1977-1991: con il PCI fino allo scioglimento

III edizione – giugno 2024

la prima pagina di Rinascita che annuncia gli articoli sul Compromesso Storico

Come ho raccontato nel capitolo 12 il mio rapporto con il partito comunista viene da lontano ed inizia nel 1966 quando ero un cattolico inquieto che guardava a sinistra.

Ero uscito dalla Federazione giovanile socialista insieme a quei lombardiani di sinistra che formarono il Movimento Socialista Autonomo (MAS) guidato da Tullia Carettoni e mi guardavo intorno.

E fu guardandomi intorno che incominciai a leggere Rinascita, il settimanale politico-culturale del PCI. Prima la comperavo in edicola e poi, per ragioni di convenienza economica mi ci abbonai. Sono diventato prima di sinistra e poi marxista e non viceversa come mi capitò di vedere in molti estremisti del 68/70 che, proprio per quello, più che compagni, diventavano esperti in ipse dixit, magari citando Stalin, e quello era il massimo.

Rinascita è stato lo strumento che mi ha fatto scoprire la sinistra italiana e che mi ha fatto da scuola-quadri. Non la leggevo tutta (c’era troppa roba) e mi lasciavo guidare dai titoli e dalle aree disciplinari prediligendo quelle più strettamente storico-politiche.

Quando mi abbonai a Rinascita vivevo ancora in famiglia e oltre a Rinascita leggevo Politica, il settimanale della corrente della sinistra Dc La Base, l’Astrolabio (diretto da Parri) e Settegiorni un settimanale della sinistra cattolica diretto da Ruggero Orfei e su cui scriveva quella che sarebbe poi divenuta l’intellighentia laico-socialista, da Bassanini a Girardet, da Covatta a padre Turoldo. Ma Rinascita rimaneva la mia dispensa settimanale per la maturazione politica.

Critica Marxista -aperta a riflessioni a tutto campo – da leggere e studiare

Il PCI mi formava, ma non lo votavo, anche perché non ero maggiorenne e non votavo. Transitai per il PSIUP, per il quale ho votato nel 68, e poi sono iniziati gli anni della sinistra rivoluzionaria. Mi ricordo che i tre articoli di Berlinguer sul compromesso storico (Riflessioni sui fatti del Cile) dell’ottobre 1973 li lessi e li apprezzai prima dell’apertura della querelle sul tema scatenata dal terzo articolo che metteva i piedi nel piatto della situazione italiana parlando per la prima volta del compromesso storico.

Negli ultimi anni della militanza rivoluzionaria si aggiunse lo studio di Critica Marxista; su di essa apprezzavo i contributi di Gerardo Chiaromone e Paolo Bufalini. Il PCI era un luogo strano di elaborazione politica; le svolte le faceva il segretario, ma poi alcuni dirigenti si incaricavano dell’inquadramento teorico (sicuramente i due che ho citato, oltre a Giuseppe Chiarante, Paolo Spriano, Adalberto Minucci e Luciano Gruppi). Ho sempre letto pochissimo l’Unità perché, ironia della sorte, non mi piacciono i quotidiani militanti (inclusi la Repubblica e il Fatto quotidiano).

L’adesione al PCI

i riferimenti politico-culturali

Quando, alla fine del 1976, dopo una riflessione durata qualche mese, di fronte allo sgretolarsi delle organizzazioni della sinistra rivoluzionaria, decisi di non seguire la minoranza di AO che si apprestava ad unirsi alla maggioranza del PDUP, lo feci perché consideravo finita un’epoca e la fine era stata indipendente dalle nostre soggettività, si trattava di una fine oggettiva giudicata in chiave storica. Il periodo della grande ubriacatura era finito.

i 5 volumi dello Spriano nella edizione Einaudi che ho letto e studiato

Avevo ormai digerito i 5 volumi di Paolo Spriano sulla storia del PCI (incluso il dopoguerra) e continuai per qualche mese il lavoro di approfondimento della storia del PCI dal 45 agli anni 70. Dopo aver fatto i conti con le riflessioni di Gramsci sul partito, sul concetto di egemonia e sulla cultura, passai a Togliatti, sia attraverso i suoi scritti, sia attraverso la lettura di saggi  a lui dedicati come quello di Giuseppe Vacca.

Quando nei primi anni 2000 ho ripreso in mano la mia copia delle Note sul Machiavelli di Gramsci e le ho trovate tutte annotate a matita con commenti e riflessioni sulla storia della sinistra rivoluzionaria e sulle sue inadeguatezze (l’intellettuale collettivo, i gruppi dirigenti, l’egemonia, il rapporto tra governanti e governati, i brani famosi sulle casematte e sul ruolo della chiesa cattolica).

non basta pungolare da sinistra

La nostra botta politica era venuta con le elezioni del 76; da esse era emerso in maniera inequivocabile che il problema non era quello di fare la contestazione da sinistra al PCI ma nemmeno quello di pensare di poter fare le mosche cocchiere (cioè la parte sinistra dello schieramento riformatore che avanza idee, critiche e suggestioni nello stile del Manifesto-PDUP).

Non vedevo spazi per altre cose; mi era chiaro allora e mi è chiaro anche oggi, quando dentro e fuori il PD, vedo rinascere continuamente altre mosche che ronzano, svolazzano per un po’ e poi si estinguono dandosi nomi nuovi in cui si declinano parole come sinistra, libertà, uguaglianza, nuovo, comunismo, rifondazione, ecologia.

Le masse popolari di cui ci eravamo riempiti la bocca erano più concrete di noi e quando c’era da votare sceglievano chi desse loro delle garanzie. Semmai il problema era quello di cosa fare per conquistare ad una prospettiva di sinistra, o almeno progressista, la maggioranza del paese, il ventre molle dell’elettorato italiano che pensa spontaneamente a destra e molto spesso ci mette la croce sopra. Me ne sono reso conto trasferendomi in provincia di Siena dove sono in atto significativi spostamenti a destra da parte di fette di elettorato popolare che in passato votava a sinistra, ma lo faceva per pure questioni di interesse mentre conservava una concezione del mondo e della vita di tipo reazionario sui temi legati alla socialità, ai diritti, al diverso.

Tra la passione per l’insegnamento, lo studio della scienza e le conclusioni sulle mosche cocchiere, avevo deciso di rinunciare alla proposta di rimettermi a fare il giornalista per aprire una grande redazione milanese del Manifesto. A rendermi indisponibile verso il gruppo del Manifesto pesò anche il netto dissenso nel giudizio da dare sullo sviluppo scientifico, delle ricerche nella fisica delle alte energie e sul nucleare. La linea la dava Marcello Cini e io non condividevo quasi nulla di quello che scriveva ma non avevo nessuna voglia di mettermi a discuterne.

Il distacco dai compagni che erano andati a lavorare al Manifesto, e in particolare dal mio prediletto Gigi Sullo, fu particolarmente doloroso e con Gigi ci fu uno scambio di lettere che però non attenuarono il dolore reciproco.

nel PCI dal basso

Così nel febbraio del 77 feci domanda di iscrizione al PCI, alla sezione Triante di Monza (quella vicina al liceo dove insegnavo). Meraviglia delle meraviglie, per via dei miei trascorsi, mi fecero scrivere una biografia politica e motivare per iscritto la richiesta di iscrizione, anche se, chi mi presentava (il professor Gianfranco Petrillo) mi conosceva benissimo. Data la mia formazione leninista la cosa non mi dispiacque (era un segno di serietà), ma poi mi lasciarono interdetto due cose.

Ci misero più di due mesi a decidere: la domanda andò in federazione a Milano nelle mani della CCC (commissione centrale di controllo) e non so dire se passò anche da Roma, probabilmente sì, visto il tempo che ci misero. Ho ritrovato la descrizione di quel mondo leggendo i gialli scritti da un dirigente di allora, Vicky Festa, che descrive il mondo della federazione di Milano e che ha come protagonista proprio il presidente della CCC.

Casi simili al mio, ex dirigenti rivoluzionari che non scelsero di entrare dalla base ma contrattarono l’ingresso con i vertici, furono trattati diversamente (con celerità e con tutti gli onori) e questa disparità di trattamento mi diede decisamente fastidio.

Dopo di allora, in occasione delle elezioni, ho visto molti casi di effetto meteora: ingressi in pompa magna e successivi mutamenti di schieramento: è successo nel PCI, nel PDS, nei DS e continua con il PD.

Anni dopo venne fuori un terzo elemento che vissi con viva soddisfazione: chi mi aveva esaminato venne coinvolto pesantemente dallo scandalo di mani pulite (filone IPAB), per la serie descritta dal proverbio brianzolo secondo cui quel puseè san al ga la rogna (quello più sano ha la rogna).

la autonomia e il terrorismo

Pochi giorni dopo gli scontri alla Sapienza culminati nella contestazione a Luciano Lama, alla sezione di Triante, discutemmo della situazione politica in evoluzione ed espressi una forte preoccupazione per quanto stava accadendo e di cui avevo, in piccolo, la percezione anche al liceo. Se continua così, ne vedremo delle belle, dissi.

Mi sembrava che la situazione si stesse incarognendo. La crisi delle formazioni della sinistra rivoluzionaria avveniva in contemporanea alla crescita di un movimento (quello del 77) in cui dominavano slogan infantili, la violenza e la linea del tutto e subìto. I compagni di DP facevano dei sottili distingiuo ma ne erano sommersi e lo erano per le stesse ragioni su cui non era stata fatta chiarezza nei giorni della rottura di AO: la democrazia senza se senza ma, le istituzioni democratiche senza se e senza ma.

Poi ci fu il rapimento Moro e mi fece male, molto male, vedere i miei ex compagni di Democrazia Proletaria sostenere che non bisognava stare in maniera ferma dalla parte dello stato democratico: nè con lo stato nè con le BR. Mi ricordavano i socialisti che nel 1915 coniarono lo slogan nè aderire nè sabotare, ma questa volta in peggio.

Sulla questione della trattativa per il sequestro Moro ero razionalmente d’accordo con la linea della fermezza, ma anche seriamente disorientato per quello che si stava facendo o non  facendo e soprattutto mi davano fastidio le posizioni che passavano sulla testa e sul corpo di Moro paventando addirittura che scrivesse sotto l’effetto delle droghe.

La linea berlingueriana attenta alle problematiche della austerità e della moralità la condividevo, ma mi rendevo conto di quanto fosse necessario uno sblocco della situazione politica e della insufficienza della linea della solidarietà nazionale. Si stava rischiando di sprecare, e fu così, il grande consenso delle elezioni del 76 che richiedeva un cambiamento di rotta nella direzione dell’Italia. Penso che le cose, se non fosse stato rapito Aldo Moro sarebbero andate diversamente.

impegno politico a Monza e nel mio paesello

Il mio modo di far politica, in quegli anni, cambiò in maniera radicale; basta politica diretta e invece azione di supporto ad ogni attività di tipo educativo e culturale che facesse crescere la razionalità e mantenni questo spirito per tutta la prima metà degli anni 80.

Il PCI monzese era storicamente una succursale della Federazione di Milano in cui venivano mandati a fare da segretario cittadino e segretario di zona funzionari milanesi che, quando incominciavano a capirci qualcosa, venivano spostati ad altro incarico. In occasione di un congresso di zona diedi una mano all’amico Giuseppe Meroni (incaricato di preparare il documento sulla cultura) a stendere un documento in cui, per cultura, si intendeva cultura politica e dunque si parlava di Brianza e delle sue storiche differenze da Milano, della necessità di costituire una federazione Monzese e di scegliere la strada della costruzione di una provincia della Brianza separata da Milano. Per le culture politiche di allora fu uno scandalo e non finì bene. Il documento di Meroni venne cassato e ne ebbe una conseguenza negativa il suo posizionamento nel partito.

Ad un certo punto mi sembrò opportuno spostare la mia iscrizione da Monza a Villasanta per dare una mano nel paese in cui vivevo ed ero nato e mi dedicai al giornale locale Progresso e Partecipazione poi trasformatosi ne Il Punto. Il giornale era stato inventato da Giuseppe Meroni e, con il mio arrivo a Villasanta, era naturale che me ne occupassi per via dei trascorsi giuornalistici. Volevamo che non fosse un organo di propaganda politica ma uno strumento di informazione locale orientato in senso progressista che raccontasse il paese e le sue trasformazioni e per questo erano importanti la necessità di uscire con regolarità e la scelta drastica di non fare il solito bollettino parrocchiale.

E’ stata una esperienza interessante perché per ogni numero si facevano tre o quattro riunioni di redazione; si faceva un po’ di pratica giornalistica vera prendendo spunto dalla necessità di parlare di Villasanta; gli articoli più importanti venivano discussi prima e dopo. C’erano Franco Radaelli (Bollo), Ernesto Ornaghi, Gabriella Delfino, Claudio Zana, Franco Ornaghi, Pino Locati. Ho lasciato la direzione quando sono stato eletto consigliere comunale per il “PCI lista aperta” perché ritenevo che ci fosse incompatibilità tra dirigere un giornale aperto ed essere consigliere comunale espressione di una parte.

dalla I alla II repubblica, dal PCI al PDS a … ???

la terza via e l’eurocomunismo

Il progetto eurocomunista di Berlinguer si arenò per mancanza di coraggio verso le questioni di collocazione internazionale e per mancanza di interlocutori e, fallito quello, sarebbe stato necessario fare i conti non solo con la democrazia occidentale, ma anche con il tema di un progetto di progresso e riforma sociale dentro il quadro capitalistico. Erano finite le disquisizioni sulla via italiana al socialismo, inventate per far coesistere la fede nell’URSS con l’essere il più grande partito comunista dell’Occidente, e si trattava di parlare di socialdemocrazia e di ripensare la storia del movimento operaio del primo novecento.

Non affronto la riflessione sul progetto di rinnovamento-competizione a sinistra da parte del Psi iniziato da Craxi per costruire l’autonomia socialista e dotarla di gambe per sopravvivere. Sul piano culturale, quel proigetto, era molto avanzato. Berlinguer morì nel 1984 e la necessità di smarcarsi preventivamente dal mondo comunista che affondava avrebbe richiesto di sanare preventivamente la rottura iniziata a Livorno nel 1921.

Invece il PCI, alle prese con la necessità di costruire un nuovo gruppo dirigente, rimase immobile e tale ritardo significò aprire le ostilità tra i partiti della sinistra e farsi sommergere impotenti dalla caduta del muro e dalla fine della Unione Sovietica. Il crollo dei regimi dell’est e poi dell’Unione Sovietica segnarono la fine del comunismo inteso come esperienza storica ed è inutile rivoltare la frittata dicendo sì, però l’ideale rimane. Secondo me il PCI si mosse in ritardo e l’antagonismo concorrenziale con il PSI fece il resto.

e poi venne giù il castello comunista

Nel momento del crollo del comunismo, alla casa del Popolo di Villasanta, si fece una bella serata di discussione. Comparvero persone che non si vedevano da una vita; parlarono persone che non parlavano mai. Erano disperate per la fine di un progetto a cui avevano dato tutto.

Volli essere ottimista mettendola sul fatto che la fine della competizione anche militare tra quei due mondi avrebbe messo in campo nuove risorse ed energie per l’umanità. Tutto quello che si spendeva in armamenti sarebbe andato in aiuti ed investimenti all’interno e per il terzo mondo. Ci credevo davvero, ma non è andata esattamente così su scala mondiale perché, come si è visto, Gorbaciov, molto popolare in Occidente, non lo era altrettanto in patria.

La Russia ha dapprima incassato il crollo dell’Unione Sovietica e poi ha ricominciato una politica sui confini occidentali che sogna la ricostituzione del vecchio impero zarista, poi staliniano-brezneviano e ora putiniano. Non è rimasto nulla di quello in cui avevo sperato: l’uomo nuovo educato alla razionalità scientifica e alla materialità della vita.

Non solo non è scomparsa la religione ortodossa che, come dice il nome, è in perenne ritardo culturale rispetto alla Chiesa romana, anzi la Chiesa ortodossa è diventata una delle stampelle importanti nel sistema di potere putiniano sempre pronta a giustificare le peggiori efferatezze.

La Russia si è rivelata un paese in perenne ritardo sui processi di rinnovamento sociale, tecnologico e culturale, sempre alle prese con le tematiche delle nazionalità, con i problemi del Caucaso che, ai vecchi tempi erano stati risolti con il tallone di ferro, mentre ora esplodono a macchia di leopardo.

E’ rimasto in piedi un paese che campa sulla enorme estensione del territorio e sulla ricchezza di materie prime con un sistema di gestione del potere basato sulla alleanza tra i nuovi capitalisti che hanno fatto i soldi all’ombra di Putin e il colosso militare che influenza la economia e fa da collante ideologico (il mito della grande Russia e della grande guerra patriottica).

in Italia dopo l’89

Intanto in Italia invece di puntare ad unico partito progressista in cui si incontrassero la moralità e l’organizzazione del PCI con l’innovazione del PSI si giocò la carta della reciproca distruzione e così ci ritrovammo Di Pietro e Berlusconi, poi Grillo e Salvini e infine Giorgia Meloni. Come diceva Nenni, troverai sempre uno più puro di te che prima o poi ti epura.

Non ho aderito alle diverse forme di organizzazione assunte dagli eredi del Pci essenzialmente perché ne ho visto un insufficiente coraggio nel rinnovarsi e incapacità di affrontare il superamento della storia del comunismo (PDS prima e DS poi). Nei primi anni 90 ci fu anche un brutto incidente politico mentre ero capogruppo in Consiglio Comunale. Lavorai per un anno in accordo con il gruppo, per dar vita ad un unico gruppo consiliare riformista che unisse gli 8 del PCI-lista aperta e i 6 del PSI per spezzare gli equilibri politici villasantesi (1 repubblicano, 1 socialdemocratico e 14 democristiani). All’ultimo momento la maggioranza del gruppo PCI cambiò idea. Credo che ci sia stato un intervento dall’alto e fu la rottura.

La II repubblica non ha rinnovato nulla e riprodotto la corruzione. Ho sperato nel partito democratico prima maniera, poi vista la deriva vecchio stile ho creduto nella speranza di rinnovare l’Italia ponendo mano alla II parte della costituzione. Ma pare che in Italia i riformisti, si tratti di istituzioni o di politiche sociali non godono di buona stampa e io osservo il tutto con amarezza e delusione.

Ci sarebbe molto da dire e da scrivere ma questo capitolo riguarda il periodo dal 77 al 91. Cisarà tempo e modo, più avanti di gettare uno sguardo sull’oggi. Come ha scritto Armando Pioltelli, che non è più tra noi, a commento della II edizione “Oggi è peggio di ieri votano chi promette, e vincono gli ubbidienti e non i capaci. E’ per questo che abbiamo una classe politica molto scarsa. Ho conosciuto giganti con la quinta elementare mentre oggi non vedo più giganti ma il loro opposto”.


La pagina con l’indice della mia autobiografia da cui potete scegliere i capitoli da leggere


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esami e commissari inadatti

Una studentessa di Venezia fa scena muta alla Maturità. Le cronache dicono che sia una ragazza molto preparata, promessa dell’Atletica Leggera italiana, già ammessa a un’Università americana con borsa di studio per meriti sportivi.

Due sue compagne di classe si sono unite alla protesta di non parlare all’esame. Nessuna di loro rischia la bocciatura perché sono ragazze di buon livello scolastico che hanno già totalizzato sufficienti crediti per la promozione. Le ragazze protestano contro il trattamento offensivo della Commissaria di Greco che pare abbia valutato le prove scritte con criteri inaccettabili.

Le notizie giornalistiche parlano di probabili conflitti fra la docente e la Commissione, motivati anche da precedenti comportamenti conflittuali della stessa insegnante chiamata anni fa alla Maturità nella stessa scuola. Piccole faide sulla pelle degli studenti…

Sono notizie frammentarie che impediscono di prendere una posizione. Però l’episodio è un’occasione per la scuola (…del Merito?) per riflettere sui casi di insegnanti “inadatti all’insegnamento”. E’ un segreto di Pulcinella, noto a tutti gli insegnanti, che esiste una piccola percentuale di colleghi “problematici”.

Dietro a questa parola innocua si nascondono situazioni di incapacità professionale, di vera e propria ignoranza nella materia insegnata, di comportamenti inaccettabili con studenti e colleghi… Tutti gli insegnanti conoscono almeno un/a collega “problematico/a” per varie motivazioni: mancanza di equilibrio psicologico, problemi di depressione, aggressività, frustrazioni professionali o famigliari, menefreghismo, fancazzismo…

Si tratta di piccole percentuali di insegnanti, ma in un sistema rigido basta un granello di polvere… Sono problemi presenti in tutti gli ambienti di lavoro, ma la scuola ha alcune specificità che li amplificano e rendono drammatiche situazioni altrove risolvibili. Perché? Insegnare significa recitare in classe di fronte a un pubblico ipercritico costituito da decine di adolescenti. Ognuno di loro è “problematico” per vari motivi e ha tanta voglia di misurare sé stesso/a tramite il confronto competitivo con l’insegnante-adulto/a.

E’ una piccola bomba a orologeria che ogni insegnante deve disinnescare tutte le mattine. Purtroppo gli insegnanti non hanno frequentato né l’Accademia di Arte Drammatica né la scuola militare per Artificieri Disinnescatori… In questa situazione è difficilissimo mantenere sempre un equilibrio professionale inevitabilmente contaminato con forti relazioni personali, spesso conflittuali, fra ruoli diversi. Gli insegnanti più deboli cedono.

Alcuni di loro attivano comportamenti pseudo-adolescenziali (gli “amiconi” degli studenti). Altri reagiscono con aggressività di fronte alla continua messa in discussione del proprio ruolo. Altri ancora si rifugiano in una presunta professionalità asettica priva di qualsiasi risvolto umano. Ognuno reagisce a suo modo e gli studenti imparano a comportarsi in modo diverso con ogni singolo insegnante (molti ragazzi meriterebbero la Laurea in Psicologia honoris-causa!).

In qualche caso questo disagio del/la docente esplode in comportamenti inaccettabili, ma la scuola non ha strumenti per combattere contro queste patologie professionali. Il “posto fisso”, da diritto del lavoratore si trasforma in privilegio statico ai danni dell’utenza, sostenuto da rigidità sindacali che nulla hanno a che vedere con i diritti sociali.

Non solo in Italia è praticamente impossibile licenziare un insegnante incapace, ma di fatto non è neanche possibile attribuirgli una valutazione professionale. I sindacati si sono sempre opporti a qualsiasi forma di valutazione dei docenti perché “divide i lavoratori”.

Forse non conoscono la scuola francese, con gli insegnanti ipervalutati e soggetti a notevoli differenziazioni salariali. Quando scioperano, gli insegnanti francesi sono estremamente uniti e fanno tremare il loro Governo. In Italia, invece, qualcuno ricorda quando c’è stato l’ultimo sciopero della scuola che ha coinvolto più del 10% degli insegnanti?

La realtà è che il nostro finto egualitarismo è la peggiore forma di differenziazione e divisione interna del corpo docente. Quando lo capirà anche il sindacato? Come fanno a liberarsi dai docenti “inadatti” i tantissimi docenti e Presidi che tengono molto alla formazione degli studenti?

Il metodo più usato per liberarsi di questi pochi docenti-zavorra ha un nome: si chiama mobbing. E’ una pratica illegale, ma è l’unica efficace per isolare questi docenti, a volte semplicemente fancazzisti, e convincerli a cambiare scuola. Si può pensare che questa “mobilità da mobbing” sia un inutile processo a somma zero che lascia invariata la percentuale di inadatti nelle singole scuole (…ne mando via uno e me ne arriva un altro mandato via dall’altra scuola!).

In realtà è un processo a direzionalità privilegiate, con maggiori spostamenti dai Licei verso i Professionali che viceversa. Il motivo è che nei Licei l’utenza è molto attenta alla Formazione degli studenti e ha strumenti di moral-suasion per “invitare” i docenti-zavorra ad alzare il culetto e sparire.

Invece nei Professionali l’utenza è più attenta alla Certificazione, sia per esigenze materiali sia per debolezza culturale che limita le capacità critico-valutative. Per queste ragioni in queste scuole è più raro il caso in cui l’utenza si organizza in forme di protesta collettiva simili a quelle messe in atto dai genitori e dagli studenti dei Licei.

Il risultato sotto gli occhi di tutti (almeno quella parte dei tutti che ha gli occhi e che li tiene aperti) è una concentrazione maggiore di docenti “inadatti” negli Istituti Professionali, mentre nei Licei è più raro che questi casi necrotizzino in patologie di lunga durata.

Anche questa è una prova che il nostro finto egualitarismo non solo non difende la categoria degli insegnanti, ma è anche motivo di negazione del diritto all’istruzione per le classi sociali più svantaggiate.
Non ho dubbi che in Italia esista un’enorme esigenza di avere un serio Ministero del Merito. Ho però forti dubbi che quello che abbiamo sappia assolvere questo compito egualitario.




Ilaria Salis, le case occupate e la destra becera

Ilaria Salis non mi è particolarmente simpatica perché fa scelte che non condivido. Pensa che antifascismo significhi menare i nazisti e che occupare case possa garantire il diritto a un’abitazione.

Però difendo la Salis quando viene trattata in modo indegno dalla pseudo-giustizia di Orban. Inoltre difendo il suo diritto alla libertà in quanto rappresentante di migliaia di elettori che condividono le sue posizioni.

Adesso vedo giornali e politici reazionari che vogliono che lei paghi 90.000 euro di affitto all’ALER perché un giorno di 10 anni fa è stata trovata all’interno di una casa occupata (ipotesi: 9.000 euro di mancato affitto all’anno). La richiesta di questi reazionari ha una sua logica che però loro stessi tradiscono non chiedendo la stessa pena pecuniaria per le decine di migliaia di occupanti abusivi di altrettante case popolari (ma questi reazionari sono gli stessi che parlavano sempre di “fumus persecutionis“?).

Di fronte a questa richiesta (che è arrivata persino dal Consiglio Regionale della Lombardia) la Salis e il partito per cui è stata eletta rispondono nel modo peggiore: rivendicano il diritto a lottare per la casa. E’ esattamente la risposta che desideravano i reazionari che la accusano. Ora possono scatenare un “dibattito” per dividere gli onesti (di destra) che pagano l’affitto e i disonesti (di sinistra) che non lo pagano.

Se io fossi un reazionario ringrazierei Fratoianni e C. per avere fatto quello che desideravo con ansia.
Se invece questi politici di sinistra avessero un minimo di intelligenza politica sceglierebbero un’altra strada.

Io al loro posto direi: “Cari accusatori, se un giorno di 10 anni fa la Salis è stata identificata in una casa occupata e poi nessuno si è mai più curato di vedere se l’occupazione continuava, significa che l’ALER ha abbandonato per 10 anni una casa che spettava a famiglie di lavoratori che ne avevano diritto. Questa è una grave colpa dell’ALER, non certamente della signora Salis che agli atti risulta essere stata in quella casa un solo giorno, quello dell’identificazione. Dato che non esiste alcuna documentazione che provi l’occupazione per altre giornate, occorre chiederle l’affitto di un solo giorno, senza però gli interessi maturati in 10 anni in quanto tale affitto non è mai stato chiesto prima (altra colpa dell’ALER)

Questa sarebbe la linea di difesa di qualunque garantista, in quanto nessun cittadino può essere accusato di colpe non dimostrate. Questa difesa sarebbe molto più politica della rivendicazione del “diritto a lottare per la casa“. Sarebbe molto più politica perché userebbe le armi dell’accusatore (paladino del garantismo) per accusare l’accusatore di mancanza di garantismo.

In generale credo che nei conflitti non si debba usare la propria logica, utile solo a ingigantire il conflitto, ma la logica dell’avversario per ritorcergli contro le sue stesse ragioni. Sarò un po’ vecchio stampo, ma per me questa si chiama Politica.




1977-1987: il Frisi, la scienza e la sua filosofia

III edizione – giugno 2024

Il mio primo ingresso al Liceo Scientifico Frisi di Monza fu alla fine di gennaio del 1977, nell’ultimo giorno utile per essere pagato d’estate. Visti i ritardi nelle nomine per i nuovi incarichi di insegnamento, avevo deciso di incominciare a muovermi autonomamente alla ricerca almeno di una supplenza.

Dopo aver lasciato il quotidiano ero a casa a non far nulla da oltre tre mesi perché il provveditorato di Milano ritardava le nomine. Le fece poi a maggio rendendole valide, per il 76/77, solo dal punto di vista giuridico. Telefonavi, andavi in Provveditorato e ti sentivi preso in giro: domani, dopodomani, non sappiamo, …A inizio ottobre avevo rifiutato una proposta di supplenza annuale al Liceo Scientifico di Melzo giuntami da una compagna di università che faceva la Preside incaricata e chi mi sapeva in attesa di impiego. Avevo rifiutato nella illusione di una imminente chiamata ufficiale perché quando inizio un lavoro mi piace finirlo.

Pace, la Battistina e Santanbrogio

In quei mesi, da brianzolo doc, mi sentii molto a disagio nel rimanere a casa non far nulla e mi resi conto di come la condizione di disoccupato corrompesse l’anima; di come il lavoro, con le sue scadenze, i suoi ritmi e i suoi doveri, fosse importante nell’equilibrio psico-fisico di una persona. Forse questa è una delle ragioni per cui, quando vedo in televisione i nostalgici del reddito di cittadinanza sognare di vivere nel limbo per tutta la vita mi vengono le convulsuioni.

Al Frisi fui ricevuto dal professor Pace nell’atrio davanti alla segreteria dove stava il tavolo di comando della Battistina (la capobidella). Pace faceva il vicepreside, ma non voleva sentir parlare di esoneri dall’insegnamento. Lo faceva e basta, come servizio alla comunità. C’era l’intervallo e mi fece impressione una cosa cui non ero abituato dopo l’esperienza di qualche anno prima all’ITIS di Sesto. Suonò la campana di fine intervallo e vidi gli studenti che, da soli, risalivano le rampe di scale e rientravano nelle classi. Per me era una cosa incredibile.

Due parole sulla Battistina. Credo che, dal punto di vista normativo e di inquadramento il capo-bidello non esistesse, ma si trattava di una funzione importante per il Frisi. Chiunque entrasse, dopo essere passato al controllo del custode Santanbrogio, saliva al primo piano e veniva accolto dalla efficientissima Battistina: fogli volanti, telefonate interne e tutto girava come un meccanismo ben oliato.

Alla sua sinistra c’era l’atrio del primo piano, di fronte la sala professori e, alla sua destra, la segreteria, la vicepresidenza e la presidenza. E già che parliamo di bidelli non si può tacere del custode. Era il padrone della scuola fuori dagli orari canonici, voce roca e potente, conosceva uno per uno tutti gli studenti e abitava in un mini appartamento di fronte alla guardiola del centralino, insieme ad una numerosa famiglia.

Curava la bellezza degli spazi esterni, i fiori e la sicurezza notturna con un paio di canilupo che presidiavano il territorio negli orari di chiusura. Erano due personaggi amati e rispettati da tutti: studenti, professori e restante personale. Se si vuole che una scuola sia in ordine è un bene prevedere un custode che ci abiti e che la senta come casa sua.

il Frisi del Preside Tedesco

Il Preside Tedesco in una delle espressioni esortative e dialogiche che lo contraddistinguevano

Dopo essere stato vagliato da Pace ebbi modo di conoscere il preside, il professor Alfonso Tedesco, un signore dai capelli grigi e dal viso rosso, distinto e pacato, professore di Italiano e Latino.

Tedesco era imparentato con la nobil famiglia dei Galbiati. Aveva sposato Felicetta, preside di scuola media, sorella maggiore di Enrica Galbiati, che allora insegnava lì nel corso B matematica e fisica. Era di origini emiliane, ma stava a Monza da una vita e, prima di fare il Preside, aveva insegnato allo Zucchi Italiano e Latino. Tedesco, con la collaborazione di Carlina Mariani, dirigeva l’UCIM (unione cattolica italiana insegnanti medi).

L’establishment reazionario monzese considerava Tedesco un debole perchè era di idee cattolico democratiche e dialogava con gli studenti. Alla distanza il suo ruolo è stato riconosciuto e l’aula magna del Frisi, grazie ad un comitato di cui ho fatto parte anche io, è stata intitolata al suo nome.

Nel primo incontro mi spiegò che dovevo sostituire la professoressa Lina Saini (che era alla quarta o quinta gravidanza), nel triennio del corso C e dunque avrei avuto Pace come collega oltre alla professoressa Canzi-Amirante di lettere. Non avevo mai visto un liceo dall’interno ma, negli anni di università, avevo dato lezioni private a tanti studenti del Frisi e dunque sapevo quasi tutto sul programma tradizionale di matematica che svolgevano: i problemi con discussione secondo il metodo di Tartinville, le disequazioni, il debordante programma di trigonometria e poi, ovviamente, l’analisi matematica.

in classe

Edo Scioscia durante la autogestione del 78

Senza che altri si offendano, ricorderò di quel primo anno quattro studenti: Maria Scognamiglio di terza, una ciellina underground della serie spiriti liberi, Camozzi, leader  del gruppo promotore (insieme ad Alberto Zangrillo, il futuro medico di Berlusconi, oggi primario al San Raffaele).

Il gruppo promotore raggruppava gli studenti di destra (filo Giornale di Montanelli). Poi c’erano in quarta Edo Scioscia leader incontrastato della assemblea, militante del MLS che, uscito dal Frisi avrebbe messo in piedi il Libraccio, e in quinta Adriano Poletti che più tardi averebbe fatto lungamente il sindaco di Agrate Brianza (e che è morto nel 2023).

Nonostante fossi un supplente diedi qualche taglio personale al programma di matematica e fui anche fortunato. Da anni il principale quesito dello scritto di matematica proponeva con una certa regolarità lo studio di funzione formata da una combinazione lineare di seni e coseni. Erano paginate di conti se si usavano metodi i tradizionali per via delle numerose disequazioni trigonometriche da risolvere.

Ma da fisico sapevo (per via della teoria delle onde armoniche) che una combinazione lineare di seni e coseni corrisponde sempre ad una sinusoide traslata. Feci loro la dimostrazione di quel teorema e insegnai a fare lo studio di funzione in un quarto d’ora (senza usare le derivate) invece che in due ore di conti. Alla maturità uscì proprio quello e non si corse il rischio di fraintendimenti perché gli studenti mi avevano voluto come membro interno. Fu un successone per quelli della C.

collegio docenti e gestione del Liceo

immagini di una assemblea durante la autogestione del 78

Ero supplente ma, per via dei trascorsi, non ero di quelli che si nascondono nel sottoscala, e dunque già al secondo Collegio iniziai ad intervenire.

Il Collegio del Frisi era formato da una agguerrita minoranza di docenti difensori della scuola tradizionale (Moretti, Derla, Spelta, Galbiati, Riva, …), da una maggioranza che noi docenti progressisti definivamo la palude e che amava il quieto vivere (il progresso senza avventure di memoria democristiana), da una minoranza di docenti di sinistra, di varia estrazione che si caratterizzavano per la ricerca delle innovazioni e per il dialogo con gli studenti (Russo, Longo, Cedrazzi, Meroni, Colonnetti, Tedesco, Stefanelli…).

Negli anni successivi la nostra pattuglia si rafforzò con l’arrivo di due colleghe di filosofia, colte e vivaci, provenienti dallo Zucchi (Fabbri e dell’Aquila) e della professoressa Mariagrazia Zanaboni (la Monaco, si diceva allora) di lettere.

Il Preside Tedesco, da buon democristiano, si appoggiava sul centro prendendo a prestito qualche idea della sinistra e puntando a smuovere il pachiderma, ma con giudizio.

articolo del Cittadino in ricordo del professor Tedesco

Dopo la fine dell’anno scolastico, ottenni ope legis la stabilizzazione e, poiché ero abilitato, l’incarico a tempo indeterminato mi  aprì immediatamente la strada all’ingresso in ruolo. Ero un prof engagé e dunque, l’anno successivo fui eletto collaboratore del Preside, consigliere di istituto e consigliere di distretto cose che mi impegnarono per un po’ di anni.

Nel 77/78 l’elezione dei collaboratori fu un vero successo. In passato la palude ci offriva, bontà sua, un posto nel listone unico, e a volte nemmeno quello. Proponemmo una lista contrapposta con tanto di programma e l’elezione ci premiò. Sfidammo la palude ad esplicitare il loro programma, ma non andarono oltre la sottolineatura dello spirito di servizio. Non arrivammo primi, ma comunque finì 2 a 2 tra lo sconcerto dei professori più conservatori. La stessa operazione la feci, anno dopo, appena arrivato allo Zucchi (liste separate, programma, esplicitazione del dissenso, …).

In quell’anno ci fu una specie di autogestione concordata, cioè con partecipazione libera dei docenti ad attività di approfondimento miste (autogestite o coordinate da docenti). Tedesco usò a piene mani me e Fiammetta Cedrazzi come ambasciatori del punto di vista degli adulti (fare le cose per bene, organizzarsi, garantire la democrazia, …).

Tra i docenti ci fu una netta spaccatura all’interno della maggioranza anche con qualche momento di tensione e si determinarono numerosi chiarimenti all’interno della palude tra chi partecipò e chi si schierò con la minoranza più conservatrice che aveva adottato la linea del boicottaggio.

intervento durante un collettivo – al mio fianco Edo Scioscia e sullo sfondo Colonnetti (Filosofia) e Claudio Fontana un alunno futuro docente di filosofia

L’autogestione funzionò bene grazie all’impegno di alcuni quadri del Movimento Studentesco che si impegnarono perché restasse il segno. Il clima politico tra gli studenti era variegato: MLS (dominante), FGCI, autonomia operaia, CL, destra (gruppo promotore). Non era ovvio che le cose andassero bene, ma riuscimmo a tenere insieme la maggioranza della scuola nonostante gli strepiti della parte più retriva del corpo docente.

Erano gli anni del sequestro Moro e anche sul fronte studentesco, come nel resto del paese, emergevano spinte centrifughe verso il mondo della autonomia, contiguo al terrorismo. Vista la mia storia precedente mi sentivo un po’ responsabile e dunque l’impegno per la democrazia e la difesa senza se e senza ma delle istituzione democratiche fu esplicito e con un grande coinvolgimento anche emotivo.

una revisione culturale profonda

In quegli anni si discuteva ancora del carattere gentiliano della nostra scuola e della necessità di superare la cosiddetta cultura retorico umanistica di derivazione crociano-gentiliana per puntare ad una scuola in cui ci fosse un mix tra la tecnologia (di cui si vedeva l’inizio di una grande fase espansiva) e il cosiddetto asse storico-critico-scientifico. Erano anni in cui, con riferimento alla scuola, non ci si limitava a discutere di modalità di gestione o di organizzazione ordinamentale, ma ci si appassionava e si entrava nel merito di modelli culturali di insegnamento. Tutte cose che ora sonoo scomparse e al loro posto c’è solo la autonomia malriuscita.

Non tanto per non essere da meno, ma perché ci credevo, iniziai un complesso e profondo lavoro di trasformazione delle mie convinzioni di fondo mettendo al centro dei miei studi tre cose.

lo studio critico delle scienze dure

Mi impegnai nel rivedere e ristudiare la scienza e in particolare la logica, la matematica e la fisica con approfondimenti di tipo universitario su questioni di base su cui non avevo riflettuto a sufficienza negli anni di università. Per poter insegnare bene e ad un certo livello bisognava che avessi le idee molto chiare sui fondamenti.

Per la fisica utilizzavo, per me e per gli studenti più vivaci intellettualmente, L’indagine del mondo fisico di Giuliano Toraldo di Francia (1916-2011), di cui trovate qui la recensione. Si tratta di un testo nato dalle lezioni tenute da Toraldo ad una scuola di specializzazione per filosofi interessati alla scienza presso l’Università di Firenze. Il testo percorre tutta la fisica con un occhio sempre attento alla storia e alle implicazioni conoscitive delle leggi ed è stato il modello a cui mi sono ispirato nello scrivere il mio corso di Fisica.

Nell’insegnare la matematica, sin dalla terza, tenevo presente che il punto di arrivo era l’analisi matematica e dunque c’era una attenzione agli aspetti di natura concettuale e ad una visione in cui la matematica, anche negli esercizi, fosse vista come una cosa dinamica.

la storia della scienza

Non ci può eessere comprensione dei fondamenti della scienza senza conoscere il contesto in cui sono nate e si sono sviluppate le teorie; dunque storia della scienza nei suoi aspetti sia descrittivi sia metodologici appoggiandomi, come riferimento, ai 7 volumi della storia del pensiero filosofico e scientifico di Ludovico Geymonat, ma conducendo poi approfondimenti di tipo monografico su questioni che mi stavano a cuore o che nascevano dalla esperienza di insegnamento (la storia della termodinamica, la evoluzione dello status dei tre principi della dinamica, la storia e il significato del concetto di campo, la nascita e la evoluzione del concetto di energia, …).

In quegli anni, oltre al geymonattone citato era disponibile, da Feltrinelli una bella collana di testi di storia della fisica che presentava in traduzione il meglio della produzione anglosassone (ne trovate un sunto in coda a questo capitolo).

la filosofia della scienza

Al di là della passione emersa negli ultimi anni di università, mi resi conto che ero profondamente ignorante su questioni fondamentali della cultura europea del 900 e in particolare sulla grande rivoluzione dell’emopirismo e del neo-empirismo (detto anche neopositivismo o empirismo logico).

Mi buttai a capofitto nello studio dei principali pensatori leggendone direttamente le opere e senza fidarmi di sunti o manuali: Moritz Schlick, Philip Frank, Hans Reichenbach, Rudolph Carnap, Friedrich Waissman, sir Karl Raymond Popper, Imre Lakatos, Paul Feyerabend, Orman Quine. Girando per librerie e bancarelle mi sono fatto una biblioteca invidiabile delle loro opere; alcuni testi di Reichenbach, in inglese (uno di calcolo delle probabilità e uno sulla freccia del tempo) li ho acquistati nel 91 a New York durante un viaggio negli USA.

Qualche studente della mia quinta M del 77/78 si ricorda, con sconcerto, l’utilizzo di temi su questioni di carattere metodologico per le valutazioni di fisica a partire da una frase criptica di Max Planck, Ludwig Boltzmann o Werner Heisenberg sulle quali veniva richiesto di sviluppare il tema. Naturalmente si trattava di problematiche che erano state sviscerate a lezione. Qualcosa del tipo “anche nella scienza, come nella religione, non si è beati senza la fede; la fede in una realtà esterna a noi” e via di questo passo.

Questo lavoro di riflessione e contatto sui classici è proseguito negli anni, sempre leggendo (per la scienza e per la riflessione metodologica), le opere originali. Mi dedicai a Boltzmann, Maxwell, Planck, Einstein, Heisenberg, Bohr, Poincarè. Anche in questo caso, oltre ai classici della UTET (Maxwell, Ampere, Newton, Laplace, Helmholtz, Kelvin), sulle bancarelle riuscii a recuperare le vecchie edizioni blù della Boringhieri e le precedenti della Einaudi scientifica (1945-1950). I classici della UTET li acquistai a condizioni molto favorevoli da Fiammetta Cedrazzi che, in uno dei suoi traslochi, aveva deciso di disfarsene.

Come scrisse Lakatos e amava ripetere Geymonat “la filosofia della scienza senza la storia della scienza è vuota, la storia della scienza senza la filosofia della scienza è cieca”. Aggiungo che entrambe servono a dare un senso e a comprendere i fondamenti della scienza, senza i quali non c’è conoscenza ma solo nozionismo.

Mi furono di stimolo anche la Enciclopedia Einaudi pubblicata proprio in quegli anni e un libro Einstein scienziato e filosofo facente parte di una collana (Scienziati e filosofi viventi, a cura di Schlipp) di cui in Italiano sono stati pubblicati solo i libri dedicati ad Einstein e Carnap.

I testi di questa collana iniziano tutti con un saggio di taglio autobiografico-scientifico-culturale scritto dall’interessato e, su di esso intervengono i più grandi scienziati e filosofi della scienza dell’epoca.

Alla fine l’interessato chiude rispondendo alle suggestioni e ai rilievi dei suoi critici. Quello su Einstein è un vero capolavoro e, per fortuna, è stato ristampato da Boringhieri.

Un discorso a parte riguarda la collana di Filosofia della Scienza della Feltrinelli curata da Ludovico Geymonat che avevo conosciuto nel 1969 in occasione dell’esame di filosofia della scienza (Ernest Nagel, la struttura della scienza – problemi di logica nella spiegazione scientifica). Di Nagel è disponibile (presso Boringhieri) anche un bel libriccino dedicato al teorema di Gödel, il teorema dedicato alla indecidibilità delle proposizioni rimanendo all’interno di una medesima teoria (si può dimostrare che la matematica sia esente da contraddizioni?).

Ricominciai da quel malloppo di 650 pagine senza più l’ansia di doverci fare sopra l’esame e mi misi alla ricerca degli altri volumi della collana (ne ho una ventina e ne trovate l’elenco alla fine del capitolo). Al Frisi con gli studenti più bravi lavorammo su un testo di Enrico Bellone I modelli e la concezione del mondo nella fisica moderna da Laplace a Bohr e sulla Filosofia dello spazio e del tempo di Hans Reichenbach tutto dedicato alle implicazioni della teoria della relatività nella teoria della conoscenza.

Lo studio critico della scienza mi ha abbastanza trasformato facendomi rivedere e approfondire questioni come la verità, la razionalità, il fallibilismo; ho abbandonato definitivamente l’idea del socialismo scientifico e del marxismo salvandone solo la capacità di leggere e interpretare la storia.

Se ripenso a quegli anni mi viene da sorridere al pensiero che i professori più rozzi e le famiglie monzesi più retrive mi considerassero un pericoloso rivoluzionario comunista. Mi nutrivo della cultura europea e statunitense più avanzata e cercavo di farla apprezzare agli studenti, ma in tutto il mondo il maccartismo è duro a morire e poi, per certa gente, la cultura è una cosa che va presa solo in piccole dosi perché potrebbe fare male.

qualche ricordo frisino

i rientri pomeridiani

Carletto Pozzoli e Dario Giove da ragazzi prima di diventare dei fisici con una bella carriera alle spalle

Fuori della scuola, si fece a casa mia anche un piccolo seminario con tre studenti (Dario Giove, Carletto Pozzoli, Elisabetta Galbiati) che, usciti dal Frisi si iscrissero a Fisica. Leggevamo e discutevamo insieme le Lectures on Physics di Feynman e io cercavo di trasmettere loro il modo giusto di studiare all’università, quello che a me non avevano insegnato.

Per fortuna nella scuola non c’erano tutte quelle forme di sindacalizzazione al ribasso che sono emerse negli anni successivi, quando andai a lavorare nel privato. Così se si faceva qualche ora in più nel pomeriggio la si faceva gratis fermandosi per un panino e una partita a Tressette al circolino di via Sempione.

Di pomeriggio facevo due attività; un po’ di laboratorio di Fisica, nel laboratorio del III piano, con esperienze avanzate ma di tipo dimostrativo e la discussione critica di saggi sulla scienza utilizzando la disponibilità della biblioteca che, sull’argomento, era ben fornita. Queste attività erano aperte anche ad alunni di altre classi. Disporre di una pompa a vuoto, di rocchetti di Rumkhorf, di tubi a vuoto permette di fare cose molto belle e suggestive sia dul fronte dei raggi  X e catodici, sia su quello della termodinamica come far bollire acqua a temperatura ambiente, osservare che mentre bolle si raffredda, …

Nei primi anni, nel corso M, ricevevo in III gli studenti che avevano fatto il biennio alla succursale di Villasanta e che venivano da tutta la zona a nord di Monza sino a Casatenovo. Mi piacevano quelle classi di brianzoli doc spartani, concreti e anche bravi. Cosa del tutto eccezionale, eravano in ben 5 docenti maschi:  Meroni, Colonnetti, Cereda facevano la triade e poi c’erano anche Fontana (educ) e Bevilacqua (inglese) che, dopo le dimissioni di Pace, era diventato vicepreside.

La 5M era nell’aula di fronte alla Presidenza (dove ora c’è la segreteria amministrativa) e il povero Tedesco si prese anche qualche scherzone goliardico da parte dei più sciamannati (leggi Fiorenzuoli): per esempio un ordine di pasticcini fatto passare come ordine della Presidenza regolarmente consegnati e rimasti da pagare.

Poi sono passato nel corso L e, nel giro di qualche anno, ho incominciato a sentirmi sottoutilizzato. Tedesco era andato in pensione e la gestione successiva, un po’ sciatta e improntata alla pura amministrazione dell’esistente, non mi entusiasmava.

il nemico del Papa

dal sito de Il Cittadino di Monza e Brianza

Nel 1983 sono salito agli onori del pulpito di Villasanta, anche se l’ho saputo solo qualche anno dopo. Il 21 maggio ci fu la visita di papa Woytila all’autodromo di Monza. I presidi delle scuole monzesi decisero che le lezioni si sarebbero svolte regolarmente pur consentendo una sorta di via libera alle assenze studentesche.

In una classe avevo programmato da tempo un compito in classe e non lo rinviai pur chiarendo che chi l’avesse saltato, come facevo solitamente, non avrebbe avuto problemi, salvo rifare il compito. Era la stessa linea che usavo per le assenze politiche, sei libero di scioperare o andare in manifestazione ma poi il compito lo rifai.

A distanza di anni mi è stato riferito che don Bruno Perego, coadiutore del Parroco all’oratorio maschile di Villasanta e organizzatore dei ciellini al Frisi, fece, dal pulpito, in occasione di una messa domenicale, una filippica contro di me: pensate …  un professore, dirò di più … un nostro concittadino, ha impedito che … Sembra che un bel po’ di persone abbiano pensato a Meroni, più noto di me in paese. Mah, robe da chiodi.

Mentre per fisica rinviavo ai classici che ho citato, e solo episodicamente mi avvalevo di miei appunti, per matematica (geometria analitica, goniometria, elementi generali di analisi) avevo messo a punto delle dispense abbastanza complete e che ho ancora, rigorosamente scritte a mano e che venivano fotocopiate usufruendo del monte fotocopie di cui ogni classe disponeva. Lo stesso valeva per la correzione dei compiti in classe (gli antenati di quello che trovate ora sul sito).

gli esami di maturità

La prima parte dell’estate la si passava facendo gli esami di maturità o da membro interno o da commissario esterno. Quell’esame era una cosa utile per la formazione degli studenti e per la cultura dei docenti che avevano l’occasione di andare in giro per l’Italia e farsi una esperienza diretta sul funzionamento della nostra scuola (conoscenza di colleghi con storie e culture diverse, scambio di esperienze).

Per questa ragione non mi sono mai tirato in dietro; ho fatto più volte il membro interno e sono stato da esterno a Milano, Bergamo e Roma. Un anno avemmo come presidente un preside di scuola media, il professor Bertè, il padre di Loredana Bertè e di Mia Martini, poco generoso nei giudizi su quelle figlie che per lui erano delle scapestrate di cui si vergognava.

In quegli anni la prova scritta di matematica aveva un testo con proposta di 4 quesiti e veniva richiesto di affrontarne almeno due. Un problema di geometria analitica orientato all’analisi, due problemi di analisi sullo studio di funzioni e una domanda di teoria. La domanda di teoria era il salvagente dei somari che piazzavano il libro di testo da copiare in tutti i nascondigli possibili dei servizi igienici.

Nel 78 la domanda di teoria riguardava il teorema sulla “continuità delle funzioni derivabili“. Se una funzione ammette in ogni suo punto retta tangente, non può fare salti o avere spigoli. Ma lo studente che aveva letto frettolosamente lo Zwirner nei servizi igienici ci mise del suo, scambiò l’ipotesi con la tesi e scrisse “se una funzione è continua allora è derivabile” e passò a metà classe l’enunciato sbagliato con la dimostrazione (copiata) giusta.

Per capire l’errore basta pensare che se una funzione fa un angolo è continua ma lì non ammette retta tangente. E’ un controesempio semplice. Ero stato nominato commissario esterno  dopo lo svolgimento della prova e dunque non avevo assistito al fattaccio, ma scripta manent e mi ritrovai a dover valutare compiti scritti fotocopia l’uno dell’altro con un doppio errore: errore nell’enunciato del teorema richiesto, errore logico nel presentare una dimostrazione che non dimostrava quanto dichiarato ma il teorema inverso. Non fui tenero con quella classe di un liceo milanese.

l’informatica

Passavano gli anni (1986) e sentivo il bisogno di fare qualcosa di diverso; avevo iniziato ad introdurre a scuola l’Informatica (c’erano l’ MSDOS e i primi Pc) e l’occasione mi fu data dal reincontro con Oskian che non sentivo più dai primi mesi del 77.

Ci rivedemmo in occasione di una vicenda, per lui,  molto spiacevole e per me incredibile. Dopo che ce n’eravamo andati da AO lui era rimasto formalmene proprietario della Grafica Effeti dove si stampava il Quotidiano dei Lavoratori. Lo era diventato in quanto segretario politico.

Alla Grafica, che stampava il QdL per conto di Democrazia Proletaria ci fu un incidente sul lavoro in cui un tipografo ci rimise la mano. C’erano, al di là della vertenza in sede civile, anche aspetti di natura penale che ricaddero su di lui. Era tra lo sconcertato e l’incazzato perchè il gruppo dirigente di DP che gestiva la tipografia aveva deciso di fare il pesce in barile.

Lui era alla ricerca di qualcuno disposto a testimoniare che, al di là dell’aspetto formale sulla proprietà, dalla primavera del 77 non c’entrava più nulla con la Grafica Effeti. In quel periodo era a Roma e faceva il vicesegretario del Pdup. Non so come riuscì a mettersi in contattocon me e così ci si rivide e testimoniai su quegli aspetti. Tutti gli altri erano spariti e i responsabili tacevano per convenienza.

Aveva una società che stava passando dalla attività di consulenza a quella propriamente informatica (la SISDO) e mi propose di lavorare con lui. Se ne parla ampiamente nel prossimo capitolo. Eravamo a metà degli anni 80 e incominciai, un paio di pomeriggi alla settimana, ad andare a MIlano, in viale Bianca Maria, pagato sostanzialmente per studiare (un po’ di informatica e un po’ di marketing).

Nel corso dell’86 incominciò ad introdurmi più a fondo nell’azienda che, allora, si occupava di Informatica gestionale su piattaforme PDP-VAX della Digital. Avevo compiuto i 40 anni e mi dissi che quello era l’ultimo momento per mollare tutto e cambiare. Fu così che, alla fine dell’anno scolastico 86/87 diedi le dimissioni dalla scuola, per la seconda volta, ed iniziai a lavorare nel privato. Ma quella non è stata l’ultima volta in cui ho cambiato tutto.


Fiammetta Cedrazzi (1941-2019) – per finire con un ricordo

A maggio 2019 è venuta a mancare un pilastro nella mia storia di docente al Frisi; era andata in pensione nei primi anni duemila.

Fiammetta è stata una protagonista di una fase irripetibile della mia vita e della vita del Frisi e parlo degli anni dal 1977 alla metà degli anni 80. In quel momento nel nostro liceo c’erano una serie di persone diverse per carattere per sensibilità politica e per modelli culturali di riferimento, ma si respirava in questa scuola il sapore della cultura vera, la passione nei confronti dei giovani, il senso di cosa volesse dire essere un docente.

Era finita l’epoca iniziata nel 68 e continuata in tono sempre minore e sempre con maggiore settarismo fino alla metà degli anni 70. Ne incominciava una nuova in cui si confrontavano il desiderio di cambiamento nella democrazia con le pulsioni violente dell’Autonomia e del nascente terrorismo. Quello era il contesto di contorno in cui si sviluppava il nostro desiderio di fare scuola per trasmettere una visione critica della cultura e della vita. Ma è sbagliato dire trasmettere, si deve dire costruire insieme.

Mi univa a Fiammetta la passione per le scienze dure e al di là di esse ciascuno di noi proseguiva per la sua strada, io più verso la filosofia e la storia, lei più verso la letteratura e l’arte incluse la musica e il balletto. Così quelli furono anni di studio approfondito, molto più approfondito di quello degli anni universitari, che pure non erano stati uno scherzo. Di certo né lei né io facevamo parte di quella tipologia di professori che entra in classe e dice Aprite il libro a pagina 147. Oppure Brambilla vieni alla lavagna e fai questo esercizio.

Mi ha sempre colpito il fatto che desse del lei agli studenti e addirittura, come è giusto dal punto di vista grammaticale del loro quando si passava al plurale. Mi sembrava un po’ un vezzo e mi chiedevo sempre come ci si sentisse ad essere dall’altra parte. Io mi sarei sentito a disagio perché già respiri un dislivello culturale ed esperienziale immenso e in più ti viene detto di stare al tuo posto.

Prima di tutto veniva la scuola con le sue regole, il senso del dovere, la sua serietà. Poi veniva tutto il resto, ma tutto il resto era filtrato attraverso la metodica del rigore e dell’esercizio critico della ragione: perché si fa così? Cosa c’è sotto? Quali sono i gradi di libertà? Si può operare diversamente? Cosa succede ad una teoria assiomatica se cambio un postulato? Qual è la dinamica della conoscenza scientifica? Alcuni elementi del carattere di Fiammetta venivano dal fatto che da bambina era cresciuta dentro il carcere minorile Beccaria di cui il padre era il direttore.

In quegli anni 70 e 80 non era vietato parlare d’altro, ma quel parlare d’altro doveva avere un senso e noi docenti di matematica e fisica eravamo in maggiore difficoltà rispetto ad altri docenti (come quelli di lettere) sempre presi dalla necessità di affrontare la miriade di questioni legate all’essere docenti di scienze dure in un liceo scientifico nato come figlio di un Dio minore del liceo classico, mentre la società che non cambiava i suoi ordinamenti ci richiedeva di essere protagonisti e di costruire dei profili di uscita con giovani colti e critici, maturi, ma anche tanto preparati sul versante scientifico in termini di competenze.

Tutto questo ci rendeva un po’ marziani per via della necessità di non perdere mai tempo e contemporaneamente, quando guardavamo negli occhi i nostri studenti e le nostre studentesse, capivamo che avevano voglia e bisogno di parlare anche di altre cose e allora usavamo i ritagli di tempo o i pomeriggi, tanto in quegli anni non si usavano ancora certi orridi neologismi come attività aggiuntive funzionali o non funzionali all’insegnamento. Si restava a scuola perché era opportuno farlo.

Mi spiace che il concorso che istituì la figura del dirigente scolastico non sia venuto fuori in quegli anni, ma solo nel 2004, perché Fiammetta sarebbe stata un’ottima dirigente, anzi una dirigente eccezionale, capace di stare sui tre denti della forchetta su cui dovevamo riuscire a stare in equilibrio: la organizzazione della scuola, la leadership educativa e la innovazione.

Invece in quegli anni la scuola italiana era ancora la scuola delle circolari del ministero con scritto si trasmette per opportuna conoscenza e norma, del preside come prolungamento finale di una organizzazione centrale che partiva da Roma e così Fiammetta non fu ritenuta degna, dai colleghi, nemmeno di fare la vicepreside anche se, era del tutto evidente, che sarebbe stata una grande vicepreside, naturalmente per occuparsi della direzione di marcia della scuola e non della sostituzione dei colleghi assenti con le supplenze brevi o della firma dei permessi di entrata in ritardo. Così al più potevamo aspirare a fare i consiglieri del principe, tenuti in panchina e consultati di nascosto (e lo abbiamo fatto).

Sul piano umano e personale era una persona molto riservata e, d’altra parte, lo sono anch’io, tanto è vero che ormai mi chiamano nonno orso. Quindi non me la sento di avanzare critiche sulla sua riservatezza che l’ha indotta ad una sorta di chiusura a riccio. Mi spiace tantissimo come si sia svolta la fase finale della sua vita, molto marcata dalla solitudine e dalla chiusura in se stessi e io penso di essere stato un po’ vigliacco a non farmi vivo e ad obbedire alla sua richiesta di non voler vedere nessuno intorno. D’altra parte confesso che il cancro mi mette sempre a disagio nel rapportarmi con chi ne viene colpito. La mia struttura razionale si ribella e se la unisco alla mancanza di un credo nell’aldilà misuro un senso di impotenza e di rabbia.


La pagina con l’indice della mia autobiografia da cui potete scegliere i capitoli da leggere


I commenti che aggiungono ricordi o correggono imprecisioni sono benvenuti. Si accede ai commenti scendendo al di sotto dell’articolo. Li si scorre e si arriva  ad un apposito editor


Appendice: la collana giallo ocra della Feltrinelli


Feltrinelli – la collana di Filosofia della scienza curata da Geymonat

Willard Van Orman Quine, Manuale di logica | Ettore Casari, Lineamenti di logica matematica | Ludovico Geymonat, Filosofia e filosofia della scienza | Carl G. Hempel, La formazione dei concetti e delle teorie nella scienza empirica | Evert W. Beth, I fondamenti logici della matematica | Ettore Casari, Questioni di filosofia della matematica |
Maria Luisa dalla Chiara Scabia, Modelli sintattici e semantici delle teorie elementari | Emil Ungerer, Fondamenti teorici delle scienze biologiche | M.E. Omelyanovskij, V.A. Fock e altri, L’interpretazione della meccanica quantistica. Fisica e filosofia in URSS | Enrico Bellone, I modelli e la concezione del mondo nella fisica moderna. Da Laplace a Bohr | Imre Lakatos e Alan Musgrave (a cura di), Critica e crescita della conoscenza | Hans Reichenbach, Filosofia dello spazio e del tempo | Ludovico Geymonat, Scienza e realismo | Pietro Redondi, Epistemologia e storia della scienza | Imre Lakatos, Dimostrazioni e confutazioni. La logica della scoperta matematica | Mary B. Hesse, Modelli e analogie nella scienza |

e quella di bianco e viola di Storia della scienza curata da Paolo Rossi

Marie Boas, Il Rinascimento scientifico 1450/1630 | Alistair C. Crombie, Da S. Agostino a Galileo. Storia della scienza dal V al XVII secolo | E. J. Dijksterhuis, Il meccanicismo e l’immagine del mondo. Dai Presocratici a Newton | J. L. E. Dreyer, Storia dell’astronomia da Talete a Keplero | Yehuda Elkana, La scoperta della conservazione dell’energia | John C. Greene, La morte di Adamo. L’evoluzionismo e la sua influenza sul pensiero occidentale | A. Rupert Hall, Da Galileo a Newton (1630/1720) – La Rivoluzione scientifica 1500/1800. La formazione dell’atteggiamento scientifico moderno | Mary B. Hesse, Forze e campi. Il concetto di azione a distanza nella storia della fisica | Max Jammer, Storia del concetto di forza. Studio sulle fondazioni della dinamica | Max Jammer, Storia del concetto di massa nella fisica classica e moderna | Morris Kline, La matematica nella cultura occidentale | Alexandre Koyré, Dal mondo chiuso all’universo infinito | Paolo Rossi, I filosofi e le macchine 1400/1700 | Philip P. Wiener, Aaron Noland , Le radici del pensiero scientifico |


 




Le riforme sospese tra opposti estremismi …

e intanto si smarrisce il senso delle istituzioni

Che cosa sono le istituzioni? La risposta a questa domanda basica stenta ad emergere dalla foschia della tempesta verbale, oggi attraversata dai lampi del premierato e dell’autonomia.

Nell’immaginario collettivo, le istituzioni sono “palazzi”, “sedi”, “poteri”: il Quirinale, Montecitorio, Palazzo Madama, Palazzo Chigi, Palazzo della Consulta… Palazzi occupati e, in democrazia, occupabili e contendibili. Ma l’essenza delle istituzioni è altra.

Esse sono, innanzitutto, le regole rapprese e solidificate della convivenza civile e le reti di imbrigliamento del Potere politico, che tende per natura sua a franare sulle strade della società civile. Le regole addensano e formalizzano i costumi – l’etica storica – la morale individuale, il diritto, nella sua duplice faccia di moral suasion e physical constriction.

Sono il prodotto di un contratto sociale, che è, a sua volta, la risultante effettuale del conflitto e della cooperazione. Sono espresse nel formalismo del linguaggio giuridico, ma non perciò riducibili a formalismi o a galateo. Esse sono la forma di ogni società. Senza la quale, o la società esplode in mille conflitti o viene compressa da un potere dispotico. Gli esempi non mancano, né quelli del primo caso né quelli del secondo.

Il Nuovo Titolo V: una riforma necessaria e mal decisa

Il primo corollario logico di questo discorso è che le regole-istituzioni si definiscono insieme da parte di tutti i soggetti politici. Sulla politics e sulle policy ci si può scontrare, a lungo e ostinatamente, ma sulle regole occorre accordarsi.

Se non lo si fa, politics e policy vacillano. Naturalmente, sarebbe ingenuo ignorare che è fatale tentazione dei gruppi umani quella di proporre regole favorevoli agli interessi della propria parte.

Si sta seduti al tavolo delle regole, ma si guarda a lato, per prevedere se esse favoriranno i miei interessi o no. Tutti i soggetti seduti al tavolo sviluppano questo fisiologico approccio egoistico.

Si deve però prendere atto che nel sistema politico italiano questa fisiologia è divenuta patologia. C’è una data di inizio: l’8 Marzo 2001 il Senato ha approvato con la Legge Costituzionale n. 3/2001 la riforma del Titolo V della Costituzione – artt. 114-132 -, entrata in vigore, a seguito di referendum confermativo, l’8 novembre 2001.

La ratio della riforma era cogente da tempo: adeguare il dettato costituzionale all’istituzione delle Regioni, avvenuta vent’anni dopo il varo della Costituzione. In forza del nuovo dettato, la Repubblica non si identificava più con lo Stato, era più larga. L’art. 114 pone sullo stesso piano i Comuni, le Province, le Città metropolitane, le Regioni e lo Stato quali entità costitutive della Repubblica.

Alle Regioni è riconosciuta ampia autonomia statutaria, legislativa, organizzativa e finanziaria. È la base dottrinale dell’autonomia differenziata. Il Nuovo Titolo V muoveva dal riconoscimento che nel Paese esisteva una questione meridionale storica, ancorché irrisolta, ma che stava montando, anzi era già esplosa, anche una questione settentrionale, di cui la Lega di Bossi era l’epifenomeno e la rappresentanza politica.

Era la presa d’atto che il sistema delle Regioni, nato in ritardo, rispecchiava, senza essere riuscito a ricomporla, la frattura scomposta del Paese. Le Regioni del Nord erano – sono – in grado di governare meglio dello Stato centrale, quelle del Sud lo facevano – e continuano a farlo – sempre peggio. Devolution, deleghe, autonomia differenziata avevano e hanno un solo senso: una gara pacifica tra loro e con l’Amministrazione centrale tra chi è più capace di amministrare le risorse pubbliche date. Ottimo!

Ma tale imponente riforma è stata approvata dal solo centro-sinistra. Il quale, nel tentativo di sottrarre in extremis, come nel 1994, il federalista Bossi alle spire avvolgenti di Berlusconi, ha perpetrato uno smaccato uso/abuso politico di riforma. Da allora in avanti, prima Berlusconi e poi Renzi hanno provato a varare riforme della forma-governo, sempre per via unilaterale.

Sottoposte a referendum confermativo, ha sempre vinto il NO. Anche perché l’invenzione del referendum confermativo avente per oggetto questioni costituzionali complicate, tradotte in quesiti formulati in linguaggio astruso, non è stata felice. Così la posta in gioco finisce per essere, ogni volta, il consenso non all’oggetto del referendum ma al soggetto che lo ha proposto, cioè al governo di turno.

La politica, terra desolata

Venendo alla presente stagione e al cacofonico suon di lei, anch’essa si annuncia incapace di riforme istituzionali come le precedenti. E per le stesse ragioni. Perché il metodo adottato è quello dell’unilateralità settaria, al punto di intersezione di due arroganze: quella di chi governa, che fino a ieri si oppose strenuamente alla riforma del Titolo V e alla riforma Renzi, in nome della difesa della democrazia; quella dell’opposizione, che contesta, sempre nel nome della suddetta democrazia, le soluzioni, che a suo tempo propose con indomita arroganza.

Gli elettori assistono allibiti e disamorati a tale indecente spettacolo, mentre le curve tifose dei costituzionalisti embedded fanno la ola sui giornali e sulle TV.  Un dramma per il Paese, trasformato dai partiti in un melodramma, in cui si recitano tenzoni all’arma bianca e scorre, invece che sangue, sugo di pomodoro.

Così, chi prova a ragionare nel merito delle questioni, come Stefano Ceccanti, si becca da Travaglio l’insulto di inciuciador. E l’opposizione, con annesse Italia Viva e Calenda, chiama a raccolta oves et boves et universa pecora, allo scopo di far cadere il governo. Per salvare l’Italia. Nientedimeno! In realtà, per tentare disperatamente di accumulare macigni sulla strada del governo.

Nessuna discussione di merito. E così ai partiti di governo viene offerto un ottimo alibi per non discutere, a loro volta, dei buchi neri dei loro raffazzonati e frettolosi progetti di riforma. Ma si può dare loro torto, se le forze di opposizione non sono realmente interessate alle riforme? Giacché, se loro importasse seriamente, forse scoprirebbero che l’autonomia differenziata e, ancor di più, il federalismo regionale – cioè la responsabilità impositiva e di spesa – sono la cura della frammentazione del Paese, non la malattia; e che il premierato è la cura del perenne non-governo. Lo hanno sostenuto per anni.

Viene in mente, per analogia, quel che Salvemini diceva causticamente dei cattolici durante il periodo del Fascismo: Quando sono al potere invocano la verità, quando sono all’opposizione invocano la libertà.

Nessuna meraviglia, a questo punto, che almeno a metà del Paese questi opposti estremismi suonino alieni. Così la politica si presenta sempre di più come una waste Land, una terra desolata. E il dibattito politico? Interpellato, oggi Macbeth direbbe che è un racconto narrato da un idiota, pieno di strepiti e furore, significante niente.

 




1974-1976: la parabola di AO

III edizione giugno 2024

c’eravamo tanto amati

Il periodo che mi vide operare dentro il gruppo dirigente di una organizzazione della sinistra rivoluzionaria è il più difficile da raccontare perché, da allora, sono cambiato molto ed è stata la riflessione su quella esperienza a determinare la radicalità del mio cambiamento: non più rivoluzionario, non più comunista, non più fiducioso (come una volta) nella possibilità che le cose si possano cambiare attraverso l’impegno nella lotta politica.

Penso che siano necessari impegni di altro genere sul fronte educativo e della testimonianza e che comunque il pedale su cui spingere non sia quello della lotta di classe.

Perché se è vero che le classi sociali esistono e influenzano il procedere della storia, non è vero che esista una classe destinata a svolgere un ruolo palingenetico (il proletariato industriale) ed è discutibile, alla luce dei mutamenti sopravvenuti nel modo di produrre e di consumare nella parte finale del XX secolo e nei primi decenni del XXI, che in estensione e consapevolezza si possa continuare a parlarne come di una classe sociale.

Mi sono ritrovato ad essere più attento ai cambiamenti che vengono da lontano, che procedono lentamente e che determinano le scelte importanti nella vita nelle persone, come quelli che si determinano nella scuola. Cosa farò da grande? Qual è il mio stile di vita? Cosa penso  dei rapporti tra le persone? Per cosa vale la pena di impegnarsi?

Nel giro di pochi mesi, dall’estate del 76 ai primi mesi del 77 ho vissuto  una trasformazione molecolare molto profonda che non ha riguardato solo la politica e non principalmente la politica. Ho cambiato stile e modo di vita; sono molto più solitario e disincantato di un tempo, ho bisogno del rapporto fisico con la naturalità (dai boschi, ai fiumi, alla autoproduzione agricola; sono sempre una persona appassionata e disposta a giocarsi per le cose per cui vale la pena di vivere. Sono disincanto nei confronti di tutti i miti, ma dico sì agli ideali.

Marciavamo con l’anima in spalla nelle tenebre lassù
ma la lotta per la nostra libertà il cammino ci illuminerà.
Non sapevo qual era il tuo nome, neanche il mio potevo dir
il tuo nome di battaglia era Pinìn e io ero Sandokan.
Eravam tutti pronti a morire ma della morte noi mai parlavam,
parlavamo del futuro, se il destino ci allontana
il ricordo di quei giorni sempre uniti ci terrà.
Mi ricordo che poi venne l’alba, e poi qualche cosa di colpo cambiò,
il domani era venuto e la notte era passata,
c’era il sole su nel cielo sorto nella libertà.

Sono i versi della canzone di Armando Trovajoli che fa da tormentone a c’eravamo tanto amati di Ettore Scola (la trovate su Youtube). Il film me lo sono rivisto e mi ha dato la forza per terminare il pezzo della autobiografia più difficile da scrivere (insieme a quello sulla storia di mio padre), quello del c’eravamo tanto amati.

Chi siamo stati:  Gianni, Antonio o Nicola? Il marpione, il proletario dalla fede indistruttibile o l’intellettuale sognatore, o forse tutti e tre insieme? Sentiamo cosa dicono:


– Gianni: Certo che la nostra generazione ha fatto proprio schifo.
– Nicola: Piuttosto che inseguire un’improbabile felicità è meglio preparare qualche piacevole ricordo per il futuro.
– Antonio: Quando si rischia la vita con qualcuno ci rimani sempre attaccato come se il pericolo non fosse passato mai.
– Nicola: Credevamo di cambiare il mondo invece il mondo ha cambiato a noi.
– Antonio: 306 seggi [della DC], e chi se lo poteva immaginare?
Gianni: Ti devo dire una cosa.
– Antonio: E che me vòi di’, lo so! Abbiamo sottovalutato un sacco di fattori che hanno concorso a mettercelo nel chiccherone: i soldi americani, la paura di Stalin, i preti, le monache, le madonne piangenti, la paura dell’inferno…
Gianni: Io e Luciana ci vogliamo bene. È questo che ti volevo dire.
– Antonio: Ci vogliamo bene… in… che senso?
Gianni: Ci amiamo

le cose positive che abbiamo fatto o che abbiamo contribuito a fare

Il giudizio positivo che dò su quel periodo non riguarda la sola Avanguardia Operaia, ma tutti i movimenti e le organizzazioni che, dal 68 al 75, riuscirono a determinare innovazioni e trasformazioni sul piano del costume, un riassestamento dei rapporti sociali a favore dei meno agiati, mutamenti nella legislazione e nelle istituzioni, cambiamenti nella Chiesa Cattolica e un generale spostamento a sinistra nel paese. Pensate a Pio XII e confrontatelo con Papa Francesco per farvi un’idea di come è cambiato il mondo.

Penso alla fine dell’autoritarismo che governava le piccole e grandi istituzioni (dalla famiglia all’esercito), al contratto dei metalmeccanici del 69 cui seguirono, in rapida successione, quelli delle altre categorie, alla affermazione dei diritti nelle fabbriche e nelle scuole, alle trasformazioni nella magistratura, alla abolizione dei manicomi, alla trasformazione delle carceri, alla democratizzazione nell’esercito e nei corpi di polizia, alla crisi del sindacalismo autonomo a favore di quello confederale, alla forte spinta verso l’unità sindacale, alla tutela della donna.  Tutte queste trasformazioni sono state opera nostra anche se, ovviamente, non solo nostra. E dunque le affermo con l’orgoglio se non del protagonosta, almeno del comprimario.

Tutto è iniziato da un processo generale e generazionale che ha riguardato l’intero mondo occidentale e i paesi dell’est; poi c’è stata una particolarità italiana dentro la quale abbiamo operato noi che, dopo il 68, facemmo la scelta di andare nei gruppi.

I senzaMao e la lotta rivoluzionaria per le riforme

Il libro che Silverio Corvisieri ha scritto sul finire del 1976 quando ha lasciato Avanguardia Operaia da sinistra per poi approdare, come molti di noi, al PCI – io almeno me ne sono andato dalla parte giusta che era quella della difesa delle istituzioni democratiche

Ho provato a rileggere alcuni dei documenti di allora e mi riesce difficile farlo perché rimango sùbito colpito sfavorevolmente dalla astrattezza di certe problematiche, del volersi ad ogni costo ritagliare un ruolo che in realtà non avevamo.

Ho riletto con attenzione I senzaMao del mio direttore al Quotidiano dei Lavoratori, Silverio Corvisieri, soffermandomi in particolare sul suo intervento al IV congresso di Avanguardia Operaia, quello della trasformazione di AO in un partito, anche se allora era vietato chiamarlo così.

Silverio ha il pregio della brillantezza giornalistica anche quando tratta di cose pesanti come le disquisizioni intorno al centralismo democratico, al rapporto tra il partito e le masse, alla definizione di proletariato nel contesto dell’Italia degli anni 70. Ma non mi ci ritrovo per niente sul piano razionale; allora non mi ci ritrovavo senza capire bene il perché; avevo l’impressione che ci fossero delle forzature.

Il titolo, I senzaMao, deriva dal fatto che in quell’anno (il 1976) dopo la botta delle elezioni politiche (a giugno) ci fu la morte di Mao (a settembre) ad accrescere il disorientamento. Il vento dell’est aveva smesso di soffiare e noi, presto, saremmo stati in balia di quei matti della autonomia e dei terroristi conseguenti.

Per converso Silverio mi ha fatto tornare alla mente il tema della lotta rivoluzionaria per le riforme, una definizione di comodo che avevamo inventato per spiegare che eravamo per la rivoluzione socialista ma che, nel contesto dato, non era pensabile ragionare in termini di insurrezione.

Avevamo il doppio problema di smarcarci dagli spontaneisti del tutto e subito e, contemporaneamente, dire che non ci piacevano, perché troppo istituzionali e codiste, le posizioni di quelli del giro del Manifesto-PDUP, i togliattiani di sinistra impegnati nel tentare di spostare a sinistra il partito comunista.

Mi pare emblematico che si tratti di una questione che non interessa più a nessuno, a differenza dell’ottenimento di risultati di trasformazione degli assetti istituzionali. Anche io rimasi affascinato dalla idea di fare la rivoluzione attraverso le riforme leggendo nell’estate del 68 un libro di Andreè Gorz, il socialismo difficile. Gorz era il vicedirettore di Les Temps Modernes, la rivista di Sartre. Ne ho parlato nel capitolo dedicato al 68 e ci ritorno sopra volentieri.

Quella di Gorz era la corrente dei riformisti rivoluzionari. I riformisti rivoluzionari rifiutavano l’esperienza del socialismo reale e vedevano in un movimento di massa in grado di imporre riforme strutturali il nuovo modo di arrivare al socialismo nei paesi dell’Occidente. In Italia, il maggiore esponente di questa linea di pensiero era Bruno Trentin (insieme a Lelio Basso) e si trattava di una delle tante correnti di pensiero di matrice luxembourghiana che giravano per l’Europa.

Quel libro lo discussi passo dopo passo con Oskian e Claudia Sorlini che ne criticavano la insufficienza in nome del leninismo e, alla fine di quelle discussioni, decisi di entrare in AO: vi trovai belle persone, alcune con una storia antica dentro il PCI, altre emergenti come Oskian o Randazzo, tutte decise a rifondare il comunismo passando da Lenin ma senza fare sconti all’URSS.

la crisi nel gruppo dirigente

La seconda fase del mio impegno in AO, a partire dal 73, con una serie progressiva di promozioni e crescenti assunzioni di responsabilità fu caratterizzato da due elementi:

  • bisognava crescere e rafforzarci perché, se i tempi della rivoluzione non dipendevano da noi, dipendeva da noi il fatto di arrivarci avendo risolto il problema della guida del processo rivoluzionario. Far emergere il partito attraverso un processo di scomposizioni e ricomposizioni nel quale AO, pur non essendo l’embrione di tale partito, doveva giocare un ruolo principale
  • stavamo trasformandoci da gruppo semilocale, a Organizzazione Nazionale, a un simil-partito e ciò comportava un rafforzamento dell’impegno, il non farsi troppe domande, stringere i denti e puntare ad allargarci; accettare di essere inviati in giro per l’Italia a gettare il seme, cedere i propri beni materiali alla organizzazione, rinunciare alla professione post laurea nel caso dei quadri del movimento di scienze.

E’ questa la ragione per la quale, comportandomi come uno stronzo, lasciai passare senza muovere un dito un episodio come la radiazione/espulsione di Maurizio Bertasi, Flavio Crippa e Pietro Spotti (rei di lesa maestà per aver osato mettere in discussione le decisioni del segretario politico e della supersegretria che lo contornava). Alla stessa stregua considerai accettabile la non spiegazione circa l’auto-allontanamento dal giornale di Silverio Corvisieri. Il fondatore del giornale se ne andava, non salutava nemmeno la redazione; c’era qualche problema ma non era il caso di parlarne: passo fermo e sguardo in avanti verso il sol dell’avvenire.

Dopo la pubblicazione della prima versione di questa autobiografia ho ricevuto numerose testimonianze relative al Comitato Centrale della espulsione-radiazione cui non partecipai perchè c’era da confezonare il Quotidiano. Non fui presente al Comitato Centrale ma lo fui alla riunione precedente della segretria estesa ai membri del C.C. milanesi. Ho letto il verbale che ne fece Umberto Tartari. I tre che espongono i loro dati; Oskian e Vinci che li contestano e noi tutti zitti.

Molti compagni che presenziarono al successivo Comitato Centrale descrivono un clima pesante, il non trovarsi d’accordo ma avere paura di parlare, per finire con le richieste di autocritica a quei pochi che osarono dire qualcosa.

Non c’era tempo, bisognava fare e così si finiva per non fare domande e nemmeno farsele. Per esempio dalla lettura dei senzaMao vedo che nella decisione di Silverio di lasciare il giornale e tornare a Roma c’erano sia elementi di logoramento personale, sia l’emergere di preoccupazioni politiche per il processo che ci stava facendo avvicinare al PDUP e allontanare da Lotta Continua. Probabilmente il pezzo su Gioia di Vivere e Lotta di Classe fu il suo modo di lanciare un sasso.

Apparentemente tutto filava liscio ma il fuoco covava sotto la cenere e un pomeriggio, in una riunione di segreteria nazionale, Luigi Vinci richiese a freddo le dimissioni del segretario nazionale Aurelio Campi accusandolo di gestione padronale del partito. Non ricordo se fosse la fine del 75 o l’inizio del 76 ma il fatto è di poco successivo all’allontanamento di Silverio dal Quotidiano. Era l’inizio di una storia durata all’incirca un anno in cui i due principali contendenti alternarono bordate, punture di spillo e giravolte strumentali.

Ho vissuto l’attacco ad Oskian come una autentica pugnalata tirata a freddo. In realtà c’era parecchio malessere nei confronti di Oskian per il suo decisionismo che molto spesso si trasformava in autoritarismo e a ciò si sommava il timore che stesse progettando una fusione-confluenza con la componente comunista (non psiuppina) del Pdup.

Mi sono poi reso conto, dalle successive dinamiche in Ufficio Politico, che si trattava di un atto preparato con cura da Luigi Vinci (che controllava l’apparato e l’organizzazione), in accordo con molti segretari regionali. Così Avanguardia Operaia, in un momento in cui sarebbe servito il massimo di iniziativa politica e di unità interna, sia prima, sia dopo le elezioni del 76, fu invece vittima di una crisi al vertice tenuta lungamente segreta, ma che non le fece certamente bene.

In quei mesi mi resi conto frequentando i gruppi dirigenti di AO e del PDUP di quanto pesassero le miserie personali nel determinare le scelte politiche e quello fu il primo disvelamento del fatto che non basta credere nel comunismo e appellarsi ad esso per essere all’altezza del compito.

Con il IV congresso dell’ottobre 74 Avanguardia Operaia fece uno sforzo per guardare lontano, stare dentro i movimenti sociali ma, contemporaneamente, cercare di costruire una analisi della società italiana che facesse i conti con le caratteristiche dei due blocchi sociali che riscuotevano il consenso della gran massa degli italiani: il blocco intorno alla DC e quello intorno al Partito Comunista.

Ma una parte del gruppo dirigente storico guardò a quel tentativo con sospetto, come una forma di liquidazionismo. Se devo fare un paragone un po’ forte, ma che aiuta a capire, nel momento in cui avevamo bisogno di Gramsci AO si rifugiò nelle braccia di Bordiga travestito da Lenin.

Il Comitato Centrale, con oltre 100 compagni, tutti con una storia di militanza importante, tutti dotati di esperienza politica, faticava a capire, anche perchè le divergenze reali non venivano palesate, se ne discuteva nei corridoi, in parte in Ufficio politico, ma mai in maniera esplicita. Vinci e Campi un giorno si davano ragione, ma appena temevano che dietro l’unità ci fosse lo zampino del diavolo, rovesciavano il tavolo.

Fu così, nella incapacità di capire cosa era era successo con il risultato delle elezioni di giugno (straordinario balzo in avanti del PCI, tenuta della DC, misero risultato della sinistra rivoluzionaria) che si produsse lo sgretolamento, dapprima lento e poi clamoroso delle tre organizzazioni principali della sinistra rivoluzionaria; AO, LC e il PDUP seguite subito dopo dal MLS.

Nessuna di esse era riuscita ad essere una alternativa a quei blocchi di consenso politico ed ora crollavano stritolate da un lato dal PCI e dall’altro lato dai movimenti della autonomia e dal terrorismo.

la mia reazione

Disgustato da come si svolse la discussione intrecciata tra il risultato deludente delle elezioni politiche e la prospettiva di unire o meno Avanguardia Operaia e il Pdup, decisi di andarmene e nei primi giorni di luglio 76 preparai anche un poderoso documento politico di dimissioni dalla organizzazione a cui avevo dato tanto.

La manchette che apriva il lungo articolo in tre puntate in cui decisi che era ora di finirla con le chiacchiere da convento di clausura

Da qualche mese avevo iniziato a studiare le parti di teoria politica dei Quaderni dal carcere di Gramsci (in particolare le Note sul Macchiavelli) e mi rendevo conto che c’era un vuoto da colmare tra le intuizioni di Gramsci sulla democrazia, sul socialismo, sulla politica, sul blocco storico, sul ruolo della chiesa cattolica, sulla lotta culturale per la egemonia e il nostro appello al leninismo.

Il leninismo si era inverato in una realtà profondamente diversa da quella italiana e per di più, o forse per quello, aveva avuto una deriva fallimentare in cui il giacobinismo della prima ora si era ben presto trasfornato in autoritarismo e poi in una forma di totalitarismo burocratico in grado di garantire solo la propria sopravvivenza (com qualche milione di vittime).

Nel mese di luglio (mentre ero in ferie dal giornale) mi incontrai con Oskian e Claudia Sorlini per informarli della mia decisione di andarmene da una organizzazione che non aveva il coraggio di discutere a viso aperto. Oskian, che in quel momento non era più segretario politico, ma coordinatore di una segreteria collegiale che aveva il compito di preparare le tesi per il V congresso, mi convinse a rimanere promettendomi che si sarebbe aperta la battaglia politica e non quella personale.

Misi da parte il documento di dimissioni (che è rimasto chissa dove in una agenda e si è perso con lei) e nei primi giorni di agosto pubblicai in tre puntate, sul quotidiano, un lungo articolo dedicato alle prospettive che ci stavano di fronte e a quella che secondo me poteva essere la strada per uscirne. Lo trovate qui “perché ho votato contro al Comitato Centrale“.

Di questioni politiche ce ne sono dentro molte e ciò che mi ha colpito è l’insistenza sulla necessità di una riflessione teorico politica di grande respiro, insieme a problematiche di tipo minore che, con gli occhi di oggi, mi fanno sorridere.

A settembre, al rientro dalle ferie dei dirigenti, mi aspettavo una discussione politica (e come si vede dalla D di dibattito nella manchette, pensavo di farlo sul giornale); invece fui processato in Ufficio Politico per aver infranto il Centralismo Democratico e mi venne messo al fianco, in funzione di controllo, Vittorio Borelli, trasferito da Verona e del tutto digiuno di giornalismo.

In redazione non la prendemmo bene, anche perché, come si vede dalla lettura del testo, si trattava di un contributo politico del tutto legittimo nell’ambito della discussione su come arrivare al V congresso di AO.

Le congiure di palazzo e le manovre di corridoio continuavano da entrambe le parti. Non me la sentii di continuare con l’ottimismo della volontà e ai prmi di ottobre decisi che era meglio andarmene e tornare al lavoro minuto, ma importante, di docente. Rimisi il naso in redazione una volta sola quando ci fu lo scontro a fuoco (di cui ho parlato nel pezzo dedicato agli anni del QdL) in cui morirono Walter Alasia e due funzionari di polizia.

un cambiamento profondo

L’esplosione del terrorismo e la violenza dei movimenti della autonomia mi convinsero della necessità di seguire altre strade e lavorare più in profondità. Non abbandonai la passione politica, ma abbandonai l’idea della politica al primo posto, quella del rivoluzionario di professione che sarebbe meglio chiamare uomo ad una dimensione.

Non fu una decisione immediata, ma progressiva. Ricordo che, nei primi mesi del 77, alla assemblea in cui la destra di AO decise di andarsene e aderire al PDUP partecipai, ma mi sentivo ormai un osservatore esterno e non un protagonista. Non ricordo nulla dell’incontro residenziale che si tenne a Rocca di Papa; alcuni amici che proseguirono in quel percorso mi dicono che feci un intervento importante ma non mi è rimasto nemmeno il ricordo. Mi ritrovavo con tante persone a cui volevo bene ma che stavano per intraprendere un ennesimo tentativo volontaristico.

La parabola di AO si era visibilmente chiusa anche se la maggioranza ottenne risultati tra il 70 e l’80%; altri tentarono di fare DP e in quel periodo mi resi conto della drammaticità della situazione.

Il terrorismo cresceva, faceva le rapine, gli autonomi erano alla ricerca dello scontro per lo scontro, la popolarità delle BR nel brodo di coltura della autonomia operaia cresceva, iniziavano gli omicidi e i miei ex compagni continuavano a fare i distinguo come nello slogan infelice nè con lo stato nè con le BR, come se lo stato democratico, le BR e prima Linea, si potessero mettere sullo stesso piano.

Tutti quei tentativi, per quanto generosi, che avevano caratterizzato la mia vita nella prima metà degli anni 70, per quanto animati da persone appassionate, sul piano della soggettività, finirono nel nulla. Non fu così, come ho detto all’inizio, per le trasformazioni che si determinarono nella società e negli assetti istituzionali. L’Italia era cambiata in meglio e noi avevamo fatto la nostra parte.

In questi anni, molti di quei compagni che hanno fatto parte di quel gruppo dirigente sono venuti a mancare e li voglio ricordare, al di là dei dissensi e della diversità di percorso: Marco Pezzi di Faenza, il primo a morire; Attilio Mangano, Umberto Tartari, Severino Cesari, Franco Calamida, Vittorio Rieser, Massimo Gorla, Pietro Spotti, per restare a quelli che conoscevo direttamente.


La pagina con l’indice della mia autobiografia da cui potete scegliere i capitoli da leggere


I commenti dei compagni di allora sono benvenuti e, perché ne rimanga traccia, vi prego di metterli sotto l’articolo e non sulla grande cloaca di Facebook. Già, per effetto delle precedenti edizioni, ce ne sono un certo numero.

Questo è il breve commento con cui ho accompagnato il link su FB

C’eravamo tanto amati … e poi il “giocattolo” si è rotto, il mondo è cambiato e ciascuno di noi ha fatto le sue scelte.
Verso quelle persone con cui ad un certo punto si determinò una rottura conservo un grande senso di simpatia e negli anni tutte le spigolosità sono sparite e voglio bene a tutti loro. Qualcuno con orgoglio dice “volevamo cambiare il mondo, non ci siamo riusciti, ma il mondo non ha cambiato noi”. Detta così non la condivido perchè vivere vuol dire essere disposti a cambiare e ad accettare il cambiamento. La nostra vita, la vita di tutti è bella perché è caratterizzata dal mutamento.



Perché la sinistra ha perso gli operai

Gli Istituti di ricerca che analizzano i flussi elettorali documentano, in modo convergente, il passaggio a destra degli operai. In Italia, in Francia, in Germania, in Spagna operai hanno votato in misura crescente i partiti di estrema destra.

Il fenomeno non è nuovo. Ma oggi è una frana. Dario Di Vico in un articolo del Corriere della Sera, intitolato “Il robot non si iscrive al sindacato e il voto dei perdenti finisce a destra”, riporta uno studio dell’Università Bocconi sugli effetti che gli shock dell’automazione e della globalizzazione hanno sui tassi di sindacalizzazione.

Più alti, al 30% di sindacalizzazione, stanno i dipendenti dell’Istruzione, poi viene la Pubblica amministrazione, più sotto Trasporto, magazzinaggio, comunicazioni. Al quarto posto gli addetti alla Manifattura attorno al 15%. Il venir meno dell’intermediazione sindacale sembra preparare le condizioni per il passaggio all’intermediazione politica di destra estrema.

Quale spiegazione?

Ciò che è accaduto accade a livello economico-sociale è noto: la formidabile trasformazione tecnologica della produzione ha frammentato e sempre più sostituito il lavoro umano, la globalizzazione ha bucato i confini tra Stati, culture, identità storiche, istituzioni, generando inestricabili interdipendenze sociali e culturali.

I cambiamenti hanno cause oltreconfine, le istituzioni per governarli restano al di qua del confine. L’economia è globale, gli Stati e la politica restano nazionali, le vite reali delle persone sono “locali”. Donde lo scarto e l’ingovernabilità mondiale, di cui il disordine geopolitico mondiale è effetto e causa.

Fin qui i fatti.

L’Io minimo di Lasch

A questo punto, i singoli individui – giovani, operai, pensionati… – sono costretti a rifugiarsi nell’ “Io minimo”. Il sociologo americano lo ha descritto nel 1984 in “The Minimal Self: Psychic Survival in Troubled Times” (tradotto “L’Io minimo e la sopravvivenza psichica in tempi difficili”): “Con l’accentuarsi della percezione dello sradicamento l’Io si contrae, si riduce a un nucleo difensivo armato contro le avversità. Diventa un’individualità che non è né “sovrana” né “narcisistica”, bensì “assediata”. Donde “la deificazione della mera sopravvivenza”, citando dal filosofo americano William James. Di fronte alle potenze della Storia, a ciascuno resta solo la strada del bricolage quotidiano individuale.

Quarant’anni dopo, questa analisi profetica aiuta a comprendere la nostra condizione esistenziale qui in Occidente e anche a capire i flussi elettorali.

La nuova sinistra della distribuzione, dei diritti, del “Green”

Nella risposta a questa condizione sono mutate la “sinistra” e la “destra”. La sinistra fino agli anni ’80 proponeva agli operai di fabbrica il mito della “funzione nazionale della classe operaia”.

Era la traslazione della “dittatura del proletariato” in un contesto liberal-democratico. Dentro stava un nocciolo razionale: la produzione – e la sua componente decisiva il lavoro – è il motore della civilizzazione umana e della Storia.

Perciò gli operai, comunque differenziati per funzioni tecniche nella produzione e comunque “sfruttati”, avevano una missione storica e universale. Il sindacato difendeva gli interessi immediati, il partito forniva loro l’orizzonte di senso: gli operai diventavano “una classe”, il cui compito era sviluppare la civiltà e redimersi dall’alienazione nel presente, fino a diventare “padroni” del processo produttivo. L’operaio realizzava la sua umanità nel lavoro.

Solo che i cambiamenti tecnologici, la deindustrializzazione e il suicidio industriale del nostro Paese hanno mandato in frantumi la base sociale di quel mito. La produzione esiste sempre, ma i suoi agenti si sono tecnicamente e socialmente differenziati. E la sinistra ne ha tratto una conclusione più larga delle premesse: ha abbandonato l’idea seminale di Marx del ruolo della produzione e del lavoro nella storia umana.

È paradossale, o forse no, che questa idea sia stata invece rilanciata nell’Enciclica “Laborem exercens” di Giovanni Paolo II del 14 settembre 1981, a sostegno di Solidarnosc: il lavoro come continuazione dell’atto creativo di Dio. Al posto della “produzione” la sinistra ha messo “la distribuzione”, via-Welfare e via-servizi. Le statistiche sugli addetti sindacalizzati lo rivelano.

E al posto dell’internazionalismo del Movimento operaio ha teorizzato quello dei diritti e quello “Green”. Esaurita la riserva escatologica dei “domani che cantano”, si è buttata con rinnovato accanimento ideologico su questo nuovo mood, tra LGBTQ+ e Green, senza fare i conti con il presente socio-economico in faticosa e pericolosa transizione. Benedetto Croce li chiamerebbe “energumeni del nuovo”.

Il populismo dell’Io arrabbiato e la nuova destra

Se la Sinistra ha preso le parti dell’Io narciso, dell’Io sovrano, la Destra quelle dell’Io assediato e arrabbiato. Non più la destra conservatrice del “padrone delle ferriere” – in Italia comunque debole – bensì quella del territorio, dell’identità, dell’Io assediato, dell’Io in cerca di un rifugio nella comunità locale e nazionale.

Queste metamorfosi socio-politiche hanno generato un movimento populista reale – il M5S – che si autointerpreta come non di destra e come non di sinistra. La sua ideologia tenta di tenere abbracciati  l’Io narcisista, l’Io sovrano e l’Io arrabbiato.

Ne risulta, sul piano del sistema politico, un bipolarismo degli estremi, che peraltro, come fa notare Nando Pagnoncelli, si divide solo il 25% degli elettori a testa. Il 50% degli “Io minimo” se ne sta alla larga. Si tratta di un bipolarismo del reciproco assedio e della reciproca delegittimazione.

Questo bipolarismo intensamente ideologico, in complicità con il populismo residuo, fragilizza le basi culturali della democrazia, perché distorce il dibattito pubblico, piegandolo costantemente alle esigenze della propaganda sempre antagonista. Lo si vede sui temi del premierato, dell’autonomia differenziata e su ogni altro possibile.

Pericle e i partiti

Scriveva C. Lasch: “Non saranno né Narciso né Prometeo a guidarci fuori dalla condizione in cui ci troviamo”. Vero! Occorrerebbe un Pericle paziente, capace di ritessere le forme organizzate della conversazione pubblica e della decisione democratica.

Queste forme portano il nome di “partito”. Benché culturalmente svuotati, assai spesso ridotti a sette adoratrici del leader eventualmente carismatico, i partiti non hanno perduto la presa ferrea sulle istituzioni. Esattamente in continuità con la tanto deprecata Prima repubblica e con la Seconda. Ricostruirli come ambiti socio-culturali, in cui i cittadini si associano liberamente “per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale” è la più urgente delle riforme istituzionali, condizione di ogni altra, istituzionale e non.




1974-1976: QdL – la grande avventura

III edizione giugno 2024

La prima pagina del n. 1; editoriale di Silverio Corvisieri con la immancabile “verità rivoluzionaria”, la lotta dura e gli studenti – sotto ho incollato una gustosa vignetta di Alfredo Chiappori sulla inconcludenza di Ugo La Malfa, considerato il Grillo Parlante della politica italiana, ripresa da pag. 4

Avanguardia Operaia voleva decollare a livello nazionale e per raggiungere l’obiettivo serviva un quotidiano. Non conosco gli aspetti organizzativi e di pianificazione e mi auguro che, prima o poi, qualcuno li espliciti: i finanziamenti, la struttura, la selezione dei redattori, l’acquisto della grafica Effeti, la organizzazione della distribuzione, la amministrazione.

Oskian mi chiamò e mi disse che avevano pensato a me come caposervizio interni. Così, dopo alterne vicende, qualche permesso e qualche malattia, che mi consentirono di essere della partita sin dall’inizio, mi licenziai dallo scuola nell’anno in cui stavo per passare di ruolo. Bruna non era proprio entusiasta, ma almeno avevamo la sicurezza del suo posto di assistente sociale in Ospedale. Era una avventura, lo sapevamo; ma in quegli anni siamo vissuti tutti di scelte di vita e di avventure.

A partire dal 2023, grazie al lavoro prezioso di Furio Petrossi, e ai soldi raccolti tramite sottoscrizioni, esiste un sito in cui si trovano le annate del quotidiano oltre ai numeri della rivista teorica. Ho dato anche una mano a preparare, per alcuni mesi, i percorsi di lettura, ma soprattutto ho sfogliato quelle pagine e sono riemersi ricordi che giacevano sopiti quando scrissi la prima versione di questo articolo. Dunque, nella terza edizione si trovano tante cose nuove e persone che avevo dimenticato.

una proposta dopo l’amaro distacco dalla Fisica

Avevo già fatto la scelta di non rimanere in Univesità perché sarei stato più utile altrove. Durante il servizio militare, il mio posto di tecnico universitario di II categoria, avventizio, in prova, su fondi CNR sino ad esaurimento dei fondi, era stato trasformato, ope legis, in un posto di ruolo e, poiché mi ero laureato sarebbe diventato di I categoria e dunque avrei potuto iniziare la carriera universitaria dal di dentro.

Le cattedre erano due operanti in un unico gruppo di ricerca: quella del professor Occhialini (fisica dello spazio) e quella della moglie Connie Dilworth (radioattività), la stessa dove operava Gianni degli Antoni che si apprestava a far decollare l’Informatica e che era partito dalla elettronica, strumento indispensabile per la costruzione dei rivelatori che venivano messi nei palloni sonda e poi nei satelliti.

Il professor Occhialini mi chiamò e mi chiese cosa volevo fare. Risposi così: la fisica mi piace, ma la politica mi piace di più ed intendo essere onesto con lei; credo che finirei per trascurare la fisica. Diedi le dimissioni e ci lasciammo da buoni amici. Con tutto lo studio che ci misi dopo, vi renderete conto che mi è rimasto un po’ di rammarico per quella scelta. Basta guardare il mio corso di fisica che sta a questo stesso indirizzo: lì dentro ci sono io, la parte più vera e più profonda di me, quella che cerca la verità e non si stanca di esercitare il pensiero critico.

l’avventura ha inizio

Ma mi piace cambiare, sono un inquieto, ogni 5-10 anni devo fare altro, e fu così che andai al Quotidiano dopo soli tre anni di insegnamento. E’ stata una esperienza bellissima e molto logorante sul piano esistenziale. Infatti, alla fine di essa, ho deciso che era più gratificante parlare a 20 studenti guardandoli in faccia, invece di scrivere editoriali per ventimila compagni da cui ero lontano e che finivano per essere una specie di realtà virtuale.

Il 25 novembre 1974, un lunedì, iniziò l’avventura; il primo numero andò in edicola il 26. Per essere precisi ci avevamo lavorato per tutta la settimana precedente producendo due o tre numeri zero di cui l’ultimo arrivò sino alla tipografia.

Avevamo uno dei primissimi impianti di fotocomposizione. gli articoli, battuti a macchina, venivano ribattuti da delle tastieriste e si produceva un nastro perforato, un computer lo leggeva e produceva le strisciate (stampe su carta lucida) sia degli articoli sia dei titoli. Si applicavano le strisciate su un foglio già diviso nelle 8 colonne facendo l’assemblaggio delle pagine. Il compositore, con un redattore a turno, seguiva il menabò preparato dai grafici e, lavorando con le forbici per eliminare le eccedenze, produceva la pagina; da essa seguivano la pellicola e infine le lastre di alluminio per la roto-offset.

Una delle regole del giornalismo, che in un quotidiano è fondamentale è quella delle 5 W: Who, What, When, Where, Why (chi, cosa, quando, dove, perché). E per noi era fondamentale oltre che per dare una buona comunicazione perché se c’era da tagliare in tipografia, il redattore tagliava la fine, sicuro che non ci sarebbe stato nulla che non si potesse eliminare.

Silverio in una foto di allora

Il Direttore era Silverio Corvisieri, originario di Ponza ma trapiantato a Roma. Silverio nella redazione originaria era l’unico giornalista professionista. Dopo aver lavorato all’Unità, aveva poi diretto (insieme a Lucio Colletti) uno dei giornali rivoluzionari del 68, la Sinistra, diventato famoso per un numero in cui si insegnava a costruire la bottiglia molotov.

Corvisieri, tra i padri fondatori di AO, era sempre con un piede dentro e uno fuori, era appassionato di storia del movimento operaio e in particolare delle sue sfumature di sinistra e negli anni ha scritto diversi libri. Venne convinto a venire a Milano; si trovò casa per lui e la famiglia e fu lui ad insegnarci i primi rudimenti del giornalismo.

L’idea che avevamo in testa tutti era quella di tentare di fare un giornale completo e non un secondo giornale tutto politico; il formato era tabloid grande, 8 pagine di 8 colonne, due delle quali (cultura, spettacolo e inchieste) erano prefabbricate e coordinate da Severino Cesari, Silvano Piccardi, Attilio Mangano e Umberto Tartari. La stessa cosa avveniva per le pagine monotematiche legate al lavoro di massa (fabbriche, scuola, sociale) e in quel caso se ne occupavano i responsabili delle commissioni nazionali. Le pagine prefabbricate consentivano alla tipografia di lavorare anche di mattina, lasciando al pomeriggio sera la composizione di quelle fresche.

le pagine prefabbricate (cultura, inchieste e spettacolo)

Severino, di gran lunga il più colto tra noi, fu quelllo che se ne occupò con maggiore continuità. Veniva da Perugia ed aveva sempre un’aria malaticcia, un po’ di tosse e un bel sorriso.

Quando nel 1981 andai a fare gli esami di maturità a Roma fui ospite per quasi un mese nella sua casa di Roma condivisa con Gigi Sullo (entrambi lavoravano ormai al Manifesto dopo la rottura nella nostra redazione).

Attilio, con la scusa che insegnava nei corsi serali, poteva fornirci gratis la sua presenza, veniva in redazione alle 14 e ci restava sino alle 20 dopo che i redattori, verso le 17:30 se ne andavano. Ha dato un contributo molto importante e se ne trova traccia nel libro “la generazione che ha perso” in cui Fabrizio Billi dedica un saggio proprio al suo lavoro di cultura politica nelle pagine del quotidiano.

Attilio, appassionato come Silverio di storia del movumento operaio, interveniva su tutte le tematiche riguardanti il comunismo e sfornava recensioni a raffica. Nella intervista per la storia di AO ricorda scherzosamente che, per questa ragione, lo si consuderava il Suslov di Avanguardia Operaia.

Umberto, già laureato in Fisica e ricercatore nel gruppo di Fisica dei plasmi, si è occupato di tutta la prima fase facendo anche il caporedattore prima di tornare, dopo i primi mesi, a fare ricerca universitaria. La sua presenza in redazione era del tutto naturale visto che, sin fal 68, era stato lui ad occuparsi del lavoro di organizzazione della rivista teorica e credo anche dei quaderni. Se sfogliate il quotidiano vedrete che scrive raramente e, quando lo fa, è per dare elementi di orientamento su problematiche di politica o cultura generale su cui non c’era ancora una posizione definita.

Silvano Piccardi in scena con Ottavia Piccolo, un’altra amica e sostenitrice del QdL

Se si sfogliano le pagine culturali del 74 e del 75 balza all’occhio la presenza costante di Silvano Piccardi, attore teatrale, regista, doppiatore, esponente di punta dei Circoli la Comune che, sul QdL, interviene quasi ogni giorno con una recensione, vuoi di cinema, vuoi di presentazione di eventi o compagnie teatrali.

Silvano che aveva mosso i primi passi nel teatro sin da bambino era già famoso e senza spocchia faceva il suo lavoro di recensore. Era un onore e un piacere averlo tra noi anche perché era molto simpatico.

Sempre nella prima fase, nella stanza a destra dopo il centralino e prima dell’ufficio del direttore, c’è stata la presenza di Peppino d’Alfonso, uno dei compagni di chimica della prima generazione e che era stato la colonna portante, anzi di più, del quindicinale divenuto poi settimanale. Ce lo racconta direttamente lui nell’articolo dedicato al ricordo di Michele Randazzo. Eravamo un bel gruppo di parvenu e dunque all’inizio la presenza di una struttura forte di coordinamento dei redattori era indispensabile. Anche Peppino, come Umberto, dopo qualche mese se ne è tornato all’Università.

La produzione dei pezzi che davano vita alle pagine culturali veniva compiuta da una rete di collaboratori nazionali e l’assemblaggio aveva luogo nella stanza 1 (la stessa dove stavano Peppino e Umberto). Secondo me quel lavoro era eccessivamente elitario, da sinistra culturale (o forse io ero un po’ troppo provincial-brianzolo) e, quando la direzione operativa passò nelle mie mani, il giornale incominciò a parlare di televisione, anche in prima pagina, grazie alla collaborazione di un compagno (Sergio Lentati) che, di mestiere, produceva i Caroselli e si firmava Baal.

Leonardo Coen e Sartana

Per il resto la struttura era quella tradizionale di un quotidiano; redazione organizzata in servizi con tre redattori per ogni area: interni, economia e sindacato, cronaca-costume,  esteri oltre ad un giornalista un po’ underground rispetto al nostro essere prima militanti rivoluzionari e poi giornalisti: Leonardo Coen.

Leo lavorava fuori dalla struttura fissa del giornale e un po’ lo invidiavamo perché poteva fare l’inviato. Non facendo parte di AO si poteva permettere di fare il pierino di turno prescindendo dalle regole ferre della organizzazione. Così potè occuparsi di sport e di costume, oltre che insistere perché il giornale non si piegasse troppo alle esigenze della politica. La sua presenza era stata uno dei paletti posti da Silverio nei confronti della segreteria, nell’ambito della sua autonomia di direttore.

Si firmava Leos Valentin e nel numero 1 propone un servizio da Palermo dal titolo Fustigare carusi è lecito: a parlarne, invece, si va dentro, a proposito di bizzarre sentenze della magistratura siciliana. Nel primo mese è presente con un articolo al giorno su tematiche di cronaca e costume.

L’altro acquisto di Silverio era il figlio di Gianni Brera, Carlo (1946-1994), un po’ anarchico, che scriveva dei corsivi dissacranti firmandosi Sartana. Leo ci lasciò quando Scalfari fondò la Repubblica e ci è rimasto, come inviato speciale, per tutta la vita professionale sino alla pensione, mentre Carlo Brera ha continuato con noi anche dopo che Silverio ha lasciato il quotidiano.

sartana 28 novembre 1974

via Bonghi 4 – planimetria e apparati tecnici

La planimetria l’ho preparata fidandomi della memoria e vedo che, per esempio, ho dimenticato i bagni che ci stavano di sicuro.

Il desiderio di avere un quotidiano era cresciuto più veloce delle gambe e così, per almeno un anno, abbiamo fatto un quotidiano senza avere le telescriventi ma le agenzie le andavano a prendere i nostri baldi fattorini Nicola (Nicolosi) e Gigi (Gerosa) che, per tutta la mattina e nel primo pomeriggio, in tram o in motorino, facevano la spola tra via Bonghi (a metà di corso san Gottardo) e il palazzo della stampa in piazza Cavour a prendere le copie dell’Ansa e della Adnkronos.

Ho sempre pensato che quella di non acquistare la telescrivente fosse una scelta demenziale della serie tanto dobbiamo fare la rivoluzione. Poi, per fortuna, il papà di Franco Calamida, Leonida, che era stato compagno di lotta antifascista di Adriano Olivetti, riuscì a procurare gratis le telescriventi e ci sembrò di rinascere. Sicuramente rinacque Nicola che incominciò a fare una vita più normale, mentre Gigi collaborò con i grafici per poi passare in redazione agli esteri.

Olivetti Lettera 22, una per ogni redattore

A proposito di Olivetti, quella nella foto era la nostra compagna inseparabile. Gli articoli si scrivevano su fogli di carta formato A4  (simile a quella da ciclostile)  con un riquadro bordeaux  da 65 battute per 30 righe e nella parte alta le informazioni di riconoscimento del pezzo (per la tipografia).

Era la cartella standard del QdL che faceva da unità di misura per ogni operazione. La mia Olivetti, a differenza di altri redattori che se la sono tenuta in conto stipendi non pagati, è rimasta in redazione quando me ne sono andato intorno a novembre del 76. Tanto, dal 72 possedevo una Adler che aveva come caratteristica di avere caratteri più grandi. Ci ho scritto i due saggi per politica comunista oltre che le recensioni per il quotidiano che preparavo da casa.

i personaggi e i luoghi della redazione

Stanza 1 – di tutto un po’

Umberto Tartari a fisica in occasione del 40° del movimento di Scienze

Umberto Tartari (caporedattore) c’era all’inizio ma poi, per ragioni di carriera universitaria, è tornato a fare il fisico dei plasmi. Così, dopo la sua partenza e per un breve periodo, ho dovuto fare sia il caposervizio interni sia il caporedattore: quello che rivede gli articoli, fa i titoli, dà i consigli e prende le decisioni se c’è da cambiare il menabò.

Umberto aveva svolto un ruolo chiave, sin dall’inizio, nelle pubblicazioni di AO, nella rivista teorica e nel settimanale. Non ho mai capito come mai non fosse stato coinvolto più a fondo; probabilmente aveva deciso di tenere il piede in Università e occuparsi di fisica cosa che ha effettivamente fatto.

Come ho già detto, in questo locale abbastanza grande si facevano le pagine prefabbricate e lo si usava anche per ricevere le persone di passaggio data la sua vicinanza all’ingresso. Ad un certo punto ci si spostò Mario Gamba per seguire la terza pagina mentre il suo posto agli esteri fu preso da Gigi Gerosa.

Stanza 2 – il direttore

ci stava Silverio e, dopo la sua autodimissione improvvisa, che non ci è stata mai spiegata, ma che aveva a che fare con una diversa sensibilità politica e con differenze di linea rispetto all’approccio leninista canonico, mi ci sono trasferito io. Facevo il vicedirettore insieme a Massimo Gorla, mentre, formalmente il direttore era il segretario politico Aurelio Campi.

Massimo arrivava tardi la mattina a giornale già impostato, aveva tante cose da fare, spesso non c’era per via dei contatti con l’estero, e dunque non riusciva a stare dentro la finestra temporale degli impegni connessi alla fabbricazione di un quotidiano, anche perché, a pranzo, ci dava dentro e quindi la digestione risultava lunga. La definizione, che gli hanno appioppato dopo la morte, di gentiluomo comunista gli calza a pennello.

Mario Pucci a casa mia nel 2016; abitiamo entrambi in Toscana, lui a Firenze e io nella Maremma senese. Mario al quotidiano seguiva la politica milanese e la pagina regionale lombarda.

Sembra incredibile ma le dimissioni di Corvisieri nel dicembre del 75 arrivarono come un fulmine a ciel sereno, non ci furono spiegate e lui non le motivò con la sua redazione. Nel suo libro del novembre 76, I senzaMao, ne parla diffusamente e si capisce che dietro c’erano una frattura caratteriale e politica con il gruppo dirigente di AO di origini milanesi.

La sua interpretazione è che i contrasti fossero profondi e che lui sbagliò, in più di una occasione, a non esplicitarli. Fatto sta che, da un giorno all’altro, mi ritrovai a dirigere il quotidiano.

C’erano una scrivania, il telefono azzurro (quello con i tasti per i trasferimenti di chiamata), una poltrona e delle sedie su cui si appoggiavano a turno i sederi di tutti i redattori, per un consiglio o per scambiare una opinione. Ci entrava continuamente la segretaria di redazione (Carla) per gli appuntamenti, mentre le redazioni locali (Roma, Venezia, Torino e Napoli) si facevano vive telefonicamente.

E’ stato da allora che ho iniziato ad odiare il telefono e non mi sono più riconciliato, come ben sa chi mi chiama e, spesso, se sto facendo altro, mi trova un po’ sgarbato. Di certo mi piaccioni di più le e-mail,  le leggi con calma quando decidi tu e non quando ti parte il beep. Utilizzo anche Whatsapp, dopo una telefonata, per brevi messaggi a lettura immediata o per trasmettere documenti, dopo che ho concordato la cosa. Odio nella maniera più totale i messaggi vocali che sono la negazione della comunicazione bidirezionale.

Tra le 14 e le 15:30 mi ero ritagliato il tempo per scrivere i pezzi (per gli interni o gli editoriali) e regolarmente, in piena concentrazione mentale, squillava il telefono che ti obbligava a resettare il cervello; finivi la telefonata, davi le disposizioni conseguenti, ti riconcentravi e lui suonava un’altra volta.

Stanza 3 – segreteria di redazione

Carla al centralino di via Bonghi

Carla Rampi era le segretaria di redazione e coordinava il lavoro delle compagne che si occupavano della sbobinatura dei pezzi delle redazioni locali (tefefonata, registrazione, ascolto in cuffia e comandi a pedale per battere a macchina).

Le telefonate, a volte diventavano troppo lunghe con i corrisponedenti logorroici e il centralino aveva la disposizione, dopo un certo tempo, di interrompere causa chiamata urgente in arrivo.

Ad un certo punto è comparso anche una specie di scanner-fax puzzolente e rumoroso che, se non ricordo male, veniva usato dalle redazioni di Roma e Torino. Una parte degli articoli (Napoli e Venezia) venivano anche prelevati dai fattorini direttamente ai treni in stazione Centrale nella modalità fuori-sacco. Poi c’erano quelli che scrivevano a mano (come Campi e Calamida) e allora c’era anche il problema della interpretazione dello scritto.

Carla è arrivata al QdL sin dalla fase preparatoria, studiava biologia, e mi racconta che, all’inizio al tempo dei numeri zero, la situazione era di grande casino. Conferma che, secondo lei, era stata fatta una accelerazione eccessiva per uscire. Per fortuna, ad un certo punto, prima del numero 1, comparve Felice Chilanti (partigiano, giornalista e scrittore che nel 74 aveva 60 anni) a dare una mano sul come si fa un giornale partendo da zero. La sua collaborazione fu preziosa.

Aveva un rapporto molto stretto con Silverio e ogni tanto in pausa pranzo andava a casa sua a dare una mano alla figlia nel fare i compiti. Mi ha raccontato di una volta in cui si aspettava un editoriale di Campi che non arrivava; era già passata l’ora di chiusura e Silverio le aveva dato un editoriale di ricambio; se non arriva pubblica questo. Campi era in ritardo, ci fu un braccio di ferro, qualche minaccia, ma alla fine la ebbe vinta lei perché i tempi di chiusura non aspettano nemmeno il segretario politico.

Sempre sul piano dei ricordi dà il palmares della simpatia a Vittorio Rieser e Massimo Gorla e quello della serietà organizzaiva e disponibilità ad Umberto Tartari.

Marco Orilia e Carla Rampi festeggiano il 25 aprile del 2024 con una risottata antifascista

Era lei ad occuparsi della organizzazione della giornata, degli apparati tecnici, dei rapporti con le redazioni e con la tipografia. Il suo era un ruolo fondamentale per fare materialmente il quotidiano. A partire da una certa data, si aggiunse al suo fianco Michela Maffezzoni che poi si sarebbe sposata con Cippone (Luigi Cipriani) e che ora ne cura la Fondazione.

Carla si è sposata con Marco Orilia, un compagno del movimento di Biologia che al quotidiano ha seguito la diffusione e poi è passato a Repubblica a seguire la produzione degli inserti e delle pubblicazioni speciali. Una coppia del QdL che è rimasta insieme e che vive nel biellese continuando a testimoniare i valori rimasti in piedi.

Stanza 4 – centralino e reception

Era il cuore pulsante per le chiamate in ingresso (gestiva anche la amministrazione che stava al piano di sotto). Si entrava da un portoncino in legno visibile nella foto con Carla e sul davanti c’erano un paio di poltrone per i visitatori in attesa.

Stanza 5 – fotografi, grafici, sala riunioni

Adiacente alla parete del centralino c’era l’archivio fotografico mentre la camera oscura e le attrezzature stavano al piano di sotto di fianco alla amministrazione. I nostri due fotografi Nereo Pederzolli ed Emilio Tremolada erano bravissimi e li ricordo con affetto, in particolare Nereo Pederzolli, gioviale e sorridente che ha poi fatto il giornalista televisivo per la Rai regionale trentina e che nell’estate del 76, in occasione del terremoto in Friuli, ha fatto l’inviato speciale.

Nel sito del quotidiano è disponibile un link che vi consente di accedere all’archivio fotografico del giornale donato al sistema bibliotecario parmense nel quale, purtroppo, mancano foto interne al giornale (i luoghi, le persone, …)

Una buona parte del locale era occupato dai tavoloni su cui i grafici (Saverio Falcone e Tille Bortolotti) preparavano i menabò in scala 1:1 dopo la riunione di redazione e passavano poi ad assegnare, in righe, le dimensioni dei pezzi e le colonne dei titoli.

Era la sala grande, con sulla parete a sud anche un cenno di biblioteca e lì, la mattina verso le 10:30, facevamo la riunione a cui partecipavano obbligatoriamente i capiservizio, ma che era aperta a tutti i redattori. Ovviamente presiedeva il direttore che, come i capiservizio e Carla, aveva già letto il pacco dei quotidiani, visto le Ansa della notte e parlato con le redazioni locali.

Si faceva una rapida valutazione del giornale del giorno prima (con i buchi legati al fatto che chiudevamo in redazione alle 17:30 e in tipografia alle 19) e poi si ragionava sul da farsi. In riunione il direttore avanzava delle proposte per la prima pagina con particolare attenzione ad apertura, spalla ed editoriale e, in questa fase si ascoltavano i pareri e le proposte dei capiservizio con scelte eventuali di cambiamento. Carla ricorda che Silverio aveva un chiodo fisso: dovete essere rossi ed esperti. Rossi perchè siamo così, ma esperti perché le notizie vanno sempre controllate almeno un paio di volte.

A questo punto la palla passava ai grafici mentre la riunione proseguiva e si dava una presentazione di massima di tutte le pagine di ogni settore. Alla fine Tille e Saverio ricevevano dei foglietti riepilogativi e passavano alla preparazione dei menabò di ogni pagina mentre nelle stanze di redazione si iniziava a lavorare.

Come Viviamo – Tille Bortolotti, Isabella Cherubini, Ida Farè

Tille, sposata con Ettore Mazzotti, era una persona molto gentile, affascinante, femminista e ben presto insieme ad altre compagne della redazione mise in piedi una rubrica di costume ad orientamento femminista.

Saverio, moro, simpatico e con un bel barbone, dopo il quotidiano ha fatto tutt’altro. E’ diventato uno psicanalista di scuola Junghiana.

Stanza 6: costume, giovani, scuola, pagina Lombardia

Qui operava la parte un po’ frikkettona della redazione grazie alla presenza di due compagne poco propense all’inquadramento: Ida Farè (1938-2018) e Giovanna Pajetta che essendo l’ultimogenita di Giancarlo Pajetta era, caratterialmente, l’esatto contrario del padre.

QdL 5/12/74 il primo articolo di Ida

Ida ci educava al punto di vista delle donne, non capivi mai dove volesse andare a parare, ma alla fine ti rendevi conto che aveva ragione. Oltre a metterci la testa e il cuore, ci ha messo anche tanto del suo, privandosi di numerosi appartamenti di proprietà per fare il giornale. Se sfogliate il giornale dall’inizio incontrate i suoi articoli quasi in ogni numero (cronaca politica, femminismo, cronaca sociale, editoriali e commenti).

I suoi articoli erano spesso corredati da vignette fumetto che esprimevano il dramma della condizione femminile. Leggetevi il ricordo che ne fece Lorenzo Baldi nell’estate del 2018 in occasione della sua morte in per Ida.

Giovanna era il nostro agente nella nuova frontiera del proletariato giovanile e di tutto ciò che non rientrava propriamente nel punto di vista di una organizzazione leninista in termini di costume, sesso, omosessualità, droga, proletariato giovanile. Le aperture del QdL e della commissione cultura diretta da Vincenzo Vita non furono indolori nel gruppo dirigente leninista dentro AO come testimonia lo stesso Vincenzo Vita in “volevamo cambiare il mondo“. Silverio li copriva; aveva una maggiore apertura verso le tematiche emergenti ma comunque entro i canoni del socialismo come si vede da questo titolo per il festival del proletariato giovanile.

Nella stanza numero 6, nel tempo ci hanno lavorato, in periodi diversi, anche Roy De Gioia, Giovanni Lanzone, Emilio Genovesi e Piervito Antoniazzi, visto che la scuola non aveva un suo luogo fisico.

La scuola era costantemente presente nelle pagine del quotidiano sia per gli eventi milanesi e delle altre città, sia perché il quotidiano faceva da luogo di elaborazione e trasmissione della evoluzione di linea politica. Piervito, che lavorava anche agli interni, ad un certo punto si trasferì alla redazione della radio Canale 96.

Scorrendo le annate del 75 e del 76 si ha l’impressione di una passione generosa e della difficoltà ad elaborare una linea che non fosse quella del contro. Esemblare la posizione di opposizione ai decreti delegati in nome della democrazia diretta. Una linea che funzionò nella fase aslta delle lotte e fu destinata, sul piano strategico, alla sconfitta. D’altra parte quello era il nostro DNA.

un giovane Piervito Antoniazzi al tavolo di lavoro

C’erano poi Lorenzo Baldi e Mario Pucci che, dopo le vittoriose elezioni milanesi del 75, seguivano l’attività della nuova giunta di sinistra a Milano e il lavoro del nostro gruppo consiliare con Emilio Molinari. Fu uno di loro ad innescare, involontariamente, l’incidente diplomatico e sindacale che determinò una visita del servizio d’ordine per difendere l’onore offeso dei nostri dirigenti proletari e poi la dimissione della quasi totalità della redazione in risposta ad una richiesta di licenziamento.

Ne ha scritto su Pensieri in libertà il Lorenzo Baldi in da Avanguardia Operaia al Quotidiano dei Lavoratori.

Stanza 7: Economia e sindacato (lotte proletarie)

Grazia Longoni in una foto recente

All’economia e sindacato c’erano Grazia Longoni (detta Lella), che aveva già lavorato al settimanale, Liliana Belletti (1953-2023) e Carlo Parietti (1950-2022), un torinese neoacquisto con la passione per l’economia.

Carlo, dopo una parentesi al PDUP, è passato all’ufficio stampa della CGIL e quindi alla direzione del sindacato europeo dei quadri. Lella è divenuta professionista nel 77 ed ha proseguito per 40 anni la attività giornalistica.

Liliana, sempre sorridente, dopo il QdL, è passata alla scuola e con Grazia ha lavorato alla casa delle donne di Milano mettendosi in luce per battaglie legate al riconoscimento delle coppie lesbo che la riguardavano direttamente.

C’è poi un quarto redattore che ha lungamente lavorato sui temi della economia, in particolare di quella internazionale e che prima di andarsene a metà del 76 era passato agli esteri facendo lunghi reportage dalla rivoluzione portoghese: Alessandro Fugnoli. Alessandro. filosofo di formazione, se ne andò perché non reggeva più gli stipendi bassi e a singhiozzo e in questi anni è diventato uno dei maître à penser sui temi della economia internazionale e della gestione dei fondi.

Se andate al febbraio 75, troverete 4 pezzi suoi piuttosto significativi e, in qualche misura, estranei ad articoli da quotidiano della sinistra rivoluzionaria perché le sue erano analisi documentate in cui c’era poco spazio per la ideologia e per il pistolotto sulla lotta di classe.

4 articoli di Alessandro tra le pagine di economia e quelle di esteri nel febbraio 1975

Nella stanza 7 si lavorava su due livelli: il rapporto quotidiano con la commissione fabbriche ed il movimento dei CUB. Era inevitabile che ci fossero la supervisione di Cippone e i contributi di Franco Calamida e di Vittorio Rieser. Sin dall’inizio ci fu il tentativo di introdurre le problematiche della economia dentro il quadro della lotta di classe. I due ambiti, per ovvie ragioni, comunicavano poco tra di loro ed equivalevano a due servizi distinti con pagine diverse (la 4 e la 5) che ogni tanto si sovrapponevano.

Nella pagina economia e sindacato si affacciavano anche i diversi responsabili delle lotte sociali, da Cippino a Sandro Barzaghi a Claudia Sorlini che, pur non lavorando in redazione, in particolare nel 75 e nel 76 erano costantemente presenti sulle pagine del giornale (occupazione delle case, autoriduzione delle bollette, mercatini rossi, …).

Lella e Liliana, per ovvie ragioni legate al cosiddetto lavoro di massa di AO in giri per l’Italia dedicavano una parte consistente del loro lavoro al rapporto con le redazioni locali in particolare Torino, Napoli, Venezia-Verona.

Stanza 8: servizio interni

Ettore Mazzotti ad un convegno di politica economica sulle prospettive Italia-Cina

Il mio lavoro al quotidiano è incominciato qui insieme ad Ettore Mazzotti (1948), Franco Vernice (1952-2019) e Pierluigi Sullo (1951) e dunque mi scuserete se li ricordo uno per uno.

Ettore, marito di Tille, proveniva dal settimanale, aveva operato alla controinchiesta che portò al pamphlet La Strage di Stato e ora dirige diverse iniziative editoriali nel gruppo di Milano Finanza.

Come tutti quelli che hanno cambiato radicalmente strada, nella sua biografia non c’è traccia del passato ed ho faticato a trovare in rete sue immagini o qualche notizia di carattere biografico. Ha sempre la stessa faccia.

Franco Vernice

Franco Vernice, dopo la esperienza al QdL in cui aveva maturato tutti i piccoli segreti del lavoro sulla giudiziaria (passava tutte le mattine in tribunale e il pool dei cronisti faceva gruppo), dopo la crisi del dicembre 76, è passato alla Repubblica facendo l’inviato e continuando ad occuparsi di giudiziaria.

Per il tribunale di Milano, dalla strage di piazza Fontana in poi, di roba ne è passata tanta. Il gruppo dei cronisti giudiziari era una realtà ben organizzata; ci si divideva il lavoro e poi si condividevano le informazioni.

Frank Cimini

Muoveva i primi passi giornalistici, con interessi per la giudiziaria anche Frank Cimini che però, in quel periodo lavorarava ancora nelle ferrovie. Dopo il QdL ha lungamente lavorato per Il Mattino di Napoli e mi chiedevo come potessero sopportarlo (establishment versus anarchia).

Negli anni è diventato il riferimento nazionale per le problematiche di cronaca giudiziaria con posizioni che oscillano tra il garantismo di matrice radicale e un sottofondo anarchico-libertario che lo mette costantemente contro le istituzioni.

Ci sentiamo a colpi di like sui social network e leggo sempre con interesse i suoi articoli su tematiche garantiste e i post che iniziano sempre e costantemente con la sua parola d’ordine buongiorno stocazzo.

Gigi Sullo era il mio prediletto. Come racconta nella biografia-intervista rilasciata per la preparazione alla storia di AO, ha avuto una infanzia complicata e sofferta, di cui si parlava anche allora (la morte del papà poliziotto quando lui era giovane), Treviglio, la Statale, il rapporto controverso con Edo Ronchi (che avevo anche io) e che determinò il suo invio al quotidiano. Non ricordavo che, nel 75, Silverio lo inviòa Roma ad organizzare la nascente redazione romana.

Gigi Sullo a fine anni 80 al Manifesto

Io e lui ci occupavamo di politica interna con all’inizio una certa gerarchia anche nella collocazione dei pezzi: editoriali al direttore, commenti e articoli di prima pagina io e tutto il resto lui. Gigi era acuto e scriveva molto bene. mi piacevano la intelligenza e la cultura e a cui, nel momento in cui decisi di iscrivermi al PCI, sentii il bisogno di scrivere una lettera per spiegare le mie ragioni (lui era ormai a Roma al Manifesto).

Politicamente le nostre strade si sono divise; si orientò verso tematiche di tipo mondialista e i relativi movimenti che finirono per farlo divenire eterodosso anche rispetto al Manifesto,  in cui aveva svolto incarichi di direzione, mentre io, ormai fuori dal giornalismo e dalla politica attiva mi orientavo alle scienze dure, alla razionalità scientifica e alle problematiche di funzionamento della scuola.

Oltre che di politica in senso stretto, mi occupavo di questione cattolica e questione democristiana in senso ampio. In proposito, dopo aver guardato un po’ di numeri della raccolta 75 e 76 ho trovato conferma di una cosa che temevo: ero analitico nel cogliere differenze e specificità, ma poi, in ossequio alla linea secondo cui il Moloch democristiano, era il nemico principale, nostro e del movimento operaio finivo per applicare la tesi secondo cui sono tutti uguali: Moro è un po’ diverso, ma in fondo in fondo è come Fanfani e tutti e due difendono gli interessi del grande capitale.

Il servizio interni si occupava anche di rivedere e mettere in pagina tutte le questioni legate al movimento di democratizzazione delle forze armate sia sul versante dei soldati di leva sia su quello, moilto importante cui facemmo da cassa di risonanza, dei sottufficiali, in particolare dell’aeronautica.

Gli articoli, per ovvie ragioni di sicurezza, erano firmati in maniera generica (i soldati della caserma …) e da due compagni, il responsabile della commissione problemi dello stato Alberto Madricardo, che si firmava Piero Bonetti e un compagno di Pinerolo Franco Milanesi che seguiva il nord ovest. Alberto, nelle interviste fatte come lavoro preparatorio al libro sulla storia di AO, racconta di un divertente qui pro quo con la redazione che ne smascherò l’alias. Qualcuno pensò che Bonetti era il nome vero e Madricardo l’alias e così ad un certo punto un suo articolo comparve con i suoi dati veri. Gli articoli che riguardano l’esercito sono tra i 15 e i 20 al mese (lotte, processi, lettere, comunicati, servizi, …).

Stanza 9: servizio esteri

Quello degli esteri era un servizio speciale per diversi motivi: i redattori in senso stretto erano solo due, ma dietro di loro stava Massimo Gorla con la sua fitta rete di contatti in tutto il mondo, rete costruita negli anni in cui stava nel segretariato internazionale dell IV internazionale con sede a Parigi.

Astrit Dakli esperto di esteri ha lavorato 30 anni al manifesto facendo il corrispondente da Mosca negli anni speciali dell’URSS; Mario Gamba addetto agli esteri ma grande esperto di musica

Così, mentre Astrit Dakli (1948-2016) e Mario Gamba facevano il lavoro sporco dello star dietro agli avvenimenti della politica estera mondiale (Germania, Medio Oriente, Indocina, Spagna, …) documentandosi e producendo servizi, contemporaneamente alla stanza degli esteri arrrivavano con continuità corrispondenze ed inchieste prodotte sul posto.

Miguel Angel Garcia (1939-2023)  era certamente il più prolifico sulla America Latina e in particolare sulla Argentina, sua terra d’origine che aveva lasciato per l’Italia nel 1973 dopo una notevole esperienza politica con forze di orientamento socialista di sinistra. La sua presenza nelle pagine del quotidiano delle origini è imponente.

Un altro corrispondente, questa volta nel senso proprio del termine, è quello dalla Francia, Dominique Ferrero che cerca di seguire gli avvenimenti del suo paese e ne dà conto agli italiani. Ci sono corrispondenti da altri paesi (Inghilterra, Germania, Grecia, …) ma si tratta di collaborazioni meno sistematiche, solitamente siglate. I reportage dalla Spagna, e in particolare da Barcellona, sono sempre frutto di un mix di professionalità; le notizie arrivavano scritte o via telefono dai compagni di Bandera Roja e venivano poi trasformate in articoli in redazione.

Burchett a colloquio con Ho Chi Minh

A partire dal 75 e poi nel 76 prendono spazio le vicende portoghesi (con una serie di belle corrispondenze di Alessandro Fugnoli e un’altra di Chantal Personè, la moglie di Renzo Rossellini) e quelle indocinesi in cui si mescolano pubblicazioni di comunicati e documenti originali con i servizi speciali di Wilfred Burchett (1911-1983) un giornalista australiano che visse per un certo periodo con i vietcong e anche qualche reportage frutto di viaggi in Cina.

Ad un certo punto Mario si spostò verso le problematiche culturali e musicali (la sua passione) e il suo posto in redazione venne preso da Gigi Gerosa, già fattorino.

Stanza 10: Segreteria Nazionale

la segreteria nazionale si era riservata una stanza distinta dalla sede di via Vetere e, in questa stanza facevamo anche piccole riunioni di vario genere quando c’era bisogno di ragionare con calma. Ci giravano a turno, Rieser, Calamida, Vinci, Oskian-Campi, Sorlini, Vita, Lanzone.

le redazioni locali

Quando a fine 1976 diedi l’esame orale di giornalismo una delle domande che mi  fecero riguardava le fonti e il controllo delle fonti e io risposi che il nostro era un giornale un po’ diverso dalla stampa borghese, le nostre fonti erano i movimenti e i compagni che ci stavano dentro non solo come giornalisti.  Intendevo riferirmi ai corrispondenti e alle redazioni locali.

Le redazioni vere e proprie (cioè in cui operava più di una persona e con continuità) erano: Napoli, Roma, Torino e Venezia. Dagli altri capoluoghi di regione operavano dei corrispondenti che si facevano vivi in maniera random.

Se sfogliate le annate vedrete che alcune redazioni pubblicano sino a 4 o 5 pezzi al giorno oltre ai servizi speciali (pagine a tema).

A Napoli c’erano Guido Piccoli a coordinare il lavoro di AO e alcuni compagni che muovevano i primi passi. Nel 75 ci sono articoli dei due fratelli Ruotolo, Francesco e Guido e ad un certo punto compare R. di Francesco; penso fosse lo pseudonimo anagrammato di Francesco Ruotolo; era una macchina da guerra in termini di produzione, uno o due pezzi tutti i giorni dalla cronaca locale alla politica nazionale e si spostava anche come inviato a Roma e al Sud.

Ma da Napoli scriveva anche con grande continuità Giacomo Fiore. I temi erano il degrado della città, la politica amministrativa verso le giunte rosse, il movimento dei disoccupati organizzati, le politiche per il mezzogiorno.

A Roma c’era una vera e propria redazione con  sede  propria presso la casa di produzione di Renzo Rossellini, la Gaumont. C’erano due Paole (Ottaviani e Sacerdoti), Livia Sansone e altri di cui non ricordo il nome.La redazione romana lavorava su Roma, sulla politica nazionale dando una mano agli interni, sulle lotte sociali e sul sindacale (Livia era l’alter ego di Carlo Parietti a Milano).

Gianni Boscolo in una immagine da giornalista impegnato sul fronte ambientale

A Torino la redazione era coordinata da Gianni Boscolo (1946-2024), recentemente scomparso, che nella vita ha fatto il giornalista impegnato sul fronte naturalistico e ambientale. La redazione era composta da 3 o 4 persone e seguiva oltre a tutte le problematiche del gruppo Fiat le vicende della città dal punto di vista sociale.

La redazione di Venezia lavorava più a singhiozzo e lo stesso vale per quella veronese; nel resto d’Italia, non avevamo persone a tempo pieno ed erano i singoli compagni a farsi vivi con  la redazione per raccontare quel che succedeva di importante.

La giornata

La mattinata, dopo la riunione di redazione, si concludeva impostando i pezzi; in ogni stanza si svolgevano delle mini riunioni, mentre alcuni privilegiati (della cronaca, degli interni e del sindacale) potevano andare in giro per la città a fare i cronisti e li li ho sempre invidiati.

Si staccava dall’una alle due e mezza: panino nella latteria di sotto, oppure pranzo al ristorante con cui ci eravamo convenzionati. Il titolare era abruzzese  e facevano la pasta alla chitarra. Ricordo un dolce, la goccia d’oro, che la proprietaria del ristorante, che era veneta, chiamava coglioncini degli angeli perché sull’esterno di un mezzo cilindro con meringa e creme varie erano depositati tanti piccoli bigné.

Si pranzasse in Latteria o al Ristorante, era d’obbligo la partita a carte: scopone, tressette o briscola a chiamata e poi si tornava su a scrivere sino alle 17:30. Quando sono venuto via dal Quotidiano, ero ingrassato di quasi 10 chili: vita sregolata e sedentarietà.

Non c’era teletrasmissione e quindi i pezzi andavano in tipografia (a ponte Sesto di Rozzano) con i fattorini e alle 17:30, a turno ci andava anche un redattore che rimaneva sino alla partenza della rotativa.

Quando facevo il direttore gli articoli della prima pagina venivano rivisti da me mentre i capiservizio curavano quelli delle pagine interne. Alle 18:30 il giornale era definitivamente chiuso per consentire ai corrieri (compagni alla guida di Fiat Ducato e Ford  Transit) di andare a Roma, Torino, Venezia e Napoli, tutte le notti, con ogni tempo.

Questo della chiusura anticipata è sempre stato un limite nella capacità del Quotidiano di essere un quotidiano vero. Era normale, rispetto alla stampa nazionale, toppare le aperture e tornare sopra a certi avvenimenti con un giorno di ritardo. Sarebbe servita la teletrasmissione e una doppia tipografia, come fece il Manifesto con la apertura di una tipografia a Milano aggiuntiva rispetto a quella di Roma.

qualche momento speciali

gioia di vivere e lotta di classe

A settembre del 1975 Silverio decide di scoperchiare il pentolone del personale che è politico. Titolo del suo articolo Gioia di vivere e lotta di classe, leggetelo Lo fa nel suo stile in parte fortemente innovativo e contemporaneamente con la necessità di metterci una buona dose di leninismo, che non guasta mai. Nel suo libello I senzamao pubblicato nell’autunno del 76 quando ormai aveva rotto con AO e DP, ma stava in Parlamento, aggiungerà anche una serie di elementi di natura autobiografica che lo avevano messo in crisi (il femminismo, il rapporto con la moglie, …).

la pagina 1 e la 6 di quel giorno

Nella immagine si vede che l’apertura del giornale la fa Alessandro Fugnoli sul Portogallo ma, in taglio basso. c’è il suo editoriale che occuperà poi tutta la sesta pagina accompagnato da due citazioni che faranno epoca:

  • grigia è la teoria e verde l’albero della vita” chi l’ha detto. Marcuse? – No Vladimiro Ilic Lenin
  • L’energia rivoluzionaria è inesauribile soltanto se è basata sulla coscienza di classe e se tiene conto della soggettività

Non basta in un box in alto a destra c’è una poesia di Majakowskj: La mania delle riunioni.

Mi viene in mente un passaggio del suo applauditissimo intervento al IV congresso, intervento che aveva lasciato un po’ freddino il resto del gruppo dirigente: Non sarà possibile la vittoria della rivoluzione socialista fino a quando milioni e milioni di donne, al noto intervistatore della Tv che chiede che cos vogliono in cambio del fustino di detersivo, non risponderanno che vogliono un mitra.

Silverio era così, spumeggiante e un po’ vanitoso; amava indorare le sue svolte politiche con una bella spruzzata di teoria. In questo caso era visibilmente a disagio rispetto alla esperienza milanese (un romano che non si integrava) e alla fine se ne tornò a Roma non prima di essersi scontrato in segreteria nazionale con Vinci e Campi (lo racconta con tutti i dettagli in I senza Mao). Al giornale non ne sapevamo nulla, ma all’improvviso tra la fine del del 75 e l’inizio del 76, mi ritrovai a dirigere il giornale.

la morte di Giannino Zibecchi

Giannino Zibecchi morto, a terra con la testa fracassata da un blindato salito sul marciapiede

Il 17 aprile del 75 Ettore Mazzotti e Franco Vernice rientrarono in redazione sconvolti con in mano i documenti di Giannino Zibecchi la cui testa era stata appena schiacciata da un blindato dei carabinieri nel corso degli incidenti successivi al tentativo di assalto alla sede fascista di via Mancini; erano emozionati e spaventati. La manifestazione era stata indetta per protestare contro l’assassinio, per mano fascista di Claudio Varalli.

La sede di via Mancini era stata data alle fiamme e ad un certo punto partì, in corso XXII marzo il carosello delle Jeep dei carabinieri scatenati alla ricerca del morto.

Ettore Mazzotti che era presente ne fa una cronaca dettagliatissima che vi invito a leggere, con Giannino che si arrampica su un palo e quando salta gù viene prima investito e poi gli ripassano sopra. Pochi giorni dopo la sinistra rivoluzionaria celebrò il 25 aprile con una grandiosa manifestazione cui parteciparono, in divisa, centinaia di soldati democratici. Alla manifestazione del 25 aprile mia moglie Bruna correva sventolando una grande bandiera rossa e intanto dentro di lei cresceva Daniela che sarebbe nata a fine dicembre

Nel corso del 75 a Milano ci furono manifestazioni poderose, anche per festeggiare la vittoria dei Vietnamiti e la presa di Saigon; ci furono le occupazioni delle case promosse dall’Unione Inquilini, le autoriduzioni, il movimento dei soldati, le lotte di fabbrica contro le ristritturazioni e per i contratti aziendali, il tentativo di costruire l’unità sindacale dal basso.

Ci presentammo alle elezioni amministrative in diverse regioni con la sigla Democrazia Proletaria, utilizzata per la prima volta e con un curioso simbolo, quello della falce e tenaglia. il risultato fu lusinghiero. Furono le elezioni della grande avanzata comunista che portò alla formazione di giunte di sinstra in gran parte d’Italia.

A maggio ci fu il festival del proletariato giovanile a Parco Lambro con Giovanna Pajetta inviata e partecipante; la situazione si ripetè l’anno succesivo mentre esplodeva il movimento delle donne e noi avevamo la fortuna di avere Ida Farè in redazione che ci spiazzava con le sue considerazioni fuori dagli schemi

Per la redazione i mesi di luglio e di agosto del 75 e del 76 furono momenti di grande crescita nella solidarietà reciproca. Si facevano le ferie scaglionate e chi restava in servizio nel mese di agosto faceva vita comune, anche la sera, andando per trani; ricordo le serate alla bocciofila Martesana lungo il viale Monza; tiravamo tardi perché ci piaceva stare insieme.

Tra il 75 e il 76 ci siamo messi a fare i bambini: io e Bruna, Ettore Mazzotti e Tille Bortolotti, Grazia Longoni e Giorgio Gorli, Vanghelis Oskian e Claudia Sorlini. Ida, sempre all’Avanguardia, aveva iniziato prima, anche con Massimo Gorla.

Verso la fine

Non più puttane, non più gonne, finalmente siamo donne

Nel corso del 1976 ci furono delle rotture all’interno del gruppo dirigente, e ne tratterò le capitolo dedicato alla parabola di AO.

Quelle rotture ebbero un riflesso all’interno della redazione, considerata di destra e fatta oggetto di richieste di licenziamento, messa sotto tutela e persino di due visite da parte del servizio d’ordine.

Ma torniamo a giugno del 76, eravamo tutti molto stressati e cercavamo di capire perché, con tutto quel po’ po’ di movimenti, alla fine le masse votarono PCI.  Le prime pagine di quei quattro giorni, quello delle elezioni e i successivi sono indicative.

Le aperture di sabato, domenica, martedì e mercoledì – da mercoledì ci si rende conto che qualcosa, per noi, non ha funzionato

Sabato e domenica 19 e 20 giugno c’è l’invito a votare DP e al governo delle sinistre; martedì prosegue l’avanzata a sinistra come nel 75, mercoledì si sottolinea che i voti a sinistra sono 3 milioni in più di quelli alla Dc.

Per noi fu una una mazzata, prendemmo qualche deputato, ma il risultato fu un quarto di quanto ci aspettavamo sulla base delle lotte sociali e dei risultati ottenuti. Andarono in parlamento Castellina, Gorla, Mimmo Pinto e Corvisieri (entrato per la rinuncia di Vittorio Foa).  Le masse popolari ci ringraziavano delle case, delle autoriduzioni, delle battaglie di democrazia, ma in cabina votarono PCI. Come vedete dalla immagine sul giornale di mercoledì c’è un inizio di riflessione da parte di Vittorio Rieser: indicazioni per un bilancio critico.

Invece di ragionare si scelse la strada del rafforzamento del volontarismo. Credo che una riflessione, da parte di quelli che sono rimasti a gestire poi una lenta agonia, andrebbe fatta.

Butto lì qualche ipotesi sulla vita stentata del Quotidiano dei Lavoratori. All’inizio fu un eccesso di volontarismo; bisognava prendere quel treno anche se non si era ancora raggiunta una massa critica. Si pensò, da buoni comunisti rivoluzionari, che il fatto di avere a disposizione risorse umane illimitate consentisse di fare qualsiasi cosa. Pensate alla mancanza della teletrasmissione sostituita dai furgoni, alla mancanza delle telescriventi perché tanto il nostro è un giornale diverso, al quasi immediato ritardo nel pagamento dei compagni della redazione, della tipografia e della distribuzione che stringevano i denti e continuavano a lavorare.

la espulsione di Bertasi, Crippa e Spotti

Nel corso del 75 avvenne quella che reputo una grande ingiustizia, da parte del gruppo dirigente alto, la supersegreteria (Oskian, Vinci, Gorla). Furono espulsi con ignominia due compagni che avevano curato il finanziamento e l’amministrazione e che avevano osato mettere in discussione talune scelte: erano Flavio Crippa e Pietro Spotti (1951-2024), due cari amici di vecchissima data, due persone pulite e serie che avevano osato chiedere dei chiarimenti ed osservare che una parte del danaro ricavato da compagni che si erano venduti le case, era stato speso malamente.

Con loro venne radiato Maurizio Bertasi. Grazie all’archivio messo a disposizione da Luigi Vinci presso la fondazione Marco Pezzi sono disponibili i documenti che consentono di risalire ai contenuti della vicenda: lettera alla segreteria di Crippa, Spotti e Bertasi, verbale (steso da Umberto Tartari) di una riunione tra i i tre e la segreteria allargata ai membri del C.C. Manca purtroppo il verbale della riunione di Comitato Centrale che approvò le espulsioni.

I loro rilievi riguardavano la scelta di essere partiti troppo presto, la mancanza di una programmazione, questioni riguardanti la diffusione e gli approvvigionamenti della carta e soprattutto una errata valutazione del valore e delle prospettive della tipografia.

I tre tennero duro nei loro rilievi e furono passati per le armi in senso metaforico; carogne, traditori, controrivoluzionari. Nella miglior tradizione della storia del comunismo siamo tutti rimasti a disagio, ma zitti. Approfitto per scusarmi con loro in maniera pubblica; avevo la massima fiducia in Oskian-Campi e mi fidavo della sua versione e ho avallato, pur non partecipando direttamente, quella decisione.

Chi li accusava, dopo neanche un anno, si è trovato a farsi i processi reciproci come se, certe cose, non fossero già avvenute in quella rivoluzione a cui ci appellavamo tutti con nostalgia vantando il nostro antistalinismo. Gli antistalinisti si comportarono da stalinisti e quel modo di passare sui corpi e sulle anime dei compagni, mi fa ancora male.

Mi piacerebbe che chi ne fu coinvolto direttamente, su entrambi i fronti, esponesse la sua verità. La decisione venne presa in un Comitato Centrale in cui non ero presente, ma dopo la pubblicazione della prima versione di questo capitolo, si è almeno aperta una discussione (ne trovate ampia traccia nei commenti sotto l’articolo).

la scelta di andarmene

Me ne andai dal Quotidiano a novembre del 76 dopo che, nel mese di agosto, avevo osato raccontare sul giornale come era andata la discussione nel Comitato Centrale seguito alla sconfitta elettorale. Fu un articolo in tre puntate (lo trovate qui Perché ho votato contro al Comitato Centrale). Era dedicato:

  • al racconto di quel C.C.
  • ai problemi di strategia per la sinistra rivoluzionaria
  • alla questione relativa alla costruzione del Partito (con chi e per fare cosa), con le annesse e connesse divisioni tra le organizzazioni rivoluzionarie e dentro i gruppi dirigenti

Al rientro dalle ferie venni processato in Ufficio Politico per delitto di lesa maestà e mi venne paracadutato in affiancamento un dirigente di provata fede Vittorio Borelli (di Verona) che non sapeva nemmeno cosa fosse un giornale. Fu una coesistenza impossibile durata all’incirca un mese. Nello stesso periodo esplose anche il caso Corvisieri (dimissionario da Avanguardia Operaia con lettera su Lotta Continua) e per il quale venne richiesta la radiazione.

Quando me ne andai, ero logorato sul piano fisico ed esistenziale, deciso a cambiare vita. Tornai in redazione una sola volta, il 16 dicembre del 76. Mi ero alzato alle 4:30 per rispettare gli orari di mia figlia di 11 mesi che si addormentava presto e si svegliava prestissimo.

Ero in cucina e ascoltai alla radio la notizia della sparatoria avvenuta nella notte che portò alla morte di Walter Alasia e di due funzionari di polizia; uno era il padre di un nostro compagno, l’altro un esponente dei movimenti di democratizzazione del corpo. Walter lo avevo conosciuto bene all’ITIS di Sesto (dove insegnavo) quando stava passando da Gioventù Aclista a Lotta Continua (nel 1973).

Era la prova provata che le BR non erano un gruppo di provocatori ma una parte del nostro album di famiglia (come aveva scritto la Rossanda). Ritornai in via Bonghi e scrissi  un editoriale per ragionare su questi aspetti. E’ l’unico numero del QdL che ho conservato, ma ora è tutto disponibile e lo potete leggere qui.

crisi nella redazione

Di lì a poco la crisi precipitò. Non venivano pagati gli stipendi e ci furono richieste di licenziamento politico. Prima, come racconta Gigi Sullo nelle interviste fatte in preparazione della storia di AO, ci fu la irruzione in redazione del servizio d’ordine con gli impermeabili lunghi e le chiavi Hazet. Ormai la crisi si avvitava su sestessa ed era sfuggita di mano.

Nel corso di una delle riunioni che tenemmo per decidere il da farsi, mi fu chiesto di mettere in piedi una rivista di orientamento politico culturale. Ci riunivamo a casa di Ida e c’era l’80% della redazione centrale e dei collaboratori che gravitavano su Milano. Non me la sentii di mettermi alla testa perché quel mondo in cui avevo creduto. Lo trovavo ormai tremendamente distante da me e la vicenda di Walter aveva contribuito a farmi decidere..

Alla fine, quando fu confermata la richiesta di licenziamento di Lorenzo Baldi, si dimise quasi l’intera redazione. Tutta la vicenda la trovate raccontata nei nuneri di fine dicembre 1976 del QdL con tantoi di comunicati e coinferenze stampa.

Nel corso del 77 quando ripresi a studiare la fisica, la matematica, la storia e la filosfia della scienza, ripensai  molte volte alla nostra esperienza dal 68 in poi. Mi resi conto che non aveva avuto senso scrivere di tutto, dalla politica interna, alla questione palestinese, alle trame nere, pretendendo di avere la verità in tasca.

Fu per questo che la pausa di riflessione che mi ero preso e che, nella idea iniziale, prevedeva di tornare al Manifesto per mettere in piedi una grande redazione milanese, non si realizzò mai. Meglio lavorare con i giovani in formazione, farli appassionare al senso critico e studiare.

Sentivo il bisogno di cambiare vita e di cambiare mestiere mentre si faceva strada l’idea che il problema non fosse lo scontro tra destra e la sinistra dentro AO, ma che la prospettiva rivoluzionaria che avevamo sognato era, appunto, un sogno e che ci servisse il pessimismo della ragione perché di ottimismo della volontà ne avevamo messo fin troppo.


La pagina con l’indice della mia autobiografia da cui potete scegliere i capitoli da leggere


 




elezioni Europa

Il quadro in Europa nel suo complesso evidenzia un leggero spostamento a destra. Il PPE cresce di 8 seggi e va a 184, la socialdemocrazia è stabile con 139, calano i liberali (-23) per le sconfitte in Francia, Spagna e Italia e vanno a 79, perdono i verdi (-19) con 52, crescono i due gruppi di destra (+ 9 e +4) con 73 e 58.

Non dimentichiamo che si è votato in 27 paesi con storie, culture, problematiche diverse che determinano risultati tra loro contradditori (gli scandinavbi sono molto diversi dai polacchi e questi dagli slovacchi).

Dal punto di vista numerico ci sono tutte le condizioni per riconfermare la coalizione Ursula ma ci sono problemi politici grossi che riguardano le ripercussioni interne su Germania e Francia. In puro sile presidenzialista e repubblicano, Macron ha sciolto il Parlamento dicendo ai francesi scegliete il governo che preferite, anche se la costituzione francese mette comunque il presidente in una posizione di forza per i prossimi anni.

La sperata svolta che potesse indurre una spinta in avanti dell’Europa non c’è stata e sarà un avanti piano con Judicio altro che Stati Uniti d’Europa.

Sono contento per il risultato del PD e di quello (opposto) dei 5 Stelle. Il PD tiene e avanza su un messaggio semplice (ma debole) per gli elettori: noi teniamo duro e diciamo questo no, questo no, … La sinistra, con Ilaria Salis, ha fatto il botto (ben per loro e bene per Ilaria). I sondaggi degli ultimi mesi, come al solito, hanno visto in maniera strabica.

Detto ciò due paroline su Italia Viva (3.7 %), che ho votato, e su Azione (3.3%). Mi pare che il progetto, in mano alla coppia più bella del mondo, sia finito in maniera definitiva ed è bene che se ne vadano a casa al più presto. Se le realtà locali saranno in grado di ricostruire un progetto bene; se no, fine della storia. Il centro del centro sinistra ha un bacino potenziale del 10%. Quel bacino è’ stato mandato al macero e mi aspetto qualcosa di simile anche per Firenze con lo spoglio che inizia oggi pomeriggio; Stefania Saccardi appare molto, molto, molto lontana dal ballottaggio.




1972-1974: AO Monza e Brianza e vacanze

III edizione – giugno 2024

1973 con Paolo Di Paola ad una manifestazione a Milano in piazza Duomo insieme alla sezione di Monza

Quando sono partito per il militare a ottobre del 1970, Avanguardia Operaia era un gruppuscolo milanese che stava mettendo in piedi i CUB in alcune grandi fabbriche (Borletti, Pirelli, ATM, SIP, Candy, Philips, Sit Siemens, Carlo Erba).

Grazie all’azione egemonica di Vanghelis Oskian, si era annesso gran parte del gruppo dirigente del movimento studentesco di Scienze (Fisica, Matematica, Biologia, Geologia e Chimica) e stava facendo la stessa cosa all’ITIS Molinari.

Alla facoltà di Scienze si era appena effettuata la divisione della cellula in due e c’erano state tre occupazioni (68, 69 e 70). Sono partito per il CAR a Palermo in maniera abbastanza improvvisa perché, per evitare inutili attese connesse alla burocrazia dei rinvii, avevo richiesto di essere sottoposto a nuova visita (essendo stato dichiarato C3, cioè abile ma non del tutto). Mi hanno dichiarato idoneo e così, nel giro di neanche due mesi ho fatto i bagagli.

Durante il servizio militare ho avuto rapporti solo sporadici con AO anche se, a Palermo, c’erano quelli del centro Karl Marx di Mario Mineo (che poi avrebbero aderito al Manifesto) e a Treviso avevo avuto qualche contatto con i nostri compagni di Venezia.

Quando sono tornato, ho trovato una realtà in grande espansione. Il movimento dei CUB era cresciuto in qualità ed estensione, AO era presente in maniera importante in tutte le facoltà universitarie, si era sviluppato un importante movimento tra gli insegnanti e la presenza tra gli studenti medi milanesi, partita dal Molinari e dal VII ITIS, era diventata enorme, mentre nostri compagni avevano dato vita al comitato d’agitazione dei Lavoratori Studenti.

Preso atto che l’Università era terminata, che avevo rinunciato a rimanerci a fare ricerca per via della politica al primo posto che mi avrebbe inevitabilmente portato a trascurare la Fisica, che non mi andava il lavoro nel privato, feci la scelta di insegnare.

Poiché la nomina l’avevo avuta per l’ITIS di Sesto, a livello milanese si decise che sarei andato a farmi le ossa alla neonata sezione di Monza.

lavoro di massa nelle fabbriche

Una premessa: sono passati un po’ di anni e se dimenticherò di richiamare il ruolo di qualcuno, me ne scuso in anticipo. La sede, in via XX settembre, era ricavata, da un negozio con una sola luce e un retrobottega (due locali: il negozio per le riunioni e il retro a fare da magazzino per bandiere e manifesti, sala ciclostile). Dopo di noi ci è entrato un parrucchiere da uomo. Sull’angolo con via Magenta, c’era una osteriaccia gestita da dei cremonesi che facevano trattoria a pranzo e degli ottimi panini al salame. Il riscaldamento era con stufe a Kerosene e il combustibile arrivava dalla generosità di mamma Biassoni legna e carbone (con due figli nel MLS e una figlia in AO).

Quando arrivai la sezione era una specie di colonia per rivoluzionari di professione inviati da Milano (Michelino Crosti, Bobo uomo di organizzazione, Antonio Molinari che seguiva la Philips, Giorgio Calsamiglia che seguiva gli studenti).

la Philips e le altre fabbriche

Un caso un po’ particolare era quello della Philips che aveva la sede direzionale a Milano, dove c’erano Antonio Molinari, Renato Di Palermo e Stefano Fiorani, un centro ricerca a Monza all’imbocco della Valassina dove lavorava Franco Calamida e poi la grande fabbrica (vecchia e nuova) a Monza in fondo a via Borgazzi con migliaia di lavoratrici.

Così i milanesi della Philips facevano anche i pendolari su Monza dove i nostri due riferimenti operai erano Piero e Willy; Willy era biondo e con i capelli lunghi ed era il leader delle assemblee.

All’inizio l’intervento politico era unitario con quelli di Lotta Continua e ricordo di aver visto nella nostra sede della riunioni in cui era presente Mauro Rostagno. Paradossalmente, in una fabbrica piena di donne, i militanti rivoluzionari erano tutti uomini. Ma non era così per il PCI; oltre ad alcuni capi storici maschi, la persona di riferimento nelle assemblee era Adriana Colzani.

Naturalmente, oltre ai milanesi, c’erano i local, di solito leader nelle loro realtà: alla Candy, Franco Cogliati e Marino Capurso, alla Philips si è già detto di Piero e Willy, alla Singer Roberto Contardi, un gruppo alla Manuli con Giovanni Taddeo, un gruppo nelle aziende chimiche del cesanese, un altro gruppo alla Telettra di Vimercate, un gruppo alla Autobianchi di Desio. Non ricordo se il lavoro tra gli alimentaristi con Arturo Ferron sia iniziato allora.

Le fabbriche, in AO, erano una priorità, ma c’erano anche realtà importanti e interessanti tra gli studenti (al diurno e al serale).

i lavoratori studenti

Il movimento dei lavoratori studenti era in grande fermento e i due istituti tecnici serali erano in grande sviluppo; da 5 a 10 sezioni per anno di corso. Gli studenti lavoratori non erano, come è avvenuto in seguito, i drop out del diurno; erano lavoratori veri alla ricerca di un titolo che ne migliorasse l’inquadramento professionale.

Valeria (2019) e Armando (2023) ci hanno lasciato dopo una vita comune iniziata negli anni 70. Armando dopo AO, è stato in DP, nel PCI, in Rifondazione e infine nel PD sempre occupando ruoli di rilievo e applicando il suo chiodo fisso “uniti si vince” al punto di farne il suo pseudonimo.

All’Hensemberger c’era Armando Pioltelli (scomparso nel febbraio 2023) che di giorno faceva il CUB Pirelli e la sera il leader studentesco. Per l’Hensemberger bastavano lui e l’Angelo Maggioni (che mi insegnò ad andare in montagna partendo dal Resegone) a smuovere tutta la baracca.

Al Mosè Bianchi c’erano due professoresse, Silvana Biassoni che insegnava lettere e Joan Muggia, la compagna di Massimo Gorla, che insegnava inglese. E poi Carletto Varisco che lavorava nella più grossa azienda tessile di Monza, la Fossati e Lamperti, Joe Garancini di Arcore, ma dipendente dell’Autobianchi di Desio, Taddeo della Manuli, Massimo Beggio, Rossana che in seguito si sarebbe data molto da fare con il movimento delle donne.

Le rivendicazioni dei lavoratori studenti erano di tipo sindacale in senso stretto, connesse alla difficoltà a reggere il doppio impegno lavorativo e di studio e per noi di AO erano anche l’occasione per entrare in contatto con masse di lavoratori. Qualcosa di analogo stava avvenendo anche a Milano ed era già avvenuto a Fisica con la istituzione dei corsi serali.

le scuole medie superiori diurne

La situazione tra gli studenti del diurno per noi era più difficile, perché quello che, poco rispettosamente, chiamavamo gruppo Capanna, e che d’ora in poi chiamerò MLS (anche se nel tempo ci sono stati cambiamenti di nome), si era mosso con un anno di anticipo e aveva una struttura organizzata quasi in ogni scuola con al vertice Ezio Rovida, un monzese che conoscevo dai tempi del cineforum di GS quando lui frequentava lo Zucchi.

Ezio aveva incarichi di responsabilità nel movimento milanese e, contemporaneamente seguiva il movimento della sua città. Con il MLS i rapporti, per via di vicende milanesi, viaggiavano tra il concorrenziale e l’antagonistico e ci fu anche un quasi scontro nel 1973 come strascico di incidenti avvenuti in piazza Fontana a Milano tra i rispettivi servizi d’ordine.

Mosé Bianchi ed Hensemberger

Eravamo nettamente egemoni al Mosè Bianchi dove Paolo Di Paola governava assemblee e movimento. Intorno a lui c’era una nutrita schiera di compagni e compagne Pippo, Marco, Dario, Davide … Anna, Marcella.

Paolo era il leader delle masse e Marco quello della organizzazione.

All’Hensemberger la situazione stava evolvendo a nostro favore perché il CUB aveva un seguito notevole grazie all’azione di Giuseppe Dozio (informatica) e Danilo Porcellini (elettrotecnica). All’Hens le riunioni si facevano a scuola e il CUB aveva una sua sede aperta anche agli esterni.

le altre scuole

Poi c’erano singole realtà, ma di peso inferiore, sia allo Zucchi, con Nanda, Maddalena, Michela, Paolo e Luca, sia al magistrale con Valeria (che poi avrebbe sposato Armando Pioltelli).

Carlo Vittone (scomparso giovane nel 2013)

La nostra presenza al Frisi, dove l’MLS era più che dominante, si sbloccò quando Carlo Vittone, Roberta e Gianni Conte uscirono da quella organizzazione per aderire ad AO. Carlo, oltre che una testa di primissimo livello (dopo il Liceo vinse il concorso e divenne normalista a Pisa) era anche un leader naturale e dunque, nel giro di pochi mesi, acquistammo un certo peso anche all’interno del Frisi.

E’ stato una figura importante della politica monzese, assessore al Parco, eletto tra i verdi, editore di storia locale, si è spento prematuramente qualche anno fa.

A 17 anni era uscito di casa e viveva in una catapecchia con Roberta (fecero una figlia in quinta liceo), studiava quello che gli piaceva e ricordo di avergli fatto leggere Potere politico e classi sociali, un testo teorico sui rapporti tra sfera politica, sfera ideologica e sfera economica, di un allievo di Althusser, Nicos Poulantzas, quando aveva 18 anni.

dalla sezione alla federazione Brianza

Intanto, vuoi per i lavoratori studente, vuoi per simpatia, vuoi per il pendolarismo scolastico, la presenza di AO sul territorio della Brianza si allargava con la apertura di nuove sedi, in proprio o compartecipate con collettivi e movimenti di paese.

  • ad ovest: Desio, Seregno, Cesano, Muggiò con una presenza sia territoriale, sia nelle fabbriche, sia nelle scuole
  • a nordest: Merate, Cernusco Lombardone, Vimercate con la Telettra, Agrate con la SGS, Bellusco, Busnago, Villasanta con la Delchi, Concorezzo, Arcore, Brugherio. Il gruppo di Cernusco era particolarmente attivo e, tra le altre cose, mise in piedi Radio Montevecchia.

A 25 anni nel settembre del 71, il giorno del matrimonio

Si formavano nuove cellule, punti di intervento nelle scuole come a Desio, Seregno e Cesano, comitati di paese. Questi erano una mia fissazione; la necessità di un radicamento territoriale dove si vive e non  solo dove si studia o lavora.

Il prestigio e l’appeal di Avanguardia Operaia crescevano, anche come effetto della uscita del settimanale, per il quale la organizzazione si era data una politica che giudico intelligente.

Ogni militante versava settimanalmente la sua quota di finanziamento che restava in parte in loco (per la sede, la carta, la vernice, …) e in parte andava al centro. In compenso il settimanale (che costava 100 lire) ci veniva fornito gratuitamente e, il ricavato della vendita militante, restava alla sezione. Ci impegnammo a fondo; vendevamo tra le 800 e le 1000 copie del settimanale e ben presto, con il ricavato, fummo in grado di assumere Paolo di Paola come funzionario.

la nuova sede

Era un bel passo in avanti; voleva dire sgravare i compagni da una serie di incombenze organizzative e lasciarli concentrati sul lavoro politico. Il passo successivo avvenne tra la fine del 73 e l’inizio del 74 e fu il trasferimento nella nuova sede di via Volturno all’angolo con via Magenta (la via degli Artigianelli).

La sede e il suo arredamento furono recuperati da Pietro Spotti, un ragioniere di Cesano che lavorava a Monza presso una concessionaria di moto di proprietà dei Fossati della Star. Piötr era l’organizzazione fatta persona; pragmatico e abile, non solo mise in piedi la sezione del nord ovest, ma mi diede una mano notevolissima nel tenere in ordine i conti della neonata federazione di Monza e della Brianza, oltre che ad ampliarne l’ambito di intervento.

La nuova sede era al primo piano di un edificio che ospitava ancora, al piano terra, una fabbrica di confezioni, mentre al primo piano, dove c’era stato un cappellificio, entrammo noi: terrazzino, servizi igienici, due locali a destra, due a sinistra, un soppalco sopra i locali che andava benissimo come deposito, e poi un grande salone da 400 posti che Pietro arredò recuperando gratis le poltroncine in velluto rosso del teatro Villoresi, che dovevano essere sostituite.

Il funzionamento della sede richiedeva la presenza praticamente costante di qualche compagno/a e una grossa mano venne da Elena Ferrari (la moglie di Renato Di Palermo), biologa e insegnante, che si occupava un po’ di tutto e coordinava le persone.

Inaugurammo la sede con un concerto di Ivan della Mea e il salone era pieno zeppo. Eravamo dei veri brianzoli: braccino corto e passi commisurati alle possibilità. Dunque gli acquisti, dalla carta ai ciclostili nuovi, al fotoincisore, si facevano se c’erano i soldi; se non c’erano i soldi, prima si facevano le sottoscrizioni, e solo dopo si procedeva all’acquisto.

Contabilità in ordine e bollette pagate con regolarità; d’altra parte questo aspetto in Brianza è un must; o rispetti le regole o sei fuori. La sede non c’è più, se andate su Google View street vedrete che anche lì, come per via Vetere a Milano, ci sono palazzine condominiali.

Prima che abbandonassi Monza per andare al quotidiano facemmo anche un congresso di Federazione della Brianza incentrato sulle specificità del nostro territorio e sulla costruzione del partito su scala nazionale.

Ma non c’erano solo riunioni e volantini. La sera, al Mosè Bianchi il bar era una occasione di socializzazione e nel periodo 72/74 orgnizzammo anche un ultimo dell’anno in Alta Val Brembana in una cascina abbandonata in cui il problema principale fu quello di resistere al freddo di montagna in un ambiente che veniva riscaldato con camini e stufe a legna per la prima volta dopo anni. Eravamo un centinaio e, in un’altra occasione, ma in minor numero andammo all’Aprica in una struttura tipo colonia, per le vacanze sulla neve.

nel gruppo dirigente di AO

l’insegnamento all’ITIS di Sesto

Il lavoro, quello di docente, non mi impegnava più di tanto. All’ITIS di Sesto eri un ottimo insegnante se riuscivi a tenere in classe gli studenti perché Lotta Continua, che organizzava il Movimento, manteneva la scuola in uno stato di perenne agitazione con la collusione di un Preside che poi, grazie ad una vertenza incardinata dalla sezione sindacale CGIL, riuscimmo a cacciare perché concedeva tutto pur di farsi gli affari suoi.

All’ITIS la sezione sindacale della CGIL Scuola raggruppava la grande maggioranza dei docenti e in quegli anni partecipai anche al congresso sestese; rappresentavo la mozione della sinistra e mi trovai davanti come alter ego per la maggioranza, Giovanni Bianchi che allora era segretario provinciale delle ACLI, una persona in gamba.

Nel 1973 si tennero i corsi abilitanti speciali e l’ITIS di Sesto fu sede di quelli per Fisica (con sottoclasse matematica). In sede d’esame ebbi qualche frizione con il commissario di Fisica (un docente della statale che avevo già conosciuto da studente, e che mi conosceva), su problematiche riguardanti l’entropia, nessun problema per matematica. Così, a partire dal 74/75, entrai nella sfera dei garantiti (gli abilitati). La cosa mi sarebbe stata utile nel 76/77 quando, dopo il lavoro al QdL, decisi di rientrare a scuola.

Il movimento degli studenti aveva ottenuta la promozione garantita e l’obiettivo più avanzato contro la selezione meritocratica era quello del voto minimo uguale per tutti. Potete capire, viste le mie opinioni a favore del merito, cosa ne pensassi. Gli studenti li tenevo in classe, riuscivo anche ad insegnare loro un po’ di fisica e dunque ero considerato un buon insegnante.

Un ricordo che ho di quel periodo riguarda l’assassinio di Calabresi. C’era grande disorientamento quando arrivò la notizia; pensammo ad una provocazione di Stato e io mi beccai del cagasotto da uno dei responsabili di Sesto di LC. Così, quando a distanza di anni saltò fuori la autoaccusa di Leonardo Marino che chiamava in causa Bompressi, Pietrostefani e Sofri non mi meravigliai più di tanto. D’altra parte Lotta Continua di Sesto, o almeno una sua componente, alimentò anche organizzazioni terroristiche successive.

gli impegni centrali in AO

Intanto ero sempre più assorbito dagli impegni negli organismi dirigenti nazionali. Seguivo tre commissioni nazionali e, per due di esse (questione cattolica e lavoro politico nelle forze armate), ero responsabile; l’altra era la commissione scuola.

Fui cooptato nel comitato centrale già alla fine del 72 e, nello stesso anno fui incaricato di redigere, per la rivista teorica della organizzazione (Avanguardia Operaia divenuta poi Politica Comunista), due saggi: uno sul lavoro politico nelle forze armate e l’altro su questione cattolica e questione democristana. Li potete trovare qui.

il saggio sul lavoro politico nelle forze armate

Il primo saggio era un misto di dati esperienziali e di approfondimenti teorici ripresi direttamente dagli articoli di Lenin che si trovano nelle opere complete. Avevo comperato i 45 volumi delle edizioni MIR Moscow, in francese, perchè erano rilegate e costavano solo 800 lire al volume contro il più del doppio di quelle degli Editori Riuniti. Negli articoli di Lenin, ovviamente assenti nelle varie edizioni delle Opere Scelte a cura degli Editori Riuniti, si trattava di questioni connesse al lavoro illegale, alla sua liceità e al modo di praticarlo.

Nel mio saggio, dopo i dati esperienziali e i riferimenti teorici, seguivano proposte di organizzazione e alla fine, in perfetto stile settario, invece di lavorare con Proletari in Divisa (i PiD messi in piedi da Lotta Continua) ci inventammo i CPA (comitati proletari antimilitaristi).

Ho riletto quel saggio nel 2020 e l’unica parte che salvo è quella non ideologica che descrive il funzionamento della macchina militare come strumento di condizionamento ideologico e di controllo delle masse giovanili. Nello stile di AO c’era anche tutta una parte di tipo documentario sul codice penale, sul regolamento di disciplina militare, sulle dichiarazioni reazionarie degli alti vertici militarii, sui rapporti tra esercito e ceto politico.

A partire dal 72/73 il sistema profondamente autoritario delle caserme, teso alla distruzione della personalità per garantirsi l’obbedienza cieca, entrò profondamente in crisi, perché nelle caserme entravano i giovani del dopo 68 che non tolleravano le regole insensate, l’autoritarismo forsennato e il nonnismo.

Ci furono lotte aspre, punizioni, repressione, ma anche vittorie. Inoltre, per effetto di quel lavoro, e della abitudine tipicamente leninista alla organizzazione e alla sicurezza, venimmo in possesso di materiale recuperato direttamente dai compagni che lavoravano nelle furerie o ai comandi di reggimento.

A chi si chiede se nel 73/74 ci siano stati o no tentativi para-golpisti, dico che la risposta è sì, ci furono. E’ un peccato che l’archivio riservato di AO sia scomparso ai tempi delle indagini  sull’omicidio Ramelli. Quello che venne rinvenuto dalla magistratura, a giudicare da quello che sono riuscito a capire leggendo le informazioni in rete, è probabilmente una parte di quel che c’era e potrebbe essere materiale interessante per gli storici.

il saggio sulla questione cattolica

La preparazione del lavoro sulla questione cattolica è stata per me l’occasione per imparare a scrivere sul serio: tecnica, capacità di documentazione, capacità di collegamento, capacità di sintesi, capacità di guardare avanti.

La proposta di occuparmi di questione cattolica venne direttamente da Aurelio Campi (che allora non si chiamava ancora così) con cui avevo lungamente fraternizzato negli ultimi due anni di Fisica.

Pranzavamo insieme, mi consigliava le letture, e poi, con Claudia, si facevano almeno un’ora di chiacchiere a ruota libera. Lì venivano fuori i miei trascorsi, la mia sensibilità, il non essere credente ma l’esserlo stato (e in maniera intensa), la conoscenza dell’humus della Brianza bianca.

Ne uscì un saggio di oltre 100 cartelle, pubblicato in due puntate, in cui si trattava di DC, di questione cattolica, di movimenti post conciliari, delle comunità di base e di cristiani per il socialismo.

Avanguardia Operaia stava diventando una organizzazione nazionale e da quelle due realtà cominciavano ad arrivare intellettuali che sceglievano AO. E’ così che è nata la commissione sui rapporti con il mondo cattolico; ricordo Rocco Cerrato di Bologna e Domenico Iervolino di Napoli. Quel lavoro è poi proseguito ai tempi di DP ma io ormai avevo scelto altri ambiti di impegno.

Nel 1974 ci fu anche il vittorioso referendum sul divorzio contro la accoppiata Fanfani-Almirante, cui AO partecipò in maniera combattiva con iniziative pubbliche, campagne di stampa ed alcuni manifesti curati dal vignettista Alfredo Chiappòri, nostro militante a Lecco . Il mio impegno con Cristiani per il Socialismo e con i Cattolici democratici di Pedrazzi e Gorrieri si accrebbe.

Mi ricordo, dopo la vittoria al referendum sul divorzio, la riunione nazionale dei cattolici che si erano impegnati per il no, un convegno di due giorni a Roma con il disorientamento di quelli che avevano esitato, come Piero Bassetti o altri esponenti della sinistra DC. C’erano Pierre Carniti e Bruno Trentin raggianti, e tanto esponenti di Cristiani per il Socialismo e delle Comunità di base.

segretario regionale

Intanto a Monza e Brianza eravamo arrivati a oltre 400 militanti e avevamo costituito la federazione sganciandoci da Milano perché, come insegna la storia, tra Monza e Milano non è mai corso buon sangue sin dai tempi della regina Teodolinda (diversità di mentalità e di senso della vita).

Sottolineo, a chi non ha vissuto quei momenti, che dire 400 militanti (tanti eravamo in Brianza) era molto di più che dire 400 iscritti. I militanti erano, a tutti gli effetti, dei rivoluzionari di professione che mettevano la politica e l’organizzazione al primo posto nelle loro scelte di vita.

AO si diede una doppia struttura regionale: la federazione di Milano con i suoi organismi e la Lombardia che raggruppava le sezioni e le federazioni delle altre province che, in ordine di peso numerico erano: Brianza, Saronno-Varese, Bergamo, Lecco-Sondrio, Brescia, Piacenza, Como, Cremona, Pavia.

Mantova, dove avevamo poca presenza fu raggruppata a Verona. Per ragioni rappresentative e dimensionali fui nominato segretario regionale. Monza, in quel momento era la federazione più grossa che avevamo a livello nazionale dopo Milano; così entrai a far parte, con gli altri segretari regionali, e con il gruppo dirigente milanese storico, dell’Ufficio Politico di Avanguardia Operaia.

Il direttivo regionale si riuniva una volta la settimana in via Vetere a Milano e, dopo che a novembre del 74 fui risucchiato dal Quotidiano dei Lavoratori, il mio posto fu preso, a Monza da Pietro Spotti, e nel regionale da Edo Ronchi di Bergamo (il futuro ministro dell’ambiente). Edo, più che uomo di governo, era uomo di lotta, ed è paradossale che proprio lui sia finito a fare il ministro.

Luigi Pinto sorridente e, nella immagine superiore, ferito a morte

la strage di Brescia

Era maggio e ci fu la strage di Brescia in cui rimasero uccisi, tra gli altri, due nostri militanti Giulietta Banzi e Luigi Pinto. Dal giorno successivo alla strage, sino al giorno dei funerali, feci la spola tra Monza e Brescia con la Aermacchi 350 che, nel frattempo, mi ero comperato dopo aver venduto una Fiat 500 che avevo appena acquistato. La sede era poco più di un buco lungo un viale della circonvallazione interna.

I funerali furono una cosa grandiosa. Organizzammo un treno speciale da porta Garibaldi; eravamo migliaia e, quando entrammo in piazza con il nostro striscione fu un boato di applausi e di slogan di incitamento.

Sulla figura di Pinto ho trovato questa bella e commovente ricostruzione che ne fece il Corriere nella edizione di Brescia: Luigi, l’insegnante giunto dalla Puglia che sognava di cambiare il mondo. Serve a capire chi eravamo e come eravamo: «Io non mi lamento. Il lavoro è una cosa seria, va fatta bene, con serietà». Diceva così, Luigi, al fratello Lorenzo.

La compagna più conosciuta era Giulietta Banzi : Giulietta, la rossa, la pasionaria che stava dalla parte dei ragazzi. Come scrissero i suoi studenti: “Strage di piazza Loggia: Giulietta Banzi, la prof che voleva cambiare il mondo
Sappiamo bene quali fossero l’intelligenza e la generosità della compagna Banzi, che abbiamo avuto a fianco in tutte le nostre lotte. […] Ha dedicato la sua vita al servizio degli umiliati e degli offesi, sacrificando senza risparmio le sue forze e il suo tempo in un impegno politico vissuto a parte intera. Viveva per la causa di chi è vittima”.

Riflettevo su questo aspetto della volontà di cambiare il mondo: fretta, passione e serietà. Eravamo fatti così. Se volete saperne di più, in occasione cinquantenario della strage ho cercato di fare il punto.

il IV congresso di AO

Sempre nel 1974 ci fu un altro evento epocale nella storia di AO, un evento del quale sono stato tra i protagonisti. Parlo del IV congresso che fu il primo a tenersi a Roma con delegati delle diverse federazioni che ormai coprivano tutta l’Italia.

Fu il primo con delle tesi congressuali vere e fu il primo in cui AO (che da allora si chiamò Organizzazione Comunista Avanguardia Operaia O.C.A.O.), cercò di dare un vero respiro nazionale alla propria azione politica uscendo dallo schema semplificato della lotta di classe, la fabbrica, la ristrutturazione, l’autoritarismo e così via.

Confrontandomi e ragionando con Aurelio ho scritto in buona misura la parte più politica di quelle tesi e mi sono sentito impegnato davvero nel processo di costruzione di una cosa nuova per la sinistra italiana. Aurelio Campi fu eletto segretario nazionale e i nuovi organismi dirigenti furono eletti in quel congresso.

Al fianco di Aurelio c’erano Luigi Vinci che seguiva la organizzazione sul piano nazionale, oltre che svolgere il ruolo di custode della ortodossia e Massimo Gorla che curava i rapporti internazionali. Nel 1975 ci demmo una struttura di segreteria Nazionale in cui entrarono, accanto ai tre citati che continuarono a formare una specie di super-segreteria, Claudia Sorlini (che seguiva il sociale), Franco Calamida (fabbriche), Francesco Forcolini (organizzazione), Giovanni Lanzone (scuola), Vincenzo Vita (cultura e circoli La Comune) e io (QdL). Ma della segreteria e del suo funzionamento si tratterà in un altro capitolo.

le vacanze, non solo politica

Gli anni a Monza furono anche gli anni delle vacanze in campeggio che vi racconto partendo dalla fine.

1974 Jugoslavia

Nel 1974 feci una splendida vacanza in Jugoslavia prima nella zona della penisola di Makarska, e poi verso Dubrovnik.

Da Trieste in poi siamo scesi lungo la costa senza una meta precisa. Abbiamo passato Fiume, Zara e Sebenico con ancora ben visibili gli elementi della civiltà dalmato-veneziana. Lo stesso si poteva dire per Dubrovnik (l’antica Ragusa). Le città della Dalmazia le abbiamo visitate sul ritorno.

Eravamo in due coppie, io e Bruna, Mariarosa Mariani e Gabriele Grimoldi (che lavorava alla Delchi). Ci vedevamo spesso la domenica perché loro si erano fatti una bella casa con terreno nelle campagne di Missagliola e così progettammo la vacanza estiva con una bella tenda con due camere, cucina e veranda neo acquisto da Bertoni. Le loro strade nel tempo si sono divise.

La Jugoslavia allora era abbastanza sgombra dal turismo di massa e alla portata di due categorie di clienti, la sinistra militante e i padroni degli yacht di lusso, ma tra le due categorie non c’era un grande scambio comunicativo.

Il paese di Tito ci apparve come un paese molto povero e con una economia di sussistenza. Compravamo il pesce e la carne in un villaggio lungo la costa abbastanza lontano dal campeggio per via delle strade non proprio dirette. La carne veniva tagliata al momento dai quarti appesi ai ganci, il pesce si prendeva direttamente dai pescatori e ci si intendeva a gesti. Per quasi tutta la vacanza la verdura fu costituita da peperoni gialli delle dimensioni di una piccola mela che costavano l’equivalente di 40 lire al chilo.

La frutta (fichi, pesche e albicocche) si coglieva direttamente dagli alberi del campeggio (ricavato in un frutteto). Unico problema era quello del rinfrescamento dell’acqua; vedemmo per la prima volta uno di quei grandi frigoriferi da esterno a loculi. Di giorno tra sole battente e aperture degli sportelli i loculi erano praticamente a temperatura ambiente e bisognava ricordarsi di riempire il proprio loculo la sera per ottenere un minimo di raffreddamento.

Le strade erano molto disagevoli e pericolose, compresa la litoranea. Ogni tanto a bordo strada si vedeva qualche motociclista a cui era andata male. Gli Jugoslavi avevano quasi tutti macchine Fiat ma, rispetto a noi, non c’erano i gommisti e neanche le pompe dell’aria compressa ai distributori. Le gomme se le riparavano da soli e poi le gonfiavano con le pompe a stantuffo di quelle che da noi si usavano per le bici.

A Dubrovnik ci siamo commossi vedendo un impianto di condizionamento della Delchi di Villasanta. Prima di tornare in Italia abbiamo comunque fatto l’esperienza dei Ćevapčići (salsicce molto pepate) e dei Ražnjići (polpettine di carne) oltre che del caffè turco preparato al momento per ebollizione nei caratteristici pentolini monodose di ottone stagnato.

1973 Sicilia

La vacanza del 73 fu nella seconda metà di agosto perché nella prima parte del mese io rimasi a presidiare la federazione di  Milano. Tutti erano in ferie ma come ogni anno si tenne la manifestazione per i morti di piazzale Loreto.

Era l’anno del colera e andammo in Sicilia, a Forza d’Agrò nella casa prestata da una infermiera originaria di lì e amica di Bruna. Forza d’Agrò si trova a metà collina tra Messina e Taormina. Il viaggio, memori della esperienza dell’anno precedente di cui si tratterà tra breve, fu fatto in due tappe con sosta a Frosinone in una piazzuola dell’autostrada per dormire un po’.

il castello normanno di Forza d’Agrò

A Forza d’Agrò visitammo l’antico castello normanno adibito a cimitero con le tombe sostanzialmente a secco per la difficoltà nello scavare. Ogni tanto si vedevano tibie e teschi tra le pietre delle tombe. A parte le condizioni precarie che sono aumentate, si trova ancora in quello stato

In Sicilia i bar disinfettavano tutto passando i bicchieri con grandi fette di limone; sui tetti delle case di Forza d’Agrò c’erano fichi e pomodori messi ad essiccare. Per via del colera non si trovava pesce fresco e ci nutrimmo di pesce surgelato.

Al mare andavamo appena sotto il paese ma visitammo Taormina, le gole dell’Alcantara, l’Etna e le valle laterali con i segni delle colate laviche, i monti Peloritani che mi colpirono per la grande differenza di vegetazione sui due versanti. Per non farmi mancare nulla mi si infettò un molare cariato e così ebbi modo di sperimentare i dentisti isolani andando per qualche giorno a Letojanni.

1972 Calabria

Nell’estate del 72 vacanza, sempre in campeggio, ma questa volta a Isola Capo Rizzuto, per la precisione a Le Castella (il rudere che si vede in Brancaleone alle Crociate). La nostra 127 verse oliva era praticamente nuova e commettemmo l’imprudenza di fare una tirata unica da Monza.

la nostra 127 con cui siamo andati anche in Sicilia e in Jugoslavia

Verso mezzanotte, nel tratto tra Lauria e Lagonegro, guidava Bruna, che mi aveva dato il cambio da poco, e io dormivo dopo aver abbassato lo schienale lato passeggero.

Mi sono svegliato di soprassalto con la macchina che saltellava, si inclinava e infine si fermava. Anche Bruna si era addormentata con in mano il volante. La macchina aveva proseguito diritto, piegando lentamente a destra, e dopo aver superato la banchina eravamo finiti dentro un cuneo di delimitazione stradale tra la banchina e una parete di cemento armato.

Per fortuna chi ci seguiva aveva visto la scena, si è fermato, ha preso atto che, a parte lo choc, eravamo sani e salvi, ma dentro un fosso e con la ruota anteriore destra che era esplosa. E’ ripartito dichiarando che avrebbe chiamato i soccorsi appena giunto a Lauria.

In effetti, dopo un paio d’ore è arrivato un carro attrezzi da Lagonegro, il meccanico ha visto che la situazione era sanabile, ha agganciato la 127 con noi dentro e ci ha trainato sino a Lagonegro. Una volta arrivato, vista l’ora, non ci ha proposto nulla, ci ha lasciati semisospesi davanti alla officina (così si evitava che scappassimo) e se ne è andato a casa a dormire dopo averci detto che ci si rivedeva la mattina dopo. Così è stato e, pur se con un giorno di ritardo, anche quella vacanza è incominciata.

Dal punto di vista gastronomico i ricordi principali riguardano il capocollo stagionato con il peperoncino e legato con frammenti di canne di bambù per tenerlo diritto; anche la ‘nduja e la pancetta, ma il capocollo era impagabile

Le Castella oggi

Allora a Le Castella non c’era quasi nulla oltre al campeggio e ad un cenno di paesino. La visione che se ne ha oggi da Google Earth, tra porto e insediamenti è impressionante.

Il campeggio era nel vallone di una fiumara e tempo fa, in un servizio del telegiornale, ho visto che è stato mezzo spazzato via da una alluvione dopo un potente acquazzone (erano passati 40 anni da quando c’ero stato io ed era tutto come prima).

Approfittammo della vacanza per visitare un po’ di Calabria e in particolare la zona della Sila. Strade piene di curve che non finivano mai. All’improvviso boschi di abeti, non sembrava di essere all’estremo sud e per la strada era pieno di ragazzi con panieri di vimini che ti offrivano i porcini a 1’000 lire al chilo.

Altri tempi


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