna unirsi, Mitterrand ci ha mostrato la strada. La sinistra si è sempre fatta male da sola, distruggendo anche quel che di buono era stato fatto.
Mia moglie e io abbiamo fatto molti viaggi a est, quei paesi non mi pare che fossero messi così male, c’era una certa certezza economica, tranquillità sociale, per esempio una donna alle tre di notte poteva stare tranquillamente in un giardino, senza che nessuno la importunasse.
Hai sempre lavorato come operaio?
No, poi ho fatto carriera. Alla Pirelli, non appena ti iscrivevi a scuola, diventavi operaio specializzato, poi impiegato. Sono rimasto 18 anni a fare l’operaio pur avendo il diploma, poi ho detto a un capo del personale “ma allora, che ve ne fate del mio diploma?” e sono diventato impiegato.
Potevo fare carriera in fabbrica ma sono sempre stato dalla parte del popolo. Sono stato nella Cgil, ho fatto degli accordi con la Pirelli. Uno di questi, negli anni ottanta, stabiliva che ai giovani operai tossicodipendenti che andavano in comunità a disintossicarsi, veniva conservato il posto di lavoro. Gli ultimi anni che sono stato alla Pirelli, volevano chiudere la fabbrica, sebbene fosse avanzata tecnologicamente, costruivamo i robot che realizzano i pneumatici.
Feci un grande accordo, in cambio di 12 sabati di straordinari veniva eliminata la cig. Fu il mio ultimo accordo. Quando c’è stata l’occasione di cacciarmi via, mi hanno mandato in mobilità, poi in pensione. Io penso che finché sono stato in fabbrica e nel sindacato, qualcosa ho fatto.
Cos’era per te la rivoluzione?
Noi credevamo tutti di fare la rivoluzione. Ma gli operai non volevano fare la rivoluzione, volevano la 500, il frigo, volevano stare meglio, e queste cose si sono conquistate con le lotte. Siamo passati dal cottimo a sistemi più tranquilli, siamo passati da 48 ore a 40, però questo in contropartita ha comportato l’esternalizzazione delle fabbriche. Il capitalismo è stato intelligente e ha cominciato a ristrutturare la produzione. Noi non abbiamo capito che, se la mucca la sfrutti troppo, non dà più latte.
Noi credevamo di parlare a nome della classe operaia, ma gli operai erano col Pci, noi non avevamo legami saldi con la classe operaia, noi eravamo studenti, piccolo borghesi. Io avevo legami saldi con la classe operaia, perché ero operaio di fabbrica, ma eravamo pochi. In quegli anni molti protagonisti delle lotte erano sottoproletari. Certo, molti erano operai massa che hanno preso coscienza, ma molti erano sottoproletari a cui non interessava la rivoluzione. Io, avendo legami col mondo del lavoro, sapevo che la rivoluzione non è un banchetto, è una cosa più seria e solo le masse possono farla.
Io alla rivoluzione non ho mai creduto, perché frequentavo gli operai, e vedevo che non ci sostenevano. Io sono sempre stato visto male nella sinistra perché ho sempre avuto questa dote di capire dove si sarebbe andati a finire. Credevamo tutti alla rivoluzione, poi l’esperienza di Dp ci ha delusi. Prima invece, la vittoria sul divorzio ci aveva gasati.
Avete sostenuto il divorzio perché credevate nelle libertà civili?
No, perché contro il divorzio erano Dc e Msi. Oggi i poveri sono i divorziati, perché è facile che chi divorzia precipiti nella povertà, ma allora il divorzio era una cosa da ricchi. I radicali si sono presi il merito della vittoria, ma in realtà è stata soprattutto merito del Pci. Molto di quanto si è ottenuto è dovuto a Berlinguer e al Pci. In Rifondazione avevo conosciuto Cossutta, diceva che Berlinguer voleva cambiare nome al partito, ma l’Urss non l’avrebbe permesso.
Cosa si pensava in Ao del ruolo della violenza?
Io partecipavo alle manifestazioni, ma solitamente non in prima fila. L’11 marzo 1972 mi sono trovato in prima fila perché il sdo di Ao non era poi così efficiente, era la famosa “brigata lepre”.
A Monza non c’erano scontri coi fascisti, non era come a Milano. A volte c’erano scontri con le altre organizzazioni. Però, ricordo che una volta, in un momento di tensione col Ms, io dissi a Bruno, il capo del Ms, “ma che stiamo facendo?”, lui si ferma e mi risponde “hai ragione, ciao”. Molti di Lc sono finiti nella Br, in Ao non è successo.
Qual è il tuo bilancio complessivo dell’esperienza di Ao? Quali gli aspetti positivi e quali quelli negativi?
Ao era una comunità, poi quando ci siamo allargati troppo questo è cambiato, e si è iniziato a litigare. La delusione di Dp fu enorme. Poi ci fu il riflusso, “il personale è politico”, tutto ciò ci ha rovinato. Poi la borghesia ha capito come distruggerci, ha tirato fuori l’eroina. Inoltre, in fabbrica, dagli anni 80 non si assumeva più, non c’è stato il passaggio di testimone generazionale.
Ao, rispetto agli altri gruppi, ha dato qualcosa di concreto ai propri militanti, ha dato gli strumenti per capire. Quello stile dei gruppi di studio di Ao l’abbiamo ripreso nel 1995-1996 con Punto rosso, facevamo dei seminari di formazione, con Giorgio Riolo.
Credo che in quel periodo commettemmo un grave errore: eravamo come accecati dall’anticapitalismo. Per esempio, Pirelli era un industriale molto avveduto e capace, apriva una fabbrica all’anno. Noi lavoratori Pirelli avevamo vantaggi come la mutua interna, un cral dove compravi a poco prezzo, salari più alti rispetto agli altri. Ebbene, non solo noi ma anche Cofferati diceva che tutto ciò era paternalismo, e noi respingemmo un sacco di cose vantaggiose, come la cassa previdenza, cioè il fatto che chi andava in pensione riceveva 21 mensilità.
C’era poi questo abbaglio della rivoluzione culturale. La rivoluzione culturale è stata un disastro, ci sono stati 50 milioni di morti, siamo stati troppo fiduciosi.
Ao è stata una scuola, dal punto di vista culturale è stata una esperienza valida. Alcune cose, col senno del poi, invece sono criticabili. Allora, l’entusiasmo giovanile non permetteva di vedere tutti gli aspetti delle questioni. Ma erano anni irripetibili, siamo stati fortunati. L’ultima volta che ho partecipato a qualcosa di Ao, è stato il funerale di Gorla. C’era la Joan, sempre bella, sembra che non invecchi mai, c’era il discorso di Calamida e la musica jazz.