pazienza ebraica
Quando le donne lanciarono la giornata di protesta se non ora, quando mi venne la curiosità di leggere l’unico romanzo di Primo Levi che non avevo letto e di cui credo però di aver visto una traduzione cinematografica (il ricordo è vago).
E’ la storia di una banda di partigiani ebrei russi e polacchi che tra il 43 e il 45 fanno il loro viaggio dalla Russia all’Italia combattendo, come possono, il nazismo. In realtà è un viaggio nella storia dell’Europa con le sue contraddizioni e anche nella storia dell’uomo tra religione, guerra, amore, speranza, saggezza ebraica millenaria.
Oggi mi sono imbattuto in questo brano (la banda è in Polonia sul lato tedesco del fronte) in attesa dell’imminente arrivo dell’Armata Rossa e ha incontrato un reparto partigiano polacco.
Parla Gedale, il capo della banda di ebrei: Scherzi a parte, tenente, capisco il perché della tua domanda, ma sono imbarazzato a risponderti. Non siamo ortodossi, non siamo regolari, non siamo legati da un giuramento. Nessuno di noi ha avuto molto tempo per meditare e chiarirsi le idee; ognuno di noi ha dietro di sé un brutto passato, diverso per ognuno. Quelli di noi che sono nati in Russia hanno succhiato il comunismo con il latte della madre: si, proprio le loro madri e i loro padri hanno fatto di loro dei bolscevichi, perché la rivoluzione di ottobre aveva emancipato gli ebrei, li aveva resi cittadini con pieni diritti. A modo loro sono rimasti comunisti, ma nessuno di noi ama più Stalin dopo che ha fatto il patto con Hitler; e del resto Stalin non ci ha mai amati molto.
Quanto a me e agli altri che sono nati in Polonia, lenostre idee sono varie, ma qualcosa abbiamo in comune, fra noi e con gli ebrei russi. Tutti, quale più, quale meno; quale presto, quale tardi, ci siamo sentiti stranieri in patria. Tutti abbiamo desiderato una patria diversa, in cui vivere come tutti gli altri popoli, senza sentirci intrusi e senza essere segnati a dito come stranieri, ma nessuno di noi ha mai pensato di recingere un campo e di dire «questa terra è mia». Non desideriamo diventare proprietari: desideriamo rendere fertile la terra sterile della Palestina, piantare aranci e ulivi nel deserto e farlo fruttificare.
Non vogliamo i kolchoz di Stalin: vogliamo comunità in cui tutti siano liberi e uguali, senza costrizione e senza violenza: in cui si possa faticare di giorno, e alla sera suonare il violino; in cui non ci sia denaro, ma ognuno lavori secondo le sue capacità e riceva secondo i suoi bisogni. Sembra un sogno ma non è: questo mondo è già stato creato dai nostri fratelli più previdenti e coraggiosi di noi, che sono emigrati laggiù prima che l’Europa diventasse un Lager.
In questo senso ci puoi chiamare socialisti, ma non siamo diventati partigiani per le nostre idee politiche. Combattiamo per salvarci dai tedeschi, per vendicarci, per aprirci la strada; ma soprattutto, perdonami la parola grossa, per dignità. E infine devo dirti questo: molti fra noi non avevano mai gustato il sapore della libertà, e l’hanno imparato a conoscere qui, nelle foreste, nelle paludi e nel pericolo, insieme con l’avventura e la fraternità.
Io sono di questi, e non rimpiango niente, neppure gli amici che ho visto morire. Se non avessi trovato questo mestiere, forse sarei rimasto un bambino: adesso sarei un bambino di ventisette anni, e alla fine della guerra, se mi fossi salvato, avrei ricominciato a fare poesie e a vendere scarpe.
Sono parole che ridanno speranza, me la ridanno anche di fronte ai fatti della Libia, anche di fronte al basso livello della dscussione tra noi. Oggi il direttore della Stampa Mario Calabresi scrive un editoriale Quel bisogno di alzare lo sguardo per segnalare il suo smarrimento di fronte alla perenne attesa del giorno del giudizio. Anche oggi in un servizio del TG ho sentito la frase fatidica le prossime 48 ore saranno decisive.
Calabresi la prende da lontano e richiama la fase finale dell’era Bush: Ricordo un comizio in cui un gruppo di studenti, innalzando cartelli contro Bush, chiesero a Obama di vincere per poi processare il Presidente colpevole di crimini di guerra. Obama rispose che non lo avrebbe fatto perché voleva vincere per archiviare Bush, non per continuare ad occuparsi di lui. Voleva vincere per mettere in pratica nuove politiche e cominciò ad illustrare la sua visione per il futuro dell’America. Alla fine anche gli studenti applaudirono con speranza.
Poi passa a raccontare una lettera di un imprenditore di Treviso che fabbrica mobili e tenta di venderli all’estero tra mille difficoltà tra cui i dazi dell’amico Putin sul mercato russo che ora, per contiguità, si sono estesi all’Ucraina. Intanto la politica si occupa d’altro.
Il pezzo di Calabresi si conclude così: Camminiamo in un deserto in cui l’unica speranza sono le mille iniziative private che, nonostante tutto, continuano a fiorire ogni giorno. A queste ci dobbiamo affidare, tenendo i piedi per terra e continuando a sperare che qualcuno finalmente alzi lo sguardo per proporre una strada. Il mondo e la storia nel frattempo corrono, dalla Libia alla Cina, e non sembrano intenzionati ad aspettare il nostro risveglio.
Come non essere d’accordo; e avrete capito perché sono partito con il Gedale di Primo Levi. Ma mi chiedo: le tragedie bisogna percorrerle sino alla fine? Basta l’appello a fare ciascuno il proprio dovere? E’ possibile operare affinché Churchill e Stalin si muovano meglio o il popolo dei poveri cristi deve fare la sua piccola parte ed aspettare?
Primo Levi nel 1982, ben prima di Berlusconi, mette in bocca a Chaim, membro della brigata palestinese, queste parole rivolte alla banda di ebrei che sono finalmente arrivati in Italia:
L’Italia è un paese strano. Ci vuole molto tempo per capire gli italiani, e neanche noi, che abbiamo risalito tutta l’Italia da Brindisi alle Alpi, siamo ancora riusciti a capirli bene; ma una cosa è certa, in Italia gli stranieri non sono nemici. Si direbbe che gli italiani siano più nemici di se stessi che degli stranieri: è curioso ma è così.
Forse questo viene dal fatto che agli italiani non piacciono le leggi, e siccome le leggi di Mussolini, e anche la sua politica e la sua propaganda, condannavano gli stranieri, proprio per questo gli italiani li hanno aiutati.
Agli italiani non piacciono le leggi, anzi gli piace disobbedirle: è il loro gioco, come il gioco dei russi sono gli scacchi. Gli piace imbrogliare; essere imbrogliati gli dispiace, ma non tanto: quando qualcuno li inganna pensano «vedi che bravo, è stato più furbo di me», e non preparano la vendetta ma tutt’al più la rivincita. Come agli scacchi appunto.