III edizione luglio 2024
il liceo Zucchi che, a Monza, delimita uno dei quattro lati di piazza Trento – al centro si intravvede l’inresso con il cancello in ferro e la gradinata di accesso luogo di ritrovo pomeridiano degli studenti e punto di scambio delle versioni
Nei primi mesi del 92 incominciavo a trovare pesante il clima alla Informatica Sisdo; non mi piaceva molto il modo di rapportarsi al settore pubblico nella gestione delle commesse e così considerai esaurita la parentesi del lavoro nel privato, da cui avevo imparato un sacco di cose, e decisi che era ora di ritornare a scuola.
Sfruttai un vantaggio dello stato giuridico dei docenti di ruolo che consentiva, a chi si era dimesso, di chiedere la reimmissione in servizio, che poi avveniva a discrezione della amministrazione. Ma, con la laurea in fisica e il ruolo nella classe di concorso di Matematica e Fisica, ero certo che non avrei avuto problemi a rientrare. Per altro, avendo la partita IVA ho continuato per un paio d’anni a fare qualche lavoretto episodico con la SISDO su commesse che avevo sviluppato e seguito io.
allo Zucchi per caso
Nella indicazione delle sedi desiderate misi al primo posto Monza, dando per scontato che sarei ritornato al Frisi. Invece, proprio quell’anno, si era liberata una cattedra al liceo classico (l’amico e compagno di studi Carlo Rovelli era andato a fare il Preside) e così finii allo Zucchi: il mitico Zucchi.
il loggiato del Liceo Zucchi visto da sud-est verso nord-ovest
Nel passato ci ero entrato una sola volta per assistere all’esame orale di maturità di Peppo Meroni nell’estate del 1964 e ricordavo il grande loggiato affacciato sul cortile con i cedri del Libano. Gli orali della maturità si svolgevano all’aperto nel loggiato.
In questi giorni sono entrato al Liceone di Siena (Enea Piccolomini) per gli esami di mia nipote (che ha terminato il liceo delle scienze umane); anche lì edificio antico con gli scaloni e i piani da 7 metri di altezza. Il liceo classico si deve portare dietro, anche nell’edificio, questo carattere di antico.
i colleghi della F e il primo impatto
Nel mio curriculum di docente e di studente mancava il liceo classico; lo avevo sempre considerato un posto di snob fuori dal mondo, e ci andai pieno di curiosità. Venni messo nel corso F (quello in cui si era liberata la cattedra) ed ebbi come colleghi del triennio Fiumi (latino e greco), Bulega (Italiano), Gangemi (Storia e filosofia), Gualdoni (Arte), Del Re (scienze) e Pullè (educazione fisica). Nel ginnasio per lettere ho avuto due giovani marito e moglie (Crusco e Tornitore) e una collega di inglese molto esigente (Caridi).
Al classico la cattedra di matematica e fisica è verticale sull’intero corso di studi dalla IV ginnasio alla III liceo. Fisica inizia solo in seconda liceo e si fanno poche ore per classe. Il profilo orario è il seguente 2, 2, 3, 3+2,2+3. Per contrasto dimensionale basta osservare che in IV ginnasio il docente di lettere fa cattedra con una sola classe (italiano, storia, geografia, latino e greco); ma, nonostante le poche ore, quello di matematica e fisica è comunque un riferimento ed è l’elemento di continuità sull’intero percorso quinquennale.
Questa del docente di lettere del ginnasio con 18 ore in una stessa classe era, per certi aspetti, un vantaggio se la prof. (solitamente sono donne) era una persona attenta e capace; ma si potevano anche creare dinamiche distorsive sia nel rapporto docente-studente sia nella capacità di tenere distinte a e a sè stanti in sede di valutazione 5 discipline diverse. Nulla vietava di spezzare in due la cattedra (e in quel caso il docente avrebbe tenuto due classi con 9 ore) e nella classe ci sarebbero state due docenze di lettere ma la tradizione era quella. Con questa impostazione va tutto bene se, per via delle graduatorie, non ti arriva un docente incapace o fuori di testa. In quel caso per il Preside è un bel problema e questa cosa accadde in quegli anni allo Zucchi.
Per quanto riguarda l’ordine e la pulizia, tutto bene come al Frisi, ma nel caso dello Zucchi, per ragioni logistiche, il controllo su alunni e visitatori era più semplice. All’ora della entrata e della uscita veniva aperto il cancello in ferro di accesso al cortile e dal cortile si saliva al primo (e unico piano) attraverso i quattro scaloni posti ai quattro angoli. Nel resto della giornata si poteva salire solo passando dalla guardiola sulla destra dove una bidella provvedeva a segnalare gli arrivi via citofono. Di fianco alla guardiola si faceva il ricevimento dei genitori in un’aula abbastanza squallida e senza sala d’attesa (ma anche al Frisi era così).
il cortile interno del Liceo con vista sull’ingresso e i bellissimi cedri del Libano
Non c’era una palestra a norma per problemi di altezze e non la si poteva certamente realizzare in un edificio tutelato dalla Sovraintendeza; perciò le lezioni di Educazione Fisica si tenevano in aula o in cortile. Tra le diverse scuole in cui sono stato lo Zucchi è stata la prima in cui ho trovato colleghi di Educazione Fisica che giocassero un ruolo importante nei consigli di classe e, in particolare, in sede di scrutinio, fornendo importanti contributi sul rapporto corpo-mente. Insomma, ci aiutavano parecchio nel processo di valutazione.
L’aula magna era al primo piano sul lato sud insieme a qualche laboratorio. A nord, ovest ed est aule; ma a est c’erano anche la biblioteca e, all’angolo opposto, la segreteria, la presidenza e la sala professori con un arredamento ottocentesco e la immancabile enciclopedia Treccani. Al piano terra l’unica parte di pertinenza dello Zucchi era a sud mentre il resto era occupato dall’Ufficio centrale delle Poste e dalla Biblioteca Civica (con porte di passaggio ben chiuse).
Il clima interno, come si conviene a un liceo classico d’epoca (che in quegli anni festeggiò il 500° di fondazione con tanto di volume celebrativo), era austero. I professori erano per un 50% milanesi ma avevano la comodità del capolinea della linea celere da Milano sull’angolo della scuola.
Per quanto riguarda la provenienza degli alunni sussisteva la tradizione di iscriversi alla scuola che aveva fatto il papà e, magari, prima di lui il nonno. Dunque c’erano I figli dei professionisti (fossero avvocati o ingegneri), i figli degli industriali doc, i figli degli intellettuali. Accanto a loro, provenienti sia da Monza sia dal contado, alunni molto bravi alle medie che, per via delle doti dimostrate in particolare nell’area espressivo-linguistiche, venivano orientati al liceo clasico. Insomma non si trattava del liceo propedeutico alla iscrizione a lettere per perpetuare professori e professoresse di lettere, ma del liceo per la futura classe dirigente.
Enrica Galbiati
A fare la Preside allo Zucchi c’era Enrica Galbiati (1930-2012) di cui ero stato collega al Frisi (e da cui avevo ereditato la cura del laboratorio del III piano). Enrica Galbiati dal 1978 al 1997 ha segnato un’epoca nella gestione della scuola. I giornalisti, per assonanza con la Thachter, la chiamavano la preside di ferro. Tra noi c’era un rapporto di stima reciproca che aveva a che fare con due cose:
- l’importanza della formazione scientifica nella formazione della personalità e nello sviluppo della intellegenza
- una visione conservatrice di certi temi della vita, in particolare in tema di educazione: senso del dovere, rispetto delle regole, valore della fatica; nel suo caso quella visione era esasperata, nel mio temperata dagli interessi politico culturali di sinistra, ma comunque c’era sintonia.
la Preside Enrica Galbiati
Sono stato suo collaboratore per quattro anni (insieme a Marco Praga, Paolo Pilotto, Giulio Fassina) e, sfruttando le esperienze acquisite nel settore informatico, mi fece sovraintendere alla realizzazione dell’aula di informatica con rete harware audio-video che consentisse il duplice uso come laboratorio linguistico e come laboratorio di informatica, oltre che chiedere una mano importante per le problematiche di segreteria e di organizzazione del personale.
I tre collaboratori erano stati scelti con cura: Marco Praga (latino e greco) rappresentava la storia e la cultura del liceo di cui era stato alunno, Paolo PIlotto faceva parte dei giovani allevati dal cardinal Martini attivi nel rinnovamento del laicato cattolico e della DC, Giulio Fassina (sindaco democristiano di Giussano e vicepreside storico) si occupava della gestione ordinaria (assenze, sostituzioni, circolari, …) sgravandola dai compoiti più noiosi. Io facevo il doppio ruolo di espressione dell’area progressista e di esperto di organizzazione. Sapevo scrivere, masticavo bene la normativa e così finivo per essere l’incaricato della stesura dei documenti più corposi. In quegli anni le scuole dovettero dotarsi di regolamenti, di una carta dei servizi e del Piano Educativo di Istituto (il PEI antesignano del POF).
A proposito delle sue opinioni politiche Enrica Galbiati non poteva che essere democristiana; era una lettrice regolare de Il Giornale di Montanelli e aveva seguito Montanelli nella sua rottura con Berlusconi iniziata nel 94. Nei primi mesi del 96 ho assistito ad una telefonata in cui Enrichetta parlava con Peppino Fumagalli, il padrone della Candy, e gli spiegava che, assolutamente, era fondamentale votare per Prodi alle imminenti elezioni politiche. Aveva maturato posizioni antiberlusconiane (immagino che lo considerasse un parvenu e uno sporcaccione), ma più avanti, dopo la pensione andò a fare l’assessore alla istruzione nella sindacatura di centro-destra di Roberto Colombo. In quella occasione mi chiese anche il mio parere e fui franco nel dirle che non era il caso, non per via dello schieramento, ma perché, gli dissi, Enrica tu non hai il senso delle istituzioni rappresentative, non sarebbe il tuo mestiere. Credo che i fatti mi abbiano dato ragione.
La Presidenza era in un locale grande, con mobili antichi e, in una vetrinetta c’era qualche libro settecentesco ,poca roba rispetto a quello che avrei visto qualche anno doopo al liceo Beccaria di Milano dove feci il tirocinio nell’anno di nomina a Dirigente Scolastico. Alla Presidenza si accedeva o dal corridoio o dalla vicepresidenza, a sua volta collegata alla segreteria, con finestre che affacciavano su piazza Trento.
In quegli anni sono accadute tante cose ma ne voglio citare un paio che hanno avuto un certo peso sulla città. La prima, nel 93, trascinatasi nei due anni successivi fu di rilevanza penale e portò ad un processo in cui fu imputata Enrica Galbiati. Il processo si concluse con una condanna in primo grado e una assoluzione in appello (credo per remissione di querela).
il caso Frediani e l’occupazione
Era l’aprile del 93 e uno studente di V ginnasio, Lorenzo Frediani fu svillaneggiato da lei che lo aveva trovato stravaccato fuori dalla presidenza perché Lorenzo, come faceva spesso, era arrivato in ritardo e i ritardatari venivano fatti attendere davanti alla presidenza. Lorenzo era un mio alunno; era sempre un po’ fuori dalle righe mentre la Galbiati aveva una concezione dell’educazione che prevedeva di usare con gli studenti, soprattutto all’inizio del rapporto, una linea dura.
La bagarre si scatenò sulla accusa, sostenuta dalla famiglia, di avergli dato del giudeo (la Galbiati è razzista). Non ero presente al fatto ma, conoscendo Enrica e conoscendo Lorenzo, sono convinto che si trattò di una rabbuffata energica con Lorenzo che cercava di giustificarsi accampando qualche pretesto e lei che, probabilmente di fronte a giustificazioni poco credibili, per via del suo stile e della sua formazione culturale, gli diede dell’impustur ‘me Giuda, un modo di dire tipico della cultura popolare catto-brianzola e che ho sentito tante volte da bambino: bugiardo come fu Giuda nei confronti di Cristo.
Quell’impustur me Giuda si trasformò da parte della famiglia Frediani in una querela il cui elemento principe, dal punto di vista della pubblica opinione, fu quello di aver dato del giudeo al loro figlio. Non avevo dubbi sul fatto che Enrica avesse trasceso e andai a testimoniare a suo favore cercando di alleggerirne la posizione (e me ne fu riconoscente).
Ma aveva un avvocato proprio debole e anziano (l’ex sindaco Giovanni Centemero) mentre dall’altra parte c’era una pretora bella tosta e in primo grado venne condannata. Era una donna di spirito, ma quella condanna le pesava. Mi diceva, certo che finire condannata con una accusa di razzismo … e si metteva a raccontare delle persecuzioni razziali che ci furono anche allo Zucchi quando lei ci studiava e cosa si faceva per proteggere le compagne ebree. Poi la metteva sul ridere ribadendo quello che aveva dichiarato anche in udienza come avrei potuto dare del giudeo ad un ragazzo il cui fratello maggiore si chiama Adolfo (Adolfo Frediani era stato qualche anno prima uno dei leader del movimento allo Zucchi).
Nell’anno 94/95 ci fu l’occupazione del liceo e lei, invece di chiamare la polizia, disse che sarebbe rimasta in presidenza a tutelare la scuola e gli studenti. Non voleva assolutamente che la polizia entrasse a scuola e sosteneva che finchè a scuola c’era lei la situazione si poteva considerare legale. Si chiuse in Presidenza e noi collaboratori rimanemmo a scuola in vicepresidenza a dormire su qualche poltrona e sul lettino della infermeria.
La mattina dopo gli occupanti cercarono con un trucco di chiuderci fuori dalla scuola; la presenza della Preside e dei collaboratori, anziché vederla come una tutela neil loro confronti, la vivevano come un vulnus (che occupazione è se c’è dentro la Preside con i suoi collaboratori?). Ci chiesero di scendere al cancello per sovraintendere all’ingresso degli occupanti che avevano dormito a casa e allo scambio delle vettovaglie. In realtà avevano preparato un blitz che prevedeva di chiuderci fuori dalla scuola. Ci fecero uscire dal cancello accostato per controllare qualcosa e appena fuori tentarono di chiudere.
Ma non avevano fatto i conti con il fatto che, di certe cose, avevo una certa esperienza e l’operazione non ebbe successo, perché sfondai il picchetto con cui cercavano di tenerci fuori. In quei momenti sono importanti la rapidità e la decisione. Naturalmente ci fu anche qualche polemica della serie il professor Cereda ha usato violenza verso gli studenti, ma l’acccusa, ovviamente, si smontò da sè.
Il suicidio di due alunni
Il terzo episodio fu molto grave e mi ha segnato per diversi anni. Accadde la notte tra il 13 e il 14 maggio del 95: il suicidio, con i gas di scarico dell’auto di due miei alunni: uno di II liceo (Samuele Fossorier) e uno di III liceo (Walter Caliendo). Si suicidarono un sabato notte dopo essere tornati, con un folto gruppo di zucchini, dalla sagra dell’asparago di Mezzago. Con la macchina di Walter accompagnarono a casa Matteo Pressato della III F, poi scelsero un luogo appartato, sigillarono le portiere, fecero entrare da un finestrino un tubo di gomma collegato allo scarico della marmitta e poi si sedettero sul sedile posteriore in modo di essere certi di non poterne uscire.
Chi li ha visti dive che Walter era sereno mentre Samuele avrebbe tentato di uscire senza riuscirci. Quella domenica mattina mi chiamò al telefono la Galbiati allertata dalle famiglie. I cadaveri non erano stati ancora trovati, ma erano arrivate dichiarazioni inequivocabili da parte degli amici e mi fiondai a scuola dove rimasi per l’intera giornata.
Erano due persone molto diverse: Walter si dichiarava fascista (magrolino e chiuso) e Samuele era guevarista con tanto di basco con la stella (gioviale ed esuberante). Sia Walter sia Samuele erano con me da tre anni e nessuno dei due brillava nelle mie discipline.
Walter lo trovavo strano, era taciturno e avevo l’impressione che ogni tanto si estraniasse dal mondo; l’avevo anche fatto presente in un paio di occasioni in Consiglio di Classe, mentre i docenti di area umanistico letteraria lo dichiaravano assolutamente normale e geniale. Samuele era l’opposto: estroverso, atletico (era stato un campioncino di lancio del martello), impegnato nel movimento e, nella occupazione di qualche mese prima, aveva avuto un ruolo superiore a quello del semplice partecipante.
Nei giorni successivi fui sconvolto da ciò che, poco alla volta, saltò fuori:
bigliettini scritti da entrambi in cui si esplicitava il progetto suicida in un clima di totale smarrimento del senso di realtà come quello in cui Samuele scriveva e che non dicano che l’ho fatto perché non andavo bene a scuola perchè, cazzo, a costo di tornare indietro, faccio un casino. La morte vista come una avventura da cui si può andare e tornare
annotazioni di diario da parte di Walter in occasione del compleanno e risalenti a quasi un anno prima: “Giorno maledetto, chiunque lo abbia voluto, mi vendicherò senza perché e senza scrupoli. Non tocca a noi vivere, cosa ci sto a fare qui? Io me ne devo andare assolutamente. Non ce la faccio piu” (citazione pubblicata da Repubblica)
la scoperta che la discussione sul suicidio andava avanti da mesi (in II F e in III F). In questa discussione erano coinvolti alcuni degli studenti (prevalentemente di III) e alcuni adulti (sia genitori, sia docenti). Avevano sottovalutato la pericolosità della faccenda, o comunque avevano deciso di gestirsela in proprio, fidando nella propria capacità persuasiva e ritenendo inopportuno informare gli altri colleghi. In proposito ci fu una discussione piuttosto animata subito dopo i funerali a casa di una delle studentesse coinvolte in cui il coinvolgimento degli adulti lo sentii confermare dai diretti interessati
da qualche mese nella III c’era qualcosa che non andava; una compagna di classe, seria e diligente, aveva avuto un inatteso calo di rendimento e sembrava decisamente in crisi. A cose fatte saltò fuori che aveva avuto un flirt con Walter e che erano state fatte delle prove di suicidio (per impiccagione) mentre lei era stata costretta ad assistere ad alcuni di quei rituali; non solo sapeva ma era coinvolta direttamente
una contiguità stretta con due altri compagni di classe, che erano con loro anche quella sera, e che erano culturalmente e politicamente mille miglia lontani da Walter, l’uno rifondarolo e l’altro frikkettone. I quattro avevano recentemente fatto un viaggetto a Siena tornando innamorati del mondo delle contrade.
tra gli studenti legati al movimento se ne parlava come di una ipotesi concreta ed erano parecchi a sapere: “ah se Samuele non è tornato, vuol, dire che si sono ammazzati …” disse una ragazza, compagna di classe di Samuele, quando li stavamo cercando la domenica mattina.
Andai avanti, per giorni interi a piangere, mi uscirono tutte le lacrime che non avevo versato, un mese prima, per la morte di mio padre. Volevo capire come era andata, continuavo ad incazzarmi con quegli adulti che ritenevo responsabili.
Con alcune delle alunne della ex III F in occasione di una delle messe di ricordo
Ma la città e la Galbiati decisero che doveva calare il silenzio e il silenzio calò. Ci furono incontri con i familiari e si lavorò con l’aiuto di qualche psicologo sugli studenti della classe di Walter, che di lì a poco avrebbe avuto l’esame di maturità. Feci anche un esposto alla procura della repubblica per invitarli ad approfondire, ma mi fu detto che era tutto chiaro e che non c’erano zone d’ombra.
Con i genitori di Walter, che erano stati tenuti all’oscuro di tutto (!), dagli altri adulti che pensavano di gestire la cosa, e con un pezzo di quella classe siamo andati avanti per anni a ritrovarci in una chiesina fuori Brugherio per una messa aperta a chi voleva e io, non credente da una vita, ci andavo per rivedere quelle persone che intanto crescevano e si laureavano. Mi auguro che gli anni abbiano portato loro una pace senza rimozione.
L’anno dopo, non ho mai capito chi fu l’organizzatore della cosa, l’establishment interno allo Zucchi decise che io, e le persone con cui collaboravo eravamo poco affidabili perché avevamo deciso di mettere le cose in chiaro su quanto era successo e alle elezioni dei collaboratori e più tardi per il consiglio di istituto ci dissero che saremmo stati estromessi dalla lista unitaria (? unica) che veniva solitamente presentata. Feci di necessità virtù e ripetei allo Zucchi quanto mi era capitato di fare al Frisi anni prima: due liste, esplicitazione dei programmi e anche questa volta fu un netto successo.
Nel 94/95 stavo già slittando dal corso F al corso A (avevo già la IV A e la I A). Chiesi, e lo ottenni, di passare completamente al corso A. Non me la sentivo di continuare a collaborare con quei colleghi che sapevano, avevano sottovalutato e di fronte alla tragedia avevano semplicemente abbozzato.
gli amici della natura
Da parte mia, visto il contesto di cui ero venuto a conoscenza, da cui traspariva un totale distacco dal mondo reale, misi in piedi, con alcuni colleghi disponibili, una libera associazione che prevedeva uscite domenicali a contatto con la natura da effettuarsi con mezzi poveri e usando il trasporto pubblico.
La chiamammo amici della natura dello Zucchi. La Galbiati, persona pratica, ci garantì la copertura assicurativa e non mise i bastoni tra le ruote.
Amici della natura durò in tutto 3 anni e le uscite organizzate sono state le seguenti: castagnata a Dazio in Valtellina (3 edizioni con il CAI di Villasanta), giornata sciistica a Courmayeur (fondo e discesa), gita sciistica a Santa Caterina Valfurva (fondo e discesa), 2 giorni naturalistico escursionistica in Val Malenco, gita al rifugio III alpe, escursione ciclistica agli aspetti inconsueti del Parco di Monza, gita al parco del Monte Barro, escursione alla Basilica di S. Pietro al Monte di Civate, escursione ciclistica al Parco Adda Nord e ai siti di archeologia industriale dell’Adda.
Ricordo ancora l’escursione al Monte Barro, iniziata con la scoperta che da Lecco a Galbiate, la domenica mattina, a differenza dei giorni feriali, non c’era il pulman e ce la dovemmo fare a piedi.
L’iniziativa più impegnativa fu quella in val Malenco con partenza il sabato all’uscita della scuola: treno per Sondrio, pullman per Chiesa e salita in funivia al lago Palù, discesa al lago e deposito degli zaini al rifugio Palù, per iniziare una immediata ascensione al Bocchel del Torno (il passo a nord-est dove c’era ancora neve e ghiaccio e iniziava ad imbrunire). Rapida discesa, cena; uscita al buio più completo ad osservare la cometa hale bopp. Il giorno dopo escursione dal Palù all’imbocco della val Sissone (alpe Forbicina), dopo Chiareggio, pulmini da Chiareggio sino a Sondrio e tutti a casa con il treno.
da Galbiati a Meneghetti
Il pensionamento di Enrica Galbiati era nell’aria. Me ne resi conto nel 96/97 quando decise di allargare i cordoni della borsa. Negli anni, attraverso le politiche di bilancio che governava con mano ferma aveva accumulato un consistente avanzo di amministrazione che fu utilizato per la realizzazione un’aula multimediale con una poderosa componente hardware che stava sotto il pavimento rialzato.
Era l’epoca di Windows 95 e le reti governate dal sw erano agli inizi. Pertanto l’aula utilizzabile per informatica, laboratorio linguistico e applicazioni multimediali si basava pesantemente sull’hardware con una console avvenieristica che consentiva di controllare tutte le postazioni e, volendo, di strutturare la classe in gruppi. Il tutto era commercializzato da una delle aziende leader nel settore della editoria scolastica in partnership con IBM. Si pensava di poter finalmente avviare il corso di Piano Nazionale per l’Informatica ma, come negli anni precedenti le adesioni da parte della città furono deludenti. C’erano richieste, ma non bastavano mai a raggiungere il numero sufficiente a fare una classe.
Nell’anno precedente il liceo, con la collaborazione e l’impegno della valentissima docente di storia dell’arte Amalia De Biase aveva organizzato un viaggio di Istruzione in Grecia in cui a turno venne coinvolta l’intera scuola . Ci andai anche io ma mi andò male. La prima sera portai i ragazzi a gustare un po’ di cucina tipica greca e la mattina dopo mentre andavo su e giù per le scale dell’albergo a raccattare i ritardatari, scivolai su uno scalino che non aveva le srisce antiscivolo di gomma, volai all’indietro per finire con la schiena sullo spigolo del gradino. Ospedale e successivo riposo a letto in camera sino alla data di rientro.
Apparentemente finì tutto bene, ma la mia schiena già malmessa nelle lombari ebbe il colpo di grazia e nell’anno successivo ernia discale espulsa tra L5 e S1 con intervento in neurochirurgia.
Quando Enrica Galbiati andò in pensione nel 1997, dopo una breve parentesi di interregno, arrivò da Milano Mariagrazia Meneghetti, una bella signora che era tutto l’opposto: colta, elegante, laureata in lettere classiche, figlia di un ispettore e di una preside, molto milanese e, infatti, mi fu grata per averla introdotta ai misteri della monzesità. Il primo consiglio che le diedi fu: se vuoi conoscere Monza e comprendere le sue dinamiche devi leggere Il Cittadino tutte le settimane; la Galbiati non ne aveva bisogno perché lo storico direttore, forse proprietario, era suo fratello.
Con Mariagrazia è iniziata una fase di svecchiamento del liceo; per un anno ho avuto un incarico di supporto organizzativo alla presidenza, ho steso il regolamento di istituto definendo modalità di funzionamento della scuola, organi, diritti e doveri e nell’anno succesivo ho persino fatto il vicepreside con un semiesonero dall’insegnamento.
Per due anni consecutivi ho fatto anche il responsabile del servizio di prevenzione e protezione. Nel vecchio edificio dello Zucchi i problemi erano tanti (vie di fuga, impianti elettrici assolutamente fuori norma, mancanza di un impianto antincendio, pericolosità del sottotetto con travi e capriate in legno infestati da anni dai piccioni con uno strato di guano di alcuni centimetri che ricopriva il pavimento).
Il quadro elettrico generale, che si trovava al piano terra nell’angolo nord-ovest era costituito da una enorme lastra di marmo su cui stavano i sezionatori a coltello e le vecchissime valvole di protezione a filo. Niente salvavita e in molte zone nemmeno presenza di interruttori magnetotermici. Per condire il tutto, il quadro era protetto da una griglia metallica che, in occasione di qualche lavoro era stata svitata e da allora giaceva appooggiata al quadro con il rischio di un corto circuito devastante.
Segnalai, segnalai, … e alla fine data l’inerzia degli uffici comunali, arrivò la ispezione dell’ufficio di II livello e il comune si beccò una multa con i fiocchi.
Con Meneghetti mi trovavo decisamente bene ma la sperimentazione PNI non partiva e così nel 98/99 feci domanda di trasferimento, destinazione Frisi.
gli studenti
Gli studenti, anzi le studentesse, visto che erano la maggioranza, le potevi dividere a metà:
- quelle/i che si erano iscritti al classico perché lì si fa poca matematica e con quelli/e c’era poco da fare (pregiudizi e scarsa apertura mentale)
- quelle/i che avevano scelto il classico per fare una esperienza di studio aperta alla riflessione, agli approfondimenti e alla cultura classica vista come madre del nostro sapere. In questa categoria c’erano poi i molto bravi e, quelli non li batteva nessuno quanto ad autonomia e capacità di approfondimento. Mi ritrovai a pensare a due amici e compagni del 68 che avevano fatto lo Zucchi, Lino Di Martino ordinario di Algebra e Mao Soardi ordinario di analisi.
Fu in quegli anni che iniziai a lavorare sul mio corso di fisica e a rendere disponibili i testi corretti e commentati dei compiti in classe. La interazione con gli alunni iniziava ad avvenire anche con uso della posta elettronica. I materiali li distribuivo su CD e anni dopo fu uno studente dello Zucchi ad offrirmi uno spazio di host in rete, Era Morris Barattini che tempo fa mi scrisse: “Ricordo l’ esperimento del foglio appoggiato sul libro in caduta che mi aveva totalmente spiazzato. Si divertiva un sacco quando insegnava, è una cosa bella. Forse scriveva troppe cose alla lavagna e spesso non la seguivo molto, ma non è colpa sua, è la matematica che è una palla mostruosa”.
la equazione di Eulero che raggruppa in una formula i numeri importanti della matematica e, i, pi greco e volendo anche 1 e 0
Eravamo al classico, poche ore di scienze dure ma alto livello. In terza, con l’accordo degli studenti, introdussi l’insegnamento dell’analisi matematica con un approccio più concettuale che tecnico e, nel ginnasio, lavorai in maniera molto alta sulla geometria razionale utilizzando un libro di testo del professor Conti che andava a fondo sulla indipendenza e completezza degli assiomi della geometria.
Poco peso agli aspetti tecnici o ripetitivi e lavoro sugli snodi del ragionamento matematico. Ma come si vede da questa immagine con la equazione di Eulero che richiama quattro numeri importanti della storia della matematica (e, i, 1, pi greco), magari solo per cenni, si apriva a cose avanzate. In questo caso si parlava, a fine corso e con un po’ di ironia, della importanza dei numeri complessi nella costruzione dell’edificio della matematica.
Molti di questi studenti li ho ancora come amici sulla pagina Facebook. Ciò che li accomuna è l’autonomia, la capacità di fare scelte coraggiose, di dare una svolta alla propria vita e, molti di loro, non sono più in Italia ma in Canada, in Inghilterra, in Spagna, altri fanno i docenti universitari, o scrivono, o inventano startup.
Come Andrea Rota che, nel 95, usando alcune caratteristiche di Windows 3.1, era riuscito a produrre la versione on line di Bartolomeo, il giornalino degli studenti. Alla fine del liceo andò a Milano per iscriversi a Fisica e tornò a casa iscritto a filosofia. Mentre faceva filosofia, mise su una startup di informatica e poi, andato in Inghilterra per il dottorato, si è fatto assumere dall’Università per curarne il sistema informativo. Adesso non so dove sia.
Mi scrisse Paola Villa che ora insegna letteratura italiana negli States:
Una cosa però mi ha sempre infastidito di noi "fighetti" di Piazza Trento Trieste: quella posa da Crociani di bassa lega, quell'attitudine a snobbare le materie scientifiche come vile "techne" che non ha nulla a che vedere con la "vera" cultura dei classici e dei "sommi poeti" e altre baggianate di questo tipo.
Ecco a me quest'atteggiamento ha sempre fatto girare i c…i, tanto per dirla da contessa:-). Poi in prima Liceo è arrivato Lei. Sempre un pò incazzoso, sempre in blue-jeans, con il suo intercalare dialettale (fa balà l'ouch!) che faceva tremare le pareti del tempio della "Crusca" e con la ferma convinzione che il muro fra le "due culture" fosse da abbattere e subito!
Cereda è stato per me il Feynman italiano: mi ha insegnato che la matematica e la fisica non appiattiscono il mondo, non fanno a pezzi la poesia, come qualcuno sosteneva, ma ne danno una visione più completa e affascinante. Ora vivo negli States dove insegno Italiano all'università e sto scrivendo una tesi di dottorato sul rapporto tra letteratura e fisica. Il mio idolo: Cicerone?? No, Niels Bohr!
Scrive Serena Psoroulas, una zucchina che ha fatto fisica e continua ad occuparsi di fisica:
Per me leggere le sue verifiche e seguire le sue lezioni nell'anno in cui fui sua alunna fu emozionante, perché mi mostrava un modo completamente diverso di fare matematica, che nessuno prima (e purtroppo neppure dopo, fino a che non arrivai a studiare analisi matematica) mi aveva mai mostrato. D'un tratto la matematica era interessante; le sue erano verifiche in cui era richiesto di pensare, non di eseguire istruzioni. Ho sempre odiato la matematica prima di conoscerla; dopo aver fatto un anno con lei, non avrei più potuto dire la stessa cosa...
Quello che avevo imparato da lei mi diede anche un po' sui nervi, diverse volte. Mi aveva mostrato come ciò che mi piaceva in altre materie (l'analisi come base per la comprensione del testo, sia in latino, greco o in italiano, per fare un esempio) era anche alla base della matematica – e che quindi, se non riuscivo a farla era colpa mia, non stavo analizzando appieno il problema. Non potevo più nascondermi dietro alla scusa non sono portata per questa materia. Gli errori di segno in un'equazione, erano solo il sintomo di quanto fossi stata pirla.
Passione per le cose che ti trascina a guardarle sempre con un occhio diverso, a rianalizzare, a non sederti mai – e l'inconsistenza delle scuse dietro cui ci si nasconde quando invece ci si siede – sono forse le cose che più ho imparato dalla mia esperienza, con lei e con altri. Come fa a sbattersi così alla sua età? era quello che molti noi studenti ci chiedevamo (aveva già passato i 50 quando la conobbi, un'età che per un 14enne è un chiaro sintomo di matusaggine). E c'era chi la stimava per questo suo atteggiamento.
Serena era l’amica del cuore di Ilaria Salis; già perché in quella IV ginnasio del 97/98 c’era anche lei. Quando suo malgrado è divenuta famosa mi sono detto, ma quel nome mi ricorda qualcosa, e quando venne fuori che era di Monza e aveva fatto lo Zucchi, feci due più due. Ho ritrovato i suoi voti, i giudizi del I e II quadrimestre dove si sottolinea la sua vivacità intellettuale e la necessità di controllarla e coinvolgerla. Il centro sociale Boccaccio è nato in quegli anni e, al di là della mi scarsa simpatia per i centri sociali che risale agli anni 70, non riuscivo e non riesco a capire come una parte delle teste fondanti potesse provenire dallo Zucchi.
In quell’anno approfittando dell’arrivo nel corso della professoressa Scrocco (lettere), moglie del Preside del Frisi Cicerone, donna molto colta e disponibile verso la scuola e gli studenti organizzammo un bellissimo viaggio di istruzione a Roma con un programma tutto gestito da lei (Roma monumenti principali, villa Adriana a Tivoli, necropoli etrusca a Tarquinia)
La mattina arrivavo in bicicletta da Villasanta e parcheggiavo la bici al parcheggio custodito di piazza Trento. Poi arrivavo ai gradini sempre ingombri di studenti del ginnasio che copiavano le frasi di latino: Buon giorno e sorridevo pensando che il modo migliore per far studiare la gente era essere esplicito nel rapporto, insegnando ad autodosarsi rispetto ai ritmi di apprendimento. Per questo non davo compiti a casa in maniera fiscale e, a volte, per questo subivo le rimostranze dei genitori.
La bici era la Bottecchia che avevo vinto con l’abbonamento a Rinascita, rosso bordeaux con un bel portapacchi nero su cui mettevo la cartella. Una mattina d’inverno, mentre percorrevo il Parco da Villasanta ed ero appena sbucato sul viale Cavriga provenendo dalla zona dei Mulini Asciutti, saranno state le 7:30, c’era poca luce, sentii il rumore di una frenata secca dietro di me. Ebbi la prontezza di spirito di pedalare più forte e così l’impatto fu meno violento. Volai in avanti di qualche metro rispetto alla bici e andò tutto bene. Quello in macchina mi aveva visto solo all’ultimo momento. Tra lui in frenata e io in accelerazione fui salvato dalla conservazione della quantità di moto. Ma non andò così bene qualche anno dopo mentre andavo al Frisi a fare gli scrutini.
i colleghi
Angelo Cucinotta (matematica e fisica) e Fernando Montrasio (detto Nando, latino e greco)
Nel novantanove duemila, dopo tre tentativi consecutivi di far partire la sperimentazione di informatica, falliti per insufficiente numero di richieste perché Monza è Monza e il classico è il classico, sono ritornato al Frisi.
I vecchi colleghi dello scientifico erano curiosi; si aspettavano che dicessi peste e corna dello Zucchi e invece li ho delusi (tra i due licei monzesi c’è sempre stata competizione nel primeggiare).
Dissi loro: se al Frisi, in media, uno studente incontra nella sua storia scolastica almeno tre docenti di quelli che lasciano il segno, allo Zucchi siamo a 3.5 e gli studenti, quando sono bravi, lo sono per davvero.
I colleghi erano dei veri esperti nelle loro discipline anche se sopravviveva qualche parruccone/a da giardino zoologico in particolare tra i docenti di latino e greco. Voglio ricordare i due della foto: Angelo Cucinotta (fisico underground reduce dalla Parigi Dakhar in moto) e Nando Montrasio (giovane docente di latino e greco, dalla grande cultura).
Ma poi Fiumi, Praga e Scrocco (Greco), Ragazzi, Bulega e Bregani (italiano), Montrasio e Del Re (scienze), Gualdoni e De Biase (arte), Castellani e Ferraro (storia e filosofia), Di Miele e Magni (matematica e fisica), Pullè e Turri (educazione fisica), poi qualche docente di lettere del ginnasio come Patrizia Marchesi o Paolo Pilotto che, nonostante insegnasse religione, è diventato una istituzione dello Zucchi già prima di darsi alla politica cittadina. Con tutto quel ben di Dio di intellettuali avevi la impressione di stare nel regno della cultura anche se ne percepivi aspetti di unilateralità.
La scuola è ora diretta da una cara amica di Villasanta, Rosalia Natalizi Baldi che ha mosso i primi passi da DS alla media di Villasanta, il cui figlio Tommaso intelligentissimo e multiforme è stato mio alunno al Frisi. Se dò uno sguardo allo staff ritrovo giovani docenti di allora ancora presenti come Anna Magni, Carmelo Valentini, Cristina Catalano, Daniela Bini (ex Frisi), Nando Montrasio, Giovanni Missaglia e Mara Gualdoni. Tutto ciò mi fa riflettere sul fatto che la identità e lo spirito di appartenenza siano un bene importante in ogni organizzazione e lo siano a maggior ragione in quelle educative. Spirito di appartenenza e capacità di rinnovarsi.
A proposito delle due culture che non si parlano voglio ricordare un episodio divertente accaduto durante un consiglio di classe. Non so per quale ragioni stessi parlando di linguaggi e delle loro diversità ed io pensando alla meccanica quantistica citai come linguaggio il formalismo hilbertiano. La MQ ha un suo strano linguaggio basato sugli operatori che operano su particolari vettori nel campo complesso in uno spazio a infinite dimensioni (lo spazio di Hilbert). Tutto ciò, gli oggetti e le regole con cui interagiscono, viene condensato parlando di formalismo hilbertiano.
Fui interrotto da una collega di latino e greco che mi disse: ma cos’è questa storia del formalismo hilbertiano, il forrmalismo è una corrente artistica. Appunto.
Era la la stessa persona che in un’altra occasione mi spiegò che il mio argomentare usava troppo la paratassi e troppo poco la ipotassi. Nella mia ignoranza le chiesi di spiegarmi cosa fossero e, dopo aver imparato due parole nuove, le dissi che il linguaggio diretto che procede per frasi brevi e accostate (la ipotassi) è quello che si usa nel giornalismo e nella comunicazione verbale. In quella scritta, di tipo saggistico, nelle sue diverse forme e ambiti, è normale usare una proposizione principale e una o più subordinate. Insomma, le dissi, a seconda dei contesti, sono un po’ paratattico e un po’ ipotattico.
capo Nord
Nei periodi di vacanza (invernale ed estiva) andavo in montagna in val Malenco e lì conobbi, diventandone amico, Francesco Ceratti, medico esperto in organizzazione sanitaria, classe 1947 e con la passione per il girovagare motociclistico.
Nel 95, al ritorno da un giro tra la Valtellina e l’Alto Adige, ero arrivato lungo su una curva secca e i freni a tamburo della mia Aermacchi 350 mi avevano tradito: blocco della ruota posteriore, scivolata e caduta. A parte due costole incrinate dal manubrio, niente di grave, ma conclusi che era ora di prendere una moto con i freni a disco.
Volevo una moto italiana e la scelta cadde sulla Guzzi Nevada 750; il fascino del bicilindrico. Francesco aveva una Yamaha Diversion 600 e decidemmo che per i 50 anni avremmmo festeggiato andando a capo Nord.
Era l’estate del 97. Spesi il benefit dovuto alle attività di collaborazione a scuola per acquistare un giubbotto Dainese serio (cordura con interno in goretex, protezioni alla schiena, gomiti, polsi e spalle) insieme alle tre borse rigide e ad una borsa da serbatoio. Iniziò un lavoro di preparazione sulle cose essenziali di manutenzione presso il concessionario Guzzi di Carate (avevo visto che in alcune zone della Norvegia il meccanico Guzzi più vicino sarebbe stato a 600 km e dunque bisognava saper fare l’essenziale in caso di bisogno).
E così partimmo per un viaggio di circa 9’000 km diluiti in tre settimane. E’ stata una grande avventura di cui ho steso un diario di viaggio che trovate qui insieme alla descrizione delle singole tappe e ai link agli album fotografici che ho messo nella mia pagina Facebook.
Siamo saliti dalla Svezia e Finlandia e tornati dalla Norvegia (con in mezzo Svizzera e Germania). Si stava in moto tutto il giorno ed è andato tutto bene. Delle tre borse rigide, quella di destra era piena di ferri e di pezzi di ricambio, ma non è servito praticamente nulla e la moto italiana, con il cardano, si è rivelata migliore della giapponese a catena.
Nel nord della Norvegia il mio socio è caduto da fermo e ha rotto il poggia piedi dal lato del cambio (e nelle moto se non hai il poggia piedi non puoi azionare il cambio). Gli ho montato uno dei due lato passeggero, un po’ più piccoli, ma ce la siamo cavata sino in Germania dove abbiamo fatto manutenzione alla Yamaha.
Pernottamenti prevalentemente nei bungalow della estesa rete di campeggi della Scandinavia; colazione super-ricca la mattina (uova, aringhe, yogurt, frutta, formaggio, salumi, …), breve sosta di rilassamento all’ora di pranzo con mele o banane, ricerca del campeggio nel tardo pomeriggio e cena in campeggio. Il tempo ci ha assistito e abbiamo avuto solo un paio di giornate d’acqua (l’attrezzatura ha retto).
Ovviamente la parte più suggestiva, oltre a NordKapp, è stata quella della parte alta della Norvegia a nord del circolo polare (visita a Tromso, la città di Amundsen e alle Lofoten, le isole di capitan Findus). In una delle tappe, a nord di Mö I Rana, abbiamo fatto 200 km senza incontrare nessuno e ad un certo punto sono rimasto a secco. Per fortuna eravamo a soli 50 km da Mo I Rana e il mio socio aveva ancora un po’ di benzina.
Nel ritorno (durato due settimane perché la Norvegia è molto più contorta e ricca di fiordi della Svezia) abbiamo fatto anche un po’ di turismo cittadino (Oslo, Copenhagen, Berlino) e arrivati a Monza abbiamo visto che lo Zucchi era ancora lì.
La pagina con l’indice della mia autobiografia da cui potete scegliere i capitoli da leggere
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