1964-1965: il diploma e 15 giorni di sospensione

III edizione – maggio 2024

Cosa dire della quinta? Non ci fu più matematica e al suo posto subentrarono due ore di diritto tenute da un generale in pensione. Poche cose ma che servirono a farmi comprendere, rispettare la precisione espressiva delle scienze giuridiche e a darmi le coordinate generali del diritto privato e di quello pubblico.

Tra Elettrotecnica e Misure Elettriche facevamo un sacco di ore che passavano con piacere, invece mi pesavano quelle di Italiano dominate dal libro di storia della letteratura di tal Carmelo Cappuccio (rilegato in  cartone telato azzurro chiaro).

Italiano e storia insegnate malissimo

Diversamente dal professor Vegezzi che allargava, apriva, dialogava  e puntava a convincere e a farti piacere le cose di cui parlava, il professor Donato Vencia sembrava nato per chiudere e per trasformare la cultura in noia. Ripetere il libro, ripetere il libro… Storia ce la faceva studiare …

Non eravamo certamente informati sulla grande cultura europea; nessuno ce la presentava ma dovevamo far finta di conoscerla, sapere quello che c’era scritto sul Cappuccio, niente di più niente di meno.

La cultura umanistica è fatta di tante discipline, di tante sfaccettature, di interconnessioni tra specificità linguistiche, storia, filosofia, arti figurative, narrativa, poesia. A noi veniva richiestro di conoscerla  nello stile delle raccolte di figurine e per di più con un lavoro quasi nullo sui testi.

Mi è rimasta in mente una interrogazione di Beniamino Parolini, un compagno molto diligente che veniva da Bellusco.

Stava illustrando il pessimismo leopardiano secondo lo schema che bisognava conoscere e ripetere (individuale, storico e cosmico) e ad un certo punto citò scopenoer per sottolineare il fatto che avessero in comune il terzo dei tre pessimismi. Lo citò in base all’antico adagio si legge come si scrive e sul Cappuccio, senza spiegare chi fosse se non che si trattava di un filosofo tedesco, c’era scritto Schopenhauer. Ci fu qualche sghignazzo, qualche risolino trattenuto. Cosa ne sapevamo noi?

nella classe

barba folta, basette, aria da esule russo di fine 800

Nel corso della quinta ci furono per me due novità importanti. Mi ero messo in banco con Alberto Sala di Cavenago e ogni tanto si studiava insieme spostandosi in bici o in Lambretta tra Cavenago e Villasanta. Dopo l’Itis non ci siamo più visti ma lui fece Economia all’Università e finì per ricoprire incarichi amministrativi importanti alla Telettra di Vimercate (ne ebbi notizia dal padre di una alunna, ingegnere in Telettra, quando insegnavo al Frisi). Era uno tranquillo e riservato; mi piaceva per quello.

Mi ero spostato all’ultimo banco della fila centrale, posizione strategica per dare una mano a un po’ di compagni durante le prove scritte di elettrotecnica. Le molte ore di laboratorio (misure e costruzioni) consentivano di rompere la monotonia delle ore di lezione. Noiosissime quelle di disegno e impianti fatte in un’aula speciale da un docente che avrebbe anche potuto non esserci data la sua inconsistenza.

In tasca incominciava a girare qualche soldino frutto delle lezioni private e così, ogni tanto, invece di tornare a Villasanta nell’intervallo tra le ore della mattina e quelle del pomeriggio, facevo pranzo in pizzeria: da Albio all’angolo di via Cavallotti con via Gottardo, o al Cigno Blù (al’angolo con via Volturno).

Il Cigno blù era un po’ più caro ed aveva il forno a legna (con le pizze basse e grandi) mentre da Albio si mangiava una pizza cotta nel forno elettrico in apposite tegamini circolari di una ventina di centimetri di diametro. Ci piacevano entrambe, ma il Cigno blù era un po’ più caro. I proprietari dopo aver gestito per anni il locale hanno poi aperto in una villa di fronte alle Missioni Estere un ristorante con maggiori pretese “le Grazie”.

il fattaccio

la noia con gli ingegneri di passaggio

Il 22 febbraio del 65 era un lunedì e nelle prime due ore del pomeriggio avevamo Disegno con l’ingegner Attilio Bergamo. L’ingegner Bergamo (docente di Disegno e Impianti), come il suo collega Galasso con cui facevamo Costruzioni Elettromeccaniche, era uno di quegli ingegneri che stavano a scuola senza averla scelta in attesa di una assunzione presso l’industria (cosa che è poi regolarmente avvenuta).

il testo di impianti di Tiberio

Le due materie in sè non erano entusiasmanti avendo una trattazione prevalentemente manualistica (si imparava di più studiando direttamente sui libri, il Tiberio e il Coppi). Di più, mancava a questi docenti la capacità di trasmettere passione e noi ci adeguavamo facendo il nostro dovere: un po’ di studio, le tavole, la realizzazione di avvolgimenti per motori e trasformatori in laboratorio.

Se si trattava di dare un peso relativo in una scala da 1 a 5 davamo 4 e ½ ad elettrotecnica, 2 a misure e 1 (o anche meno) a impianti e costruzioni.

l’aula di disegno e le tavolette istoriate

Disegno si faceva in un’aula speciale grande con grandi tavoli reclinabili e, sotto il banco, incastrate con con una guida a scorrimento, delle tavolette in legno morbido originariamente pensate per fissare i fogli da disegno con le puntine e che, nella migliore tradizione di un ITIS, erano ormai inservibili e affrescate nello stile di uno dei lupanari di Pompei.

originale di 20 secoli fa a Pompei

Ricordo un enorme fallo tricolore inciso a biro. La scuola aveva solo 3 anni ma la frequentazione di generazioni di studenti, che affilavano le mine con la carta vetrata, aveva fatto sì che sulle pareti lavabili e gremolate si depositasse un leggero strato di grafite.

un’idea folgorante

Per evitare di sporcare i fogli con le gomme avevamo preso l’abitudine di pulirle strofinandole sul muro. Fu così che scoprimmo che, insieme alla gomma, si puliva anche la parete e dunque, volendo, si potevano realizzare delle scritte.

Avete presente le battute di Amici Miei sul carattere folgorante dell’idea, quella in cui i protagonisti, alla ricerca del bagno scoprono il vasino di un bimbo di un anno  e decidono di farla lì, quella grossa, per far spaventare la madre ….

Senza attendere Monicelli, anche a noi venne l’idea di fare uno scherzo benevolo all’ingegner Bergamo (eravamo almeno una decina). Avevamo l’impressione che gli piacesse una delle impiegate della segretaria e così realizzammo sulla parete di fondo una scritta a caratteri cubitali che diceva pressapoco: “l’ingegner Bergamo ama XXX“, il nome e cognome della fanciulla.

La scritta, come vedremo, è stato importante e, a meno che qualcun altro, a mia insaputa, abbia fatto altro, questo fu il tutto. Durante le ore di disegno ci annoiavamo e ci esercitavamo con cose che avremmo potuto tranquillamente fare a casa. Il docente era come non averlo e si trattava di riprodurre, con precisione e correttezza, schemi elettrici.

… e poco dopo

Torniamo a quel pomeriggio. Verso le 16 uscimmo dall’aula di disegno e tornammo in classe e poco dopo arrivò l’ingegner Bergamo incazzato come una biscia, seguito a ruota dal professor Migliorini-vicepreside. Era successo che quelli di quarta, andati a fare disegno dopo di noi, avevano scoperto la scritta e, probabilmente schiamazzando, avevano richiamato l’attenzione dell’ingegner Bergamo. L’interazione fu molto rapida e avvenne con Migliorini:

“Chi è stato? Se non salta fuori chi è stato, sospendo tutta la classe”. Io era tra quelli che lo avevano fatto e così alzai la manina. Ero abituato ad assumermi le responsabilità e sono rimasto così.

Nel 2008/2009, da Preside dell’Hensemberger ho dovuto gestire una questione molto più grave. Durante il rientro a scuola in autobus dopo una iniziativa a Milano c’erano state offese esplicite e gravi a docenti, la subornazione di un compagno mentalmente debole, successive telefonate anonime ad un docente, il discredito pesante della scuola verso l’esterno. Quello che mi colpì, e su cui fui implacabile, fu l’atteggiamento omertoso, l’uso della versione addomesticata e concordata, l’io non ho visto, anche di fronte a riscontri oggettivi. Il tutto mi costò una settimana di lavoro, con confronti ed interrogatori, ma alla fine venni a capo nella individuazione delle responsabilità

Ero tranquillo, al di là del tono aggressivo di Migliorini, si era trattato di  una ragazzata, per di più fatta in gruppo. Mi aspettavo di vedersi alzare almeno un’altra decina di manine e invece si fece avanti solo Luigi Beretta di Missaglia. Migliorini ripetè l’invito ai responsabili a farsi avanti e, visto che non accadeva nulla, disse a noi due: prendete le vostre cose e andatevene che voi qui dentro non ci mettete più piede. Ero spaventato e non so bene (non lo ricordo) come mi presentai a casa, ma ovviamente raccontai l’accaduto.

intermezzo sull’allontanamento di De Majo

Meno di un mese prima era stato destituito per una questione di gestione amministrativa allegra il preside De Majo. In giro non se ne sapeva nulla: gli studenti non erano stati avvertiti, i docenti non lo so, ma il registro dei verbali che ho consultato da Preside ha un verbale del 25 gennaio in cui il Consiglio di Amministrazione si riunisce presieduto da De Majo e poi quello del 26 febbraio (consiglio di Presidenza e Consiglio dei professori) dedicato alla mia sospensione. E’ la prima pagina del verbale che mi riguarda.

Dunque neanche i docenti sapevano molto. Tra i due verbali non c’è nulla perché, negli anni 60, la trasparenza non era dominante, men che meno a Monza. Uscì qualche notizia sui giornali, la scuola formalmente venner affidata in reggenza (anche se non si diceva così) al Preside del Mosè Bianchi e sino alla fine dell’anno venne governata dal vice di De Majo, Migliorini.

sospensione per 15 giorni

Il registro dei verbali risulta compilato dalla immancabile (e amata) professoressa di Scienze Anita Pasini, con una scrittura assolutamente uguale a quella della mia mamma che si chiamava Anita come lei e lo potete leggere qui nella sua interezza.

Nei giorni successivi si recarono a scuola i miei genitori e ci fu un bel via vai di comunicazioni con l’ingegner Bellini e con il professor Truci (un fisico che ci faceva un corso libero di Elettronica), con cui avevamo rapporti molto amichevoli e che chimavamo lo zio Mario. La prima notizia fu che rischiavamo grosso perché si ipotizzava di applicare il Regio Decreto fascista del 4 maggio 1925 ancora in vigore e abrogato solo con la gestione Berlinguer, anche se non più applicato dopo il 68.

Avremmo potuto rischiare l’espulsione da tutte le scuole del regno per tre anni in caso si fosse stabilito che si trattava di offese alla morale, oltraggio all’Istituto o al Corpo Insegnate.

Il giovedì, tre giorni dopo l’affresco a grafite,  si tenne la riunione congiunta dei docenti della classe e del Consiglio di Presidenza e la cosa venne derubricata alla meno grave offesa al decoro personale; così arrivò la sospensione per 15 giorni di cui 3 già scontati.

In quei 15 giorni mi fu vicina la mia attuale moglie che, allora, flirtava con un suo compagno di classe del Mosè Bianchi (ma passò il suo tempo con me) e nelle due settimane girellai vicino a scuola.

Ci furono però due conseguenze: la prima è che non partecipai alla visita alla centrale idroelettrica di Santa Massenza in provincia di Trento (uscita con pernottamento, l’unica della intera storia scolastica); la seconda fu più rilevante e riguardò l’esito finale dell’anno scolastico.

l’esame di diploma

preparazione

Al rientro a scuola tutto proseguì in maniera normale. La preparazione all’esame, da metà giugno a metà luglio, la feci nella Molazza dei mulini del Taboga ad Arcore, da cui veniva mia madre. Quella stanza, venduta dopo la morte di mia madre, e ora ristrutturata, ospitò me e il mio compagno Sem Cavalletti per quasi un mese.

Clausura assoluta; unico svago, le mie cugine Malacrida (Alice, MariaTeresa, Alberta) con cui si facevano quattro chiacchiere e la visione di “agente 007 dalla Russia con amore” con James Bond che ho rivisto in TV molti anni dopo.

svolgimento ed esito

Andò in questo modo. A luglio ci fu l’esame con gli scritti di italiano e di elettrotecnica, seguiti dalle prove pratiche in laboratorio e dai due orali di area umanistica e di area tecnica in giorni diversi. Mi ci ero preparato con grande impegno e con un rush finale di studio forsennato studiando anche argomenti sulle macchine elettriche che non avevamo affrontato a scuola. In elettrotecnica ero preparatissimo.

L’esame fu molto positivo su tutta la linea con la eccezione del tema di Italiano. Avevo scelto la traccia numero 3: “Dimostrate come la moderna tecnica industriale abbia facilitato la creazione del prodotto economico, divenendo pertanto un rilevante fattore d’incivilimento, in quanto, col rendere i prodotti accessibili anche ai meno abbienti, ha elevato il tenore generale di vita.”

Non avevo avuto scelta perché le alternative erano come la natura e il paesaggio accompagnino gli stati d’animo dei personaggi manzoniani, oppure, le speranze dei patrioti risorgimentali rispetto al proclamato regno d’Italia. Due temi per me improponibili a cui non ero assolutamente preparato.

Dopo anni di insegnamento del professor Vencia (di cui ricordavo il 3 meno meno nel primo tema a inizio quarta) mi ero convinto che, almeno all’esame, fosse opportuno non metterci del proprio. Era un messaggio esplicito ad essere grigi anziché usare la materia grigia. Così feci un tema molto ricco di cose scontate e banali. e mi imbarcai in una di quelle trattazioni general generiche a cui mi aveva abituato e di cui oggi mi vergogno completamente. Mi fu detto dal membro interno che ci avevo messo anche un errore grammaticale.

Tutto il resto andò molto bene (storia, diritto, italiano orale, lo scritto di elettrotecnica eccellente, le prove pratiche, gli orali dell’area tecnica).

Gasato come ero presi persino preso 9 in educazione fisica (ma non faceva media). Non ho mai capito la mancanza di almeno un 8 o 9 nell’area tecnica se non con il fatto che si fosse in fase di stabilizzazione del caso De Majo e l’indicazione era: grigio, grigio, grigio; coprire, tacere, coprire.

il presidente era molto anziano e si incazzava  se, parlando del 14/18, dicevi prima guerra mondiale anziché quarta guerra di indipendenza  e voleva sapere dove avessimo imparato a dire prima guerra mondiale. Il nostro testo era quello di Giorgio Spini non di Meo Pataccca, ma bisognava dire così.

Quel 6 non compensato da almeno un 8 o 9 nelle materie tecniche mi fece perdere la media del 7 e con essa la borsa di studio.

Con i compagni di allora non ci furono recriminazioni e, tranne per un paio di persone, ho anche dimenticato chi fossero gli altri partecipanti. Io ho fatto il signore e loro anche. Mi è rimasta l’amarezza per essere stato lasciato solo in un contesto in cui l’esplicitazione della verità avrebbe determinato un depotenziamento delle mancanze e degli addebiti. Mi è spiaciuto per il povero Beretta, meno bravo a scuola, che all’esame è stato rimandato alla sessione di ottobre in storia.

università: ma quale e a quali condizioni?

Fu così che dovetti intavolare una bella trattativa in famiglia per potermi iscrivere a Fisica con interventi a mio favore sia dell’ingegner Bellini sia del professor Truci. Sarebbe un vero spreco non mandarloi alla università … La mia promessa fu la seguente: mi manterrò all’università senza chiedervi una lira (e venne mantenuta).

Nel corso della quinta si erano incrementate le letture di saggi di storia contemporanea e anche di qualche scritto di filosofia. Fisica mi attirava molto, ma avrei fatto un pensierino a filosofia se non ci fosse stata la impossibilità di iscriversi. Tutto sommato è stato meglio così: una laurea tosta e che apre la mente e la possibilità di occuparmi comunque di filosofia. Come è regolarmente avvenuto. Quando parlo di orientamento e di scelte definitive dico sempre: fate quello che vi piace, ma non dimenticatevi di applicare il principio di realtà.

cosa risulta dal verbale

L’inizio del verbale di 6 pagine

Nel 2008 sono tornato all’Hensemberger a fare il Dirigente Scolastico e sono andato a verificare le carte che riguardavano la mia vicenda.

Il quadro che ne è emerso è molto interessante: c’è un bel verbale di 6 pagine (di cui ho estratto copia) da cui emerge una ricostruzione dei fatti ad usum delphini: altro che statuto delle studentesse e degli studenti.

Oggi l’intero procedimento sarebbe dichiarato nullo per una serie di illegittimità:

Il fatto non è circostanziato: la scritta era stata fatta cancellare dal professor Bergamo perché troppo allusiva e i docenti vanno a vedere altre scritte (non è chiaro quali e quale ne sia il contenuto, salvo che si tratterebbe di cose volgari; penso ci si riferisca alle tavolette da disegno cui ho già accennato).

I due interessati non vengono ascoltati; si riferisce e si discute molto sul fatto che essi affermano che ci sia stato il coinvolgimento di altri, ma non vengono svolte indagini e non ci si chiede come due persone, in meno di due ore, abbiano potuto affrescare una intera parete e le tavolette di molti banchi.

Comunque i docenti, con la esclusione di Bergamo, sono assolutamente certi che si sia trattato di una azione collettiva, ma non hanno gli strumenti per venirne a capo e così ci trattano, con benevolenza.

non ci si chiede cosa stesse facendo il professor Bergamo durante quelle due ore e come sia stato possibile che non si sia accorto di nulla, anzi, il verbale è bellissmo nel circostanziare la versione del professor Bergamo. Egli riferisce che egli faceva regolarmente lezione nella V elettrotecnici avvicinandosi, come di consueto avviene durante le esercitazioni pratiche, ora a questo ora a quel gruppo di studenti, senza la aplicazione di quel controllo generale della classe che è invece possibile durante le lezioni teoriche.

Uscita la classe, gli alunni entrati per l’esercitazione seguente, lo ponevano nella condizione di accorgersi delle scritte in discorso … Subito egli raggiungeva la VB cui minacciava gravi sanzioni se entro pochi secondi non fossero risultati i nomi dei colpevoli.

Il consiglio dei docenti fa una scelta di compromesso propende per l’offesa al decoro personale e  non per il più grave offese alla morale, oltraggio all’istituto o al corpo insegnante, ma nel dibattito emergono sfumature interessanti:

  • L’ingegner Bellini afferma che già l’aula di per sè ha favorito il crearsi di una data atmosfera; egli è sicuro che vi siano altri colpevoli e che, quanto ai due giovani, egli sa che sono a posto, particolarmente Cereda sulla cui probità non ha dubbi.
  • Il generale (!!!), professor Mandelli (diritto), sostiene che la cosa può essere vista come un exploit volgare di chi esprime una ammirazione così come può accadere in determinati ambienti e magari a causa di una certa educazione famigliare
  • Il professor Vencia ha posto l’attenzione sulla necessità che i nomi degli insegnanti vengano rispettati; per una questione di costume cui i giovani devono adeguarsi; tanto più che nella vita possono incorrere in gravi sanzioni se non imparano a controllarsi. Così particolarmente deve fare Cereda, che è un ragazzo geniale, ma impulsivo, e perciò, in questo senso, impreparato alla vita e al lavoro
  • il professor Bergamo ripete che la classe è del parere che i colpevoli siano solo due

La cosa finisce così; sono tutti certi di un largo coinvolgimento della classe tranne Bergamo a cui conviene l’altra tesi che lo fa uscire dalla vicenda con eleganza rispetto a quella che tecnicamente si chiama negligentia in vigilando.

Le frasi sono irripetibili, ma non si sa quali siano, la scritta è stata cancellata subito e la vicenda si chiude. Osservate che, da nessuna parte si sottolinea che si tratta di scritte fatte con la gomma.

uscita da GS e orientamento a sinistra

Ma l’anno della quinta fu anche un anno di grandi cambiamenti. Mi allontanai progressivamente da GS a partire dal mese di gennaio; incominciavano a pesarmi l’integralismo (nel modo di concepire la religione) e comunque sentivo il bisogno di aria nuova (l’ambiente della federazione giovanile socialista). Nel 1965 si celebrava il ventennale della liberazione; ero stato a sentire la commemorazione tenuta al cinema Centrale da Giorgio Amendola e ne rimasi favorevolmente impressionato per la grande apertura verso la democrazia e lo spirito non settario (il contrario di quello che scrisse Il Cittadino).

Come ho già detto nel capitolo dedicato a GS, si tenne un raggio dedicato al tema; decisi di andarci e lì ci fu la rottura definitiva. Sentii dire da un dirigente del movimento che non capiva lo spirito di sacrificio dei partigiani comunisti e socialisti perché, se lui si fosse trovato in quei frangenti e non fosse stato cristiano, mai e poi mai avrebbe fatto la scelta della Resistenza.

Meglio cambiare aria, mi dissi, e la cambiai definitivamente. GS mi aveva aiutato crescere, a rompere con il conformismo, ma qui si stava andando verso il pensiero unico. Ero ancora fortemente credente, animato da spirito conciliare e desideroso di cambiare il mondo. Quel percorso sarebbe continuato a Fisica, ma questa è un’altra storia.


Ecco l’elenco dei 28 alunni della 5B diplomati all’Hensemberger nel 1964/1965; la foto e del marzo ’65 nel cortile della Ercole Marelli.

Aresi Felice, Arosio Luigi; Beretta Luigi; Brioschi Dario; Calloni Mario; Cazzaniga Carlo; Cavaletti Giuseppe; Cavenaghi Giuseppe; Cereda Claudio, Crippa Roberto; Grandi Sergio; Grassi Enzo, Lissoni Marco; Mariani Luigi; Mascazzini Claudio; Monti Angelo; Mutti Andrea; Nava Ermes; Ornago Natale; Parolini Beniamino; Pioltelli Carlo; Refaldi Sergio; Sacchi Luigi; Sala Alberto; Scamardi Danilo; Segalini Mario; Torriani Giorgio; Trevisi Moreno.

Chissa che qualcuno non si faccia vivo.


Ultima modifica di Claudio Cereda il 31 maggio 2024


La pagina con l’indice della mia autobiografia da cui potete scegliere i capitoli da leggere


 




regole di guerra tra bambini

nuvola ceriani sassi

Quando ero bambino la banda della mia strada si scontrava con la banda dell’altra via.
Facevamo azioni di disturbo con insulti e urla per spaventarli. Qualche volta ci picchiavamo in furiosi corpo a corpo, ma c’era una regola: era proibito tirare i sassi.

Per definire questa regola avevamo fatto un “incontro di pace”, una vera e propria trattativa con Ambasciatori delegati dalle due bande (lo ammetto: eravamo un po’… burocratici!). Le due delegazioni erano costituite da due banditi per ogni banda.

Per la mia banda eravamo stati selezionati io, perché ero il più alto, e il Carta perché era quello intelligente. Il Carta era chiamato così perché aveva sempre in tasca un foglio di carta e una matita, con cui segnava i punti delle partite di calcio.

L’incontro si tenne in territorio neutro, davanti al macellaio. I delegati dell’altra banda arrivarono in quattro! Pensavo fossero venuti in tanti per picchiarci, ma uno di loro ci ha spiegato perché erano in quattro invece di due.

Io non ho capito la spiegazione, ma il Carta si, o almeno fingeva di avere capito. Oggi penso che l’altra banda in realtà fosse un Circolo del PD e la delegazione fosse composta da un membro per ogni corrente…

Comunque l’incontro al vertice andò bene e il Carta scrisse la regola: “Le due bande possono picchiarsi, ma non possono mai tirarsi i sassi“. Purtroppo però il Carta aveva un solo foglietto. Chi lo doveva conservare? Noi o l’altra banda?

Dopo un po’ di litigi decidemmo di lasciare il prezioso documento al macellaio, persona autorevole e al di sopra delle parti. Il macellaio si chiamava Galli. Gli mancava un dito di una mano, finito sotto i colpi di machete con cui tagliava la carne.

A volte immaginavo di mangiare il suo dito finito nella carne che compravo, ma quello che mi preoccupava di più era la gamba di sua moglie, la cassiera. La signora, infatti, stava sempre seduta alla cassa perché era senza una gamba (a Milano i bombardieri inglesi non regalavano noccioline…). Io pensavo alla gamba mancante, guardavo la carne in vendita sul bancone e poi a casa non volevo mangiare la carne trita.

Tornando al contratto scritto dal Carta, oggi capisco che avevamo definito la nostra “Linea Rossa Invalicabile”: non tirarci sassi. L’abbiamo sempre rispettata perché i bambini sono persone serie e sanno cosa sono le regole.

Anche gli adulti hanno l’abitudine di definire alcune “Linee Rosse Invalicabili altrimenti si ha l’Escalation”. Peccato però che gli adulti non abbiano a disposizione un autorevole macellaio. Per questo motivo ogni giorno i capi degli adulti valicano una “Linea Rossa Invalicabile” perché gli piace giocare all’Escalation con i corpi dei poveracci che non hanno i soldi per corrompere le incorruttibili guardie di frontiera e scappare dal loro Paese in guerra…




novità dalla centrale di Bargi

Il giorno 28 maggio un gruppo di sommozzatori è riuscito finalmente a chiudere la paratia del gruppo 2 della centrale che era rimasta aperta dopo l’incidente del 9 aprile.

La paratia alla profondità di circa 40 metri dalla superficie del lago ha determinato il quasi completo allagamento della centrale a pozzo visto che, essendo deputata allo scambio, lago turbina si trova in corrispondenza degli strati più bassi del pozzo.

Si potrà ora, con tutte le cautele legate allo sversamento degli olii di lubrificazione e di raffreddamento, procedere al graduale svuotamento della centrale.

Nel frattempo è stata avanzata una nuova ipotesi, abbastanza credibile, su quanto accaduto. Mentre era in corso una prova alla massima potenza (valvola di collegamento delle condotte completamente aperta, turbina alla velocità di regime, alternatore connesso alla rete con produzione di energia alla potenza massima di 185 MVA) si sarebbe determinato un problema sul versante dell’alternatore che ha determinato il distacco repentino dalla rete.

Su questo punto ci sono due ipotesi, quelle che ho avanzato nell’articolo a Bargi è andato in corto l’alternatore per un difetto nel rotore o quella di un difettto nei mega interruttori che connettono l’alternatore alla rete.  A inizio maggio sono stati nominati i periti incaricati di dare le risposte (si tratta di docenti universitari delle facoltà di ingegneria, esperti di idraulica e di elettrotecnica) ed entro 60 giorni ne sapremo di più.

la valvola posta a monte della turbina e che intercetta l’acqua della condotta

In ogni caso il distacco repentino dell’alternatore dalla rete elettrica ha prodotto il disastro; infatti la valvola rotativa del diametro interno di 2.30 m e del peso di 130 tonnellate ha ovviamente un tempo di latenza (non si apre e chiude istantaneamente) e in questo caso stavano passando circa 100 m3/s di acqua. Così mentre la turbina stava dando tutta la sua potenza è mancata sul fronte dell’alternatore l’azione resistente di tipo elettromagnetico ed è stata inevitabile la andata in fuga della turbina e con essa del rotore dell’alternatore. Sono i secondi del fischio e del rumore sentiti da tutti sino al botto finale.

In poche parole si tratta di questo: quando l’alternatore genera energia elettrica per effetto del fenomeno fisico della induzione elettromagnetica, la corrente circolante genera a sua volta un campo magnetico che si oppone al fenomeno che l’ha generata (la rotazione del rotore). Questo campo magnetico frena il rotore che, per girare e proidurre energia, ha bisogno della energia meccanica proveniente dall’albero. Si tratta di conservazione della energia: si produce energia elettrica a spese di energia meccanica (per chi ha riminiscenze di studi liceali, Legge di Lentz).

Devo dire che tra difetto sull’alternatore e apertura del sistema di interruttori continuo, astrattamente, a propendere per la prima ipotesi perché quegli apparati hanno sistemi di governo automatici basati sul principioo della controreazione che impediscono fatti sconsiderati del tipo che ho descritto e utilizzano criteri di gradualità nelle manovre. La risposta la daranno i periti nominati dal tribunale.

 

 

 

 

 




Premierato e riforma-trappola

I presupposti di fatto che comandano il dibattito sul premierato sono due. Primo: gli Italiani hanno necessità oggettiva di un governo che sia capace di districarsi tra la giungla degli interessi individuali e di gruppo – tutti legittimi o quasi – per far prevalere l’interesse collettivo del Paese, che non è semplicemente la somma algebrica dei medesimi. Si tratta della somma della paralisi.

Secondo: la necessità oggettiva non si tramuta in una massiccia domanda soggettiva, perché i partiti e i movimenti che dovrebbero rappresentarla non ne sono convinti loro per primi. Quando si trovano a governare, si rendono conto che i bottoni della famosa stanza sono soltanto dei “trompe l’oeil” (inganni per la vista).Premono fortemente, ma non succede nulla. E perciò vorrebbero un governo “forte”. Ma quando passano all’opposizione sono ben lieti che il governo sia “debole”. Perché avviene questa “alternanza del non-governo”? Perché i partiti non riescono a porsi dal punto di vista generale del Paese, benché producano accese verbigerazioni sulla Resistenza, sulla Costituzione, sulla Patria, sulla Nazione. La fazionalità prevale sul Bene comune, comunque immaginato, per un intreccio di ragioni storiche più volte e da molti indagate.

Il Premier necessario e il premierato pasticciato

Questa breve premessa serve a spiegare perché il premierato che la Meloni sta cucinando rischi di bruciare in padella, prima di essere servito in tavola. Si intrecciano, in questa storia destinata ad un poco lieto fine, tre componenti: un’antica paura, la campagna elettorale in corso, i cattivi ingredienti della pietanza.

L’antica paura è quella de “l’uomo solo al comando”.  Il semi-presidenzialismo della Commissione D’Alema del 1998 “spaventò” Berlusconi: c’era il rischio del “Prodi al comando”.

Nel 2006 il premierato di Berlusconi spaventò i DS: c’era il rischio del “Berlusconi al comando”. Nel 2016 fu Renzi con il suo referendum a spaventare la destra e molta sinistra, unite nella lotta contro “l’uomo solo al comando”. Nel 2024 è il premierato, targato Meloni, a far temere alla sinistra un capo “fascista”.

In questo maggio 2024, tuttavia, majora premunt! Servono voti per le elezioni europee. Tutti i sondaggi danno l’astensionismo in aumento. I partiti corrono pertanto a fidelizzare/fanatizzare l’elettorato più stretto. Perciò accendono i toni, fanno mosse teatrali. Così la sinistra chiama alla difesa finale della Democrazia.

Quanto ai cattivi ingredienti della pietanza, qui la prima responsabilità è della maggioranza di governo, che, dopo mesi di melina interna, è corsa alla presentazione di un modello di premierato gravemente lacunoso.

La melina interna: aveva come oggetto lo scambio premierato/autonomia differenziata tra FdI e Lega. La lacuna grave: i punti chiave della legge elettorale, elemento essenziale della nuova forma di governo, saranno decisi solo dopo il varo della riforma costituzionale.

Il disegno di Legge che sarà discusso al Senato il 18 giugno prevede l’elezione diretta del Premier, stabile per cinque anni. Ottimo! Ma, con quale maggioranza minima? Con ballottaggio? E come garantire che il Premier abbia la maggioranza dei voti nelle due Camere?

Se si usa la proporzionale, occorre un premio di maggioranza. Ma a quale altezza? Si era partiti dal 55%, si è scesi al 42-43%, ma la Lega scenderebbe anche sotto il 40%. Si tratterebbe di un’iper-minoranza reale nel Paese. La maggioranza di governo si riserva di rispondere a queste domande solo dopo l’approvazione della riforma costituzionale.

Se la maggioranza ha deciso sconsideratamente per pura propaganda elettorale di partire dal tetto, giacché le fondamenta – cioè la legge elettorale – non le ha neppure progettate, è però riuscita a fornire un alibi perfetto all’opposizione, che, Pd in testa, si è blindata nella ridotta valtellinese – absit injuria verbis! – della “Costituzione più bella del mondo” e della denuncia non del “salto nel buio”, ma nella dittatura. Alla Benito? Alla Orban?

Quando una “riforma” istituzionale diventa una trappola

Poiché ambedue gli schieramenti sono convinti di vincere, rifiutano accordi in Parlamento e puntano al referendum confermativo, che non abbisogna di quorum: un’altra anomalia pirandelliana.

Così ci troviamo stretti da una tenaglia: se il premierato non passa, il “non-governo” continuerà come prima e, perciò, peggio di prima. Perché il meglio/peggio non si definisce da tempo in Italia e poco anche in Europa: è il quadro geopolitico che decide e che sta peggiorando. Un governo istituzionalmente forte è la richiesta minimale dell’attuale situazione internazionale.

Se il premierato non passa, allora finiremo in una trappola di conflitti istituzionali, che sono l’anticamera di conflitti radicali tra soggetti sociali e soglia di guerre civili. “O la va o la spacca!” ha dichiarato la Meloni in TV. Se perdo, lascio la politica, aveva dichiarato bullescamente Renzi. Se perdo, “chissene frega!” declama spavaldamente la Meloni. Già, ma se si spacca l’Italia?

La sconsolante morale di questa storia è che sui partiti non soffia nessuno spirito costituente. Nessuna Pentecoste, solo una fragile Torre di Babele, nella quale tutti parlano e nessuno si capisce. A quanto pare, l’unico terreno condiviso di unità nazionale dei partiti è la spesa pubblica e, perciò, il debito pubblico. Terreno che una vasta parte della società civile frequenta volentieri. Perché lì i conflitti si sedano, dando a ciascuno qualcosa, secondo un efficace anacoluto ambrosiano, quello dei mercati del bestiame: “Chi al vusa pü sé, la vaca l’è sua”!  E quando la biada finisce?  “Stiamo consumando le sementi”, scrisse profetico il grande teologo protestante Karl Barth nel 1925, in piena Repubblica di Weimar.




Bea ricorda la mamma Giulietta

Beatrice Bazoli è la figlia più grande di Giulietta Banzi, quella dei tre figli che ha i ricordi maggiori, perché era grandina (8 anni) e con la mamma andava alle mostre e/o alle manifestazioni e poi raccontava sul quaderno dei pensierini.

Pochi giorni dopo il 25 aprile del ’74 scriveva: con la mamma sono andata alla manifestazione del 1° maggio e la mamma mi ha preso un gelato.

Questo è il suo intervento alla manifestazione di Brescia per i 50 anni dalla strage di piazza della Loggia; l’ho ripreso da una immagine di un foglio spieghettato e così l’ho dovuta ribattere e mi hanno preso la commozione e un grande rispetto per questa famiglia di maestri di legalità e stile di vita. Volevamo cambiare il mondo …


ciao Mamma

Brescia – la lapide della strage – la colonna sbrecciata, il manifesto e la stele con i nomi

In questi anni, in questa piazza sono stati fatti tantissimi discorsi. Rivolti a tutti, per ricordare la strage che la ha insanguinata e le sue vittime. Pieni di parole nobili e importanti, come memoria, tolleranza, democrazia, libertà, rispetto, legalità.

Chiedo scusa a tutti, io oggi farò un discorso molto personale ed intimo. Quasi rivolto a me stessa, la bambina che ero, la ragazza che sono stata, la donna che sono oggi. Partendo da due parole modeste: Ciao, mamma. Da 50 anni non dico più queste due semplici parole, non saluto più la mia mamma, come ogni bambino vuole fare.

Dire ciao mamma davanti a una foto, od ad una lapide, non è la stessa cosa. Nessuno, nessuno potrà più toccarmi, abbracciarmi, rispondermi.

Ciao mamma sono due parole semplici, quasi banali. 50 anni fa ho dovuto smettere di pronunciarle e mi sono rimaste in gola fino ad oggi.

Ho passato gli ultimi 50 anni consapevole di avere qualcosa di bloccato. Queste parole sono così semplici e cariche di significato, di amore, di dolore che mi hanno impedito di respirare, di sentirmi pienamente viva, intera. E hanno bloccato anche tutto il resto di me, come se fossi cresciuta con un’ ala spezzata.

Non desidero parlare di morte ma di vita. Di dolore e di insegnamento. Non è un caso se tutti i parenti di vittime del terrorismo che ho conosciuto non cercano vendetta ma giustizia. Tutti noi abbiamo conosciuto la cattiveria, la bassezza e la malvagità degli uomini. Ma non siamo diventati cattivi. Forse perché il nostro dolore è condiviso da tante persone.

Fare memoria insieme aiuta, non sentirsi soli nella sofferenza aiuta. O forse perché aver conosciuto la cattiveria in maniera così viscerale ce la rende insopportabile. Non reaagire secondo brutalità violenza, Ma secondo la civiltà, la legge.

In questa piazza la mia mamma ha versato il suo sangue. Tra il fumo, le urla, ha provato le sue ultime emozioni.

Avrà avuto un dolore? Sicuramente, tantissimo. Non sapremo mai se abbia avuto una consapevolezza che stava morendo. Avrà anche avuto pensieri di incredulità, cosa è successo o cosa mi è successo? Cosa mi succederà, perché a me? Era una persona. Non un semplice nome su una stele.

Una insegnante di 36 anni, sposata da quasi 10, con tre figli di 8, 5 e 4 anni. Ha lasciato una famiglia distrutta con le ali spezzate aveva due fratelli, altri parenti, amici e amiche carissime.

Aveva perso da poco la sua mamma, morta in casa nostra di tumore Dopo un lungo periodo di dolore.

Tante persone in questi 50 anni, mi hanno raccontato quanto fosse speciale. Spiritosa, con gli occhi luminosi, attenta. Io ricordo una mamma affettuosa e svagata che mi regalava libri e sbagliava gli appuntamenti dal dentista. Che sapeva essere severa, che lavorava nella casa nello studio di casa e mi aiutava a fare i compiti, che mi aspettava sul divano quando tornavo da scuola, e fischiettava e faceva buffi disegnini.

Altri avranno ricordato altri aspetti del suo carattere. Non tutti la apprezzavano, ovviamente. Ma ha lasciato un segno, anche in chi l’ha conosciuta brevemente. Tra le lettere di condoglianze ricevute da papà nei drammatici di un giorni dopo la morte di mamma, numerosissime testimonianze di vicinanza, affetto, dolore. Altre, al contrario partivano con parole di cordoglio continuavano con se fosse stata a casa non sarebbe successo, una mamma deve stare coi suoi bambini ed altri luoghi comuni.

Papà ha avuto il coraggio di conservarle tutte, le une con le altre punte: Io non so se sarei stata così generosa; temo avrei strappato quelle che con la scusa di manifestare dolore in realtà danno giudizi perentori e categorici. In sostanza sfondati dal superfluo, un se l’è cercata. Come per le donne stuprate, che è sempre comunque colpa loro.

La mamma non cercava né morte né martirio. Voleva vivere intensamente. Aveva un marito tre figli per cui vivere, un lavoro che la appassionava, idee in cui credeva profondamente. Una persona con le sue contraddizioni, i suoi sogni, speranze, come tutti noi.

Recarsi in una piazza per manifestare pacificamente, legalmente, non è cercarsela. Una manifestazione occorre ricordarlo sempre, contro la violenza. Lo si può leggere chiaramente in quella copia del manifesto apposta per sempre accanto alla stele. Dopo la mamma seguono altri sette nomi. Alcuni li ho conosciuti personalmente, li ricordo con affetto altri non li ricordo, ma ricordi i loro cari, che mi salutavano, abbracciavano ogni anno in questa giornata dedicata alla memoria.

Questa piazza è stata bagnata dal sangue di Giulietta, mia mamma, di Livia, Alberto, Clementina, Euplo, Luigi, Bartolomeo, Vittorio. E delle centinaia di feriti sopravvissuti ma segnati per sempre. Il sangue è stato lavato via con gli idranti, ma gli idranti non possono cancellare il ricordo del sangue, la sua memoria, la sua persistenza. Ancora oggi non lo vediamo, ma c’è. Ci sarà per sempre e non potrà mai essere cancellata finché ricordiamo.

Ricordiamo queste persone che erano vive fino alle 10:12 del 28 maggio 1974. Che ridevano, amavano, provavano sentimenti ed emozioni. Stringiamo in un abbraccio forte,  ed affettuoso tutte le persone che si sono trovate come un’ ala spezzata dalla loro morte. Qui la mia mamma 50 anni fa ha provato le sue ultime emozioni sono certa che il suo ultimo pensiero sia stato per me, per i miei fratelli Guido ed Alfredo, per il nostro papà Luigi. Ci amava e non voleva lasciarci. Questo è anche il luogo dove ha riso, ha respirato per l’ultima volta. Dove è stata viva.

Qui, oggi, ora, posso dire ciao mamma. Sciolgo quel groppo bloccato in gola. Qui era viva 50 anni fa e ora mi ascolta.




Brescia 50 anni dalla strage

Era il 28 maggio del 74, un martedì, tarda mattinata, Filippo Castrezzati era a metà del suo comizio, quando di sentì un suono secco e poi le grida.

Pioveva e sotto i portici di piazza della Loggia, proprio dove si era rifugiato il gruppo di attivisti della CGIL Scuola esplose una bomba collocata in uno di quei cestini metallici della spazzatura che si trovano ovunque nelle nostre città.

Morirono sùbito in 6 dilaniati dalla bomba, altri due erano gravissimi e morirono nei giorni successivi. I feriti, colpiti dalle schegge furono oltre un centinaio.

Piazza della Loggia un attimo prima dello scoppio della bomba

le vittime

  • Giulietta Banzi Bazoli, 34 anni, insegnante di francese.
  • Livia Bottardi in Milani, 32 anni, insegnante di lettere alle medie.
  • Alberto Trebeschi, 37 anni, insegnante di fisica.
  • Clementina Calzari Trebeschi, 31 anni, insegnante.
  • Euplo Natali, 69 anni, pensionato, ex partigiano.
  • Luigi Pinto, 25 anni, insegnante.
  • Bartolomeo Talenti, 56 anni, operaio.
  • Vittorio Zambarda, 60 anni, operaio.

Tra gli 8 morti si contano 5 professori, attivisti della CGIL Scuola, due di essi Giulietta Banzi e Luigi Pinto sono anche militanti di Avanguardia Operaia.

l’attentato

Potete ascoltare qui il documento sonoro del comizio con lo scoppio intorno al minuto 9 della registrazione.

Si era concluso da poco il referendum sul divorzio voluto da Fanfani e Almirante con la grande vittoria del no alla abrogazione e la provincia di Brescia, da alcuni mesi era stata teatro di iniziative fasciste di vario genere; la manifestazione, con sciopero generale era stata convocata pensando ad una protesta che facesse da argine.

Invece ci fu l’attentato seguito poi dalla rivendicazione da parte di organizzazioni fasciste nate per filiazione dopo lo scioglimento di Ordine Nuovo

Brescia Oggi il quotidiano progressista di Brescia uscì con una edizione straordinaria nel pomeriggio stesso della strage

Sono stati giorni tristi e frenetici; ero il segretario regionale lombardo di AO e con la mia Aermacchi 350 mi recai a Brescia tutti i pomeriggi sino al giorno dei funerali, venerdì 31, per stare vicino ai compagni che fino al giorno prima avevano lavorato fianco a fianco di Giulietta e Luigi.

il numero del settimanale di AO con la notizia

Luigi era ancora vivo, sarebbe spirato il 1 giugno per gli effetti del gravissimo trauma spinale che aveva subìto. Nel preparare questo articolo ho trovato anche la testimonianza del medico che lo accolse in ospedale, era cosciente e voleva sapere del suo stato.

Da Milano organizzammo un treno speciale in occasione dei funerali. Erano altri tempi; i funerali  furono grandiosi con una partecipazione popolare tra le 500 e le 600 mila persone (4 volte la popolazione di Brescia). Peccammo certamente di estremismo (compagna Giulietta sarai vendicata) e in assenza dei fascisti cercammo di prendercela con le istituzioni dello stato, in primis con la DC mettendo sullo stesso piano il Presidente Leone o Rumor e la DC bresciana notoriamente di sinistra, popolare e antifascista. Se ne trova traccia nei documenti e nelle tesi di laurea. La gente sapeva di Giulietta, della sua militanza, e quando entrammo in piazza con lo striscione di AO fummo accolti da una marea di applausi.

che persone erano?

comunicazione CGIL

La CGIL di Brescia comunica al nazionale la morte degli iscritti

I 5 docenti morti erano, ciascuno con le sue peculiarità, persone eccezionali impegnate nella costruzione del sindacato scuola CGIL, nato da pochissimi anni e ciascuno di loro si portava dietro storie di impegno politico-culturale, di famiglia, di alpinismo, di emigrazione.

In questi anni un po’ di istituzioni locali si sono preoccupate del ricordo, esiste un sito con diverso materiale documentario, sono state fatte delle tesi di laurea su alcuni di questi protagonisti e, nelle loro scuole e/o città di provenienza sono ricordati con delle lapidi.

Giulietta Banzi

Giulietta Banzi insegnava francese al liceo Arnaldi, aveva tre figli piccoli che ricordano lo sballottolamento per le riunioni e le manifestazioni. Il figlio mschio, Afredo, che allora aveva 5 anni, è senatore del Partito Democratico.

Giulietta Banzi con i tre figli e sotto il diario impagabile di Beatrice, la figlia maggiore per la manifestazione del XXV aprile

Era sposata con un avvocato democristiano di sinistra che, ai tempi della strage, era assessore all’Urbanistica al comune di Brescia. Aveva iniziato il suo spostamento a sinistra nella seconda metà degli anni 60 aderendo ad un circolo culturale in cui si approfondiva, lavorando sui testi, il pensiero di Marx e di Lenin; da qualche mese entrata in contatto con il Comitato di Agitazione degli insegnanti (creatura milanese messa in piedi da Maria Teresa Torre Rossi e Claudio Annarratone) aveva aderito ad Avanguardia Operaia.

Tra i ricordi di lei mi è piaciuto quello di una ex studentessa: ci dava del lei, come forma di rispetto nei nostri confronti e ci diceva che la letteratura francese, che lei insegnava, era importante, ma che era più importante non scordarsi della Rivoluzione Francese.

Strane le vite vere, non vi pare? Le nostre analisi di allora non prevedevano queste cose, una compagna che vive una vita felice con un marito democristano, ma questo marito democristiano fece portare sulla bara di Giulietta la sua bandiera rossa creando scandalo in certi ambienti.

Qualcosa del lavoro politico di allora di Avanguardia Operaia a Brescia è rimasto con la esperienza di Brescia anticapitalista. La CGIL Scuola, che ora si chiama Federazione Lavoratori della Conoscenza (FLC), in questi anni ha fatto un meritorio lavoro per ricordare le vittime producendo un libricino biografico di ciascuno. Questo è quello dedicato a Giulietta. La tête bien faite che richiama un famoso aforisma di Montaigne a proposito di scuole ed educazione, aforisma ripreso da Egadgar Morin: meglio una testa ben fatta piuttosto che una testa ben piena.

Alberto Trebeschi

Al momento della strage sapevo poco o nulla di lui. Era un insegnante di fisica, come me appassionato degli aspetti culturali e formativi di questa disciplina. Si occupava di storia della scienza e di problematiche  di unità del sapere. E’ morto con la moglie, entrambi erano appassionati di montagna. Alberto, prima di approdare al partito comunista aveva avuto una lunga militanza nel partito radicale ed era tra gli animatole del circolo culturale Antonio Banfi frequentato da tutto il gruppo impegnato nella costruzione del sindacato scuola.

Qualche anno dopo la strage, quando avevo ripreso ad insegnare ho scoperto che gli Editori Riuniti avevano pubblicato un suo lavoro postumo, frutto del riassemblaggio di appunti e materiale didattico: Lineamenti di Storia del Pensiero Scientifico. Ne feci un largo uso nei primi tre anni di ritorno al Frisi dopo il 1977. Questa è la sua biografia Alberto. Una questione scientifica

Luigi Pinto

No alla scuola di classe, no alla selezione, corsi abilitanti occupazione

Luigi veniva dal sud, dalla provincia di Foggia, era perito industriale e nella vita, prima di approdare all’insegnamento a tempo indeterminato di Applicazioni Tecniche nella scuola media, aveva fatto un po’ di tutto, concorso per le ferrovie, lavoro al Petrolchimico di Marghera, cambi frequenti di residenza nel tentativo di costruirsi una vita come capita ai giovani volenterosi del sud.

Ma anche l’insegnamento nel bresciano non è semplice, levatacce per andare con i mezzi pubblici da Brescia a Montisola, sul lago di Iseo, traghetto incluso. Riprendo dalla biografia di FLC Luigi una storia semplice

due sembrano, tra le altre, le principali qualità dell’uomo: la generosità e il senso di responsabilità.

La prima significava,  per Luigi, disponibilità, attenzione, rispetto, cura degli altri: parenti, amici, alunni, colleghi, compagni del partito e del sindacato.

La seconda, dovere, coerenza, serietà, consapevolezza, rigore nel lavoro e nella militanza politica e sindacale. L’espletamento del dovere comportava per lui, animato da un profondo senso di giustizia sociale, la rivendicazione dei diritti dei lavoratori, il miglioramento delle loro condizioni di vita, l’innalzamento della qualità della scuola, l’allargamento delle possibilità occupazionali.

A ciò lo sollecitavano i suoi convincimenti politici, la sua simpatia per Avanguardia Operaia e il suo impegno sindacale, ma anche la sua condizione di emigrante, di proletario, di giovane meridionale, costretto, come tanti lavoratori del Sud, a cercare fortuna lontano dal luogo d’origine e dalla famiglia.

per chiudere

31 maggio 1974 – i funerali

Ogni volta che mi imbatto nelle stragi fasciste mi prende una sorta di malinconica rassegnazione tra processi che non finiscono mai, condanne da cui restano fuori una bella fetta di mandanti, una specie di storia infinita che, si spera, sia finita negli anni 80. E ti resta sempre una domanda, che non mi rimane quando mi documento sul terrorismo rosso: sappiamo tutto? Li abbiamo presi tutti? Chi ha organizzato e commesso le stragi sta pagando?

E’ questa la ragione per cui è necessario che la destra italiana non abbia paura di tirare la riga nei confronti non tanto e non solo dei fascisti stragisti ma anche di tutto quel mondo ambiguo che le circonda fatto di tolleranze  e di va beh.

 




1961-1964: gli anni di GS

III edizione – maggio 2024

don Vico Cazzaniga – il Vico

L’esperienza di GS (Gioventù Studentesca) ha segnato un pezzo importante della mia adolescenza ed è stata uno strumento di rottura-allontanamento dal mondo un po’ chiuso e tradizionale di Villasanta.

Non mi ricordo come sono arrivato ad incontrare quelli di GS, facevo la II all’Hensemberger, mi cominciavano a spuntare i peli sulla faccia, si muovevano gli ormoni e urgeva una riflessione e messa in discussione della esperienza cristiana che, all’oratorio, era ancora piena di riti e di frasi fatte.

Così, a differenza di mio fratello Sandro impegnato in oratorio, sono emigrato a Monza e ho trovato un mondo diverso: diverso il prete (don Vico Cazzaniga), diverso il modo di vivere l’esperienza cristiana (meno borghese, dicevamo), diversi i rapporti tra coetanei (maschi e femmine).

Penso che sia normale, in qualunque contesto, che le pulsioni al cambiamento, le inquietudini giovanili, inizino a concretizzarsi a partire dal proprio contesto di riferimento e il mio, tra Collegio e caratteristiche famigliari, non poteva che essere il mondo cattolico. Solo in alcuni momenti, caratterizzati da grandi cambiamenti culturali e sociali, come è stato il 68, si hanno le rotture brusche, gli improvvisi cambiamenti di stile di vita e di retroterra culturale. In Italia è accaduto nel ’68, ma qui sto parlando del 1962.

La sede di GS era all’imbocco della viuzza a destra del Duomo; qualche locale al piano terra e al piano superiore di fianco alla abitazione di uno dei canonici del Duomo (monsignor Cornaggia), e sul retro un giardinetto. Ma le riunioni più grosse, ed in particolare gli inter-raggi, si facevano nella struttura del Duomo in Sala Capitolare. Si costeggiava il lato destro della Basilica partendo dalla casa di don Vico e giunti in fondo (dopo aver costeggiato un convento di suore di clausura) si saliva per uno scalone alla sala Capitolare.

Don Vico è morto nell’estate del 2003 in circostanze misteriose a Medjugorje e il suo corpo è stato ritrovato solo nel 2005 in una zona abbastanza lontana dai percorsi dei pellegrini. Per i suoi funerali ci siamo ritrovati a Lomagna in tanti; persone che non si rivedevano da 40 anni e prima ancora per la celebrazione di una messa di amici preoccupati per la sua scomparsa.

Nei primi anni 60 era un giovane prete che gestiva l’oratorio del Duomo, appassionato di musica. Suonava l’organo e frequentava (non so con quale grado) il conservatorio. Questa sua passione ce la trasmetteva facendoci esercitare nel canto, anche polifonico: il canto gregoriano, le canzoni di montagna e il canto delle canzoni giessine scritte da Adriana Mascagni di Milano o prese a prestito dal mondo scout (Rossa sera a Belo Orizonte, Povera Voce, La Traccia di cui trovate il link per Youtube, …).


Povera voce di un uomo che non c'è
la nostra voce se non ha più un perché:
deve gridare, deve implorare
che il respiro della vita non abbia fine.

Poi deve cantare perché la vita c'è,
tutta la vita chiede l'eternità;
non può morire, non può finire
la nostra voce che la vita chiede all' Amor.

Non è povera voce di un uomo che non c'è,
la nostra voce canta con un perché.


La nostra voce canta un perché; ti sentivi parte di un progetto, di un comune sentire; l’adesione al cristianesimo era una scelta consapevole di vita e lo facevi confrontandoti con dei coetanei.

il raggio e il cineforum

Monza il Duomo e i nostri punti di ritrovo

Il raggio era una via di mezzo tra una riunione di autocoscienza e una assemblea democratica. Si chiamava raggio perché, per discutere, ci si metteva in circolo. Si faceva una volta la settimana, su di un tema stabilito nella settimana precedente. L’ordine del giorno e l’invito lo davamo nelle scuole riprodotto a ciclostile sulla metà di un foglio A4, ed è stato in GS che ho visto il primo ciclostile ad inchiostro. Ci si confrontava, si dibatteva e, alla fine, il caporaggio o don Vico tiravano qualche conclusione.

Il cineforum, il sabato pomeriggio, ma ce ne era una versione anche il venerdì sera, è stato un momento importante nella formazione culturale degli studenti monzesi di quegli anni. Il cinema dell’oratorio del Duomo (don Bosco) era sempre strapieno, con almeno 300 giovani in una atmosfera di assoluta libertà culturale. E dopo il film, una buona metà di quei giovani si fermava a discutere.

Il cineforum era a cicli sui registi e così ho conosciuto Eisenstein (la corazzata Potemkin, Ottobre, Ivan il terribile, Alexander Newsky, i cavalieri dell’ordine teutonico), Fellini (La strada, le notti di Cabiria, i Vitelloni, Otto e mezzo), Dryer (la passione di Giovanna d’Arco, Dies irae, Ordet), Lang (il dottor Mabuse, il mostro di Dusseldorf, Furia), Bergman (il volto, il posto delle fragole, sorrisi di una notte d’estate, il settimo sigillo, la fontana della vergine, il silenzio), il ciclo su Akira Kurosawa (con al centro i 7 samurai) e ovviamente il neorealismo italiano da Rossellini a De Sica, da Zurlini. a Monicelli. Una esperienza decvisamente formativa per la quale sono eternamente grato a GS e a don Vico che lo organizzava.

l’organizzazione

I riferimenti monzesi di GS erano:

  • Augusto Pessina (l’Augusto e basta) maggiore di un anno rispetto a me e di cui presi il posto come caporaggio dell’Hensemberger l’unico che ha continuato il suo impegno in  C.L. e le battaglie conservatrici sui temi della bioetica,
  • Giorgio Migliavacca (presidente) una facccia aperta sempre sorridente,
  • Angelo Colombo (responsabile cultura e un po’ eterodosso)
  • Nico Vailati che avrebbe sposato una delle sorelle Milanese (Luciana, ritrovata a biologia)

e, dopo i padri fondatori, quelli della generazione successiva:

    • Cristina Frigerio dello Zucchi, amica di infanzia di mia moglie, futura moglie di Augusto Pessina, un Alberto Cazzaniga, molto alto che ho ritrovato, assolutamente identico, come genitore di Chiara una mia alunna allo Zucchi nella seconda metà degli anni 90;
    • il nutrito gruppo del Frisi, dove insegnava religione don Vico: Guido Cazzaniga che abitava dietro via Vittorio Emanuele e la cui famiglia riparava radio e TV, Renzo Milanese (futuro prete) che stava sopra la stazione di Monza Sobborghi e aveva due sorelle in GS, Davide Capra piccolo e dalla barba rossa, sempre in attività, Giuseppe Galbiati futuro chirurgo, il mio più caro amico di quegli anni, ultimo fratello dei Galbiati della panetteria di San  Biagio a fianco della chiesa vecchia, Carletto Barlassina (medico che ho ritrovato anni dopo nel Movimento Lavoratori per il Socialismo), Antenore  Amati(campione di hockey a rotelle e molto amato dalle ragazze), Paolo Trojani (a casa del quale abbiamo fatto qualche festicciola in una villetta ai Cazzaniga)

Renzo MIlanese e Giorgio Migliavacca ad una delle serate per ricordare don Vico

    • il gruppo delle Canossiane: la responsabile della prima ora era Rosaria Gaggino, seguita da Mariarosa Mariani (amica di infanzia di mia moglie) con cui, tra alti e bassi, ci si continua a frequentare (ed ora, in Toscana abitiamo nella stessa frazione di Monticiano), la sua compagna di classe Gabriella Vedovati, che mi piaceva e che poi si è accasata con il Rino Panza e ci siamo ritrovati ad andare in montagna dalle stesse parti, Emanuela Colombo (che ritrovai docente di filosofia al Frisi)
    • i due fratelli Sanvito (Piergiorgio e Luisa, quest’ultima dalla vita avventurosa),
    • Gigi Colombo del Mosè Bianchi (futuro proprietario della libreria del Duomo) con cui ho fatto un po’ di viaggi verso Milano nei primi anni di Università ,
    • dell’Hensemberger Sem Cavalletti (mio amico e compagno di classe che però da GS andava e veniva così come Mario Calloni), Sergio Refaldi (compagno di classe), Roberto Contardi (ritrovato in AO), Giovannino Bertanza (futuro psicologo, caro amico di quegli anni e ritrovato per questioni di scuola quando facevo il DS all’Hensemberger), Carlone Oggioni, Diego Pellaccini, che veniva da Sesto, e tanti altri. Roberto Contardi è poi andato a lavorare alla Singer ed è diventato un dirigente della FIOM, Carlo Oggioni studiava lirica e, con il suo vocione già a 16 anni, faceva il basso. Chissa se ha fatto il cantante?
    • Non posso non citare una giovane Annina Pozzi delle Preziosine che mi piaceva assai ma che, con un sotterfugio, mi fu scippata dall’amico (?) Giuseppe Galbiati. Ci piacevano sia lei sia la Bruna (mia moglie) e mi propose un patto: tu mi lasci campo libero con Annina e io ti lascio campo libero con Bruna. C’era un trucco: Bruna era già impegnata, lui lo sapeva e io no (ma poi ci siamo ritrovati).

Ci veniva, anche se un po’ a fasi alterne, la mia futura moglie, Bruna Rovelli, del Mosè Bianchi che ho conosciuto allora. Ad un certo punto a GS si aggiunse GL (gioventù lavoratrice) animata dall’Ottavio Scalet (che ebbe un percorso molto eterodosso, dal movimento giovanile DC ai marxisti leninisti) e. da Carlo Varisco (sindacalista dei tessili ritrovato in AO) scomparso tragicamente qualche anno fa.

le tre giorni e don Giussani

I momenti topici, in cui si mischiavano socializzazione, vacanza ed esercizi spirituali erano di tipo residenziale e si facevano sia nelle vacanze di Natale, sia in quelle estive.

a Varigotti con don Giussani

Per quei tempi era una gran bella novità: giovani di entrambi i sessi facevano vita comune per alcuni giorni in un mondo in cui, per dirne una, persino la comunione si faceva su file separate (gli uomini da una parte e le donne dall’altra). Ricordo una mitica tre giorni a San Fedele in val d’Intelvi con tanta neve.

Ho fatto un paio di tre giorni a Varigotti con quelli di Milano e il mitico don Giussani che, devo dire con sincerità, non mi ha mai convinto più di tanto, essenzialmente per quel modo di parlare per allusioni, per non sensi in cui si smarriva il significato originario delle parole.

Ma proprio per quello è andato per la maggiore e, ad un certo punto, è stato imitato dalla maggioranza degli adepti creando quella che per me era la scuola della incomunicabilità (dopo il 68 con la fondazione di CL). Un altro che non mi piaceva, per le stesse ragioni, era il responsabile milanese della cultura, Gigi Negri che ad un certo punto entrò in seminario e da allora ne ha fatta di strada (adesso è il vescovo ultraconservatore di Ferrara, dopo essere passato da San Marino).

Nell’estate del 63 abbiamo fatto le vacanze estive a Livigno: dibattiti, passeggiate, goliardate (come quando mi hanno tagliato metà barba tenendomi sul letto a viva forza) e durante una di queste escursioni ho anche preso la prima e unica sbronza da superalcolici della mia vita.

Avevamo fatto una escursione in quota e ci ha preso un temporalone; siamo scesi di corsa e sotto l’acqua sino a quota 2000; lì ci siamo buttati in una baracca di legno, dopo aver comprato di tutto in un rifugio adiacente: grappa, brandy, cherry, whisky, kirsch. Sorsate a garganella e, ad un certo punto, quando l’alcol andava giù senza farsi più bruciare in gola, mi sono accorto che non riuscivo più a reggermi in piedi.

la messa di GS e la caritativa

La domenica mattina, alle 10:30 c’era la messa di GS a San Pietro Martire in via Carlo Alberto, con predica di don Vico e nel pomeriggio si faceva la caritativa.

Ci si trovava all’angolo tra via Cortelonga e piazza Trento a prendere il pulman e lì si andava a turno in una delle coree di Cinisello: Robecco, Cornaggia o Bellaria, dove si passava il pomeriggio a far giocare bambini di famiglie sottoproletarie in accordo con i preti delle nascenti parrocchie. La stessa cosa facevano i milanesi, che l’avevano inventata, nei paesi della bassa.

la squadra del raggio Hensemberger; io ho porto indegnamente la stella di capitano

Come si vede dalla foto qui a lato si facevano persino sfide di calcio. Questa è la squadra del raggio Hensemberger con tra gli altri (Refaldi, Calloni, Pellacini, Bertanza e Cereda). Gli altri me li ricordo ma non viene il nome.

lasciamoci così senza rancore ….

GS incominciava a virare pesantemente verso una impostazione totalizzante e di chiusura alla società moderna; inoltre si affacciavano le posizioni che, anni dopo, avrebbero portato all’appoggio alla DC, tra l’altro in alleanza con gli andreottiani, sponsor il lecchese Roberto Formigoni.

Facevo la III e ci fu un convegno, organizzato a Monza, contro il socialismo e il liberalismo che mi impressionò negativamente. Intanto io, dopo la messa di GS, comperavo l’edizione domenicale dell’Avanti sempre molto ricca di inserti storici e culturali e poi passavo alla cooperativa la Brianza pe la riunione dei giovani socialisti insieme all’amico Sem Cavalletti; da Milano veniva Felice Besostri a coordinarci. Oltre all’Avanti leggevo anche Politica, il settimanale della sinistra DC diretto da Giovanni Galloni, che avanzava proposte oggi impensabili, come la nazionalizzazione della industria farmaceutica. Era il 1964.

Da GS mi sono allontanato pian piano e sono stato per un po’ senza farmi vedere, sul finire della quarta superiore. Nell’aprile del 1965 mi sono riaffacciato ad un raggio convocato in occasione del ventennale della liberazione. Ero pieno di dubbi nei confronti della Chiesa istituzionale perché vedevo che il processo conciliare, nelle mani di Paolo VI, aveva subìto una battuta d’arresto e mi ritrovai Augusto Pessina che concluse quel raggio con parole che mi sono rimaste nella memoria: “io non li capisco i partigiani comunisti, perché se io fossi vissuto allora e non fossi stato cristiano, non avrei mai scelto di oppormi al fascismo“.

In quel momento capii definitivamente cosa fosse l’integralismo. Me ne andai da quel raggio e in GS non mi hanno visto più, ma nonostante quello, considero quella esperienza un momento importante della mia vita e della mia crescita personale e ripenso a quegli amici di allora con affetto e simpatia. E penso che, da questo scritto, lo si sia capito.


Ultima modifica di Claudio Cereda il 20 maggio 2024


La pagina con l’indice della mia autobiografia da cui potete scegliere i capitoli da leggere


 

 




1962-1964: elettrotecnica il secondo biennio all’Hens

III edizione – maggio 2024

4b 1964 hensemberger

In prima fila accosciati da sinistra: Sergio Grandi, Carlo Carzaniga, Giorgio Torriani, Luigi Beretta, Luigi Sacchi, Ermes Nava, Beniamino Parolini, Enzo Grassi, Claudio Cereda. In seconda fila: Sergio Refaldi, Mario Segalini, Dario Brioschi, Natale Ornago, Roberto Crippa, Giuseppe Cavenaghi, Carlo Pioltelli, ing. Galasso, Luigi Mariani, Moreno Trevisi, prof. Antonio Bellia, Luigi Arosio, prof. Mario Truci, Alberto Sala, Felice Aresi, prof. Donato Vencia, Angelo Monti, Luigi Assali, Mario Calloni, Marco Lissoni, Giuseppe Cavaletti e sullo sfondo Andrea Mutti e Danilo Scamardi – tutti vestiti bene, non per la foto, ma perché a scuola si andava così

Per il triennio di specializzazione ho scelto elettrotecnica. All’Hensemberger c’erano solo tre trienni mentre per le altre specializzazioni si doveva andare a Milano (chimica e fisica al Molinari, nucleare ed elettronica al Feltrinelli). Da noi: corso A, primo piano, meccanica; corso B, secondo piano, elettrotecnica; corso C, terzo piano, metallurgia (una specializzazione inventata da De Majo, con una sola gemella nel bresciano, per tener conto della siderurgia di Sesto San Giovanni e delle fonderie del territorio).

un ITIS integrato nel suo territorio

I laboratori della scuola erano una cosa grandiosa: ricordo quello tecnologico al piano terra in cui venivano le aziende del territorio a fare le prove sui materiali (durezza, resistenza alla fatica, resilienza, elasticità, trazione) e pagavano. Credo che fosse il lavoro principale del capo ufficio tecnico e vice preside prof. MIgliorini.

Da Preside ho avuto modo di consultare i verbali del Consiglio di Amministrazione della scuola (con gestione finanziaria autonoma sino agli anni sessanta). Era una azienda ben gestita e flessibile nel rapportarsi al tessuto produttivo del territorio. Se serviva una macchina la si comprava, se serviva una specializzazione o un corso pre e post diploma, lo si apriva. Se servivano incentivi al personale si davano.

Da quei verbali ho scoperto che l’ingegner De Majo, appena nominato nel 45, fu mandato dallo Stato per uno stage di un anno alla Fiat, perché per governare un ITIS dovevi aver visto e assorbito la cultura industriale. L’autonomia finanziaria e quella nella gestione del personale ci spiegano perché, per tutti gli anni sessanta, la nostra istruzione tecnica abbia primeggiato nel mondo.

la scelta della specializzazione e i professori

In terza ho fatto crescere la barba anche se non c’erano ancora i baffi ed è stata una bella guerra con papà che non vietava, ma faceva dell’ironia. Questo, come dice mia figlia, è un dato di imprinting che mi è rimasto e, a suo dire, siamo identici.

Scartai meccanica per via dei miei rapporti infelici con il disegno, scartai metallurgia perché il mondo della siderurgia non mi attraeva; così scelsi elettrotecnica perché incominciavano a prendermi bene sia la scienza sia le sue applicazioni e pensavo che quello potesse essere il modo giusto per coltivarla.

A quei tempi elettrotecnica voleva dire: centrali idroelettriche, grandi macchine, grandi impianti di trasporto e distribuzione. Lo status della disciplina era ben definito sin dal primo novecento; l’elettrotecnica era uguale a se stessa da 50 anni e i laboratori della scuola, nuovissimi, erano assolutamente all’altezza.

Ricordo in particolare quello di misure elettriche, molto grande e con un set di macchine disposte prima dei finestroni lungo la via Cavallotti con cui si poteva fare assolutamente di tutto in termini di simulazione degli impianti di produzione ed utilizzo: grandi motori sincroni e asincroni, alternatori, dinamo e motori a corrente continua, il tutto in gruppi che potevano essere interconnessi.

1972 vegezzi e Marina

1972, il professor Vegezzi con la figlia Marina

In terza incontrai un professore di lettere di alto valore, il professor Augusto Vegezzi, piacentino di origine, futuro autore di un fortunato testo di storia per i licei e poi lungamente preside del liceo Banfi di Vimercate. E’ scomparso nel 2022 a 90 anni.

Allora a Monza era così, giravano docenti di prima grandezza; al Mose Bianchi c’era Franco Fortini e il professore di filosofia di mio fratello, al Frisi, era Renato Fabietti. Con Vegezzi (intellettuale di sinistra) mi trovai bene perché era un educatore vero che sapeva dare un senso all’insegnamento di Italiano e di storia in un ITIS.

Ti faceva discutere, non imponeva; rispettava le mie opinioni allora molto diverse dalle sue. Su sua indicazione lessi Il maestro di Vigevano di Lucio Mastronardi (ma prima chiesi il parere al mio confessore, don Giulio Oggioni, futuro arcivescovo di Bergamo che, essendo villasantesi veniva in oratorio la domenica mattina quando era libero dagli impegni di docenza al seminario di Venegono).

Nei temi, con Vegezzi, mi sentivo libero e così il passaggio in quarta fu traumatico; Vegezzi aveva chiesto e ottenuto il trasferimento a Milano. Con l’arrivo del professor Donato Vencia cambiarono obiettivi, metodi, concezione della cultura e passammo da un bel frizzantino al vino fermo. Nel primo tema in classe mi beccai un bel tre meno meno perché a suo dire ero andato fuori tema. Non mi restava che adeguarmi.

Cambiai la prof di Inglese e arrivò dal Frisi la prof Castoldi (mi pare fosse soprannominata Moby Dick). Era stata la prof di mio fratello e, nonostante l’aura temibile che la circondava, trasmessami anche da mio fratello, non ebbi assolutamente problemi.

materie tecniche extra-specializzazione

Ebbi l’occasione di fare un bel corso di tecnologia in cui studiai gli elementi essenziali delle proprietà dei materiali e dei processi siderurgici (dall’alto forno, ai convertitori, ai forni di fusione) e un corso altrettanto buono di meccanica generale perché allora il perito era pensato come un tecnologo che si specializzava, ma doveva comunque avere una competenza a 360° sulle cose essenziali.

Nel corso di tecnologia andamma più volte in laboratorio e ricordo il fascino delle prove di resistenza dei materiali: la resistenza alla trazione (fase elastica, snervamento e rottura), la sollecitazione di taglio, la durezza superficiale

Dopo il corso di chimica generale in II, ce ne fu uno di chimica organica e industriale dove ci occupammo dei grandi impianti chimici per la produzione dei composti chimici essenziali per l’industria (acido solforico, acido nitrico, soda caustica, acido cloridrico, ipoclorito di sodio, coloranti) e di tutte le problematiche legate alla produzione e distillazione degli idrocarburi.

Avevo acquistato da un compagno di classe un certo numero di reagenti (acidi, basi e sali) e nella cantina di casa (areata da uno sportellino in alto a livello del suolo esterno) mi divertivo con le reazioni. Spettacolare la produzione di ipoazotide (una miscela di ossidi di azoto di un bel colore rosso mattone) che si ottiene facendo reagire trucioli di rame con acido nitrico. Avevo un sale di cobalto che, a seconda della umidità cambiava colore e mi divertivo a scaldarlo in una provetta.

la reazione del sodio in acqua con sviluppo di idrogeno che si incendia

In un contenitore di vetro con il tappo a vite tenevo, immerso nella nafta un bel pezzo di sodio metallico. Lo si tiene nella nafta perchè a contatto con l’acqua (e basta anche solo il sudore o l’umidità atmosferica) ha una reazione violenta, sviluppa idrogeno che si incendia immediatamente. Il sodio è lucente e malleabile e basta prenderne un pezzettino con una pinzetta e buttarlo in acqua per vedrlo saltellare e incendiarsi.

Sempre in cantina mi ero attrezzato un piccolo laboratorio di elettrotecnica messo in piedi recuperando vecchi trasformatori provenienti dalla fabbrica chiusa di mio padre. Con dei raddrizzatori che mi ero procurato ci facevo l’elettrolisi e, con i soli trasformatori, la saldatura ad arco ed altri esperimenti in cui portavo alla incandescenza fili di rame piazziati su una basetta di legno sostenuti da chiodi che facevano da morsetti e misuravo i tempi necessari per la evaporazione del metallo ad alta temperatura a seconda dello spessore. Negli anni avanti mi sarei dilettato con la radiotecnica e un po’ di elettronica: produrre un amplificatore utilizzando le vecchie radio a valvole, costruire una chitarra elettrica.

Un altro laboratorio che ora non si fa più era quello di saldatura; due ore pomeridiane molto divertenti passate a fare pratica con la classe divisa in tre gruppi; un trimestre fiamma ossidrica e cannello ossiacetilenico, un trimestre saldatura ad arco, un trimestre fucina. L’aiutante tecnico che lavorava al maglio era soprannominato Vulcano. Con tutti quei laboratori l’orario scolastico era pesante: 34, 36, 38 ore, ma anche così ci si abituava al futuro lavoro in fabbrica (gestione del tempo e dei ritmi di lavoro).

sua maestà l’elettrotecnica

Last but not least, l’elettrotecnica: ovvero il testo di Olivieri e Ravelli e l’ingegner Bellini. Oltre all’elettrotecnica generale seguita dalle correnti alternate e trifasi e poi dalle macchine elettriche, c’erano misure elettriche, impianti elettrici e costruzioni elettromeccaniche con altri docenti; ma l’elettrotecnica all’Hens era l’ingegner Bellini.

La sua parola, in classe o nei discorsi tra studenti, equivaleva all’ipse dixit (l’ha detto l’ingegner Bellini). Con lui non si pedeva tempo e si lavorava, sin dal primo anno di specializzazione, sulla preparazione alla prova scritta dell’esame di diploma. I conti erano tanti e si facevano con il regolo calcolatore con due o anche tre cifre significative (inclusi i conti che richiedevano la trigonometria).

olivieri ravelli vol. 1 Elettrotecnica generale

Olivieri e Ravelli vol. 1 Elettrotecnica generale

L’Olivieri e Ravelli, edizione CEDAM marrone scuro, rilegato in tela e cartone a lettere d’oro, tre volumi (elettrotecnica generale, macchine elettriche, misure elettriche) è stato nella mia formazione quello che, all’università, sono state le Lectures on Physics di Feynman. Bellini faceva lezione; sottolineava le cose essenziali di teoria (tanto c’era l’Olivieri e Ravelli per gli approfondimenti) e poi tante applicazioni.

Prendevo appunti e poi li rielaboravo studiando sul testo. La ristesura degli appunti presi a lezione rielaborandoli con l’apporto dei testi è fondamentale per capire come stanno le cose e per introiettare la conoscenza.

Non eravamo in molti a lavorare così, c’era chi si accontentava di riuscire a fare i compiti in classe e c’era chi si faceva aiutare durante i compiti. Io ero per la sistematicità. Purtroppo di quei quaderni di appunti (elettrotecnica, matematica, meccanica, elettronica) non ho più nulla e la stessa cosa è avvenuta per quelli dell’università; prestati e mai restituiti.

Gli altri docenti delle materie di indirizzo non erano di pari valore, ingegneri neo laureati in attesa di assunzione e prestati (senza impegno) all’insegnamento.

In terza compresi bene i concetti di intensità di corrente e di differenza di potenziale e mi resi conto della spiegazione demenziale che mi avevano dato in seconda sugli uccelli posati sui fili di trasporto dell’energia elettrica. La corrente elettrica circola se metti a contatto punti a potenziale diverso e se stai su un solo filo sei al potenziale del filo e dunque non c’è passaggio di corrente.

la frattura della tibia

Nella primavera del 63 ci fu uncidente importante durante una lezione di educazione fisica al campo di calcio dell’oratorio di Triante con il professor Tarca.  Ero in azione in velocità e per un difetto di controllo del pallone finii in avanti sulla punta del piede destro.

Sentii un bel crack di osso che si rompe, mi ritrovai a terra e poi arrivò il dolore: frattura scomposta di tibia e perone della gamba destra. Mi caricarono in auto tenendomi in braccio e via verso il vecchio Ospedale San Gerardo. Il primo impatto fu con la messa in trazione perché per fissare la staffa di trazione ti trapano il malleolo e ci piazzano un cilindretto d’acciaio. A quei tempi la ortopedia chirurgica era di là da venire.

Il reparto era di quelli con quattro letti per parte e il corridoio in mezzo. Ero immobile nel letto bloccato dall’apparato di trazione con pesi e carrucole.  Furono 20 giorni di sofferenza e immobilità, poi 45 giorni di gambale gessato senza possibilità di appoggio, 30 giorni di stivale e poi altri 20 perché il callo non era giudicato soddisfacente. Totale 115 giorni.

Ricordo ancora con terrore i giorni di Ospedale in quel camerone, tra urla, odori corporei, sempre su schiena, padella e pappagallo. C’era un camionista a cui schiacciarono una gamba con un camion  in manovra mentre lui stava sotto. Dopo giorni di sofferenza gliela amputarono perchè stava andando in cancrena.

Quando levai l’ultimo gesso il mio polpaccione destro (tutti i Cereda hanno il polpaccione)  era ridotto a un terzo. Era il luglio del 63 e andammo al mare a Varazze; stavo meglio in acqua rispetto al camminare sulla sabbia. Mi sono rimasti un bel callo osseo e un accorciamento di quasi 1 cm e mezzo che alla lunga ha dato problemi alla mia colonna.

Dopo la prima settimana di stivalone sino all’inguine, in cui era stato prescritto il riposo a letto, ricominciai ad andare a scuola. Il mio compagno Luigino Sacchi mi veniva a prendere in Lambretta e, in qualche modo si arrivava all’Hensemberger dove mi prendeva tra le braccia e mi portava in tutti gli ambiti in cui non ce la facessi con le stampelle. L’ascensore c’era ma non era per gli studenti.

Altri tempi, ve li figurate con la 626 (il trasporto in moto, il trasporto in braccio)? Luigino Sacchi insieme al Sem è stato il mio compagno di studi nel triennio. Andavo a casa sua, nelle villette dietro l’acquedotto,  nei pomeriggi in cui non c’era laboratorio e rivedevamo le cose insieme. Ci vedevamo solo per studiare perché lui era impegnato con gli scout e faceva atletica leggera (lancio del disco).

Nel tempo libero mi impegnavo sempre di più in GS e mi apprestavo a fare il caporaggio dell’Hensemberger (ne parlo in un capitolo a parte). La giornata era strutturata così: scuola di mattina, scuola di pomeriggio, un salto in GS prima di cena, studio dopo cena. Mentre, fino a tutta la seconda, nel pomeriggio della domenica andavo al cinema a Villasanta, adesso c’era la caritativa: andavamo nei quartieri in espansione di Cinisello (le coree) a far giocare i bambini intorno a parrocchie che stavano nascendo (Robecco, Bellaria, Cornaggia).

dalla terza alla quarta: marachelle e autonomia

Nell’estate del 63 ci fu il trasloco dalla vecchia casa di via Mazzini al condominio Marinella di via Monte Sabotino, dal centro alla estrema periferia, dove c’erano ancora le vecchie cave, luogo impagabile di avventura per mio fratello Fabio.

Villasanta finiva al passaggio a livello di viale della Vittoria e più in là c’era solo campagna. Pochi giorni dopo il trasloco, morì la nonna Elisa e così non ci furono problemi nella disposizione delle tre camere (una per i genitori e il piccolo Marco e le altre due per noi quattro più grandi). Ironia della sorte il condominio fu costruito dalla impresa di Stefano Mariani, lo storico autista del calzaturificio, e l’acquisto fu reso possibile  dalla generosità del cugino Giancarlo Locati che si stava incominciando ad affermare come ingegnere civile e anticipò una quota dei soldi necessari.

La quarta fu un anno di passaggio da tre punti di vista: professionale, cultural-religioso, politico. Sul versante della autonomia mi ero comperato, con i proventi di una borsa di studio, la Lambretta 125, quasi subito truccata a 150 con la collaborazione di Roberto Zannini (il figlio di Tonino dell’omonimo garage). Aveva due anni meno di me; io gli davo una mano in qualche materia e lui smanettava con le moto avendo a disposizione l’officina. Si fece una lambretta da 125 a 200 cc che riusciva a mandare a un numero di giri spropositato e che alimentava con miscela al 12% per non grippare.

Una borsa di studio da 120 mila lire era un bel contributo, e ricordandomi della mia storia, da dirigente scolastico dell’Hensemberger mi sono subito dato da fare per rendere disponibili borse di importo significativo (sino a 1’000 €) per gli alunni meritevoli cercando di trasmettere il messaggio secondo cui ciascuno, nel bene e nel male, è artefice del suo destino.

Iniziavo anche a dare le prime lezioni private a studenti dell’Hensemberger delle prime classi, una attività che ho mantenuto anche da studente universitario.

A scuola si approfondiva la scelta dell’elettrotecnica; aspettavamo i due pomeriggi in cui si sarebbe fatto laboratorio di misure per unire teoria ed applicazione; carini i laboratori di costruzioni elettromeccaniche in cui si iniziava la progettazione e realizzazione di macchine elettriche, quelle che studiavamo sull’Olivieri e Ravelli. In terza abbiamo imparato a fare i cablaggi per la alimentazione delle macchine utensili con il filo di rame rigido, mentre in quarta ho costruito un trasformatore dalla progettazione, al dimensionamento e assemblaggio dei lamierini, alla realizzazione degli avvolgimenti.

laboratorio macchine utensili

laboratorio macchine utensili di un ITIS

Sempre sul versante della cultura tecnologica a 360° del perito ci fu anche l’esperienza del laboratorio di macchine utensili. La classe era divisa in due gruppi e alternativamente si lavorava al tornio o sulle macchine speciali (fresatrici, piallatrici, trapani).

Ho visto, ma non usato, la prima macchina a controllo numerico che lavorava con nastro perforato (era il1964).

Mi sono stupito nel vedere un tornio con mandrino a revolver che fabbricava bulloni con una serie di passaggi predeterminati in sequenza a partire da un’unica barra cilindrica d’acciaio: realizzazione della testa e del corpo, il filetto, la svasatura, il taglio con caduta del pezzo e inizio del successivo. Ad ogni colpo dato alla ruota di comando il portautensili ruotava ed iniziava una nuova operazione e, naturalmente, attraverso connessioni meccaniche opportune si poteva rendere automatica, anche questa operazione. Erano i primi elementi della automazione, ancora rigidamente senza uso della elettronica.

C’è un episodio che serve a spiegare bene che tipo di personaggio stessi diventando. Non ero ribelle, ma intransigente sì. Facevamo un corso di macchine idrauliche e termodinamica (il seguito di quello di meccanica fatto in III) con il solito docente preso in prestito: questa volta era un fisico, ricercatore del neonato gruppo di Fisica dello Stato Solido che insegnava per integrare l’assegno di ricerca (si chiamava Robero Oggioni). Persona molto simpatica e alla mano, ma aveva un difetto: appena entrato in classe si metteva davanti ai banchi, apriva il giornale (Il Giorno) e per 5/10 minuti si dedicava alla lettura.

Io stavo al primo banco e la cosa mi dava istintivamente fastidio perché mi sembrava una forma di maleducazione nei nostri confronti; così una mattina con un accendino diedi fuoco, da sotto, al giornale aperto davanti alla mia faccia. Come si sa, se si accende della carta da sotto, viene una bella fiammata; il professore capì che avevamo sbagliato entrambi non ci furonoi provvedimenti disciplinari e aumentò la stima reciproca.

Il contrario di ciò che mi accadde l’anno dopo quando, per un episodio di ben minore gravità rischiai di perdere l’anno, come vedremo nel prossimo capitolo. Il professor Oggioni fu il primo fisico da me conosciuto che facess il fisico. Esisteva gente che nella vita faceva lo scienziato. La cosa mi piacque molto.

Sempre in quell’anno ebbi il primo contatto con la matematica seria, l’analisi matematica, dopo che già in terza avevamo fatto l’essenziale di numeri complessi e geometria analitica. Il professore era Bellìa, un catanese con un accento fortissimo che sarebbe poi rimasto all’Hensemberger per tutta la sua vita. Il corso di matematica finiva in quarta e, pur senza grandi approfondimenti teorici, ma badando al significato di derivata ed integrale, appresi alcune tecniche che, unite alla padronanza dei numeri complessi, mi consentirono una certa autonomia nello studio delle correnti alternate e dei sistemi trifasi.

Fu una piacevole sorpresa scoprire che, dopo aver appreso i fondamenti, si poteva fare da sè realizzando in maniera elegante risultati applicabili alle materie di indirizzo senza dover usare le semplificazioni concettuali dell’Olivieri e Ravelli (dove non era previsto l’uso dell’analisi).

Mi è rimasta in mente la lezione dedicata alla definizione di limite: voi non sareste mai in grado di capirla, perciò ve la detto e voi imparatela a memoria, disse il Bellìa (preso un ε positivo piccolo a piacere, se è possibile trovare un δ positivo tale che quando …. allora …. ). Non so dirvi se avesse ragione; noi periti eravamo un po’ rozzi e amanti del lato pratico delle cose, ma a Fisica l’impatto con gli aspetti teoretici dell’analisi fu drammatico e da docente di liceo mi impegnai a fondo perché le difficoltà concettuali non fossero eluse ma comprese partendo dalle problematiche da cui nasceva la questione con una modalità in cui il rigore e la astrazione fossero introdotti con gradualità.

le visite aziendali

Nel corso della IV e della V abbiamo fatto diverse visite a grandi aziende del territorio.

Alla CGS (compagnia generale strumenti) di  Monza si fabbricavano ancora gli stumenti di precisione con cassetta in legno; gli stessi che usavamo nel laboratorio di misure oltre agli strumenti da quadro per le applicazioni industriali.

Vedemmo la catena per la produzione dei contatori a disco commissionati dalla Edison, poi ENEL, per la fatturazione dell’energia elettrica. Il passaggio di corrente richiesta dall’utente produce un campo magnetico che mette in rotazione un disco di alluminio collegato a un contagiri. La velocità di rotazione del diswco è correlata alla corrente richiesta. Così si misurava il consumo di energia elettrica in ambito domestico prima che arrivassero i contatori elettronici di oggi.

Alla Ercole Marelli di Sesto ci fu il contatto con la grande industria elettromeccanica: grandi motori e alternatori per le centrali. In quegli anni venivano realizzati i primi turboalternatori con dei rotori in acciaio lunghi 7-8 metri che dovevano fare 3’000 giri al minuto. Scoprimmo le limitazioni nel diametro del rotore (non più di 1 m) per gli effetti di flessione al centro e il rischio che il rotore, ad alta velocità si sradicasse dai cuscinetti. Scoprimmo che uno dei problemi, nella lunghezza (potenza) del rotore era quello della tenuta dell’isolamento dei conduttori alla temperatura prevista di funzionamento (intorno agli 80-90°).

Alla Magrini di Bergamo vedemmo gli interruttori di potenza per le centrali e la sala prove. Alla Philips di Monza visitammo la catena di montaggio per la produzione dei tubi a valvola. C’erano dei grandi banchi circolari con le operaie tutte in camice bianco che, in ambiente protetto, montavano a mano i diversi componenti della valvola (catodo, griglie, anodo).

Lo stesso carosello aveva fiamme a gas e quando il lavoro era finito si montava il bulbo in vetro, si faceva il vuoto e poi il bulbo veniva tappato a caldo. Fu il primo ambiente pulito che vidi nell’industria e mi tornò in mente anni dopo quando, alla SGS (ora ST Microelectronics), mi capitò di entrare nei reparti di produzione delle fette di silicio per la produzione di circuiti integrati e microprocessori dove non può entrare neanche un granello di polvere.

E’ impressionante come di queste cose, nonostante l’alternanza scuola lavoro, oggi se ne facciano meno di allora tra problematiche di sicurezza, scuola di massa e abbassamento della qualità, sia degli studenti sia della offerta formativa.

evoluzione cultural-religiosa

Sul piano culturale e religioso mi occupai di costituire un significativo gruppo di GS interno alla scuola (amici che rivedo ancora con piacere e che hanno preso strade molto diverse).

Intanto approfondivo alcune tematiche legate alla fase conclusiva del Concilio Vaticano II, leggevo le encicliche che ci aveva lasciato papa Giovanni (ormai morto) e trovavo un po’ esitante e non comunicativo il suo successore Montini (Paolo VI). Nel mio processo di crescita cominciavo ad avere l’impressione che la politica culturale di GS fosse un po’ chiusa sul versante sociale come spiegato nel capitolo dedicato a GS; il mio alter ego era il Sem Cavalletti che un po’ stava in GS e un po’ aveva rapporti con il circolo studentesco di Villasanta messo in piedi da mio fratello Sandro e da Peppo Meroni.

Nerl 1963 la domenica mattina i giessini andavano a messa alle 10:30 nella chiesa di San Pietro Martire a metà di via Carlo Alberto. Da questo appuntamento, nell’anno successivo, ne seguì un altro; finita la messa, con alcuni amici ci spostavamo in via Dante al circolo la Brianza a frequentare le riunioni della federazione giovanile socialista (veniva da Milano un deputato lombardiano che si chiamava Cresco e un avvocato amministrativista destinato a fare carriera Felice Besostri).

Iniziò così il mio spostamento a sinistra. Per qualche mese, all’inizio del 64, cercando di imitare mio padre, che era stato fascista e conservava un rapporto di adesione al fascismo nella sua versione sociale e repubblicana, mi misi a leggere il Secolo d’Italia comperato all’edicola al semaforo di via Prina con via Manara, dove c’era un edicolante contrabbandiere e fascista che mi guardava con simpatia. I missini non mi convicevano.

Leggevo anche, episodicamente, La Discussione (il settimanale della DC che arrivava in abbonamento a casa di Sacchi). Erano i primi passi, ancora confusi verso la passione politica. Nell’estate del 1963 era morto papa Giovanni e in quella del 1964 morì Palmiro Togliatti. Il mondo comunista mi era totalmente estraneo ma fui molto impressionato dalla enorme partecipazione popolare ai funerali di cui lessi le cronache su Il Giorno ai giardinetti della Villa Reale. La domenica comperavo l’Avanti che, nella edizione domenicale, era molto ricco di articoli di storia e cultura. Di lì a poco avrei scoperto Rinascita.

Ho aperto con la immagine della IV B. Molti dei compagni di classe non ci sono più, altri li ho persi di vista da tempo, per esempio il mio compagno di banco Alberto Sala che veniva da Cavenago e che ha lungamente fatto il direttore amministrativo della Telettra.


Ultima modifica di Claudio Cereda il 24 maggio 2024


La pagina con l’indice della mia autobiografia da cui potete scegliere i capitoli da leggere





Ilaria Salis + o –

Ilaria sorridente e non ammanettata

Ieri si è tenuta la prima udienza di merito del processo a Ilaria Salis e l’abbiamo vista arrivare in taxi accompagnata dai genitori, finalmente senza manette e catene.

Ho cercato di documentarmi sul processo,  ma l’unica cosa che sembrava fare notizia era la protesta del padre circa il fatto che il tribunale ha reso pubblico il suo domicilio.

Astrattamente si potrebbe pensare ad un rischio di pericolosità (indirizzo già presente sui social della estrema destra ungherese) ma se come pare, Ilaria arriva in Taxi e non ha particolari protezioni da parte delle autorità, a qualunque mal o ben intenzionato bastava una mezza giornata di ricerca per capire da dove arrivava. Mi pare dunque che questo sia un elemento da far decadere. Ormai si sa e da oggi i giornalisti inizieranno a presidiare la zona.

In aula sono stati sentiti due testimoni e una delle vittime e nessuno di loro ha riconosciuto Ilaria; riconoscimento difficile visto che la aggressione sarebbe avvenuta a viso coperto e alle spalle e dunque gli elementi a favore o sfavore di Ilaria andrebbero cercati in elementi di dettaglio corporeo.

Prossima udienza a settembre e, per quanto ho capito, l’accusa cercherà di seguire la linea del processo indiziario; per questa ragione sarà importante da parte della difesa procedere a contro-interrogatori accurati e presentare prove del tipo “a quell’ora e quel giorno Ilaria stava in quest’altro posto e dunque non poteva essere parte del commando di pestatori“.

In assenza di dati descrittivi più dettagliati ho visto il video con la lunga dichiarazione di uno dei suoi due avvocati italiani e in essa ci sono degli elementi convincenti e altri che lo sono meno.

costituzione fuori termine

Zoltan Toth, l’aggredito sentito oggi non era previsto in questa udienza perché a gennaio, quando è scaduto il termine per farlo, non si era costituito e oggi la corte ha deciso di accoglierne la richiesta fuori termine. Lo stesso Zoltan ha presentato un referto per tre costole rotte redatto tre mesi dopo la aggressione mentre a caldo, l’ospedale di Budapest non aveva riscontrato nulla. Sembra di capire che l’aggredito ci marci, visto che contemporaneamente ha presentato, sempre fuori termine, una cospicua richiesta di risarcimento. Al giudice monocratico, che più che un giudice terzo sembra un PM tutto ciò va bene perché serve ad avvalorare la imputazione di lesioni che, potenzialmente, avrebbero potuto condurre a morte.

Come sanno tutti, il rispetto delle procedure in un processo, è la base della civiltà giuridica.

atti in ungherese

Gli atti continuano ad essere disponibili solo in ungherese; la corte dichiara che non ci sarebbe alcun problema perché in udienza Ilaria dispone di un interprete. Ma il rito ungherese è di tipo inquisitorio e non accusatorio. E’ l’accusato a dover dimostrare la sua innocenza e non il contrario e dunque le carte sono importanti, molto importanti, perché vanno eventualmente contestate, bisogna impedire che siano a disposizione del solo giudice e non delle parti creando uno squilibrio palese, bisogna poterle usare durante la testimonianza di vittime e testimoni. Attualmente tutto ciò lo fa il giudice che ha anche il potere di emettere ordinanze inappellabili.

la linea difensiva del rinvio

L’avvocato protesta ma, contemporaneamente, fa una dichiarazione che mi ha lasciato allibito: abbiamo incaricato della traduzione una società specializzata di Milano e le traduzioni saranno disponibili solo a novembre. Su questa baseaveva richiesto il rinvio a novembre del dibattimento. Ora io mi rendo conto che nel regno del bollo tondo bisogna mettere a posto tutti i bolli, ma non credo che ci voglia più di una settimana per tirar fuori quello che conta ai fini processuali, tradurlo e prepararsi al controinterrogatorio; a settembre mancherà qualche timbro e qualche atto inessenziale ma la difesa si dovrebbe poter fare senza grandi problemi.

Ho avuto difficoltà a raccogliere notizie. Lo ha fatto solo il Manifesto. Mi chiedo se i quotidiani italiani abbiano inviato a Budapest dei cronisti giudiziari o degli esperti di cronaca rosa: le manette, la diffusione dell’indirizzo e le proteste del padre. Sul merito del processo nulla.

Io sono dalla parte di Ilaria, del suo diritto ad un processo giusto e rapido, ma non sono per la linea  del fare di ogni erba un fascio. I fasci li lascerei ai fasci e alle demokrature. Se ci saranno novità significative aggiornerò questo articolo.




a proposito di redditometro e grande fratello

Non ne usciremo mai, ciascuno dice la sua, con le sue convenienze. Il viceministro all’economia Leo, che ho scoperto essere uno dei maggiori esperti tributaristi del paese, fa i conti con il fatto che nei conti pubblici tira una brutta aria legata ai provvedimenti di finanza allegra e al fatto che prima o poi dovremo sottostare alle inique leggi economiche di Bruxelles: dare dei segnali che si fa sul serio e non dico puntare a non fare nuovo deficit (lo fece Prodi), ma almeno puntare a ridurre la incidenza percentuale del rapporto deficit PIL, che vuol dire, il deficit continua ad aumentare, ma almeno lo fa diminuendo il ritmo di crescita.

Ricordo che sui recenti provvedimenti europei che impongono di farlo l’Italia si è chiamata fuori facendo ridere tutti.

Così Leo propone un intervento, non certo strutturale, ma qualcosa che consente di arrivare all’autunno avendo raggranellato qualche miliardo: il redditometro, un provvedimento che consente alla agenzia delle entrate di andare a vedere se c’è sproporzione tra reddito dichiarato e stile di vita.

Siamo sotto elezioni e … apriti cielo. Prima Tajani in maniera soft, poi Salvini in maniera più sguaiata e così Meloni interviene, smentisce il suo viceministro e blocca un decreto già in Gazzetta Ufficiale. Suo, per due ragioni: perché è un esponente importante del suo governo e perché è del suo partito.

C’è il diritto alla privacy, poi non bisogna confondere i beni di impresa con i beni personali perché se lo yacht è della ditta io posso continuare a dichiarare meno di un professore di scuola media; e allora giù con il Grande Fratello che ti scruta, ti entra in casa … Chi le tasse le paga non ha alcuna paura del grande fratello, anzi semmai chiede di semplificare ulteriormente, evitare di doversi occupare del 730 andando al patronato o dal commercialista. Ed è singolare che parlino di Grande Fratello esponenti di un partito come Forza Italia, che il grande fratello, quello della puttanTV lo hanno inventato.

In tutto ciò mi stupisce e mi sconcerta leggere che dalle parti della opposizione vengano chieste le dimissioni di Leo e di Giorgetti. Dimissioni di chi? Dimissioni perché? Opposizione a cosa?