Le elezioni in Francia

Mai avuto dubbi sul fatto che la decisione di Macron di sciogliere l’Assemblea nazionale, all’indomani delle elezioni europee, fosse una scelta dovuta. E non solo per la ragione “tattica” che di lì in avanti non gli sarebbe convenuto stare sulla graticola, mentre per i prossimi due anni la Le Pen avrebbe potuto ogni giorno soffiare sulle braci.

La scelta aveva alla base una motivazione democratica sostanziale: se i Francesi avevano consegnato una maggioranza relativa del 34% a Madame Le Pen, conquistata sulla base di proposte molto chiare – abbassamento dell’età pensionabile a 60 anni, ritorno di sovranismo, filo-putinismo… – allora che i Francesi la mettessero alla prova.

Il risultato finale non ha confermato le intenzioni di molti Francesi. L’alta partecipazione al voto non è stata certo favorita dal meccanismo elettorale del doppio turno, che tende ad abbassare la partecipazione al secondo. Semplicemente il lepenismo è minoranza. Marine Le Pen si è consolata, affermando che la sua è una marea che continua a salire inesorabile. Occorre solo ricordare che maree si alzano e poi si abbassano. Dipende dalla “luna” degli… elettori.

Di qui in avanti incomincia di nuovo in Francia la politica quotidiana, molto simile in tutti i Paesi europei, salvo che in Inghilterra: quella della contrattazione delle alleanze. L’auspicio di noi europei è che la deradicalizzazione delle frange estreme, consentita dal meccanismo del doppio turno, porti alla formazione di un governo capace di riconsegnare un ruolo alla Francia nella costruzione dell’Unione europea e nella difesa delle ragioni dell’Ucraina.

A noi Italiani l’asse franco-tedesco non è mai piaciuto moltissimo. Resta tuttavia che, fino ad oggi, questo asse ha tenuto in piedi il discorso europeo, finché noi non sappiamo farlo meglio. Un governo Bardella molto probabilmente lo avrebbe indebolito ancora di più.

Le attese e le paure

Lasciando a Macron le sue pene, quali insegnamenti derivano dalla vicenda francese a noi Italiani per affrontare le nostre?

Per rispondere a tale domanda è necessario fendere la nebbia del dibattito politico-politologico per vedere più in basso e più da vicino che cosa si agita nella società civile europea, al netto delle differenze culturali e politiche di ciascun Paese.

Ciò che si percepisce immediatamente è una frammentazione socio-economica crescente, accompagnata da un’acuta autocoscienza del fenomeno da parte dei soggetti sociali coinvolti. La frammentazione viene spesso descritto con l’uso esclusivo di categorie pauperistiche, soprattutto da chi cerca incessantemente un nuovo soggetto della liberazione umana.

Eppure, c’erano minori diseguaglianze socio-economiche e culturali prima dell’accensione dei processi di globalizzazione? Si stava meglio prima o si stava peggio? La risposta è: c’erano maggiori diseguaglianze, fino alla fame vera e propria, la gente stava peggio e moriva prima.  Oggi si sta meglio.

Solo che uno dei meccanismi attivati dallo sviluppo socio-economico e tecnologico e dal globalismo della comunicazione è stato quello della crescita continua delle attese e delle pretese.

E della conseguente domanda di eguaglianza nella distribuzione dei benefici e della ricchezza. Perché loro sì e noi no? Perché lui sì e io no?  Ecco perché dall’Africa partono i più “ricchi” e non i più poveri. Perché “ci hanno visti”! E le attese si sono trasformate in “diritti di…”.  Così si sono mischiati due fatti: un aumento della velocità oggettiva dello sviluppo ineguale e di nuove opportunità di sviluppo, cui non tutti possono immediatamente accedere allo stesso modo, e un elevamento delle attese e pretese soggettive di tutti. L’espressione ZTL – Zona a Traffico Limitato – è diventata la sintesi simbolica di queste contraddizioni.

Così, per tornare alla Francia, Parigi è rappresentabile come un’unica ZTL rispetto all’intera Francia. Fenomeni analoghi – sotto il dualismo città-periferia, città-campagna, pianura-montagna, pianura-zone interne – sono visibili in Italia.

Le ragioni sociali e psicologiche del sovranismo

L’altro meccanismo – psicologico – che si innesca è quello dell’inquietudine e della paura. Anche se noi, in quanto individui e gruppi in situazione, puntiamo a conservare la tranquilla stabilità del nostro mondo, è esattamente questo mondo che sta velocemente cambiando.

Gli adulti invecchiano, i ragazzi mancano. Quelli nuovi arrivano in barcone, quando ce la fanno, dotati di altre culture, abitudini, religioni diverse e spesso ostili. Le nostre chiese si svuotano, i tetti cadono a pezzi. Stiamo perdendo il controllo del nostro presente e del nostro futuro.

Il sovranismo “bianco” non è un’invenzione della politica, è la reazione socio-culturale alla perdita di sovranità sulla propria vita quotidiana. Ci sono classi sociali e intellettuali che hanno la corrente a favore – e sono una minoranza. Ci sono classi e gruppi e individui che restano indietro – e sfiorano la maggioranza. Se la politica non riesce a far intravedere speranze, nessuna meraviglia che appaiano all’orizzonte venditori di almanacchi e di illusioni, che, in cambio di voti e di potere, annunciano nuovi paradisi terrestri di sovranità nazionale e di pace universale, purché restiamo tranquillamente al caldo delle nostre comunità locali, dentro i nostri confini nazionali e custodiamo le nostre tradizioni.

I periodi di transizione sono più difficili

Perciò tentare di cavarsela solo con l’antica dialettica antifascismo-fascismo non porterà lontano. I periodi di transizione sono storicamente i più difficili da governare, ma anche i più fecondi di novità. La transizione ci riconsegna un nuovo lancio dei dadi, che qualcuno aveva gettato prima di noi.

La transizione: esige la messa al bando di approcci fondamentalisti rispetto a questioni quali la transizione energetica, la crisi climatica, il fenomeno dell’immigrazione, l’avvento dell’Intelligenza artificiale, il disordine geopolitico mondiale… Non è più il tempo degli slogan semplificatori.

Se la politica dà voce solo a chi corre, quelli che restano indietro a chi si affideranno? E poiché “politica” coincide, almeno in Europa, con “democrazia” e “statualità nazionale”, il rischio già evidente è che i settori fuori dalla ZTL si rifugino nell’antipolitica e nell’anti-democrazia.  Ha incominciato ad accadere già dal 2008. È ora di apprendere un’altra lezione.




Le Pen solo terza

Oggi era san Claudio, nessuno mi ha fatto gli auguri, ma quelli più sinceri me li ha fatti il popolo europeo che, da sempre, amo più di ogni altro.

C’era il pericolo che vincesse una estrema destra, molto più estrema, di Fratelli d’Italia e invece la Le Pen arriva terza, vince il fronte popolare, subito tallonato dal partito di Macron e fanno un bel risultato anche i repubblicani ex gollisti.

Ho appena avuto il tempo di esultare ed è comparso in video Melanchon con una dichiarazione abbastanza arrogante: niente accordi, niente consultazioni, niente macroniani, dobbiamo governare noi. Come se questo riusultato molto positivo non fosse figlio del patto di desistenza.

Ho sentito qualche commentatore più informato di me affermare che la sinistra moderata francese aveva già chiarito che l’accordo con Melanchon sarebbe finito a scrutinio effettuato perché la tradizione progressista francese non si fonda su derive estremiste e in quel caso il via alle danze lo avrebbe dato proprio quello che doveva evitare certe sparate.

Da domani si vede. Sembra comunque che stasera Salvini si sia bevuto una cassa di bottiglie di Cynar nella speranza di attenuare gli effetti del travaso di bile.

 

 




anche la Santanché fa cose buone

Da ieri è in vigore in Lombardia la “legge Santanché” sugli affitti brevi turistici.

Lo era già da circa un mese in altre quattro regioni, grazie a un piano progressivo che coinvolgerà tutta Italia entro qualche settimana. Verso fine anno la legge sarà applicativa in tutti i dettagli sull’intero territorio nazionale.

La legge, mirata a fare emergere il sommerso illegale, è in fondo una riedizione della “legge Renzi” di 7-8 anni fa che i Governi successivi non hanno mai reso applicativa. Una differenza fra le due leggi è che Santanché, rispetto a Renzi, aumenta le tasse per chi affitta ai turisti più di una casa.

Queste attività, che vanno dal famigliare all’imprenditoriale, vivono quasi esclusivamente grazie ad alcuni portali internazionali (Booking, AirBnb, VRBO, ecc.) e qualche portale italiano di serie B poco utilizzato anche dagli italiani.

Ma è possibile che l’Italia, Paese che vive di turismo, non sia in grado di mettere in piedi un grande portale turistico internazionale? La “legge Santanché” impone condizioni precise ai portali e rilevanti multe in caso di trasgressione sia al portale sia ai proprietari.

Inoltre la legge impone ai proprietari una serie di condizioni di sicurezza (obbligo di estintori, di rilevatori di fumi e di gas, ecc.), oltre all’obbligo di esporre fuori casa il CIN, numero nazionale che identifica la locazione autorizzata all’affitto breve.

La vera novità della legge è però la sua validità nazionale, che supera alcune precedenti confuse normative regionali. Addirittura alcune regioni “distratte” non avevano nessuna normativa simile e in quelle aree prosperava l’affitto turistico in nero.

Se fate le vostre vacanze tramite affitti brevi controllate se all’arrivo vi chiedono i documenti di tutti gli over-18 (i proprietari sono obbligati a copiare i dati sul portale della Polizia di Stato). Se non lo fanno sono abusivi; non pagano le tasse e non garantiscono la vostra sicurezza.

In questo caso potete telefonare alla Finanza e non pagare una lira di affitto. L’abusivo si beccherà una multa di qualche migliaio di euro. Anche la Santanché a volte fa “cose buone”…




1992-1999: di nuovo professore, ma allo Zucchi

III edizione luglio 2024

il liceo Zucchi che, a Monza, delimita uno dei quattro lati di piazza Trento – al centro si intravvede l’inresso con il cancello in ferro e la gradinata di accesso luogo di ritrovo pomeridiano degli studenti e punto di scambio delle versioni

Nei primi mesi del 92 incominciavo a trovare pesante il clima alla Informatica Sisdo; non mi piaceva molto il modo di rapportarsi al settore pubblico nella gestione delle commesse e così considerai esaurita la parentesi del lavoro nel privato, da cui avevo imparato un sacco di cose, e decisi che era ora di ritornare a scuola.

Sfruttai un vantaggio dello stato giuridico dei docenti di ruolo che consentiva, a chi si era dimesso, di chiedere la reimmissione in servizio, che poi avveniva a discrezione della amministrazione. Ma, con la laurea in fisica e il ruolo nella classe di concorso di Matematica e Fisica, ero certo che non avrei avuto problemi a rientrare. Per altro, avendo la partita IVA ho continuato per un paio d’anni a fare qualche lavoretto episodico con la SISDO su commesse che avevo sviluppato e seguito io.

allo Zucchi per caso

Nella indicazione delle sedi desiderate misi al primo posto Monza, dando per scontato che sarei ritornato al Frisi. Invece, proprio quell’anno, si era liberata una cattedra al liceo classico (l’amico e compagno di studi Carlo Rovelli era andato a fare il Preside) e così finii allo Zucchi: il mitico Zucchi.

il loggiato del Liceo Zucchi visto da sud-est verso nord-ovest

Nel passato ci ero entrato una sola volta per assistere all’esame orale di maturità di Peppo Meroni nell’estate del 1964 e ricordavo il grande loggiato affacciato sul cortile con i cedri del Libano. Gli orali della maturità si svolgevano all’aperto nel loggiato.

In questi giorni sono entrato al Liceone di Siena (Enea Piccolomini) per gli esami di mia nipote (che ha terminato il liceo delle scienze umane); anche lì edificio antico con gli scaloni e i piani da 7 metri di altezza. Il liceo classico si deve portare dietro, anche nell’edificio, questo carattere di antico.

i colleghi della F e il primo impatto

Nel mio curriculum di docente e di studente mancava il liceo classico; lo avevo sempre considerato un posto di snob fuori dal mondo, e ci andai pieno di curiosità. Venni messo nel corso F (quello in cui si era liberata la cattedra) ed ebbi come colleghi del triennio Fiumi (latino e greco), Bulega (Italiano), Gangemi (Storia e filosofia), Gualdoni (Arte), Del Re (scienze) e Pullè (educazione fisica). Nel ginnasio per lettere ho avuto due giovani marito e moglie (Crusco e Tornitore) e una collega di inglese molto esigente (Caridi).

Al classico la cattedra di matematica e fisica è verticale sull’intero corso di studi dalla IV ginnasio alla III liceo. Fisica inizia solo in seconda liceo e si fanno poche ore per classe. Il profilo orario è il seguente 2, 2, 3, 3+2,2+3. Per contrasto dimensionale basta osservare che in IV ginnasio il docente di lettere fa cattedra con una sola classe (italiano, storia, geografia, latino e greco); ma, nonostante le poche ore, quello di matematica e fisica è comunque un riferimento ed è l’elemento di continuità sull’intero percorso quinquennale.

Questa del docente di lettere del ginnasio con 18 ore in una stessa classe era, per certi aspetti, un vantaggio se la prof. (solitamente sono donne) era una persona attenta e capace; ma si potevano anche creare dinamiche distorsive sia nel rapporto docente-studente sia nella capacità di tenere distinte a e a sè stanti in sede di valutazione  5 discipline diverse. Nulla vietava di spezzare in due la cattedra (e in quel caso il docente avrebbe tenuto due classi con 9 ore) e nella classe ci sarebbero state due docenze di lettere ma la tradizione era quella. Con questa impostazione va tutto bene se, per via delle graduatorie, non ti arriva un docente incapace o fuori di testa. In quel caso per il Preside è un bel problema e questa cosa accadde in quegli anni allo Zucchi.

Per quanto riguarda l’ordine e la pulizia, tutto bene come al Frisi, ma nel caso dello Zucchi, per ragioni logistiche, il controllo su alunni e visitatori era più semplice. All’ora della entrata e della uscita veniva aperto il cancello in ferro di accesso al cortile e dal cortile si saliva al primo (e unico piano) attraverso i quattro scaloni posti ai quattro angoli. Nel resto della giornata si poteva salire solo passando dalla guardiola sulla destra dove una bidella provvedeva a segnalare gli arrivi via citofono. Di fianco alla guardiola si faceva il ricevimento dei genitori in un’aula abbastanza squallida e senza sala d’attesa (ma anche al Frisi era così).

il cortile interno del Liceo con vista sull’ingresso e i bellissimi cedri del Libano

Non c’era una palestra a norma per problemi di altezze e non la si poteva certamente realizzare in un edificio tutelato dalla Sovraintendeza; perciò le lezioni di Educazione Fisica si tenevano in aula o in cortile. Tra le diverse scuole in cui sono stato lo Zucchi è stata la prima in cui ho trovato colleghi di Educazione Fisica che giocassero un ruolo importante nei consigli di classe e, in particolare, in sede di scrutinio, fornendo importanti contributi sul rapporto corpo-mente. Insomma, ci aiutavano parecchio nel processo di valutazione.

L’aula magna era al primo piano sul lato sud insieme a qualche laboratorio. A nord, ovest ed est aule; ma a est c’erano anche la biblioteca e, all’angolo opposto, la segreteria, la presidenza e la sala professori con un arredamento ottocentesco e la immancabile enciclopedia Treccani. Al piano terra l’unica parte di pertinenza dello Zucchi era a sud mentre il resto era occupato dall’Ufficio centrale delle Poste e dalla Biblioteca Civica (con porte di passaggio ben chiuse).

Il clima interno, come si conviene a un liceo classico d’epoca (che in quegli anni festeggiò il 500° di fondazione con tanto di volume celebrativo), era austero. I professori erano per un 50% milanesi ma avevano la comodità del capolinea della linea celere da Milano sull’angolo della scuola.

Per quanto riguarda  la provenienza  degli alunni sussisteva la tradizione di iscriversi alla scuola che aveva fatto il papà e, magari, prima di lui il nonno. Dunque c’erano I figli dei professionisti (fossero avvocati o ingegneri), i figli degli industriali doc, i figli degli intellettuali. Accanto a loro, provenienti sia da Monza sia dal contado, alunni molto bravi alle medie che, per via delle doti dimostrate in particolare nell’area espressivo-linguistiche, venivano orientati al liceo clasico. Insomma non si trattava del liceo propedeutico alla iscrizione a lettere per perpetuare professori e professoresse di lettere, ma del liceo per la futura classe dirigente.

Enrica Galbiati

A fare la Preside allo Zucchi c’era Enrica Galbiati (1930-2012) di cui ero stato collega al Frisi (e da cui avevo ereditato la cura del laboratorio del III piano). Enrica Galbiati dal 1978 al 1997 ha segnato un’epoca nella gestione della scuola. I giornalisti, per assonanza con la Thachter, la chiamavano la preside di ferro. Tra noi c’era un rapporto di stima reciproca che aveva a che fare con due cose:

  • l’importanza della formazione scientifica nella formazione della personalità e nello sviluppo della intellegenza
  • una visione conservatrice di certi temi della vita, in particolare in tema di educazione: senso del dovere, rispetto delle regole, valore della fatica; nel suo caso quella visione era esasperata, nel mio temperata dagli interessi politico culturali di sinistra, ma comunque c’era sintonia.

la Preside Enrica Galbiati

Sono stato suo collaboratore per quattro anni (insieme a Marco Praga, Paolo Pilotto, Giulio Fassina) e, sfruttando le esperienze acquisite nel settore informatico, mi fece sovraintendere alla realizzazione dell’aula di informatica con rete harware audio-video che consentisse il duplice uso come laboratorio linguistico e come laboratorio di informatica, oltre che chiedere una mano importante per le problematiche di segreteria e di organizzazione del personale.

I tre collaboratori erano stati scelti con cura: Marco Praga (latino e greco) rappresentava la storia e la cultura del liceo di cui era stato alunno, Paolo PIlotto faceva parte dei giovani allevati dal cardinal Martini attivi nel rinnovamento del laicato cattolico e della DC, Giulio Fassina (sindaco democristiano di Giussano e vicepreside storico) si occupava della gestione ordinaria (assenze, sostituzioni, circolari, …) sgravandola dai compoiti più noiosi. Io facevo il doppio ruolo di espressione dell’area progressista e di esperto di organizzazione. Sapevo scrivere, masticavo bene la normativa e così finivo per essere l’incaricato della stesura dei documenti più corposi. In quegli anni le scuole dovettero dotarsi di regolamenti, di una carta dei servizi e del Piano Educativo di Istituto (il PEI antesignano del POF).

A proposito delle sue opinioni politiche Enrica Galbiati non poteva che essere democristiana; era una lettrice regolare de Il Giornale di Montanelli e aveva seguito Montanelli nella sua rottura con Berlusconi iniziata nel 94. Nei primi mesi del 96 ho assistito ad una telefonata in cui Enrichetta parlava con Peppino Fumagalli, il padrone della Candy, e gli spiegava che, assolutamente, era fondamentale votare per Prodi alle imminenti elezioni politiche. Aveva maturato posizioni antiberlusconiane (immagino che lo considerasse un parvenu e uno sporcaccione), ma più avanti, dopo la pensione andò a fare l’assessore alla istruzione nella sindacatura di centro-destra di Roberto Colombo. In quella occasione mi chiese anche il mio parere e fui franco nel dirle che non era il caso, non per via dello schieramento, ma perché, gli dissi, Enrica tu non hai il senso delle istituzioni rappresentative, non sarebbe il tuo mestiere. Credo che i fatti mi abbiano dato ragione.

La Presidenza era in un locale grande, con mobili antichi e, in una vetrinetta c’era qualche libro settecentesco ,poca roba rispetto a quello che avrei visto qualche anno doopo al liceo Beccaria di Milano dove feci il tirocinio nell’anno di nomina a Dirigente Scolastico. Alla Presidenza si accedeva o dal corridoio o dalla vicepresidenza, a sua volta collegata alla segreteria, con finestre che affacciavano su piazza Trento.

In quegli anni sono accadute tante cose ma ne voglio citare un paio che hanno avuto un certo peso sulla città. La prima, nel 93, trascinatasi nei due anni successivi fu di rilevanza penale e portò ad un processo in cui fu imputata Enrica Galbiati. Il processo si concluse con una condanna in primo grado e una assoluzione in appello (credo per remissione di querela).

il caso Frediani e l’occupazione

Era l’aprile del 93 e uno studente di V ginnasio, Lorenzo Frediani fu svillaneggiato da lei che lo aveva trovato stravaccato fuori dalla presidenza perché Lorenzo, come faceva spesso, era arrivato in ritardo e i ritardatari venivano fatti attendere davanti alla presidenza. Lorenzo era un mio alunno; era sempre un po’ fuori dalle righe mentre la Galbiati aveva una concezione dell’educazione che prevedeva di usare con gli studenti, soprattutto all’inizio del rapporto, una linea dura.

La bagarre si scatenò sulla accusa, sostenuta dalla famiglia, di avergli dato del giudeo (la Galbiati è razzista). Non ero presente al fatto ma, conoscendo Enrica e conoscendo Lorenzo, sono convinto che si trattò di una rabbuffata energica con Lorenzo che cercava di giustificarsi accampando qualche pretesto e lei che, probabilmente di fronte a giustificazioni poco credibili, per via del suo stile e della sua formazione culturale, gli diede dell’impustur ‘me Giuda, un modo di dire tipico della cultura popolare catto-brianzola e che ho sentito tante volte da bambino: bugiardo come fu Giuda nei confronti di Cristo.

Quell’impustur me Giuda si trasformò da parte della famiglia Frediani in una querela il cui elemento principe, dal punto di vista della pubblica opinione, fu quello di aver dato del giudeo al loro figlio. Non avevo dubbi sul fatto che Enrica avesse trasceso e andai a testimoniare a suo favore cercando di alleggerirne la posizione (e me ne fu riconoscente).

Ma aveva un avvocato proprio debole e anziano (l’ex sindaco Giovanni Centemero) mentre dall’altra parte c’era una pretora bella tosta e in primo grado venne condannata. Era una donna di spirito, ma quella condanna le pesava. Mi diceva, certo che finire condannata con una accusa di razzismo … e si metteva a raccontare delle persecuzioni razziali che ci furono anche allo Zucchi quando lei ci studiava e cosa si faceva per proteggere le compagne ebree. Poi la metteva sul ridere ribadendo quello che aveva dichiarato anche in udienza come avrei potuto dare del giudeo ad un ragazzo il cui fratello maggiore si chiama Adolfo (Adolfo Frediani era stato qualche anno prima uno dei leader del movimento allo Zucchi).

Nell’anno 94/95 ci fu l’occupazione del liceo e lei, invece di chiamare la polizia, disse che sarebbe rimasta in presidenza a tutelare la scuola e gli studenti. Non voleva assolutamente che la polizia entrasse a scuola e sosteneva che finchè a scuola c’era lei la situazione si poteva considerare legale. Si chiuse in Presidenza e noi collaboratori rimanemmo a scuola in vicepresidenza a dormire su qualche poltrona e sul lettino della infermeria.

La mattina dopo gli occupanti cercarono con un trucco di chiuderci fuori dalla scuola; la presenza della Preside e dei collaboratori, anziché vederla come una tutela neil loro confronti, la vivevano come un vulnus (che occupazione è se c’è dentro la Preside con i suoi collaboratori?). Ci chiesero di scendere al cancello per sovraintendere all’ingresso degli occupanti che avevano dormito a casa e allo scambio delle vettovaglie. In realtà avevano preparato un blitz che prevedeva di chiuderci fuori dalla scuola. Ci fecero uscire dal cancello accostato per controllare qualcosa e appena fuori tentarono di chiudere.

Ma non avevano fatto i conti con il fatto che, di certe cose, avevo una certa esperienza e l’operazione non ebbe successo, perché sfondai il picchetto con cui cercavano di tenerci fuori. In quei momenti sono importanti la rapidità e la decisione. Naturalmente ci fu anche qualche polemica della serie il professor Cereda ha usato violenza verso gli studenti, ma l’acccusa, ovviamente, si smontò da sè.

Il suicidio di due alunni

Il terzo episodio fu molto grave e mi ha segnato per diversi anni. Accadde la notte tra il 13 e il 14 maggio del 95: il  suicidio, con i gas di scarico dell’auto di due miei alunni: uno di II liceo (Samuele Fossorier) e uno di III liceo (Walter Caliendo). Si suicidarono un sabato notte dopo essere tornati, con un folto gruppo di zucchini, dalla sagra dell’asparago di Mezzago. Con la macchina di Walter accompagnarono a casa Matteo Pressato della III F, poi scelsero un luogo appartato,  sigillarono le portiere, fecero entrare da un finestrino un tubo di gomma collegato allo scarico della marmitta e poi si sedettero sul sedile posteriore in modo di essere certi di non poterne uscire.

Chi li ha visti dive che Walter era sereno mentre Samuele avrebbe tentato di uscire senza riuscirci. Quella domenica mattina mi chiamò al telefono la Galbiati allertata dalle famiglie. I cadaveri non erano stati ancora trovati, ma erano arrivate dichiarazioni inequivocabili da parte degli amici e mi fiondai a scuola dove rimasi per l’intera giornata.

Erano due persone molto diverse: Walter si dichiarava fascista (magrolino e chiuso) e Samuele era  guevarista con tanto di basco con la stella (gioviale ed esuberante). Sia Walter sia Samuele erano con me da tre anni e nessuno dei due brillava nelle mie discipline.

Walter lo trovavo strano, era taciturno e avevo l’impressione che ogni tanto si estraniasse dal mondo; l’avevo anche fatto presente in un paio di occasioni in Consiglio di Classe, mentre i docenti di area umanistico letteraria lo dichiaravano assolutamente normale e geniale. Samuele era l’opposto: estroverso, atletico (era stato un campioncino di lancio del martello),  impegnato nel movimento e, nella occupazione di qualche mese prima, aveva avuto un ruolo superiore a quello del semplice partecipante.

Nei giorni successivi fui sconvolto da ciò che, poco alla volta, saltò fuori:

bigliettini scritti da entrambi in cui si esplicitava il progetto suicida in un clima di totale smarrimento del senso di realtà come quello in cui Samuele scriveva e che non dicano che l’ho fatto perché non andavo bene a scuola perchè, cazzo, a costo di tornare indietro, faccio un casino. La morte vista come una avventura da cui si può andare e tornare

annotazioni di diario da parte di Walter in occasione del compleanno e risalenti a quasi un anno prima: “Giorno maledetto, chiunque lo abbia voluto, mi vendicherò senza perché e senza scrupoli. Non tocca a noi vivere, cosa ci sto a fare qui? Io me ne devo andare assolutamente. Non ce la faccio piu” (citazione pubblicata da Repubblica)

la scoperta che la discussione sul suicidio andava avanti da mesi (in II F e in III F). In questa discussione erano coinvolti alcuni degli studenti (prevalentemente di III) e alcuni adulti (sia genitori, sia docenti). Avevano sottovalutato la pericolosità della faccenda, o comunque avevano deciso di gestirsela in proprio, fidando nella propria capacità persuasiva e ritenendo inopportuno informare gli altri colleghi. In proposito ci fu una discussione piuttosto animata subito dopo i funerali a casa di una delle studentesse coinvolte in cui il coinvolgimento degli adulti lo sentii confermare dai diretti interessati

da qualche mese nella III c’era qualcosa che non andava; una compagna di classe, seria e diligente, aveva avuto un inatteso calo di rendimento e sembrava decisamente in crisi. A cose fatte saltò fuori che aveva avuto un flirt con Walter e che erano state fatte delle prove di suicidio (per impiccagione) mentre lei era stata costretta ad assistere ad alcuni di quei rituali; non solo sapeva ma era coinvolta direttamente

una contiguità stretta con due altri compagni di classe, che erano con loro anche quella sera, e che erano culturalmente e politicamente mille miglia lontani da Walter, l’uno rifondarolo e l’altro frikkettone. I quattro avevano recentemente fatto un viaggetto a Siena tornando innamorati del mondo delle contrade.

tra gli studenti legati al movimento se ne parlava come di una ipotesi concreta ed erano parecchi a sapere: “ah se Samuele non è tornato, vuol, dire che si sono ammazzati …” disse una ragazza, compagna di classe di Samuele, quando li stavamo cercando la domenica mattina.

Andai avanti, per giorni interi a piangere, mi uscirono tutte le lacrime che non avevo versato, un mese prima, per la morte di mio padre. Volevo capire come era andata, continuavo ad incazzarmi con quegli adulti che ritenevo responsabili.

Con alcune delle alunne della ex III F in occasione di una delle messe di ricordo

Ma la città e la Galbiati decisero che doveva calare il silenzio e il silenzio calò. Ci furono incontri con i familiari e si lavorò con l’aiuto di qualche psicologo sugli studenti della classe di Walter, che di lì a poco avrebbe avuto l’esame di maturità. Feci anche un esposto alla procura della repubblica per invitarli ad approfondire, ma mi fu detto che era tutto chiaro e che non c’erano zone d’ombra.

Con i genitori di Walter, che erano stati tenuti all’oscuro di tutto (!), dagli altri adulti che pensavano di gestire la cosa, e con un pezzo di quella classe siamo andati avanti per anni a ritrovarci in una chiesina fuori Brugherio per una messa aperta a chi voleva e io, non credente da una vita, ci andavo per rivedere quelle persone che intanto crescevano e si laureavano. Mi auguro che gli anni abbiano portato loro una pace senza rimozione.

L’anno dopo, non ho mai capito chi fu l’organizzatore della cosa, l’establishment interno allo Zucchi decise che io, e le persone con cui collaboravo eravamo poco affidabili perché avevamo deciso di mettere le cose in chiaro su quanto era successo e alle elezioni dei collaboratori e più tardi per il consiglio di istituto ci dissero che saremmo stati estromessi dalla lista unitaria (? unica) che veniva solitamente presentata. Feci di necessità virtù e ripetei allo Zucchi quanto mi era capitato di fare al Frisi anni prima: due liste, esplicitazione dei programmi e anche questa volta fu un netto successo.

Nel 94/95 stavo già slittando dal corso F al corso A (avevo già la IV  A e la I A). Chiesi, e lo ottenni, di passare completamente al corso A. Non me la sentivo di continuare a collaborare con quei colleghi che sapevano,  avevano sottovalutato e di fronte alla tragedia avevano semplicemente abbozzato.

gli amici della natura

Da parte mia, visto il contesto di cui ero venuto a conoscenza, da cui traspariva un totale distacco dal mondo reale, misi in piedi, con alcuni colleghi disponibili, una libera associazione che prevedeva uscite domenicali a contatto con la natura da effettuarsi con mezzi poveri e usando il trasporto pubblico.

La chiamammo  amici della natura dello Zucchi. La Galbiati, persona pratica, ci garantì la copertura assicurativa e non mise i bastoni tra le ruote.

Amici della natura durò in tutto 3 anni e le uscite organizzate sono state le seguenti: castagnata a Dazio in Valtellina (3 edizioni con il CAI di Villasanta), giornata sciistica a Courmayeur (fondo e discesa), gita sciistica a Santa Caterina Valfurva (fondo e discesa), 2 giorni naturalistico escursionistica in Val Malenco, gita al rifugio III alpe, escursione ciclistica agli aspetti inconsueti del Parco di Monza, gita al parco del Monte Barro, escursione alla Basilica di S. Pietro al Monte di Civate, escursione ciclistica al Parco Adda Nord e ai siti di archeologia industriale dell’Adda.

Ricordo ancora l’escursione al Monte Barro, iniziata con la scoperta che da Lecco a Galbiate, la domenica mattina, a differenza dei giorni feriali, non c’era il pulman e ce la dovemmo fare a piedi.

L’iniziativa più impegnativa fu quella in val Malenco con partenza il sabato all’uscita della scuola: treno per Sondrio, pullman per Chiesa e salita in funivia al lago Palù, discesa al lago e deposito degli zaini al rifugio Palù, per iniziare una  immediata ascensione al Bocchel del Torno (il passo a nord-est dove c’era ancora neve e ghiaccio e iniziava ad imbrunire). Rapida discesa, cena; uscita al buio più completo ad osservare la cometa hale bopp. Il giorno dopo escursione dal Palù all’imbocco della val Sissone (alpe Forbicina), dopo Chiareggio, pulmini da Chiareggio sino a Sondrio e tutti a casa con il treno.

da Galbiati a Meneghetti

Il pensionamento di Enrica Galbiati era nell’aria. Me ne resi conto nel 96/97 quando decise di allargare i cordoni della borsa. Negli anni, attraverso le politiche di bilancio che governava con mano ferma aveva accumulato un consistente avanzo di amministrazione che fu utilizato per la realizzazione un’aula multimediale con una poderosa componente hardware che stava sotto il pavimento rialzato.

Era l’epoca di Windows 95 e le reti governate dal sw erano agli inizi. Pertanto l’aula utilizzabile per informatica, laboratorio linguistico e applicazioni multimediali si basava pesantemente sull’hardware con una console avvenieristica che consentiva di controllare tutte le postazioni e, volendo, di strutturare la classe in gruppi. Il tutto era commercializzato da una delle aziende leader nel settore della editoria scolastica in partnership con IBM. Si pensava di poter finalmente avviare il corso di Piano Nazionale per l’Informatica ma, come negli anni precedenti le adesioni da parte della città furono deludenti. C’erano richieste, ma non bastavano mai a raggiungere il numero sufficiente a fare una classe.

Nell’anno precedente il liceo, con la collaborazione e l’impegno della valentissima docente di storia dell’arte Amalia De Biase aveva organizzato un viaggio di Istruzione in Grecia in cui a turno venne coinvolta l’intera scuola . Ci andai anche io ma mi andò male. La prima sera portai i ragazzi a gustare un po’ di cucina tipica greca e la mattina dopo mentre andavo su e giù per le scale dell’albergo a raccattare i ritardatari, scivolai su uno scalino che non aveva le srisce antiscivolo di gomma, volai all’indietro per finire con la schiena sullo spigolo del gradino. Ospedale e successivo riposo a letto in camera sino alla data di rientro.

Apparentemente finì tutto bene, ma la mia schiena già malmessa nelle lombari ebbe il colpo di grazia e nell’anno successivo ernia discale espulsa tra L5 e S1 con intervento in neurochirurgia.

Quando Enrica Galbiati andò in pensione nel 1997, dopo una breve parentesi di interregno, arrivò da Milano Mariagrazia Meneghetti, una bella signora che era tutto l’opposto: colta, elegante, laureata in lettere classiche, figlia di un ispettore e di una preside, molto milanese e, infatti, mi fu grata per averla introdotta ai misteri della monzesità. Il primo consiglio che le diedi fu: se vuoi conoscere Monza e comprendere le sue dinamiche devi leggere Il Cittadino tutte le settimane; la Galbiati non ne aveva bisogno perché lo storico direttore, forse proprietario, era suo fratello.

Con Mariagrazia è iniziata una fase di svecchiamento del liceo; per un anno ho avuto un incarico di supporto organizzativo alla presidenza, ho steso il regolamento di istituto definendo modalità di funzionamento della scuola, organi, diritti e doveri e nell’anno succesivo ho persino fatto il vicepreside con un semiesonero dall’insegnamento.

Per due anni consecutivi ho fatto anche il responsabile del servizio di prevenzione e protezione. Nel  vecchio edificio dello Zucchi i problemi erano tanti (vie di fuga, impianti elettrici assolutamente fuori norma, mancanza di un impianto antincendio, pericolosità del sottotetto con travi e capriate in legno infestati da anni dai piccioni con uno strato di guano di alcuni centimetri che ricopriva il pavimento).

Il quadro elettrico generale, che si trovava al piano terra nell’angolo nord-ovest era costituito da una enorme lastra di marmo su cui stavano i sezionatori a coltello e le vecchissime valvole di protezione a filo. Niente salvavita e in molte zone nemmeno presenza di interruttori magnetotermici. Per condire il tutto, il quadro era protetto da una griglia metallica che, in occasione di qualche lavoro era stata svitata e da allora giaceva appooggiata al quadro con il rischio di un corto circuito devastante.

Segnalai, segnalai, … e alla fine data l’inerzia degli uffici comunali, arrivò la ispezione dell’ufficio di II livello e il comune si beccò una multa con i fiocchi.

Con Meneghetti mi trovavo decisamente bene ma la sperimentazione PNI non partiva e così nel 98/99 feci domanda di trasferimento, destinazione Frisi.

gli studenti

Gli studenti, anzi le studentesse, visto che erano la maggioranza, le potevi dividere a metà:

  • quelle/i che si erano iscritti al classico perché lì si fa poca matematica e con quelli/e c’era poco da fare (pregiudizi e scarsa apertura mentale)
  • quelle/i che avevano scelto il classico per fare una esperienza di studio aperta alla riflessione, agli approfondimenti e alla cultura classica vista come madre del nostro sapere. In questa categoria c’erano poi i molto bravi e, quelli non li batteva nessuno quanto ad autonomia e capacità di approfondimento. Mi ritrovai a pensare a due amici e compagni del 68 che avevano fatto lo Zucchi, Lino Di Martino ordinario di Algebra e Mao Soardi ordinario di analisi.

Fu in quegli anni che iniziai a lavorare sul mio corso di fisica e a rendere disponibili i testi corretti e commentati dei compiti in classe. La interazione con gli alunni iniziava ad avvenire anche con uso della posta elettronica. I materiali li distribuivo su CD e anni dopo fu uno studente dello Zucchi ad offrirmi uno spazio di host in rete, Era Morris Barattini che tempo fa mi scrisse: “Ricordo l’ esperimento del foglio appoggiato sul libro in caduta che mi aveva totalmente spiazzato. Si divertiva un sacco quando insegnava, è una cosa bella. Forse scriveva troppe cose alla lavagna e spesso non la seguivo molto, ma non è colpa sua, è la matematica che è una palla mostruosa”.

la equazione di Eulero che raggruppa in una formula i numeri importanti della matematica e, i, pi greco e volendo anche 1 e 0

Eravamo al classico, poche ore di scienze dure ma alto livello. In terza, con l’accordo degli studenti, introdussi l’insegnamento dell’analisi matematica con un approccio più concettuale che tecnico e, nel ginnasio, lavorai in maniera molto alta sulla geometria razionale utilizzando un libro di testo del professor Conti che andava a fondo sulla indipendenza e completezza degli assiomi della geometria.

Poco peso agli aspetti tecnici o ripetitivi e lavoro sugli snodi del ragionamento matematico. Ma come si vede da questa immagine con la equazione di Eulero che richiama quattro numeri importanti della storia della matematica (e, i, 1, pi greco), magari solo per cenni, si apriva a cose avanzate. In questo caso si parlava, a fine corso e con un po’ di ironia, della importanza dei numeri complessi nella costruzione dell’edificio della matematica.

Molti di questi studenti li ho ancora come amici sulla pagina Facebook. Ciò che li accomuna è l’autonomia, la capacità di fare scelte coraggiose, di dare una svolta alla propria vita e, molti di loro, non sono più in Italia ma in Canada, in Inghilterra, in Spagna, altri fanno i docenti universitari, o scrivono, o inventano startup.

Come Andrea Rota che, nel 95, usando alcune caratteristiche di Windows 3.1, era riuscito a produrre la versione on line di Bartolomeo, il giornalino degli studenti. Alla fine del liceo andò a Milano per iscriversi a Fisica e tornò a casa iscritto a filosofia. Mentre faceva filosofia, mise su una startup di informatica e poi, andato in Inghilterra per il dottorato, si è fatto assumere dall’Università per curarne il sistema informativo. Adesso non so dove sia.

Mi scrisse Paola Villa che ora insegna letteratura italiana negli States:


Una cosa però mi ha sempre infastidito di noi "fighetti" di Piazza Trento Trieste: quella posa da Crociani di bassa lega, quell'attitudine a snobbare le materie scientifiche come vile "techne" che non ha nulla a che vedere con la "vera" cultura dei classici e dei "sommi poeti" e altre baggianate di questo tipo.

Ecco a me quest'atteggiamento ha sempre fatto girare i c…i, tanto per dirla da contessa:-). Poi in prima Liceo è arrivato Lei. Sempre un pò incazzoso, sempre in blue-jeans, con il suo intercalare dialettale  (fa balà l'ouch!) che faceva tremare le pareti del tempio della "Crusca" e con la ferma convinzione che il muro fra le "due culture" fosse da abbattere e subito!

Cereda è stato per me il Feynman italiano: mi ha insegnato che la matematica e la fisica non appiattiscono il mondo, non fanno a pezzi la poesia, come qualcuno sosteneva, ma ne danno una visione più completa e affascinante.  Ora vivo negli States dove insegno Italiano all'università e sto scrivendo una tesi di dottorato sul rapporto tra letteratura e fisica. Il mio idolo: Cicerone?? No, Niels Bohr!


Scrive Serena Psoroulas, una zucchina che ha fatto fisica e continua ad occuparsi di fisica:


Per me leggere le sue verifiche e seguire le sue lezioni nell'anno in cui fui sua alunna fu emozionante, perché mi mostrava un modo completamente diverso di fare matematica, che nessuno prima (e purtroppo neppure dopo, fino a che non arrivai a studiare analisi matematica) mi aveva mai mostrato. D'un tratto la matematica era interessante; le sue erano verifiche in cui era richiesto di pensare, non di eseguire istruzioni. Ho sempre odiato la matematica prima di conoscerla; dopo aver fatto un anno con lei, non avrei più potuto dire la stessa cosa...

Quello che avevo imparato da lei mi diede anche un po' sui nervi, diverse volte. Mi aveva mostrato come ciò che mi piaceva in altre materie (l'analisi come base per la comprensione del testo, sia in latino, greco o in italiano, per fare un esempio) era anche alla base della matematica – e che quindi, se non riuscivo a farla era colpa mia, non stavo analizzando appieno il problema. Non potevo più nascondermi dietro alla scusa non sono portata per questa materia. Gli errori di segno in un'equazione, erano solo il sintomo di quanto fossi stata pirla.

Passione per le cose che ti trascina a guardarle sempre con un occhio diverso, a rianalizzare, a non sederti mai – e l'inconsistenza delle scuse dietro cui ci si nasconde quando invece ci si siede – sono forse le cose che più ho imparato dalla mia esperienza, con lei e con altri. Come fa a sbattersi così alla sua età? era quello che molti noi studenti ci chiedevamo (aveva già passato i 50 quando la conobbi, un'età che per un 14enne è un chiaro sintomo di matusaggine). E c'era chi la stimava per questo suo atteggiamento.


Serena era l’amica del cuore di Ilaria Salis; già perché in quella IV ginnasio del 97/98 c’era anche lei. Quando suo malgrado è divenuta famosa mi sono detto, ma quel nome mi ricorda qualcosa, e quando venne fuori che era di Monza e aveva fatto lo Zucchi, feci due più due. Ho ritrovato i suoi voti, i giudizi del I e II quadrimestre dove si sottolinea la sua vivacità intellettuale e la necessità di controllarla e coinvolgerla. Il centro sociale Boccaccio è nato in quegli anni e, al di là della mi scarsa simpatia per i centri sociali che risale agli anni 70, non riuscivo e non riesco a capire come una parte delle teste fondanti potesse provenire dallo Zucchi.

In quell’anno approfittando dell’arrivo nel corso della professoressa Scrocco (lettere), moglie del Preside del Frisi Cicerone, donna molto colta e disponibile verso la scuola e gli studenti organizzammo un bellissimo viaggio di istruzione a Roma con un programma tutto gestito da lei (Roma monumenti principali, villa Adriana a Tivoli, necropoli etrusca a Tarquinia)

La mattina arrivavo in bicicletta da Villasanta e parcheggiavo la bici al parcheggio custodito di piazza Trento. Poi arrivavo ai gradini sempre ingombri di studenti del ginnasio che copiavano le frasi di latino: Buon giorno e sorridevo pensando che il modo migliore per far studiare la gente era essere esplicito nel rapporto, insegnando ad autodosarsi rispetto ai ritmi di apprendimento. Per questo non davo compiti a casa in maniera fiscale e, a volte, per questo subivo le rimostranze dei genitori.

La bici era la Bottecchia che avevo vinto con l’abbonamento a Rinascita, rosso bordeaux con un bel portapacchi nero su cui mettevo la cartella. Una mattina d’inverno, mentre percorrevo il Parco da Villasanta ed ero appena sbucato sul viale Cavriga provenendo dalla zona dei Mulini Asciutti, saranno state le 7:30, c’era poca luce, sentii il rumore di una frenata secca dietro di me. Ebbi la prontezza di spirito di pedalare più forte e così l’impatto fu meno violento. Volai in avanti di qualche metro rispetto alla bici e andò tutto bene. Quello in macchina mi aveva visto solo all’ultimo momento. Tra lui in frenata e io in accelerazione fui salvato dalla conservazione della quantità di moto. Ma non andò così bene qualche anno dopo mentre andavo al Frisi a fare gli scrutini.

i colleghi

Angelo Cucinotta (matematica e fisica) e Fernando Montrasio (detto Nando, latino e greco)

Nel novantanove duemila, dopo tre tentativi consecutivi di far partire la sperimentazione di informatica, falliti per insufficiente numero di richieste perché Monza è Monza e il classico è il classico, sono ritornato al Frisi.

I vecchi colleghi dello scientifico erano curiosi; si aspettavano che dicessi peste e corna dello Zucchi e invece li ho delusi (tra i due licei monzesi c’è sempre stata competizione nel primeggiare).

Dissi loro: se al Frisi, in media, uno studente incontra nella sua storia scolastica almeno tre docenti di quelli che lasciano il segno, allo Zucchi siamo a 3.5 e gli studenti, quando sono bravi, lo sono per davvero.

I colleghi erano dei veri esperti nelle loro discipline anche se sopravviveva qualche parruccone/a da giardino zoologico in particolare tra i docenti di latino e greco. Voglio ricordare i due della foto: Angelo Cucinotta (fisico underground reduce dalla Parigi Dakhar in moto) e Nando Montrasio (giovane docente di latino e greco, dalla grande cultura).

Ma poi Fiumi, Praga e Scrocco (Greco), Ragazzi, Bulega e Bregani (italiano), Montrasio e Del Re (scienze), Gualdoni e De Biase (arte), Castellani e Ferraro (storia e filosofia), Di Miele e Magni (matematica e fisica), Pullè e Turri (educazione fisica), poi qualche docente di lettere del ginnasio come Patrizia Marchesi o Paolo Pilotto che, nonostante insegnasse religione, è diventato una istituzione dello Zucchi già prima di darsi alla politica cittadina. Con tutto quel ben di Dio di intellettuali avevi la impressione di stare nel regno della cultura anche se ne percepivi aspetti di unilateralità.

La scuola è ora diretta da una cara amica di Villasanta, Rosalia Natalizi Baldi che ha mosso i primi passi da DS alla media di Villasanta, il cui figlio Tommaso intelligentissimo e multiforme è stato mio alunno al Frisi. Se dò uno sguardo allo staff ritrovo giovani docenti di allora ancora presenti come Anna Magni, Carmelo Valentini, Cristina Catalano, Daniela Bini (ex Frisi), Nando Montrasio, Giovanni Missaglia e Mara Gualdoni. Tutto ciò mi fa riflettere sul fatto che la identità e lo spirito di appartenenza siano un bene importante in ogni organizzazione e lo siano a maggior ragione in quelle educative. Spirito di appartenenza e capacità di rinnovarsi.

A proposito delle due culture che non si parlano voglio ricordare un episodio divertente accaduto durante un consiglio di classe. Non so per quale ragioni stessi parlando di linguaggi e delle loro diversità ed io pensando alla meccanica quantistica citai come linguaggio il formalismo hilbertiano. La MQ ha un suo strano linguaggio basato sugli operatori che operano su particolari vettori nel campo complesso in uno spazio a infinite dimensioni (lo spazio di Hilbert). Tutto ciò, gli oggetti e le regole con cui interagiscono, viene condensato parlando di formalismo hilbertiano.

Fui interrotto da una collega di latino e greco che mi disse: ma cos’è questa storia del formalismo hilbertiano, il forrmalismo è una corrente artistica. Appunto.

Era la la stessa persona che in un’altra occasione mi spiegò che il mio argomentare usava troppo la paratassi e troppo poco la ipotassi. Nella mia ignoranza le chiesi di spiegarmi cosa fossero e, dopo aver imparato due parole nuove, le dissi che il linguaggio diretto che procede per frasi brevi e accostate (la ipotassi) è quello che si usa nel giornalismo e nella comunicazione verbale. In quella scritta, di tipo saggistico, nelle sue diverse forme e ambiti, è normale usare una proposizione principale e una o più subordinate. Insomma, le dissi, a seconda dei contesti, sono un po’ paratattico e un po’ ipotattico.

capo Nord

Nei periodi di vacanza (invernale ed estiva) andavo in montagna in val Malenco e lì conobbi, diventandone amico, Francesco Ceratti, medico esperto in organizzazione sanitaria, classe 1947 e con la passione per il girovagare motociclistico.

Nel 95, al ritorno da un giro tra la Valtellina e l’Alto Adige, ero arrivato lungo su una curva secca e i freni a tamburo della mia Aermacchi 350 mi avevano tradito: blocco della ruota posteriore, scivolata e caduta. A parte due costole incrinate dal manubrio, niente di grave, ma conclusi che era ora di prendere una moto con i freni a disco.

Volevo una moto italiana e la scelta cadde sulla Guzzi Nevada 750; il fascino del bicilindrico. Francesco aveva una Yamaha Diversion 600 e decidemmo che per i 50 anni avremmmo festeggiato andando a capo Nord.

Era l’estate del 97. Spesi il benefit dovuto alle attività di collaborazione a scuola per acquistare un giubbotto Dainese serio (cordura con interno in goretex, protezioni alla schiena, gomiti, polsi e spalle) insieme alle tre borse rigide e ad una borsa da serbatoio. Iniziò un lavoro di preparazione sulle cose essenziali di manutenzione presso il concessionario Guzzi di Carate (avevo visto che in alcune zone della Norvegia il meccanico Guzzi più vicino sarebbe stato a 600 km e dunque bisognava saper fare l’essenziale in caso di bisogno).

E così partimmo per un viaggio di circa 9’000 km diluiti in tre settimane. E’ stata una grande avventura di cui ho steso un diario di viaggio che trovate qui insieme alla descrizione delle singole tappe e ai link agli album fotografici che ho messo nella mia pagina Facebook.

Siamo saliti dalla Svezia e Finlandia e tornati dalla Norvegia (con in mezzo Svizzera e Germania). Si stava in moto tutto il giorno ed è andato tutto bene. Delle tre borse rigide, quella di destra era piena di ferri e di pezzi di ricambio, ma non è servito praticamente nulla e la moto italiana, con il cardano, si è rivelata migliore della giapponese a catena.

Nel nord della Norvegia il mio socio è caduto da fermo e ha rotto il poggia piedi dal lato del cambio (e nelle moto se non hai il poggia piedi non puoi azionare il cambio). Gli ho montato uno dei due lato passeggero, un po’ più piccoli, ma ce la siamo cavata sino in Germania dove abbiamo fatto manutenzione alla Yamaha.

Pernottamenti prevalentemente nei bungalow della estesa rete di campeggi della Scandinavia; colazione super-ricca la mattina (uova, aringhe, yogurt, frutta, formaggio, salumi, …), breve sosta di rilassamento all’ora di pranzo con mele o banane, ricerca del campeggio nel tardo pomeriggio e cena in campeggio. Il tempo ci ha assistito e abbiamo avuto solo un paio di giornate d’acqua (l’attrezzatura ha retto).

Ovviamente la parte più suggestiva, oltre a NordKapp, è stata quella della parte alta della Norvegia a nord del circolo polare (visita a Tromso, la città di Amundsen e alle Lofoten, le isole di capitan Findus). In una delle tappe, a nord di Mö I Rana, abbiamo fatto 200 km senza incontrare nessuno e ad un certo punto sono rimasto a secco. Per fortuna eravamo a soli 50 km da Mo I Rana e il mio socio aveva ancora un po’ di benzina.

Nel ritorno (durato due settimane perché la Norvegia è molto più contorta e ricca di fiordi della Svezia) abbiamo fatto anche un po’ di turismo cittadino (Oslo, Copenhagen, Berlino) e arrivati a Monza abbiamo visto che lo Zucchi era ancora lì.


La pagina con l’indice della mia autobiografia da cui potete scegliere i capitoli da leggere


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si è abbassata l’asticella ?

Alcuni mesi fa mi è capitato di alloggiare in una casa, oggi usata come casa residenza, la cui proprietaria si chiamava Ida. Ida era una docente di greco. Ha scritto diversi libri per le scuole superiori e traduceva fluentemente dal greco all’italiano e viceversa.

Nella casa di Ida c’erano tantissimi libri. C’erano le prime edizioni dei Promessi Sposi e libri degli anni ’20 del secolo scorso, ancora rilegati a mano. Tra questi libri ho ritrovato testi scolastici che descrivevano la storia di un’Italia da alfabetizzare. Nei libri delle scuole medie si parlava di trigonometria, di seno, coseno e parallasse… a 12 anni!

Nei libri della scuola primaria si utilizzavano verbi e vocaboli che oggi ritroviamo in antologie del biennio delle superiori. E la storia e la geografia avevano pagine piene di dati e nomi.

Non sono un nostalgico e chi mi conosce sa cosa penso di quel tipo di scuola che ha selezionato tanto, lasciandone troppi indietro. E così apro i libri dei miei figli, di 8 e 11 anni. Vedo pagine piene di foto e tanti colori e poche frasi scritte, se non ad effetto, e tante schede da compilare. Vado nella sezione di matematica e scienze e, quando si parla di Universo, si riesce a passare dai pianeti alle stelle fino a citare i buchi neri in sole 8 righe, poco più di 130 parole, e anche con qualche errore concettuale (!).

Mi chiedo: quando abbiamo deciso di abbassare l’asticella? Siamo davvero sicuri che una scuola semplice sia la scuola migliore per tutti i nostri bambini e ragazzi? Siamo davvero certi che la responsabilità di tutto questo non sia nostra?

Mi occupo di robotica educativa e di didattica della fisica da quasi 20 anni. Nei miei corsi di formazione ai docenti dico subito: i miei corsi non sono semplici. Non amo girare motorini. Amo fare Scienza, Matematica, Fisica… amo raccogliere dati, discutere di energie e forze, amo progettare e fare ipotesi con metodo scientifico.

Io credo che il problema non sia lo strumento e neppure il digitale (e così sfatiamo subito un luogo comune: non è la scuola degli ultimi 20 anni ad aver abbassato l’asticella e non lo sono i suoi strumenti). E il problema non sono neppure i nostri bambini e ragazzi.

Credo che il problema sia cosa chiediamo loro di fare e cosa diamo loro. Se a un bambino di 5 anni che piange a tavola diamo in mano uno smartphone per farlo calmare oppure scegliamo di raccontargli una favola con un libro, allora facciamo delle scelte. Se a 8 anni spiego le energie e le loro trasformazioni semplificando un libro di testo già semplice o lo faccio sperimentare con pannellini fotovoltaici e qualche LED, allora faccio delle scelte.

Qualcuno ha affermato che la scuola democratica, la scuola per tutti, ha abbassato così tanto l’asticella da delegittimare la Scuola stessa nel suo ruolo di ascensore sociale. Io credo che dovremmo seriamente interrogarci su cosa vuol dire fare Scuola e iniziare a non cedere alla tentazione di banalizzare il sapere e le discipline, ma di scegliere i giusti strumenti e continuare a coltivare le grandi domande.

In quei libri di 100 anni fa c’era dietro tanta scuola che ha perso per strada migliaia di alunni. Una formula di trigonometria ha bocciato tanti ragazzi, già a 11 anni, costringendoli a scegliere tra i campi, le fabbriche o chissà cos’altro. La scuola di oggi è molto diversa e, fortunatamente, c’è più didattica, più pedagogia, più relazione. Non cediamo, però, alla tentazione di abbassare troppo l’asticella, ma alziamo sempre più le grandi domande ed utilizziamo con efficacia gli strumenti, anche quelli del nostro tempo, troppo spesso impolverati dentro gli armadi delle scuole.

Intanto sfoglio alcuni libri che la nipote di Ida mi ha donato e imparo tanto da quei testi che venivano letti e studiati da ragazzi e ragazze di 12 anni!




nessuno mi può giudicare

Racconta la cronaca che tre studentesse del Liceo classico Foscarini, hanno deciso di non rispondere alle domande della Commissione al colloquio orale della Maturità 2024 per protesta, dopo che nella loro classe sono state date troppe insufficienze alla seconda prova scritta, quella di Greco.

Una delle “rivoluzionarie” ha dichiarato: “Non accetto il vostro giudizio che non rispecchia il nostro lavoro… non tollero la mancanza di rispetto nei miei confronti”. Non è mancata un’ondata di consenso giornalistico: “Fate loro una statua! Titolate loro un’aula!”.

La realtà è stata, ahinoi, più prosaica: la Commissaria d’esame di Greco si è trovata di fronte un’intera classe impreparata e lo ha certificato. Punto. Dietro questo episodio – ma non sappiamo quanti altri – si agitano questioni di straordinaria importanza: quali i fini del “giudizio scolastico”?

Perché la crisi attuale del giudizio scolastico? Sullo sfondo sta un fatto: nel mese di giugno/luglio di ogni anno passano al vaglio di scrutini ed esami circa 7 milioni e 200 mila ragazzi. L’operazione tocca la vita di milioni di famiglie. Essa ha due facce. Quella visibile: lo Stato si rivolge alle giovani generazioni per verificare i livelli del “sapere di civiltà” acquisiti. Quella invisibile è etico-pedagogica-civile: lo Stato si pone come giudice dei loro saperi e dei loro comportamenti. Egli parla a nome della Realtà, del Mondo, della Società, dell’Altro… I giudizi sono formulati dagli insegnanti, singoli e riuniti in Consigli di classe o Commissioni, la cui composizione dipende da una serie di variabili, tra cui la qualità e le competenze variabili degli insegnanti.

Nella personale interpretazione delle tre ragazze, invece, titolare del giudizio non è più il Commissario d’esame, ma l’IO stesso: io sono l’unico giudice di me stesso. Il Mondo è solo lo specchio dell’IO e l’IO deve essere immediatamente gratificato, sempre. Un IO perennemente in ansia. Per la descrizione di questa sindrome narcisista rimandiamo qui al libro di Ch. Lasch del 1979, tradotto nel 2001 con il titolo: “La cultura del narcisismo. L’individuo in fuga dal sociale in un’età di disillusioni collettive”.

I docenti che si trovano davanti i ragazzi della Generazione Zeta conoscono benissimo questa sindrome. Nasce in famiglia, si sviluppa nella società, si esaspera attraverso i mezzi di comunicazione, retroagisce in famiglia, si ratifica a scuola. Attraversa l’intera società. È il nuovo “spirito del tempo”.

La crisi della valutazione

Ora, la tendenza crescente dei corpi docenti, delle scuole e del Ministero è quella di adeguarsi al nuovo “spirito del tempo”. Ciò ha comportato la riduzione progressiva della quantità di “sapere di civiltà” ritenuto fino a qualche decennio fa necessario dalla società per la propria riproduzione. Ma, soprattutto, ha provocato l’abbassamento dell’asticella del giudizio.

Il “benessere” del ragazzo è diventato il criterio di giudizio prevalente. D’altronde, chi glielo fa fare ad un insegnante di opporsi alla corrente facilista, quando le famiglie – i clienti! – i presidi, i giornalisti, i giudici dei TAR, i politici premono per evitare ansie, frustrazioni, crisi di panico, depressioni galoppanti, anoressie ai nostri figli e nipoti?

Una conseguenza è che non esiste più, o sempre meno, un criterio unico nazionale di giudizio: varia da territorio a territorio, da Nord a Sud, da indirizzo scolastico all’altro, da una scuola autonoma all’altra. Quando si arriva alla Maturità, le Commissioni si presentano sì armate di Indicazioni generali, ma, alla fine, se un ragazzo non è stato portato dal docente oltre il 1945 – per prendere un esempio frequentissimo in Storia – la Commissione che cosa può fare?

E se non è stato portato a saper tradurre Platone, ma eventualmente solo la più facile Anabasi, la Commissione che cosa può farci? E se un/una docente commissaria si ostina a segnalare che il ragazzo di fronte non è capace di dire quando è avvenuto lo sbarco in Normandia, che cos’era il CLN, quali erano le forze presenti nell’Assemblea costituente, il minimo che gli/le può capitare è di finire sui giornali con l’accusa di sadismo o l’invio di un ispettore da parte degli organi competenti.

Quale che sia la disciplina posta sotto giudizio, il panorama del giudizio che si stende davanti ai nostri è “a desolazione crescente”. I Lettori sono in grado di valutare se tutto ciò abbia a che fare con l’analfabetismo funzionale crescente, con una selezione avversa della classe dirigente politica, con l’aumento degli Scrittori e la diminuzione dei Lettori, con la caduta complessiva della quota di saperi nella società e con il corrispettivo aumento dell’ignoranza presuntuosa.

Un Sillabo delle conoscenze e un’Agenzia nazionale di certificazione

Che fare, se il percorso epistemologico della costruzione del giudizio è franato tanto nella Società quanto nella Scuola? Che fare, se si è diffusa largamente l’idea che la Realtà è una variabile dipendente dell’IO? Una risposta del realismo storico – al limite del cinismo – è: non lamentatevi, il ciclo storico dell’Occidente europeo è ormai posto su un clinamen, direbbero Epicuro e Lucrezio. Se la nostra civiltà diventa materiale di costruzione per altre civiltà, pazienza! Tuttavia, chi ha figli e nipoti, si ribella al cinismo della ragione storica, perché l’idea dell’uomo libero/responsabile come impasto di intelletto e volontà, capace di fare la Storia, continua ad essere il fondamento spirituale della nostra civiltà.

Serve, in primo luogo, un Sillabo nazionale/europeo delle conoscenze necessarie per vivere nel mondo presente. I nostri ragazzi camminano nel presente, ma non sanno realmente a quale secolo appartenga. La verifica dei livelli di conoscenze acquisite deve essere sottratta all’anarchia valutativa delle Commissioni. Occorre un’unica Agenzia nazionale di certificazione, alla quale far pervenire gli scritti per la correzione, alla quale far elaborare test ecc…

L’Agenzia deve solo “verificare” sulla base del Sillabo. Non deve “bocciare” nessuno, non deve “fermare” nessuno, non deve dichiarare “maturo” nessuno. Deve solo dire a un ragazzo/a la verità sui suoi personali livelli di acquisizione. Il nucleo di tale Agenzia esiste già: è l’INVALSI, agenzia indipendente di valutazione dalle scuole e dal Ministero. Basterebbe aumentarne il ventaglio delle competenze e dotarla dei mezzi necessari. Già ogni anno l’INVALSI elabora giudizi e graduatorie affidabili, che vanno, non a caso, in controtendenza rispetto ai giudizi delle Commissioni di maturità.

In secondo luogo, è necessario prendere atto che sotto il vestito del valore legale del titolo di studio non c’è ormai più nulla, salvo le fortune dei diplomifici e dei laureifici. È necessario togliere di mezzo l’inganno del valore legale, che non è più né un fine né un mezzo, per consentire a ciascun ragazzo di vedersi così com’è. È dunque solo al Mercato che ci si deve affidare, visto che lo Stato è ormai inaffidabile? La risposta è appunto un’Authority-Agenzia indipendente dallo Stato e dal Mercato. Di lì in avanti scatta il principio di libertà/responsabilità per tutti, a partire dai “maturi”.

C’è un’alternativa, intanto, che stiamo già praticando: scivolare lentamente lungo il clinamen. Una società che non vuole valutare e valutarsi in base al principio di Realtà è destinata all’estinzione.




1987-1992: il lavoro alla Informatica SISDO

Le vicende che mi portarono a lasciare la scuola per approdare alla SISDO le ho già raccontate alla fine del Capitolo 17, quello dedicato ai miei primi 10 anni al Frisi.

La SISDO ha ormai cessato la sua attività. Era una azienda milanese che si occupava di Informatica per mini-sistemi (la via di mezzo tra i main-frame e i PC) e i colori aziendali erano il verde e il nero, gli stessi che caratterizzavano l’arredamento della sede principale, dalle poltrone alle scrivanie.

Dalla esperienza alla SISDO ho imparato un sacco di cose che poi ho usato nella vita e riportato nella scuola. Un giorno Oskian (ormai era diventato cittadino italiano, si chiamava Campi, ma per me era sempre Oskian) mentre discutevamo animatamente su come risolvere un problema di Informatica mi disse: la vuoi piantare di fare il professore. Voi professori l’abitudine del so tutto io ve la portate appresso per tutta la vita.

Aveva ragione; l’oggetto della discussione era il malfunzionamento di un apparato complesso e non si capiva neanche bene se fosse un problema hardware o software. Io volevo venirne a capo facendo l’analisi della situazione e lui mi spiazzò incominciando a staccare un filo alla volta, finché, per esclusione, capimmo qual era il problema. Poi mi disse: queste cose le ho imparate dalla teoria dei sistemi ed io imparai la lezione. La teoria dei sistemi, non sempre insegnata in maniera adeguata, è comunque una delle discipline di indirizzo nella istruzione tecnico-tecnologica.

come era strutturata la SISDO

La società, nel periodo di massimo sviluppo, aveva una ventina di dipendenti e altrettanti collaboratori che lavoravano a domicilio facendo del data entry. Le sedi erano tre: in viale Bianca Maria 18 (centralino, direzione, amministrazione e commerciale), in piazza Tricolore (sviluppo software e data center), in viale Monza (attività di service).

Ci si occupava di data entry, sofware gestionale per le aziende, banche e software per la pubblica amministrazione, con tentativi abbozzati di occuparsi di cartografia, di reti tecnologiche e di sistemi intelligenti (Oskian era appassionato di intelligenza artificiale).

Si lavorava in Cobol e in C e si usavano, come database, DB4 sui PC e Informix, ADABAS e Oracle sui mini sistemi.

a che stadio era l’Informatica

L’informatica si trovava nella fase di passaggio tra l’era dei main frame e quella dei mini, messi in rete tra loro a creare reti geografiche. Stava iniziando anche l’era delle reti di PC, ma si era ancora ad uno stadio embrionale. Windows era nato da poco, si era alla 2.0 e dunque, per dirne una, i programmi di videoscrittura (WordStar o XYWrite) richiedevano, per avere dei font decenti da usare nella corrispondenza commerciale, di fare l’upload dei caratteri nella memoria della stampante (se era una laser) mentre in quelle ad aghi si lavorava con sequenze di caratteri di controllo (le cosiddette sequenze di escape) che interagivano con l’hardware della stampante.

Per un certo periodo lavorammo per l’editoria digitando testi di libri in XYWrite. Questo editor, molto veloce e parco nell’uso delle risorse, aveva il vantaggio di lavorare in modalità testo, con i comandi espressi attraverso apposite sequenze distinte dal testo vero e proprio attraverso dei separatori come avviene con l’HTLM (Hyper Text Markup Language); i nostri markup erano «». Questo consentiva di scrivere i driver per le stampanti in  maniera abbastanza semplice ed era quello che facevano gli editori per pilotare le macchine di fotocomposizione. I file di testo risultavano indipendenti dai sistemi operativi e trasportabili con facilità.

Office non esisteva. C’erano i primi fogli elettronici (il Lotus 123) con l’idea avvenieristica di simulare i fogli di contabilità dei ragionieri ma incorporando le formule. Il foglio elettronico consente di copiarle in vari punti del foglio senza perdere i riferimenti alle celle da utilizzare, grazie al concetto di indirizzo relativo. Permette non solo di fare calcoli complicati e ripetitivi ma anche di impostare le simulazioni della evoluzione di un dato contesto al mutare dei parametri. Consente infine, dati i risultati finali che si vogliono ottenete di lavorare sui parametri di ingresso per ottenere il risultato desiderato.

Il database relazionale per PC era il DB3 (poi divenuto DB4) della Ashton Tate; esistevano anche dei compilatori che consentivano di trasformare le applicazioni scritte nel linguaggio di programmazione di dB4 in eseguibili che non avevano bisogno di appoggiarsi sulle licenze della Ashton Tate. Il principe di tali compilatori si chiamava Clipper. Oggi tutte quelle aziende sono sparite, distrutte dal predominio Microsoft e dall’avvento di Windows con la piattaforma di Office Automation Office divenuta uno standard: Word per il trattamento testi, Excel per i fogli elettronici, Access per i database, Outlook per la posta elettronica e l’agenda, Power Point per le presentazioni, Publisher per la editoria elettronica.

In proposito ricordo che poco prima che io lasciassi la SISDO uscì Windows 3.1 che finalmente garantiva il multitasking, la possibilità di fare reti di PC senza grandi complicazioni e aveva introdotto i True Type Font. I caratteri facevano parte del sistema operativo, erano caratteri proporzionali (cioè le dimensioni delle lettere finalmente erano diverse per migliorare la leggibilità e infine la loro dimensione (il corpo) e i loro attributi erano tutti gestiti via sofware (ingrandendosi non sgranavano ede era banale passare dal normale al corsivo al neretto.

partita IVA con rapporto esclusivo

Quando arrivai alla Sisdo Oskian era rientrato da Roma da qualche anno lasciando la vicesegreteria del PDUP, aveva fatto qualche esperienza di società di informatica  e formazione manageriale con altri e poi si era messo in proprio. Si era iscritto al PCI ed era responsabile regionale per la Ricerca e per la Università e questo incarico gli aveva aperto possibilità di business nel mondo delle cooperative e nella CGIL. Di formazione era un fisico, era sto tra i primi laureati di Degli Antoni e tornava ai vecchi amori.

Dopo un anno di apprendistato, in cui continuano ad insegnare mi propose la scelta tra assunzione come dipendente o la partita IVA, con collaborazione pressoché esclusiva. Per ragioni di convenienza personale optai per la seconda ipotesi. Lavoravo molto; partivo da casa verso le 7:15 e ritornavo dopo 12 ore. Guadagnavo più del doppio rispetto a scuola e in più, ope legis, avevo diritto ad una pensioncina di circa un milione al mese. Ma ben presto incomiciai a riflettere sul fatto che quello non era il mio progetto di vita, dei soldi non mi è mai importato un gran che; avevo avuto voglia di staccare dalla scuola per vedere il mondo del privato, lo stavo vedendo e sperimentando ma per me si trattava comunque di una parentesi.

Un giorno mi resi conto che la mattina, alla stazione di Arcore, oltre che vedere sempre le stesse facce, incominciavo a mettermi sempre nello stesso punto del marciapiede. Sul lavoro mi pesavano anche le pause pranzo nei bar di piazza Tricolore con gli impiegati del terziario avanzato che mangiavano un panino in piedi continuando a parlare di lavoro o di clienti.

In azienda c’erano per metà laureati (quasi tutti in matematica) e per metà diplomati e, proposto da me, venne a dirigere il lavoro di data entry un amico villasantese momentaneamente disoccupato: Franco Ornaghi.

Per due anni di seguito facemmo anche quei corsi finanziati da Regione Lombardia su fondi CEE per giovani disoccupati e ad assunzone garantita. Dal punto di vista del bilancio, nonostante qualche economia di scala perché docenti e direzione del corso erano interni all’azienda, si faticava a finire in pareggio, ma era un modo per selezionare del personale senza sobbarcarsi le fasi di training, perché il training faceva parte del corso e così c’era modo di individuare le persone più valide. In quegli anni ci fu qualche scandalo per corsi regolarmente fatturati e inesistenti, nei giri loschi di Regione Lombardia, ma non fu il nostro caso. Semmail il problema era il complesso meccanismo di rendicontazione in base alla normativa CEE e per quello bisognava affidarsi apersonale specializzato che lo faceva di mestiere.

le cose che ho imparato

SISDO è l’acronimo di Sistemi Informativi, Sistemi Decisionali, Organizzazione: un programma strategico bellissimo che aveva dentro si sè l’idea che Oskian aveva dell’Informatica, in particolare per quanto riguarda i sistemi decisionali (inizialmente SISDO stava per Sistemi informativi, Sviluppo dell’Organizzazione). Questa faccenda della organizzazione ritorna sempre tra di noi (dai tempi della Organizzazione Comunista Avanguardia Operaia). Organizzazione e supporto alle decisioni il primo passo verso l’intelligenza artificiale.

E’ stata una esperienza utile sul piano professionale nel senso ampio del termine. Ho appreso questioni di informatica che non conoscevo quali l’utilizzo dei database relazionali e la organizzazione a blocchi di sistemi complessi. Nascevano le reti e la Ethernet, divenuta uno standard dal punto di vista hardware e del protocollo di comunicazione, l’ha inventata la Digital sul suo sistema operativo proprietario, il VMS (Virtual Memory System).

Digital era l’azienda con cui operavamo per l’hardware. Erano loro ad aver inventato l’informatica distribuita e la SISDO l’aveva sposata nel momento in cui realizzò il sistema informativo per la CGIL Lombardia con minisistemi in ogni capoluogo di provincia e messi in rete tra loro.. Più avanti saremmo passati dal VMS allo Unix con la Honeywell Bull e l’IBM.

informatica sanitaria

Per un certo periodo mi sono occupato di progettazione della architettura di sistemi medio grandi per l’area sanitaria. Bisognava essere aggiornati sulla evoluzione delle tecnologie, saper ascoltare le esigenze dei clienti e saperle alzare di livello, nel senso di costruire una risposta harware e software partendo dall’output richiesto, cioè da quello che voleva ottenere il cliente.

I modem erano lenti e costosi e per garantire più postazioni si usavano dei concentratori detti multiplexer. Ero arrivato da poco alla SISDO quando, per svariati milioni di lire, fu acquistato un hard disk da 10 megabyte (!!!). Per le grandi masse di dati si usavano ancora i nastri magnetici a lettura sequenziale che avevo conosciuto nei tardi anni 60. Oggi i Terabyte, un milione di volte più capienti, si comperano al supermercato per qualche decina di euro e lo stesso vale per le pennette USB.

La attività di data entry riguardava una grande commessa di Regione Lombardia nell’ambito delle procedure di controllo della spesa sanitaria e la SISDO, come altre società del settore, lo svolgeva relativamente ad alcune delle province. Arrivavano grandi sacchi pieni di ricette che le USL ricevevano dalle farmacie. La registrazione dei dati della ricetta veniva fatta manualmente con degli M24 Olivetti attraverso programmi sviluppati all’interno con un primo controllo on line dei dati controllabili (codice medico, codice del farmaco, …).

Gli M24, e più tardi dei PC della Sanyo, lavoravano con 2 dischetti magnetici (i floppy disk) del diametro di  5 pollici e un quarto. Sul primo disco c’erano il sistema operativo, il programma per la registrazione e gli archivi dei farmaci per il controllo di correttezza della digitazione. Sull’alltro dischetto venivano registrati i dati della ricetta (il data entry). La RAM era ancora a 256 KB.

Alla fine della registrazione tutti quei dischetti venivano dati in pasto al Microvax (o al PDP, il suo predecessore) e controllati su archivi più grandi per finire poi nei file definitivi dove si facevano i controlli di congruità e la correzione degli errori di acquisizione. Il prodotto finito, su nastro, finiva in Regione. La grande idea che consentiva di essere competitivi era stata quella del data-entry su PC che consentiva, in qualche caso, addirittura il lavoro a domicilio e comunque non richiedeva grandi investimenti in infrastrutture. eravamo proprio alla preistoria; oggi non si digita più nulla a mano; funziona tutto con lettori di codice a barre in farmacia e con le ricette elettroniche dove sono già presenti in formato digitale tutti i dati necessari (codice prodotto, quantità, codice medico prescrivente, codice assistito).

schema a blocchi della architettura classica (Roberto Savino)

Oltre che di architetture di rete mi sono occupato lungamente della progettazione di software gestionale in ambito sanitario: dalla contabilità finanziaria, al personale, agli stipendi, alla informatizzazione di singoli servizi (area sociale, consultori familiari, CUP, laboratorio di analisi, farmacia ospedaliera…). Scrivevo le specifiche e seguivo la realizzazione del software anche se, alcuni prototipi, li ho creati direttamente.

Da allora il mondo è cambiato per due fattori altrettanto importanti:

  • la disponibilità di hardware molto più potenti, la nascita di Internet e la disponibilità delle reti in cloud che hanno eliminato gran parte dei problemi di conservazione e trasferimento dati con cui avevamo a che fare
  • la crescita di una cultura dei diritti che ha obbligato le amministrazioni ospedaliere e i manager della sanità a mettere al centro del processo il cittadino-utente (non mi piace la parola paziente) sia rispetto alla facilità di accesso ai servizi, sia rispetto alla gestione dei dati (basta pensare al fascicolo sanitario elettronico).

In quegli anni inziavano a comparire anche i primi sistemi di registrazione vocale digitale che aprivano la strada alla gestione automatizzata della cartella clinica, mentre per i laboratori di analisi era già applicato l’interfacciamento della strumentazione che trasmetteva i risultati delle analisi attraverso la porta seriale RS232.

Schema a blocchi della archietttura innovativa con il cittadino e le reti in cloud (Roberto Savini)

Se guardo a quei problemi con gli occhi di oggi e vedo che nella gestione delle cartelle cliniche non si è fatto ancora quasi nulla, mi viene da confermare un concetto che ci era chiaro anche allora. Nella gestione dei flussi informativi, il collo di bottiglia non è mai di tipo tecnico, ma riguarda le persone e la organizzazione del processo. Me ne resi conto quando, per alcuni grandi clienti mi capitò di occuparmi di formazione sulla Office Automation. I programmi di allora facevano già molto di più di quanto non venisse richiesto ed erano assolutamente sottoutilizzati dal personale.

Oggi, ogni volta che accedo ad un ambulatorio per una visita specialistica resto stupito del cattivo uso che i medici fanno del PC. Spesso, anche nei grandi ospedali, ci sono segmenti non in rete e ci sono banche dati costantemente disallineate. C’è ancora un sacco di informazione di anamnesi o di terapia che viene digitata a mano (anziché essere disponibile e condivisa on line) con grandi perdite di tempo e rischio molto alto di errore. Così il 60% del tempo della visita è dedicato alla produzione semimanuale del referto (che alla fine non viene riletto con attenzione e contiene spesso errori materiali di registrazione).

Quello della progettazione era un lavoro interessante dal punto di vista concettuale perché bisognava riempire una scatola nera (l’architettura del software) a partire dai dati di input e di output (determinati dalla normativa e dalla organizzazione del cliente) e inoltre si trattava di ottimizzare lo stesso input per evitare ridondanze, ottimizzare le risorse e semplificare i protocolli di raccolta dei dati. Alla fine definite le caratteristiche funzionali del software si disegnava la archiettura hardware (numero e potenza dei mini, tipologia di rete, numero e tipologia delle stazioni di lavoro).

Ho imparato l’importanza della organizzazione e che una organizzazione deve avere a cuore il benessere dei suoi collaboratori ma, contemporaneamente, deve riuscire a funzionare in maniera indipendente dagli stessi. Ciò significa dedicare del tempo e delle risorse adeguate alla documentazione di quanto si fa, perchè le persone passano ma, se la documentazione rimane, l’organizzazione continua a funzionare.

Questo aspetto era pressoché sconosciuto nella scuola con la figura del professore monade, padrone della classe, dopo la chiusura della porta. In tanti anni di scuola ho sperimentato la difficoltà a far accettare un  minimo di standardizzazione per quanto riguarda i contenuti dell’insegnamento, gli obiettivi in uscita e gli strumenti di valutazione nell’ambito di una medesima istituzione scolastica. Me ne resi conto pesantemente, anni dopo, quando passai a fare il Dirigente Scolastico e cercai di introdurre qualche elemento di teoria della organizzazione. Ci sarà modo di riprendere l’argomento.

le cose che non ho imparato perché non le condivido

Nel rapporto con i clienti bisogna saper barare o meglio bisogna saperli tranquillizzare. Il settore dei servizi informatici, salvo che non si abbia a disposizione una nicchia di mercato in condizione di monopolio, è un settore a rapido sviluppo e client oriented.

Il cliente vuole per domani ciò che non esiste e tu devi rassicurarlo facendogli credere che quello che vuole esiste già e domani sarà visibile e presto utilizzabile.

Tu lo sai che con realismo, cioè non oggi ma domani, la cosa si potrà fare, ma l’altro vuole sentirsi dire che è già pronta. Non devi contare una balla, devi fare quello che il catechismo della chiesa cattolica chiamava peccato per omissione e la Chiesa lo colloca tra i peccati veniali.

Questo è un modo di lavorare che ho sempre fatto fatica a praticare mentre è quello che fanno di mestiere i funzionari commerciali, che non mi sono mai piaciuti perché si tratta di esperti in promesse al vento . Superficiali sino al midollo, usano le parole per sentito dire in maniera indipendente dal significato. Una volta uno dei nostri commerciali, a cui avevo consegnato un software già funzionante, mi chiese “sì, ma quando lo implementiamo“. Diceva implementare, ma non sapeva cosa significasse.

Il settore dei servizi informatici, e il terziario avanzato in genere, erano in grande espansione e di conseguenza era molto alta la mobilità del personale; la gente, giustamente puntava a fare carriera e a fare nuove esperienze professionali. Dunque c’era costantemente il problema di come tenere i migliori e disfarsi dei peggiori senza interventi autoritativi. Si usavano gli incentivi di natura economica e quelli bravi sapevano come fare per ottenere aumenti di stipendio; si andava a presentare le dimissioni e poi si trattava. Ma Oskian, in questo campo, conosceva le astuzie e i mercanteggiamenti di quel mondo medio orientale da cui proveniva.

Comunque alcune dimissioni di persone vicine o che avevo personalmente portato in azienda mi hanno ferito anche perché, per via dei maledetti ruoli che ricoprivo, la gente mi vedeva come una emanazione del capo e dunque mi teneva all’oscuro. In quegli anni a Milano esplose l’AIDS tra gli eroinomani e, nel giro di alcuni mesi, morirono due dei nostri fattorini. Dapprima un po’ di assenteismo, poi il tenere nascosta la malattia raccontando le balle più colossali, il dimagrimento, e alla fine la morte.

le cose che non hanno funzionato

Quando sono andato alla SISDO pensavo di riaprire con Oskian un rapporto che si era interrotto anni prima ma, per dirla con il linguaggio un po’ crudo del marxismo, i rapporti economici e quelli di produzione trasformano e condizionano i rapporti tra le persone: se sei un imprenditore sei orientato al profitto, perché è il profitto che ti consente di fare qualsiasi altra cosa incluso lo sviluppo delle risorse umane o il benessere aziendale.

Oskian era diventato un imprenditore ed io ero rimasto il figlio di mio padre, quello che non aveva saputo gestire la sua azienda. Le dinamiche erano quelle: sul piano personale ero disposto a dare anche l’anima per la SISDO purché non mi si chiedesse di dire o di fare cose che si scontravano con i miei principi dell’etica pubblica.

I resti di un antico villaggio Anasazi

Lui era molto generoso e, nel 91, in occasione del perfezionarsi di una grande commessa per la quale avevo dato una grossa mano, mi offrì un viaggio chiavi in mano negli Stati Uniti per me e per Bruna.

Lo barattai con l’equivalente in danaro e me lo organizzai alla CLUP (l’agenzia di viaggi nata dal movimento del Politecnico) in maniera di portarci anche nostra figlia Daniela: voli, alberghi e rent a car, prenotati dal’Italia e, appena possibile, fuori dalle città usando i motel.

Siamo stati via due settimane, prima New York e poi San Francisco e gli stati dell’ovest: California, New Mexico, Utah, Arizona; i parchi naturali, i deserti, il gran Canyon, la valle della Morte, la Monument Valley, la foresta pietrificata, l’America quasi disabitata, le riserve Navajo e Hopi, gli Anasazi. Sul ritorno abbiamo anche fatto tappa a Vienna.

La scelta di andarmene dalla SISDO fu innescata da una tipica questione in cui mi veniva chiesto di ragionare da imprenditore mentre io ero un dipendente. C’era un ritardo nella realizzazione di una commessa e il ritardo dipendeva da questioni nostre, ma era conveniente far vedere che il ritardo fosse  dovuto a difficoltà organizzative del cliente. Dopo l’ennesima discussione con Oskian non me la sono sentita di contare balle e ho presentato di getto le dimissioni scritte con questa frase di accompagnamento: preferisco cambiare lavoro puttosto che incrinare il rapporto con te.

In trasparenza intravvedevo anche i rapporti di sovrapposizione tra economia e politica che emersero ai tempi di mani pulite. Ho personalmente gestito la fornitura e l’avviamento del programma di gestione di farmacia al Pio Albergo Trivulzio (quello di Mario Chiesa) ma di tangenti nemmeno l’ombra. C’era la spartizione delle commesse pubbliche in ambito regionale con il coinvolgimento di pezzi del gruppo dirigente del PCI milanese e della Lega delle Cooperative (e la SISDO operava dentro la Lega). Alla Lega c’era un vecchio amico dei primi tempi del movimento di Matematica, Sergio Soave presidente regionale, potentissimo e rimasto pesantemente coinvolto dalle inchieste di Di Pietro.

Condividevo le scelte politiche dei miglioristi milanesi da Vicky Festa, a Piero Borghini, a Corbani, a Cervetti ma vedevo anche la presenza di una zona grigia. Così non solo me ne andai dalla SISDO, ma evitai anche di aderire al PDS dove si era scatenata una pesante lotta di potere spacciata per rinnovamento. I duri e puri dalle mani pulite, guidati da Barbara Pollastrini, non mi convincevano proprio, anzi non mi convincono mai sia perché non sono puri, sia perché non sono flessibili.


La pagina con l’indice della mia autobiografia da cui potete scegliere i capitoli da leggere


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