Libano, le mie tre missioni – di Bruno Petrucci
Libano, un paese che mi ha catturato l’anima. E solo in Libano poteva accadere un incidente (?) come quello che si è verificato.
La mia prima missione si svolse nel 2008, lo ricordo bene a dispetto della mia labile memoria, perché mentre da Beirut parlavo su skype con Maurizio ad Hargeisa si sentì un boato, ad Hargeisa, e Maurizio chiuse dicendo “ti richiamo”, e furono le uniche 3 autobombe che si siano mai verificate in Somaliland.
Dunque prima missione, a Marjayoun, al confine con le alture del Golan occupate da Israele, dove un anno prima Israele aveva tentato un invasione, respinta soprattutto grazie ad Hezbollah, che con i suoi cunicoli e le armi nascoste (armi, non fuochi artificiali) riusciva ad attaccare le truppe d’invasione alle spalle.
E lì cominciò la missione UNIFIL con l’Italia al comando. Mentre l’autista mi portava in giro il primo giorno, per una prima veloce ricognizione del territorio, notai un affioramento di calcari e, come per il primo bagno di stagione al mare, feci fermare l’auto e mi lanciai sull’affioramento tra i vani tentativi di stopparmi dell’autista. Quando tornai, dopo aver preso le mie misure e mappato il punto, chiesi all’autista perché non voleva che andassi in su quella collinetta.
“Qui è zona a prevalenza Hezbollah. Loro scavano cunicoli, depositi sotterranei. Io non conosco queste cose, perciò è bene che tu aspetti domani, quando ci sarà il tuo accompagnatore, che potrà dirti dove si può andare e dove no”.
“E’ sciita?” “No, druso, ma ha buoni rapporti con tutti”.
Così potei muovermi nei giorni seguenti su tutto il territorio senza problemi, ma mai prima di aver fatto colazione con una specie di pizza, cotta su un forno a cupola, con uova o formaggio libanese (Labneh). Ad ogni riunione i vari sindaci o funzionari della agenzia idrica, mi offrivano di default caffè e poi sigaretta.
Se non fumi e non bevi caffè non sei un uomo. E quindi m’innamorai subito del paese. Paese da pochi anni uscito dalla guerra civile, in Libano coesistono molte etnie religiose che avevano dato luogo, con “l’aiuto” di Israele ad una sanguinosa guerra civile durata 15 anni e finita nel ’95. Eppure, vedevo un paese in cui le minigonne coabitavano con il velo, con i top, i jeans e gli abiti neri lunghi.
Nelle mie squadre geofisiche c’erano operai di diversa appartenenza, così come negli uffici della ONG per cui lavoravo (Africa 70). Una segretaria sciita, usciva di casa con scarpe basse e vestito nero ed arrivava in ufficio con tacco 12 e minigonna. Non avevo mai visto prima, se non ad Ambon in Indonesia, una simile convivenza pacificamente accettata. Nella zona centrale in cui abitavo c’erano due supermercati della stessa catena, uno nella zona cristiana maronita ed una in zona sciita. In uno c’erano salumi ed alcolici nell’altro no, così, semplicemente. Ma nessuno nega che il fuoco covi sotto la cenere, anche perché il Libano è il punto focale del medio oriente e ha su di sé molti sguardi.
Seconda missione, Novembre-Dicembre 2014. Estremità nord della Bekaa, ONG GVC. Era inverno e sulle due catene che delimitano la valle c’era neve e tanto freddo. E c’erano i lupi, lupi fondamentalisti siriani che di notte scendevano dall’Anti-Lebanon (la catena che fa da frontiera con la Siria) per attaccare le pattuglie dell’esercito. Dovevo dormire a 70 km dal sito d’indagine, però qualche volta, tra un attacco e l’altro, dormivamo in un convento di suore a Labue, per guadagnare un paio d’ore in più di lavoro.
Ricordo solo il freddo e le minestrine. Una sera, ero da solo, troppo triste per accontentarmi della minestrina, e così andai a mangiare in un ristorante vicino a Raas Balbek che faceva delle polpette di montone squisite oltre a dell’ottimo hummus e patate fritte e tutte gli altri piatti sfiziosissimi della loro cucina.
C’erano solo altri 4 avventori che se ne andarono mentre io attaccavo le terza polpetta. Un signore che era seduto all’altro tavolo, dopo qualche minuto venne al mio tavolo e, con l’aiuto di un cameriere che parlava inglese, si presentò come il proprietario e mi chiese se poteva sedersi con me e chiacchierare, mentre io mangiavo. “Certo” risposi e così si sedette con il cameriere in piedi al suo fianco.
In questa splendida sala tutta rivestita in legno più adatta ad un banchetto da matrimonio che ad ospitare un geologo solitario, mi raccontò di lui, mi chiese cosa facessi ecc. Poi mi chiese cosa ne pensassi della situazione di quella zona. Gli dissi che amavo il Libano e che mi piaceva moltissimo quella mescola di culture, religioni e l’ospitalità della sua gente e che temevo che l’afflusso di siriani, soprattutto sunniti, tra cui c’erano infiltrati simpatizzanti o militanti di Al Qaeda (l’ISIS era ancora di là da venire) potessero turbare l’equilibrio tra le varie fazioni religiose e destabilizzare il paese.
Lui mi chiese se sapessi che di notte con la neve i lupi scendevano dalle montagne. “Sì” risposi. E lui mi disse “perciò quando chiude il ristorante, di notte, io vado a caccia”. Stavo quasi per sputare il pane imbottito di Hummus, ma mi diedi un contegno e chiesi spiegazioni.
Lui mi disse “sono cristiano, ma qui ci sono sciiti, sunniti, drusi e andiamo bene e siamo fieri della nostra indipendenza. Così abbiamo formato una squadra di cacciatori, di tutte le appartenenze e di notte ci muoviamo con mezzi ed armi di nostri proprietà e diamo una mano ai soldati. Questa è la nostra terra e dovranno passare sui nostri corpi prima di averla”.
“vai anche stanotte?” – “sì” – “allora buona caccia”.
Purtroppo quella notte i lupi non incontrarono i cacciatori ma assalirono e uccisero una pattuglia di 20 soldati. Fummo evacuati al mattino mentre dal convento sentivamo la furiosa reazione dell’esercito che sparava razzi a casaccio sulla montagna. Rividi il mio oste in televisione in Italia che raccontava, in uno speciale “Libano”, la sua storia di lupi e cacciatori.
Terza missione: Luglio 2017, GVC. Stavolta scorrazzavo su e giù per la Bekaa, sulle cime della catena del Lebanon, giù a Tripoli al mare, con tanti ragazzi (o ex ragazzi), passati dal master della Bicocca e cenavo sempre con qualche amico. Felice.
Ma una sera a Tripoli ero da solo, non avevo voglia del grande e semideserto salone dell’albergo e decisi di andare a mangiare nella zona del porto, non ricordo il nome, dove tutti mi avevano detto che il pesce era ottimo. Però c’era da attraversare una specie di autostrada, con auto a 100 e passa all’ora e poi circa un chilometro e mezzo di strade buie e semideserte.
Vabbè vado comunque: mi salvo dai bolidi e poi cammino con una certa ansia per quelle vie di palazzoni con molta immondizia e poca gente in giro. Poi entro nel centro del villaggio ben illuminato e con tante piccole casette di pescatori e chiedo ad un gruppo di ragazzi dove si mangia bene. Mi danno le indicazioni, arrivo alla “corniche”, il lungomare, trovo il ristorante e mi siedo.
Arriva un signore di mezza età e a spizzichi e bocconi riusciamo a comunicare: prendo il solito hummus, gamberetti e calamari in umido di antipasto e poi scelgo una bella spigoletta da fare ai ferri. Tutto delizioso tranne che manca la birra perché “sorry we are islamic”.
Nessun problema. Una cenetta da favola che ti fa felice anche se mangi da solo, alla Montalbano, per intenderci. Pago una cifra esosa, cioè 15 dollari, e gli chiedo dove posso trovare un taxi. Mi dice che non ci sono taxi. Nemmeno qualcuno via telefono, no. Uber non copre l’area, ma io non me la sento di rifare quella brutta strada. Così mi metto sulla corniche e cerco di fermare un taxi, ma in 20 minuti ne passano solo due pieni.
Disperato mi metto in curva dove le auto rallentano e lancio sguardi disperati ai conducenti. Quando ho perso tutte le speranze, una vecchia mercedes frena ed una mano mi fa cenno di avvicinarmi. Where go? – Hotel XXX. – Yes, come.
Entro. Mi accoglie una faccia truce incorniciata da una lunga barba nera tipo tagliagole ISIS (che adesso c’è e prospera). Non lo nego, oh pensato solo “oh cazzo!” Inizia un lungo viaggio che da subito affonda tra strade buie e deserte. L’ansia cresce: “ma questo dove mi porta? mi fregherà un sacco di soldi o mi darà una botta in testa e mi frega tutto?”
Così, per allentare la pressione chiedo “what’s your name?” – “Jihad”. Tutto chiaro, mi sgozzerà. Ma intanto dopo una serie incredibile di giri vedo all’orizzonte la superstrada e dietro il mio hotel, ma lui va in direzione opposta. Finalmente rompe lui il silenzio e mi chiede cosa faccio in Libano. “Water” è la risposta, “sono un geologo e faccio studi e poi facciamo pozzi”.
Jihad chiude la conversazione, ma dopo quasi un chilometro gira ad una rotonda e punta sull’albergo. Era solo un problema di sensi unici, la superstrada non perdona. Finalmente arriviamo nel piazzale (che bella la luce, vaffanculo all’inquinamento luminoso) e Jihad, ferma la macchina. Mi giro verso di lui e chiedo quanto gli devo. Mi fa un segno con la mano tipo “ma sei scemo?” – “No scusa mi hai portato fin qui, adesso mi dici quanto vuoi, è giusto così”.
Sorride e scopro che il truce Jihad ha un sorriso dolcissimo. “You help my country, I help you. If you need anything, call me this is my number” e mi scrive il suo numero su un foglietto di carta. Jihad, grazie, stretta di mano. E in quei 20 metri fino alle scale dell’albergo vorrei prendermi a schiaffi cento volte.
Ladro, jihadista, ma che imbecille sono? Io che mi picco di non lasciarmi prendere dai luoghi comuni, ho giudicato questa persona gentile come un ladro o un jihadista, solo perché ha una grande barba nera, occhi neri e ….. e cos’altro? Nulla, assolutamente nulla, sono un’imbecille.
Vado in camera scrivo la storia, credo di averla messa su FB e invece non l’ha accettata e non l’ho manco salvata. E’ venuta a galla con l’esplosione di Beirut. Questo è il Libano, il mio Libano in equilibrio tra mare e montagne, tra guerra e pace, tra Islam e cristianesimo, tra Israele e Siria, un crogiuolo di contraddizioni in cui qualcuno può anche dimenticarsi di quasi 4.000 tonnellate di nitrato di ammonio o forse qualcuno altro sapeva che c’era un deposito di armi nascosto, magari di Hezbollah.