la mascherina e lo sguardo – di Antonio J. Mariani
Ma, a guardarci negli occhi, non siamo molto abituati. Poco allenati come siamo a creare e vivere relazioni autentiche, ci accontentiamo di una vista d’assieme, di un’impressione complessiva, di un’idea.
Sì, dell’altro, ci basta la sommarietà di un’idea.
Eppure, il saper leggere gli occhi con le preziose rughe espressive ai margini è un prezioso supporto per la creazione di relazioni trasparenti e profonde. Può far affiorare alla memoria quegli sguardi indimenticabili che ciascuno di noi porta appresso (lungo i nostri intricati cammini), in quanto insostituibili attimi intensi di momenti unici: tutti abbiamo fatto esperienza di quanto uno sguardo abbia avuto la capacità di far fiorire o spegnere timidi germogli.
Nella quotidianità, prima ancora di aprir bocca, ci si guarda. In quel momento costruiamo le arcate del nostro personale ponte di Genova con l’altra persona, avvicinandoci alle attese e alle speranze di chi ci sta ad un passo, permettendoci di contemplare (e di sentire) il visibile e di evocare l’invisibile.
I gatti sono tra i più esperti in questo, non a caso i loro occhi sono forse la parte anatomica più affascinante; il modo in cui la pupilla reagisce ai cambiamenti della luce durante la giornata o anche da momento a momento, significa che hanno visto e percepito emotivamente. E se ne fanno una ragione.
Ecco, la mascherina può esserci d’aiuto per far sì che gli sguardi riescano, nel fulgore degli occhi, ad isolare tempi interiori di ciascuno di noi, portando in superficie ciò che è inconsapevolmente custodito in un’abitata profondità: “[…] lo sguardo no, quello non si può confondere, né da vicino né da lontano! Oh, lo sguardo, sì che è significativo! Come il barometro. S’indovina tutto: chi ha un gran deserto nell’anima, chi senza una ragione è capace di ficcarti uno stivale fra le costole e chi invece ha paura di tutto” (Mikhail Bulgakov, “Cuore di cane”).