dico la mia su AO – di Leo Ceglia

Sono tra i 100 intervistati per il libro sulla storia di AO e stimolato dalla lettura del libro, dalle interviste, dagli interventi che via via si sono aggiunti dico la mia. Mi soffermerò su due aspetti: quello interno (io c’ero) – e quello delle cose che non abbiamo capito. Infine, due parole sull’oggi, cosa resta per me.

Molti si sono soffermati su alcune caratteristiche specifiche della militanza in AO. Si è detto che essa richiedeva ad ognuno di noi serietà, impegno nello studio, il primato del lavoro per l’organizzazione, ecc. Insomma, una situazione dove non ci venivano richieste la giacca e la cravatta ma quasi. In quel gran casino che era il movimento, i professorini. Ecco, io non mi riconosco in tale descrizione. Sono stato in AO fin dall’inizio, da studente del Molinari fino al 1970, infine, da operaio alla Fargas di Novate Milanese, fino al 1978.

Bene, in queste situazioni, mi sono anche divertito, e ogni giornata è stata ricca e spumeggiante più di quella che l’aveva preceduta. Per un terrone come me, che era partito da Termoli nel settembre del 1967, e che aveva come aspirazione quella di fare il perito chimico alla Pirelli o alla Carlo Erba, il Molinari fu la rivoluzione. In tutti i sensi. Tante riunioni, tante manifestazioni, tanto studio, tante tensioni, ma non mi sono mai ammusolito né annoiato. E, con il senno di poi, ciò era dovuto, anche
e sopratutto, ai legami tra compagne e compagni che si creavano nel “tempo libero” che avanzava, a fianco della militanza, nelle 24 ore (sì, si viveva 24 ore al giorno).

mi sono divertito a nuotare in un grande fiume

Cosa intendo? Voglio dire che la militanza in AO era importantissima e assorbente, ma quello che segnava davvero le mie giornate era l’effervescenza culturale e libertaria che si avvertiva in ogni dove e per tutto il giorno, tutti i giorni. Dentro e fuori AO. Al Molinari ad es. ho partecipato a tutte le occupazioni le riunioni e le iniziative di movimento (quando ne ho saltato qualcuna era perché andavo a lavorare in nero a scaricare il pesce).

Ma la mia “educazione politica” al Molinari è arrivata anzitutto da alcuni compagni e compagne e da alcuni professori (lasciatemi ricordare Alberto Pozzolini con il quale sono rimasto in contatto fino alla sua morte 2 anni fa), non solo nelle riunioni e nelle manifestazioni, ma anche fuori, “nel tempo libero”. Con loro ho passato più tempo a parlare su tutto, a viaggiare, ad andare a cinema e a teatro, a mangiare e bere, a cantare, ecc., che non nelle riunioni e nelle manifestazioni.

Non voglio declassare la militanza in AO e la sua specificità voglio solo ricordare a tutti noi che siamo figli del ‘68 e il ‘68 è stato più grande della nostra pur importante storia di gruppo, e il ‘68 è durato almeno 10 anni (c’è chi dice 20, se le origini internazionali le si fanno risalire alla rivoluzione cubana e se si chiude il periodo con l’assassinio di Moro). Ecco, io mi sento più parte dell‘ orda d’oro, di cui hanno parlato Primo Moroni e Nanni Balestrin nel loro bellissimo libro omonimo. Dentro l’orda d’oro, ci siamo stati tutti ; noi, quelli di AO, di LC, di PotOp, del PdUP, de “il manifesto”, dell’MS della Statale ecc. Siamo tutti figli di Che e Fidel, di Don Milani e Camillo Torres, di Ho Chi Min e Mao, di Bob Dylan e Joan Baez, dei Beatles e dei Rolling Stones, di Della Mea e Giovanna Marini, di De Andrè e di Guccini, di Dario Fo e Enzo Jannacci, di Berkeley e della Sorbona.

Siamo tutti e tutte parte di questo grande fiume. Certo ognuno con le sue caratteristiche, ma andavamo tutti nella stessa direzione. E tutti assieme, in un movimento ancora più grande, che ha finito per includere l’insieme del movimento operaio e sindacale, quello cattolico e progressista, e in corso d’opera quello femminista, abbiamo dato un grande contributo al cosiddetto decennio costituzionale, a conquiste che ancora oggi sussistono pur se continuamente aggredite, e che fanno, del nostro, un paese più civile e giusto (Statuto dei lavoratori -pur ferito a morte da Renzi-, legge sulle pensioni e legge sulla sanità pubblica, divorzio, aborto, diritto di famiglia , la L.180 sui manicomi ecc.).

Solo dentro questo quadro, che ci ha visto, quasi inconsciamente, tutti e tutte remare in una unica direzione, e cioè meno diseguaglianze (nella torta del PIL nel 1975 metà andava a rendite e profitti l’altra metà andava ai salari e alle pensioni – oggi siamo sotto il 40% per salari e pensioni), più diritti sociali e civili, più libertà, mi sento di sottolineare le nostre specificità. E allora veniamo ad AO.

AO era contro il PCI? Certo. Il PCI era ancora con l’URSS anche dopo i carri armati a Praga. E noi eravamo consapevolmente antistalinisti. Eravamo contro il Pdup? Certo, in definitiva non avevano ancora rotto davvero il cordone ombelicale con il PCI. Eravamo contro Lotta Continua ? Certo. Ci sembravano fuori di testa. E anche un po’ radical chic. Cosa vogliamo? Vogliamo tutto e subito, dicevano. Eravamo contro Potere Operaio e l’autonomia operaia? Certo. Ci sembravano il serbatoio potenziale della lotta armata. Eravamo contro il Movimento studentesco della Statale? Certo, erano stalinisti e “statalocentrici”. Eravamo contro i sindacati confederali? Certo. Troppo moderati e sottomessi ai partiti di riferimento dei quali erano la cinghia di trasmissione.

Tutti questi giudizi e smarcamenti dagli altri erano sostenuti da abbondanti e circostanziati articoli e opuscoli, con analisi teoriche approfondite e discussioni in cellula e nei gruppi di studio. Secchioni e seri. E questo certo ci distingueva da compagni e compagne di altri gruppi che, come dirò in seguito, studiavano un po’ meno di noi, ma non per questo erano meno bravi e seri. Così, noi di AO, pensavamo allora di dover “ricostruire” un partito di quadri selezionati e preparati, di avanguardie operaie e studentesche, e della società civile, in grado di leggere il mondo come allora si presentava, e “ritrovare” la strada per la rivoluzione proletaria e comunista (meglio: prima
socialista e poi comunista).

i CUB

Promuovemmo i CUB (a proposito, nacque prima quello della Pirelli con Mario Mosca o quello alla Borletti con Emilio?). Cioè gli organismi di massa preposti a organizzare e dirigere le lotte nelle fabbriche nelle scuole nelle case nei quartieri nelle più varie istituzioni della società e dai quali selezionare i quadri migliori per l’organizzazione.
Li promuovemmo su scala nazionale, perché dovevamo diventare una organizzazione nazionale per fare poi il partito (e infatti ci chiamavamo, perché ancora piccolini, Organizzazione Comunista Avanguardia Operaia – chissà come ci saremmo chiamati se fossimo passati alla fase partitica, ci siamo andati vicinissimi-).

Calamida nel libro e Molinari nel suo articolo dal titolo Alcune note sul libro di AO ci hanno detto che quella dei CUB è stata l’esperienza che più di ogni altra cosa ha identificato AO. Emilio in particolare: “ma in cosa eravamo diversi noi di AO dagli altri gruppi? (…) Il marxismo leninismo, il maoismo, la gioia di vivere? L’Italia era piena di marxisti leninisti, di libretti rossi e tutti nel far politica erano gioiosi: amavamo, cantavamo e riempivamo le trattorie. No, io penso che la nostra immagine ( oggi fuori moda) sia da cercare nei CUB operai e studenteschi e nello straordinario rapporto con i lavoratori e lavoratori/studenti. Davano ad AO, non so se le parole sono giuste, un ruolo di avanguardia e un’anima popolare. Qualcosa che nessuno possedeva. E lasciatemi pensare che i CUB sono stati uno straordinario esperimento di lavoro politico, che ha fatto sì che AO diventasse uno esperimento politico unico nel panorama della sinistra del ’68 non solo italiano. (…)Ecco: non piacerà a tutti eravamo, eravamo quelli dei
CUB. (…).

Ha ragione Emilio? Un po’ si. Ma sopravvaluta, come cercherò di dire, il nostro ruolo di “Avanguardia”. Ha ragione se si pensa al fatto che eravamo tra le organizzazioni della sinistra extraparlamentare quella con maggiore attenzione alla vita in carne ed ossa dei lavoratori e delle lavoratrici. Noi eravamo davvero attentissimi verso il mondo del lavoro. In una dialettica conflittuale permanente con i sindacati e il PCI in particolare, nei luoghi di lavoro dove c’eravamo, eravamo attenti alla vita materiale concreta e alle condizioni di lavoro delle lavoratrici e dei lavoratori. E nel lavoro nei consigli di fabbrica, e nei CUB (dove c’erano), abbiamo conseguito risultati importanti nelle vertenze aziendali, nella difesa dei posti di lavoro, e influenzato come nessuna altra organizzazione cosiddetta extraparlamentare le piattaforme nazionali per i contratti nazionali e/o per le vertenze confederali.

E in questa attività sono finiti nella organizzazione compagni e compagne dirigentiindiscussi in fabbrica e prestigiosi nella organizzazione (Emilio ne ha elencati alcuni/e). Per quel che mi riguarda, l’esperienza vissuta nel CUB della Zona Sempione conferma quel che dice Emilio. Nella sede di Roserio sono passati compagni e compagne di decine di fabbriche della zona: Crouzet, Alfa, Carboloy, CGE, Fargas, Triulzi, Zambeletti, ecc. Si usciva dal lavoro e si andava a Roserio. Tutti i giorni. Quattro chiacchere se non c’erano riunioni.

la vita di sezione e l’inizio della crisi

Ma c’era sempre qualcosa da fare. Organizzare un volantinaggio o un picchetto, discutere di questa o quella situazione, preparare e/o partecipare a qualche festa di AO,
preparare la partecipazione al carnevale di Bollate. Si mischiava un po’ tutto. Il lavoro in AO (federazione e sezione), quello nei consigli (avevamo compagni e compagne in tutti i consigli di fabbrica), quello nel sindacato (eravamo presenti in tutti e tre i sindacati), quello nei quartieri (mercatini rossi), quello delle occupazioni delle case (un palazzone lì a Roserio).

E poi c’erano i gruppi di studio e i seminari di approfondimento anche con gli esperti che ci inviavano dalla federazione. E non solo sui temi del lavoro e delle vertenze contrattuali e confederali. Si parlava della situazione internazionale, della differenza tra Cina e Unione Sovietica, del Vietnam e della Palestina, del divorzio e dell’aborto, ecc. Poi? Poi tutto questo cominciò a vacillare fino ad estinguersi nel giro di un paio di anni.

Perchè? Perchè nel periodo che va dalla metà circa del 1975 e la metà circa del 1977 tutti i gruppi extraparlamentari nati nel ‘68 si sono sciolti ? Non sono uno storico ma alcune cose le ricordo. E qualche indizio che non avremmo fatto molta strada cominciava già allora ad affiorare. Nel 1974 ci fu la vittoria referendaria sul divorzio. Inattesa ma nell’aria e rivelatrice nello stesso tempo.

Qualcosa era cambiato nel paese. Nel 1975, alle amministrative, ci fu una crescita enorme del PCI, e un buon risultato per DP-PDUP-AO. A Milano pigliammo 3 consiglieri e partecipammo alla giunta di sinistra (cfr. Molinari), alle regionali fu eletto Capanna e un altro di cui non ricordo il nome. Però, c’è un però. Alle regionali votarono per la prima volta i diciottenni e si registrò che buona parte di quel voto andò andò al PCI. Si parlò addirittura di un possibile sorpasso del PCI sulla DC. E siccome cresceva la presenza delle iniziative terroristiche di destra(piazza della Loggia a Brescia nel 1974) e di sinistra (viene gambizzato a Milano Massimo de Caroli, quello della
“maggioranza silenziosa”) nel paese si cominciò a parlare di compromesso storico.

Io discussi molto in fabbrica di quel risultato. Perchè mi aspettavo molto di più. Devo sottolineare che la situazione in Fargas era assai particolare per tre ragioni: era una fabbrica in autogestione, era egemonizzata dai gruppi della sinistra (LC in particolare, ma c’erano tutti, AO, PDUP, Autonomi ), e c’erano molti giovani e giovanissimi. Molti fra questi mi dicevano che avevano votato PCI. Ne parlai a lungo con compagni con i quali discutevo più che con altri. Eravamo un gruppo particolare, eravamo diplomati e con esperienza di movimento studentesco alle spalle. Io però ero il più secchione, quello che leggeva e studiava più degli altri, e me lo riconoscevano tranquillamente, perché ero di AO dicevano.

C’era anche Luigi Moretti di AO, ma lui aveva meno tempo di me perché era il numero 2 tra i dirigenti della lotta e nel consiglio. E pure lui come sfottò mi dava del professorino. Nel “gruppo diplomati” c’erano Mario Salamini del PCI, Marco Castelli di LC, Brusa Giancarlo del PdUP, Enrico Scurati e Domenico Nugara che frequentavano il CUB a Roserio saltuariamente. Si arrivava tutti alle stesse conclusioni: piazze piene urne vuote.

O, per dirla con Claudio Cereda, in un suo articolo sul “Quotidiano dei Lavoratori” dopo le elezioni politiche del 1976: Se ci mettiamo a fare solo o principalmente i sindacalisti e non diamo a questa attività uno sbocco concreto di programma politico, la gente continuerà ad occupare le case, a trovare interessanti i mercatini, a consegnarci le bollette per pagare meno il telefono . . a considerare i rivoluzionari dei Cub o nei Cdf dei bravi compagni di cui ci si può fidare, ma al momento di operare una scelta più globale continuerà a scegliere per il Pci. Questo constatava Claudio nel 1976.

autogestione operaia

Noi in Fargas già nel 1975 ci ponevamo domande scomode. Eravamo in autogestione. Quella delle autogestioni come forma di lotta in difesa del posto di lavoro fu una piccola vampata in quegli anni. Dalla Francia arrivò la notizia della LIP di Besancon , fabbrica di orologi, i cui operai occuparono la fabbrica in difesa del posto di lavoro, e si misero a produrre direttamente e a vendere per sostenere la lotta anche economicamente. In Italia, qui a Milano, la FIM di Piergiorgio Tiboni, raccolse la proposta per la Fargas. Nello stesso periodo seguirono l’esempio, sempre a Milano e provincia, anche la Fioravanti (tortellini) e la Coelettron poi elettronradio.

Così nei cortei sindacali di allora o nelle feste della sinistra si potevano comperare direttamente dai lavoratori stufe e scaldabagni , tortellini, radio portatili. PCI e CGIL erano contrari. Sostenevano che erano lotte caotiche e senza sbocco alcuno. La FIM apertamente, la UILM tiepidamente, invece sostenevano. I gruppi erano inizialmente tutti d’accordo e anche un po’ entusiasti. Ricordate gli slogan di allora? La classe operaia deve dirigere tutto – Casa scuola fabbrica e quartiere, proletariato in lotta per il potere – L’emancipazione dei lavoratori deve essere opera dei lavoratori stessi … Che si fa allora se si dovesse prendere il potere? Bisognerà pure fare andare le fabbriche senza i padroni e i loro dirigenti asserviti, bisognerà pur imparare a fare da soli. L’autogestione poteva permettere e insegnare tutto questo. E in effetti molti di
noi si misero a studiare ogni cosa del ciclo lavorativo così da essere autosufficienti alla bisogna.

L’autogestione ci era concessa dal tribunale (la proprietà privata era sempre lì) che ci permetteva di produrre e vendere nell’attesa che arrivasse una altro padrone a rilevare l’azienda. Naturalmente non dovevamo andare fuori mercato. Uno studio universitario ci garantiva che di mercato ne avevamo eccome, che il prodotto era buono, che insomma potevamo provarci. E ci provammo. Sul lavoro eravamo organizzati come prima, la catena di montaggio era quella e non la si poteva cambiare. Qualcuno tra i compagni autonomi e quelli di LC (non tutti per fortuna visto che il leader indiscusso della fabbrica, Piero Tedoldi era di Lotta Continua) cominciarono a dire che l’autogestione era una sorta di autosfruttamento, a voler essere leggeri, qualcuno invece si spingeva a dire che i compagni dirigenti dell’autogestione erano i nuovi padroni. Noi che amavamo discutere e cercare di capire eravamo un po’ sorpresi ma riuscivamo a resistere squalificandoli come primitivi e spontaneisti. Per fortuna c’era anche la vendita dei prodotti.

Questa seguiva due canali, la rete tradizionale ricostruita e mantenuta con molta fatica, e quella della vendita diretta e solidale. Devo dire che la solidarietà fu altissima e di qualità. Tenevamo aperto anche alcuni Sabato e Domenica per vendere, e la pubblicità ci era garantita da personaggi come Dario Fo e Franca Rame, Enzo Iannacci, La PFM, che fecero spettacoli e concerti a sostegno della nostra lotta. E dal 1976 si aggiunse Radio Popolare.

Alla fine un padrone lo trovammo. Si chiamava Noè. Quando arrivò nel 1977 regalò a tutti e tutte una cassa di buoni vini. Ci salutammo con brindisi in reparto a Natale. A gennaio del 1978 rientrammo in fabbrica e il padrone era scappato. Non lo abbiamo più visto. Abbiamo ancora occupato per qualche mese, ma poi ci siamo arresi. Non prima di aver sistemato tutti e tutte nelle fabbriche della zona (allora c’era ancora la forza per fare simili operazioni). Io, che ero diplomato e iscritto all’università, fui chiamato dal sindaco di Novate a insegnare nel centro di formazione professionale della zona.

Che dire di quella esperienza? Bellissima e la rifarei. Ma i nostri slogan e i nostri studi erano un po’ fuori sincrono. E qualcuno in fabbrica se n’era accorto. Cozzavano con la realtà per così dire. E con il passare dei giorni e degli anni la consapevolezza aumentò. Il potere dev’essere operaio gridavamo. A provarci però si faceva una gran fatica; e un operaio arrivava a dire all’altro, che fino al giorno prima lavorava al suo fianco e come lui, che era diventato un novello padrone. Ce l’avevamo con i padroni, ma per salvare il posto di lavoro avevi bisogno di trovarne un’altro (che poi si sia rivelato anch’egli uno stronzo nulla toglie alla amara considerazione).

Si poteva intervenire su ogni decisione, la partecipazione alle decisioni era sacra, e tutto doveva essere deciso democraticamente. Giusto. Ma il compagno Signò, democristiano, che mi voleva un gran bene (e non ci ha mai votato alle elezioni politiche e amministrative), quando mi vedeva discutere animatamente con alcuni giovanissimi un po’ “elettrici” su questa o quella questione, trovava il momento per prendermi sottobraccio per dirmi, “Leo, qui è un manicomio” (in rigoroso dialetto milanese che non so riprodurre).

le elezioni del 76 e il dopo – quelli che …

Dopo le elezioni del 1976, con il circolo dei diplomati ,le domande si facevano più crudeli. Ci dicevamo: come facciamo a cambiare il mondo se siamo il 3%? Con chi lo cambiamo se PCI e PSI li consideriamo traditori del proletariato? (e Mario se la rideva). Prendiamo le armi per l’assalto al palazzo d’inverno? Noi ? I “conigli”? (e Marco se la rideva paragonando il nostro servizio d’ordine al suo). E il sindacato? Ne facciamo uno noi?

Qualcuno cominciò a parlarne dopo il Lirico 1 (aprile ‘77) e il Lirico 2 (febbraio ‘78). E poi, qualche anno più in là e allargando lo sguardo nel mondo; che succede in Cina?
Perchè Cina e Vietnam si fanno la guerra? Così pian pianino il “circolo” si è disperso. Marco con altri di Lotta Continua si è fatto sei mesi in America Latina, ci vediamo ancora. Mario l’ho rivisto, sempre scettico, ma serio e bravo nel PCI, Brusa del PdUP l’ho perso di vista, Enrico è venuto a scuola con me, Domenico ha fatto il libraio ed ora anima ARCI e ANPI a Cesate. Io ho continuato ad occuparmi di politica e sono adesso in Sinistra Italiana dopo aver attraversato DP e PRC (con pochi mesi anche nel PdCI di Cossutta dopo che Bertinotti aveva fatto cadere Prodi).

E i gruppi? Tutti sciolti. Tutti divisi grosso modo In due grandi categorie e in maniera trasversale in ogni gruppo:

  • quelli che volevano andare nel PCI per spostarlo a sinistra, quelli che, non se ne parla nemmeno, non c’è speranza alcuna. Idem nel sindacato
  • quelli che volevano rientrare in CGIL per tenerla e spostarla a sinistra , e quelli che non se ne parla nemmeno, non c’è speranza alcuna, e diedero vita in pochi anni a Cobas e la CUB di Tiboni. Una perfetta corrispondenza tra scelta politica e scelta sindacale.

Qualcuno, pochi, fecero altro. In quegli anni eravamo in gran parte giovanissimi. In due tre anni siamo diventati adulti anche politicamente. La società e il mondo erano maledettamente più complicati dei nostri schemi interpretativi e dei nostri riferimenti teorici. Non bastava un partito di bravi e selezionatissimi quadri, di avanguardie operaie e studentesche a cambiare il mondo.

quello che non abbiamo capito

Pier Luigi Scolari (detto Pierre, alla francese), leader del movimento al Molinari, poi giovanissimo dirigente di primo piano nella Federazione di Milano fino al trasferimento a Roma, in un bell’intervento pubblicato in calce all’elenco delle interviste, dal titolo AO, un capitolo importante della storia della sinistra italiana, nell’affrontare il tema del nostro declino mette il dito nella piaga, e affronta di petto quello che era e resta il problema principale della sinistra, di tutta la sinistra e non solo di quella italiana, problema che possiamo riassumere così: perchè tutte le esperienze di transizione socialista sono fallite?

Pierre lo esprime con queste parole citando Rieser: La mia lotta, ma potrei dire la nostra, senza tema di essere smentito, era tesa a dimostrare che non solo un altro mondo, ma anche un altro socialismo era possibile”. Già, ma quale? Alla domanda sul perché del fallimento di tutte le società del socialismo reale, pur diverse tra loro, non è mai stata data risposta. Non bastava certo la critica alle degenerazioni dello stalinismo. Occorreva, come occorre oggi, ripensare il marxismo per coniugarlo con la libertà, depurato da ogni visione leninista di dittatura del proletariato, e ripensare alla forma partito com’era inteso a quel tempo. Invece il dibattito, pur molto ricco, si è spesso trincerato dietro a slogan o citazioni.

Ricordo i lunghi dazebao alla Statale di Milano con citazioni opposte di Marx, Lenin o Mao, uno di AO e l’altro del Movimento Studentesco per corroborare ciascuno la propria tesi spesso su questioni di poco conto. Il bilancio di quegli anni, allora, con le luci e le ombre che ho raccontato, resta di gran lunga positivo. AO insieme a tante altre forze, organizzate e non, ha contribuito a cambiare il paese in meglio: alcune conquiste raccontate nel libro, dalle fabbriche alle scuole alla società (non dimentichiamo che quelli sono gli anni delle leggi sul divorzio e sull’aborto), vengono oggi rimesse in discussione e andranno caparbiamente difese.

L’esperienza personale e umana è stata straordinaria e penso che si possa morettianamente parafrasare che: “abbiamo visto tanta gente e fatto tante cose.

il flop del modello comunista di derivazione leninista e maoista

Pierre con lo stile asciutto e senza fronzoli che lo ha sempre contraddistinto mette a fuoco un problema teorico e pratico che, se si vuole essere onesti intellettualmente, non è mai stato risolto. Perchè tutte le esperienze di trasizione socialista o delle società di socialismo reale, come dice Pierre, sono fallite? Se vogliamo limitare il nostro sguardo solo ai paesi che più hanno attirato la nostra attenzione in quegli anni e in quelli successivi fino ad oggi , vale a dire Russia (poi URSS), Cina, Cuba, Vietnam, ci accorgiamo che nei numerosissimi studi che si sono accumulati nessuno può dire di aver trovato una spiegazione soddisfacente, che spiega perché tutti questi paesi sono … “tornati” al capitalismo o ci stanno rapidamente tornando.

C’era forse qualcosa di sbagliato nella teoria prima che nella pratica? Richiamiamo brevemente alla memoria quel che sapevamo (noi di AO sapevamo) dallo studio di quelle esperienze (in particolare Russia e Cina) e dei classici. In quei paesi dopo aver preso il potere, i comunisti hanno adottato tre provvedimenti fondamentali:

  • statalizzato i principali mezzi di produzione trasporti e comunicazioni,
  • avviato la pianificazione dell’economia,
  • instaurato la “dittatura del proletariato”.

In questo modo, seguendo i classici si cercava di dare risposte a tre grandi contraddizioni del capitalismo (diciamo le principali). La prima era quella tra il carattere sociale della produzione e la proprietà privata (da qui la statalizzazione); la seconda voleva essere una risposta alla cd anarchia della produzione capitalistica (pianificazione); la terza voleva sostituire alla “dittatura” della borghesia (dittatura altro che democrazia si diceva) la dittatura proletaria.

Che c’era di sbagliato? Apparentemente nulla. E i risultati per un po’ furono grandiosi e sotto gli occhi di tutti sia in Russia (e non solo ne “i 10 giorni che sconvolsero il mondo”), almeno fino alla corsa nello spazio, che in Cina, cui diversi organismi internazionali riconobbero, a metà degli anni ‘60, che in 15 anni era riuscita a sfamare e alfabetizzare un miliardo di persone.

Riguardo ai caratteri socialisti dei provvedimenti essi si rivelarono falsi. La proprietà statale si è rivelata essere una forma diversa della proprietà privata capitalistica. La
pianificazione una tecnica economica che non scalfiva l’anarchia dell’economia di mercato. La dittatura del proletariato infine si era trasformata in dittatura sul proletariato.

Si cominciò a parlare dei due imperialismi, USA e URSS, gli uni aggressori in Vietnam gli altri in Ungheria e a Praga. Guardammo con favore alla Cina delle comuni (Shanghai) e alla rivoluzione culturale. Charles Bettelheim, con i suoi libri sull’ URSS (“Le lotte di classe in URSS”, in 4 volumi, solo 2 tradotti in Italia, gli ultimi 2 in francese) e sulla Cina (“l’organizzazione industriale in Cina e la rivoluzione culturale”) e molti altri ancora sulla pianificazione ecc. ci rassicurava.

Non solo lui naturalmente . Anche in Italia avevamo sinologhe di prima grandezza come Enrica Collotti Pischel ed Edoarda Masi. Avemmo anche grandi studiosi della transizione socialista come Gianfranco La Grassa e Maria Turchetto. Poi avevamo “il manifesto”, attentissimo a queste tematiche. Insomma ci sembrava di aver capito dove e perché aveva fallito l’URSS, e dove e perché invece avesse ragione la Cina.

Con la morte di Mao il patatrac. Prima la banda dei 4, poi Deng, poi la guerra con il Vietnam. Ma come! E la solidarietà tra comunisti? E l’internazionalismo? E ci si è messo pure Bettelheim, ricordate? La rivoluzione socialista e comunista? la grande illusione del ventesimo secolo rispondeva Bettelheim. In una intervista concessa a G. Boismenu pubblicata in Les Temps Modernes nel 1986 e tradotta da noi in Marx Centouno n. 5, 1987, con il titolo il pensiero marxiano alla prova della storia, Bettelheim sembra preso da una furia demolitrice verso tutto quello che aveva scritto nei 50 anni precedenti.

Rileggetela, ne infila una dietro l’altra. Qualche esempio. La rivoluzione d’ottobre? Fu una rivoluzione capitalistica di tipo specifico e non una rivoluzione socialista. Il potere sovietico? Dominato da una borghesia di partito che vive dello sfruttamento dei lavoratori. La rivoluzione nei paesi arretrati? Completamente velleitaria. Citando Marx con lui ammonisce “se si vuole realizzare il socialismo sulla base della miseria non si farà che del socialismo da caserma”. E aggiunge che qualche speranza la si potrà avere da paesi avanzati e con regimi democratici e non totalitari. Anche se non va dimenticato, dice Bettelheim, che Hitler è andato al potere in un paese democratico.

Rivoluzioni politiche o rivoluzioni sociali? Le rivoluzioni vere sono quelle sociali, e avvengono nel corso di secoli, lentamente, come il passaggio dal feudalesimo al
capitalismo, e senza alcun bisogno di “innesti” con “rivoluzioni politiche”. Il proletariato è ancora il soggetto del cambiamento ? Macchè, esso ormai è un “mito
conservatore”.

se guardo avanti

Ma il capitalismo sarà eterno? No risponde Bettelheim; può darsi che siccome esso è portatore di profonde contraddizioni, presto o tardi, e senza che noi lo si possa prevedere, nascano nuove forme economiche, cui si potrà anche dare il nome di socialismo, ma senza i caratteri che prevedeva Marx. Secondo un’ottica umana, egli dice, è difficile che si possa pensare ad una società senza la moneta, senza rapporti mercantili, senza il rapporto salariale. Magari avranno altre forme, ma “sganciate” dal contenuto capitalistico che hanno attualmente.

Chiudo sull’ elenco stringato e largamente insufficiente per dare un’idea dei nodi irrisolti nella e della teoria socialista ricordando a tutti noi un celebre passo di Marx che
introduce alle tematiche della rivoluzione anticapitalistica e socialista.  A un dato punto del loro sviluppo le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, (…) e allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale>> (è un passo della famosissima “prefazione del ‘59” di Marx)

Già. E qual è questo punto? Quello che prima non si fa niente e poi invece si potrà fare la rivoluzione? Come si misura il “grado” di sviluppo delle forze produttive che ci consente (ci potrebbe consentire) di dire ,ecco ,ora possiamo fare la rivoluzione ? Abbiamo qualche “termometro” che misura il grado di sviluppo delle forze produttive? No. Non abbiamo un bel niente. E allora di che discutiamo? Come facciamo a dire che un paese è arretrato e un’ altro invece è avanzato? Usiamo il PIL? No, andiamo “a naso”.

Deve essere stato così per Marx che nella “epidemia di scioperi” dell’Inghilterra del tempo “annusò” e si azzardò a prevedere la rivoluzione anzitutto nei paesi avanzati, come l’Inghilterra appunto. Anche Lenin deve aver annusato qualcosa nell’aria nel 1917. Come facciamo a dire che Lenin avrebbe sbagliato a fare la rivoluzione e che sarebbe stato meglio se avesse atteso un po’? Idem per Mao. E perché in occidente il più “socialista” di tutti è stato Roosevelt che dichiaratamente era un fan del capitalismo? Che rispondiamo a queste domande? E non prendetemi per uno che rinnega il marxismo e il leninismo. Al contrario trovo che ci sia ancora tanto da scavare nei loro bellissimi testi, basta non considerarli oracoli.

Mi fermo. Ha proprio ragione Pierre. Avremmo molto da lavorare se volessimo continuare a contrastare il capitalismo, riflettere sulle domande rimaste senza risposte, e sopratutto difendere con le unghie e i denti le conquiste di quegli anni. E continuare a vedere tanta gente e fare tante cose. Con un aggiornamento d’obbligo suggeritoci negli ultimi 50 anni dalle tematiche ambientali (il conflitto o la mancata alleanza tra movimento operaio e movimento ambientalista è una sciagura che va superata al più presto. Dovremmo porcelo come obiettivo politico primario).

Diamo retta a Papa Francesco e a Greta , a Emilio e ad Agostinelli, ora il compito sia pure complicato, è duplice, cambiare il mondo e salvarlo.

Finisco. Per me AO è stata una scuola di vita. Mi ha insegnato che ad occuparsi degli altri oltre che di se stessi si fanno dei bei passi avanti e si sta meglio. In fabbrica e nel sindacato poi questa cosa è evidentissima e i lavoratori e le lavoratrici capiscono che ti sbatti anche per loro, partecipano anche loro, e alla fine con o senza risultato, ma quasi sempre con qualche risultato, te ne sono grati e festeggiano con te.

In definitiva si tratta del “precetto“ di Don Milani :Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti assieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia. Del ‘68 questa è la cosa principale che ho imparato, e in questo senso io il ‘68 lo pratico tutti i giorni dal ‘68. Con lo stile di AO, ma apprezzando anche altri stili. Franco Calamida ci invita sempre a confrontarci e a riprendere un filo per continuare a studiare quel periodo. Va bene, facciamolo, ciascuno secondo le sue capacità e disposizioni personali. Ma noi a sinistra siamo sfortunati. Non perdiamo mai occasione per darci addosso l’un l’altro. Sarà perchè per noi la partecipazione è imprescindibile, e allora tutti pensiamo e parliamo e non sempre ci intendiamo.

A destra sono fortunati. Cercano un capo cui delegare e quando lo trovano sono contenti. Non sarà. Per fare un esempio e chiudo. Adesso sono in Sinistra Italiana e a Milano abbiamo come sai dato vita alla lista Milano Unita che sosterrà Sala fin dal primo turno. Bene, a parlare con qualche compagno di Rifondazione si avverte che vieni considerato un “complice” dei palazzinari. Questo è il drastico giudizio che viene dato da Rifondazione del quinquennio Sala. Se dici che hai timore di restituire a questa orrenda destra salviniana e meloniana la città di Milano ti viene detto con “eleganza” che se la destra vince la colpa è del PD e chi si allea con esso rinunciando
all’alternativa ne è corresponsabile
.

Potrei continuare citando quelli che pensano che la “vera sinistra” la si trova ormai solo fuori dai partiti, e cioè nei movimenti, nel volontariato, nelle associazioni. Salvo poi cercare i posti nelle liste. Continuiamo pure a discutere, e grazie (e grazie per il libro a tutti gli autori e in particolare a Giovanna Moruzzi) per il lavoro che fai rispettando le posizioni e la collocazione di tutti e tutte.