Michele Randazzo – quando si faceva il settimanale (Peppino d’Alfonso)
Nonostante sia stato Michele ad iniziarmi all’attività politica (o meglio, alla concezione totalizzante della militanza come attività che permea ogni istante della propria vita, ogni pensiero, ogni prospettiva), nonostante i nostri rapporti di amicizia siano rimasti molto stretti durante tutto il tempo della mia avventura in AO (e anche molto dopo), è solo nella redazione del giornale, nei primi anni 70, che svolgemmo realmente un lavoro politico insieme.
Fu un’esperienza relativamente breve, ma straordinariamente intensa, di quelle che logorano profondamente, ma lasciano un segno duraturo e fanno venire a galla la sostanza delle persone. Vediamo se i miei ricordi, offuscati dai quasi 40 anni intercorsi e dall’alzheimer incipiente, mi consentono di darne un’idea.
Il primo flash è un po’ confuso, ma già rivela un tratto non secondario del carattere di Michele, ovvero il suo disarmante ottimismo, che a volte lo portava a vedere nelle persone più di quello che c’era realmente: ottimismo che in quel caso si manifestava nel sottovalutare la mia insipienza politica (e sopravvalutare le mie doti di scribacchino).
Così, ancora neofita in AO e praticamente digiuno di cultura marxista, mi vedo portato da Michele ad una riunione di redazione (di non so più quale organo di stampa, certo non ancora il quindicinale), dove vengo incaricato di preparato un articolo sulla tragedia in atto nel Biafra. Ricordo che, da bravo studente di facoltà scientifica, mi documentai a fondo sulle ragioni del contrasto fra le etnie (ho ritrovato recentemente il libricino comprato per l’occasione, tutto sottolineato), ma il pezzo fu inesorabilmente bocciato, perché non ero stato capace di mettere in luce la cosa principale, ovvero il giudizio politico sulle “responsabilità dell’imperialismo”.
Quindi la mia esperienza al giornale rischiò di terminare prima ancora di iniziare veramente. Qualche tempo dopo però venni ripescato per collaborare al nascente quindicinale (poi settimanale), di cui a Michele era stata affidata la direzione. Anzi, assieme a Michele e al giovane Cippino, io fui uno dei funzionari a tempo pieno stipendiati (per così dire) da AO per garantire l’uscita del giornale.
L’organizzazione del lavoro della redazione è emblematica del modo di fare attività politica in quegli anni. Tre persone a tempo pieno (più una manciata di collaboratori a tempo parziale, per lo più studenti o professori) per un giornale di 16 pagine. Nessuno con esperienza di giornalismo professionale, quindi nessuno in grado di scrivere i pezzi direttamente sulla macchina da scrivere: articoli scritti a mano e poi ricopiati (dagli stessi autori naturalmente) sulle Olivetti Lettera 32, con copie su carta carbone.
I contributi delle sedi fuori Milano (fortunatamente pochissime allora) registrati al telefono (no mail, no fax) e sbobinati (sempre dai redattori). Nessun archivio fotografico su cui contare: tutti si facevano carico di trovare il materiale iconografico, saccheggiando altre riviste o libri (copyright?…). Nessun addetto ai titoli: tutti collaboravano a proporre titoli che si conciliassero con le esigenze dell’impaginazione e magari tentassero di essere spiritosi. Rimase celebre un “Sadat s’adatta” proposto da Michele, che alla redazione era sembrato molto brillante e invece poi fu criticato dai più perchè “non si scherza con queste cose”.
Nessuna società di distribuzione: eravamo ancora noi funzionari a occuparci del trasporto in stazione dei giornali appena stampati, per la spedizione via treno alle varie sedi di AO in giro per l’Italia. Gli unici professionisti su cui contare erano quelli della tipografia: ma per i primi (lunghissimi) tempi l’unica tipografia disponibile era a Genova!
Quell’abbattimento della separazione fra lavoro intellettuale e manuale per cui tanto ammiravamo la rivoluzione culturale cinese, al giornale veniva praticato correntemente. Anzi, nei miei ricordi, la componente intellettuale del lavoro è curiosamente sfumata: non riesco a ricordare la distribuzione dei compiti in una riunione di redazione, e non riesco a vedermi nella stesura di alcun articolo, mentre restano vivide le immagini del lavoro materiale.
La sera prima del giorno destinato alla stampa, il giornale andava “chiuso” in redazione a Milano (e la chiusura si prolungava regolarmente ben oltre la mezzanotte). Dopo pochissime ore di sonno, partenza con una nostra auto per Genova (Michele, Cippino ed io), per essere in tipografia alle 8. Lì, correzione delle bozze man mano che i pezzi venivano composti dal linotipista, poi preparazione dei titoli e impaginazione (sempre noi tre), con tutti i lavori redazionali da fare sul campo: tagli anche crudeli o buchi imprevisti da riempire, perché i nostri “menabò” erano sempre abbastanza approssimativi.
Inutile dire che l’onere di queste decisioni, da prendere al volo, era quasi tutto del dirigente politico, cioè di Michele. A sera il giornale andava finalmente in stampa; non ricordo quante copie, ma certo molte migliaia, sicuramente più di diecimila. A quel punto cominciava il lavoro più duro: fare i pacchi, divisi sede per sede, caricarli sulla macchina e portarli in stazione (più viaggi, da cui il dirigente politico non era certo esentato). Alla fine, a ore piccole, stravolti di stanchezza, si poteva intraprendere il viaggio di ritorno, sulle curve della Milano-Genova, magari con la nebbia fitta dopo Tortona. E a fine viaggio, bisognava andare in sede, a scaricare i pacchi destinati alla diffusione a Milano.
Guardando quella redazione con gli occhi dei nostri giorni, pervasi del mito della professionalità, molti avranno un sorriso di compatimento per tanto dilettantismo e considereranno tutta l’impresa follemente volontaristica. Certamente lo era. Ma ha funzionato. Il giornale usciva regolarmente e soprattutto serviva egregiamente per lo scopo che si prefiggeva in quella fase di crescita impetuosa dell’organizzazione, cioè far arrivare ai militanti nella maniera più capillare possibile la “linea politica”, i temi da agitare nel lavoro in fabbrica e sul territorio.
Se quel miracolo si realizzò, non c’è dubbio che il merito principale fu di Michele. Dicevo sopra che lavorare ai limiti delle proprie capacità fa emergere la vera natura delle persone. Bene, nonostante l’incalzare delle scadenze, Michele non solo riusciva a mantenersi lucido e padrone di sé, ma era anche capace di trasmettere serenità.
Nei miei ricordi in redazione c’è allegria, si lavora tranquilli, anche se frenetici, convinti di fare un buon lavoro. E questo era anche il frutto del modo con cui Michele interpretava il suo ruolo di dirigente: mai nessun atteggiamento da leader, mai la tentazione, ma neanche la necessità, di alzare la voce per far passare le proprie scelte (che differenza con il quotidiano, qualche tempo dopo).
Al contrario, un serrato e appassionato argomentare, la volontà (e la capacità) di imporsi con la forza delle idee. E poi, di Michele colpiva (e faceva proseliti) quel suo spendersi completamente in ciò che decideva di fare, senza risparmiarsi, bruciandosi nel corpo e nello spirito. Non a caso, dopo qualche tempo, Michele dovette lasciare la direzione. Ma ormai il lavoro era avviato, una serie di competenze dentro la redazione si erano definite, era stata trovata una tipografia a Milano, insomma, i tempi più duri erano finiti. Si potrebbe dire, non c’era più bisogno di eroi…
Scherzi a parte, credo proprio che, in altri contesti storici, di fronte alla necessità sacrifici radicali, Michele sarebbe stato uno di quelli capaci di compiere veri atti di eroismo. In sostanza, Michele incarnava quella generosità di intenti che in quegli anni era la molla che sosteneva la frenetica militanza di tanti giovani. La volontà di radicale trasformazione dell’esistente che nasceva da un’esigenza etica, la politica come imperativo morale, nella migliore tradizione della militanza comunista.
Prima che con la dottrina politica, più che con la superiorità intellettuale, Michele mi aveva conquistato con il suo sorriso affabile da gentiluomo meridionale, con la sua umana generosità, con la limpidezza del suo agire. E’ su questo terreno che la mia formazione cattolica aveva trovato un’immediata consonanza con il suo predicare, è in questo modo che ero stato condotto a passare con insospettabile (oggi) naturalezza dalla militanza in un movimento ecclesiale a quella in una organizzazione comunista.
E’ questo che ha fatto di Michele, ben più di un maestro di politica, un amico fraterno e un punto di riferimento fondamentale per tutta la vita.
(scritto nel giugno 2008 in occasione del decennale della morte di Michele Randazzo).