1970-1971: il servizio militare
III edizione – giugno 2024
Laureato a metà luglio, cartolina precetto a fine settembre. Alla visita ero stato dichirato C3 (la soglia verso il C4 che ti garantiva l’esonero) e ho chiesto io un nuovo responso; il responso è arrivato molto in fretta: abile arruolato con tanto di cartolina precetto e così, almeno, ho evitato i mesi di parcheggio in attesa della chiamata.
Sono partito da Milano centrale con il treno direttissimo per Palermo tra le 16 e le 17; destinazione CAR (centro Addestramento Reclute) presso il 46° reggimento fanteria REGGIO, caserma Scianna. Era uno dei primi giorni di ottobre del 1970.
Sino ad allora Il punto più a sud d’Italia dove ero stato era Roma e dentro di me pensavo che l’Italia finisse subito dopo Napoli. Invece, non solo la costa tirrenica salernitana e poi la Calabria non finiscono mai, ma quando sei arrivato a villa San Giovanni, e credi di essere alla fine del percorso, ti manca il binario unico Messina Palermo. Per farla breve sono arrivato a Palermo alle due del pomeriggio dopo 21 ore di treno.
Sui binari c’erano ad attenderci dei graduati che scrutavano i giovani in arrivo; se avevi in mano una borsa e magari la cartolina precetto eri finito. Tu, spina, vieni qui. Mettiti lì, che quando ci siete tutti vi portiamo in caserma. Primo impattto con le buone maniere dell’Esercito Italiano.
CAR 46° reggimento Fanteria Reggio – Palermo
il primo impatto
Quando siamo stati in numero sufficiente, ci hanno fatti salire sul cassone di un CM (che sta per camion medio, contrapposto a Camion Leggero e Camion Pesante). Iniziavano le sigle incomprensibili (CM, CP, CL, 48 ore, 36 ore, 5+2, CPR, CPS, 165, RAL, ….) e gli ordini sempre urlati: scendere, sbrigarsi, aspettare.
Il viaggio in camion era obbligatorio perché la caserma Scianna stava in fondo a Corso Calatafimi, fuori Palermo sulla strada per Monreale. Dalle due del pomeriggio, rigorosamente senza mangiare, siamo riusciti ad arrivare in camerata alle 21, esausti, sfiancati, depressi e anche un po’ impauriti.
Prima ci hanno registrato in un grande stanzone dove venivi chiamato e alcuni soldati seduti dietro lunghi tavoli ti interrogavano per compilare una scheda piena di dati che, teoricamente, erano già in possesso dell’esercito. Poi ci hanno fatto spogliare degli abiti civili e portato al magazzino per il vestiario: zaino da viaggio, divisa estiva, divisa invernale, basco, bustina, passamontagna, tre camice, mutande tattiche, calzettoni, maglie da sotto, scarpe, scarponcini, anfibi, materasso, cuscino, federe, lenzuola, coperte, fazzoletti, sapone, spazzole, lucido, grasso, gavetta, dentifricio, posate…
Svelti, svelti, correre, … Sembravano divertirsi a farti aspettare per poi invitarti a correre. Alla fine, a Dio piacendo, con quel carico di roba pesantissimo e voluminoso, ce l’abbiamo fatta e siamo arrivati in camerata. Ho messo a posto quel che potevo e mi sono buttato sul letto a castello che mi avevano dato. Mi veniva da piangere e mi chiedevo: ma dove sono finito? Intanto, sino a mezzanotte hanno continuato ad arrivare altri disgraziati come me. Tra grida e rumori, alla fine, mi sono addormentato.
i primi giorni
Nei primi giorni si imparano le regole, ti rasano i capelli (ma con le mance e la contrattazione si ottiene che non eccedano con la sfumatura alta), si adattano alla belle e meglio le divise, ti danno il fucile. A me capitò l’Enfield, un fucile inglese della I guerra mondiale che usavano i cecchini, pesantissimo. E al CAR il fucile te lo porti con te nella maggior parte delle marce. C’erano anche il 91/38, Garand (il più diffuso) e il FAL (fucile automatico leggero).
Si apprendono le tecniche di realizzazione del cubo in modo che passi indenne dalle ispezioni. Il cubo era una fissa che corrispondeva, in realtà, ad esigenze di igiene e pulizia, in primo luogo l’arieggiamento: disfare completamente il letto, piegare con cura lenzuola e coperte, ripiegare il materasso, coprire il tutto sganciando il telo (spesso non c’erano le reti). Inoltre, così, la camerata risultava in ordine e facile da pulire con spazzoloni, stracci e segatura.
Durante il giorno si fanno le prime amicizie e poi si marcia, si marcia, si marcia.
quando non si marcia
E quando non si marcia ci si siede nel cortile di terra battuta a sentire un semianalfabeta che ti spiega come funziona la bomba d’assalto SRCM (la quantità di tritolo, le due sicure, come la si lancia). Mezz’ora per esporre due concetti da 5 minuti, ma guai se sintetizzi. Lo stesso valeva per le operazioni di manutenzione, montaggio e smontaggio del fucile.
Il caporal maggiore istruttore, che era il nostro riferimento diretto, poi si offendeva. Anni dopo mi sono trovato a riflettere sulle tecniche di spersonalizzazione leggendo i libri di Primo Levi e mi è subito venuta in mente, con le dovute differenze di intensità, la vita di caserma. L’unica differenza è che non avevi un numero, anzi, quando ti si rivolgeva un superiore, dovevi scandire ad alta voce: recluta Claudio Cereda, 46° reggimento fanteria, III compagnia, IV plotone, comandi!
In caserma, fuori addestramento, ci sono i lavori appartenenti alla pedagogia del lavoro inutile. Li devi fare, visibilmente non servono a nulla, ma abituano ad obbedir tacendo. Era autunno e i lunghi viali della caserma Scianna erano fiancheggiati da alberi che perdevano le foglie. Armati di scope e di palette si partiva da una parte e si puliva. Quando eri arrivato alla fine ti giravi e vedevi che il viale era di nuovo pieno di foglie. Chissenefrega, tanto eravamo in duemila e qualche cosa dovevano pur farci fare.
il poligono
Siamo andati due volte al poligono tra Partinico e Montelepre; una volta a sparare da sdraiati e una volta a tirare la bomba d’assalto SRCM, imparando a lanciarla in avanti e non, come si vede nei film americani, (da dietro) perché in quel caso, quasi sempre, si fa un lancio a campanile e la bomba ti arriva in testa.
La SRCM, durante il fascismo detta Ballila, era ancora in uso: 30 o 40 g di tritolo, due sicure, una a linguetta e la seconda fatta da quel coperchietto di alluminio che salta via in volo. Fa un gran botto e poco danno. La si lancia in avanti di una ventina di metri correndo perché il suo raggio d’azione è sui 10 metri. E’ la bomba con cui i fascisti uccisero il 12 aprile del 73 l’agente Marino (il giovedì nero di Milano).
socializzazione
Noia e fatica; i primi giorni eravamo spaventati dalle regole assurde per poter andare in libera uscita: i capelli a posto, i fogli di carta igienica nella tasca destra dei pantaloni, il pettine, il tenente che, per un niente, decideva che eravamo tutti consgnati.
Imparai a riconoscere i comportamenti di tre tipologie regionali:
- i toscani quasi tutti della FGCI, tendenzialmente ribelli, un se ne po’ più, facciamo una manifestazione di protesta …
- i bolognesi della FGCI, solari e positivi, socmel non si può continuare così, sì, ma quando andiamo a balare …
- i napoletani che mentre eravamo in fila, in attesa di accedere al refettorio, ne facevano di ogni per aggirare la coda ed erano odiati da tutto il resto d’Italia, da nord a sud. Non era il vantaggio che li interessava, ma il fatto di fotterti. Taggio fatto fesso. E ci ridevano sopra. C’erano siciliani, pugliesi, calabresi, ma anche gli altri meridionali non sopportavano i napoletani.
Ricordi positivi dalla trattoria Carlo V vicino a piazza Maqueda. Un postaccio dove facevano una pasta con pomodoro e pinoli buonissima e delle braciole di maiale con il giro di grasso bianco che ho rivisto nella cinta senese, pane con il sesamo, che ho provato per la prima volta; il vino bianco era spillato al momento, dalla botte messa tra le due sale da pranzo. Una volta ho anche visitato il famoso mercato della Vuccirìa, condizioni igieniche incredibili soprattutto sul versante della carne e del pesce e tante urla di chi doveva proporre la propria merce.
sradicamento
In quei giorni scrivevo molte lettere e, mettendo in ordine le carte, dopo la morte della mamma, ne ho ritrovate alcune. Ero proprio disperato; in una, rivolta a papà, esternavo la mia rabbia per quella struttura oppressiva e distruttiva della personalità e lui mi rispondeva, lui che era stato fascista, e un po’ lo era ancora, di portare pazienza, che le cose si sarebbero sistemate e mi invitava a cercare l’aspetto positivo delle cose.
La comunicazione avveniva o per lettera o per telefono; ma la teleselezione entrò in vigore ufficialmente sono dal 1 novembre 1970 e fu un processo graduale. Per tutto il servizio militare continuai ad utilizzare i centri della SIP diffusi in tutta Italia in cui si andava per telefonare.
Si prenotava la chiamata e si attendeva il proprio turno per andare in cabina. Tre minuti e prima della scadenza si inseriva la signorina e ti chiedeva “raddoppia?”. I centri erano frequentati, per la metà da militari di leva e per il resto si trattava, in genere, di migranti. Nel 71 iniziarono a comparire i telefoni a gettone, più diffusi ma più scomodi perche con la destra tenevi la cornetta e con la sinistra, a pugno, i gettoni di scorta.
Grazie alle aderenze in università sono riuscito ad avere una licenza (5+2) con la scusa che la mia presenza serviva perché risultavo membro di una commissione d’esame, così ho scampato la andata al poligono a sparare e, in tutto il militare, non ho mai sparato un colpo.
Inoltre Bruna, la mia futura moglie venne a Palermo per il giuramento. Era ospite di una compagna della nobiltà decaduta palermitana (i prìncipi Lanza) e ricordo la sorpresa nello scoprire che a Palermo gli ascensori funzionavano a moneta (10 lire). La sera, per quei 3 o 4 giorni, mi riaccompagnava sino in caserma al termine della libera uscita e poi tornava in centro con l’autobus, sorvegliata da un autista gentiluomo che spostava la fermata in modo che, al buio, non dovesse fare tratti a piedi da sola. La guardavano strana, una giovane donna con i capelli corti e il tailleur pantalone in giro da sola di sera …
Un giorno mentre eravamo in adunata è arrivata dal comando la richiesta di un laureato in fisica. Per la paura che mi offrissero qualche posto privilegiato che mi costringesse a rimanere per 15 mesi a Palermo o peggio a Trapani, dove la voce popolare diceva che ci si faceva la barba con l’acqua minerale, mi sono fatto piccolo piccolo e sono stato zitto.
Alla fine dei 40 giorni, ci hanno chiamato in un camerone simile a quello che ci accolse all’arrivo e ci hanno dato la destinazione e l’incarico: Ospedale Militare di Bologna e corso di aiutante di Sanità. Si andava verso nord. Alla fine dei 40 giorni, per via delle marce, delle corse e del pranzo non ideale ero dimagrito e in perfetta forma.
la tradotta e l’Ospedale Militare di Bologna
Ci hanno portato al nord con la tradotta, un treno con i vecchi vagoni di terza classe, quelli con la porta ogni quattro posti a sedere, il corridoio in mezzo e i sedili di legno.
La tradotta dava la precedenza anche ai treni merci e si fermava regolarmente per lo sgancio dei vagoni delle diverse destinazioni. Ci vollero trentasei ore per fare Palermo Bologna, ma c’era gente che doveva andare sino al confine orientale: Udine, Tolmezzo, Gorizia.
Ho incominciato a chiedermi come mai, con una laurea in fisica ad indirizzo elettronico, non fossi finito nelle trasmissioni e la risposta che mi sono dato è la stessa in base alla quale ero finito a Palermo per il CAR: le schedature funzionavano, anzi forse era l’unica cosa che funzionasse in quel mare di inefficienza. L’aiutante di sanità è un privilegiato, ma in compenso non fa vita di camerata e non sta con i soldati.; un modo elegante di isolare i sovversivi, o presunti tali.
Come il CAR, anche il corso all’Ospedale di Bologna avrebbe dovuto durare 40 giorni, la durata ci fu, ma il corso no. Eravamo in una quarantina, quasi tutti laureati, e la prima cosa che hanno fattofu quella di nominare un capocorso perché, anche tra pari, la gerarchia è importante (era uno studente di ingegneria di Roma).
Per qualche giorno ci portarono in una specie di teatro interno all’Ospedale dove venivamo abbandonati a noi stessi e poi smisero di fare anche quello e noi si girava liberamente per l’ospedale. Il corso non c’è stato, l’esame finale neanche, ma alla fine ci hanno assegnato la destinazione e ci hanno dato il diplomino di Aiutante di Sanità. E lì ho incominciato a capire come era andata per davvero la campagna di Russia del 1942.
Io, per altro, mi sono fatto anche una settimana di ricovero per una bella tonsillite bilaterale e ho rischiato l’intervento chirurgico. Tra ricovero in ospedale e problemi connessi al clima oppressivo, in tutto quel periodo sarò uscito per Bologna tre o quattro volte. Una volta sono andato in centro a vedere le Torri e ho fatto un salto alla libreria Feltrinelli, uno dei posti che ci erano stati indicati come pericolosi; un altro posto interdetto era via Lame, credo per ragioni di puttane e malavita.
Da Bologna a Rimini
Era dicembre inoltrato, e a fine non-corso, ci furono date le destinazioni e il biglietto ferroviario: trasferimento individuale in treno, con il pesantissimo zainone-valigia con tutta la dotazione individuale, dal vestiario agli anfibi. La mia destinazione era Rimini, 121° artiglieria contraerea leggera, caserma Giulio Cesare, abbastanza in centro.
In caserma c’era un freddo atroce che costringeva a dormire con il passamontagna. L’infermeria aveva una sua piccola camerata per i ricoveri e noi aiutanti di sanità, se non c’erano esigenze particolari, dormivamo lì visto che c’era una stufa a legna in coccio.
Sono stato riconoscente per tutta la vita al segretario del movimento giovanile DC di Ravenna, che non ho mai conosciuto. Era raccomandato ed ottenne il trasferimento da Treviso a Rimini. Così, dopo neanche un mese, io venni preso e mandato a Treviso al suo posto.
epidemia di menengite cerebro spinale
A Rimini c’era un colonnello comandante allucinante che aveva introdotto una serie di norme, a suo dire antilavativi, che determinarono la morte di un soldato: si chiamava Bruno Raffaelli ed era di Viareggio.
Il colonnello Carmelo Alongi aveva stabilito che se un soldato marcava visita e otteneva il provvedimento medico legale di servizio, ricevesse una serie di benefit ulteriori che gli facessero ricordare che non bisogna barare: esclusione dalla libera uscita per quella giornata, esclusione dai permessi di 48 ore per tre mesi, esclusione dalle licenze per 5 mesi.
Il regolamento di disciplina militare prevedeva, di suo, una gerarchia di provvedimenti medico legali: il ricovero, il riposo in branda, la esenzione dai servizi, il servizio e, infine il servizio punibile.
Di fronte ai finti malesseri, perché uno ci provava sempre e comunque, o alle lievissime patologie si dava servizio perché il servizio punibile avrebbe potuto far scattare un procedimento per simulazione. Quindi il servizio punibile non si dava mai e il colonnello aveva trasformato il servizio in tela faccio vedere io.
Bruno Raffaelli, quel giorno di inizio gennaio, compiva 21 anni ed attendeva i suoi genitori per festeggiare l’avvenimento. La mattina al risveglio non si sentiva bene e probabilmente aveva già la febbre, ma per non incappare nelle regole del colonnello, non se la sentì di marcare visita. Il tenente medico fece le sue visite tradizionali e poi se ne andò (visto che era domenica).
I compagni di Bruno ce lo portarono in infermeria in stato di sem-incoscienza, con la febbre alta, rigidità nucale e vomito a spruzzo. Il riflesso di Babinsky, che si fa strisciando un ago sulla pianta del piede, ed osservando come si muove il pollice, era già positivo. C’erano tutti i sintomi di una meningite cerebro spinale in fase avanzata. Ce la dovemmo cavare da noi sentendo il medico per telefono e, mentre lo attendevamo, chiamammo l’ambulanza che arrivò insieme al medico. Fu ricoverato all’ospedale di Rimini tra le 11 e le 11:30 e alle 14 era già morto.
In caserma, nel giro di pochi giorni, nonostante l’isolamento e la profilassi di massa con i sulfamidici (la sulfametossipiridazina, me lo ricordo ancora) si ebbero altri 7 casi, seri di infezione manifesta, ma con prognosi fausta e 60 tamponi oro-faringei positivi. Una epidemia con i fiocchi.
Nei giorni successivi, in libera uscita, mi misi alla ricerca dei compagni di Lotta Continua per fare qualcosa, denunciare, rompere il silenzio, fare casino. Quando finalmente li trovai arrivò, del tutto inatteso, il mio trasferimento. Non so cosa avrei combinato. Capite perché devo ringraziare quel giovane democristiano? Mi ha quasi sicuramente salvato dal finire a Gaeta o a Peschiera (i due carceri militari). Nello scrivere questa parte ho cercato di documentarmi con la stampa dell’epoca e non ho trovato nulla salvo la conferma di quella morte.
Insomma, nè Bologna, nè Rimini me le sono viste o gustate. Ho solo il ricordo di un aiutante di sanità anziano che, in puro stile amarcord-vitelloni, si vantava di grandi avventure con le donne di Rimini e di avere il problema di erezioni prolungate; lo guardavamo con invidia.
Da Rimini a Treviso
Nuovo viaggio in treno da solo e con il gigantesco zaino da viaggio con dentro tutto, ma questa volta fu un passaggio dalle stalle alle stelle: per Treviso e la sua gente, per i compagni di infermeria, per gli ufficiali medici. Sono stati 11 mesi gradevoli in cui ho imparato un po’ di cose sull’ Italia, ho imparato le tecniche essenziali di primo soccorso e ho avuto anche tempo di studiare Gramsci.
A Treviso, quando sono arrivato, ho trovato tutti i riti del nonnismo, una forma di cameratismo semiviolento che le autorità militari tolleravano perché consentiva di mantenere la disciplina creando divisione tra i soldati. C’erano ancora i nonni e le spine, le canzonacce, la comunione con un pezzo di pane o una patatina intinta nello sperma, i gavettoni, la stecca in cui si incidevano i giorni di servizio sino a quello del congedo. Ma il fenomeno si andava restringendo.
La caserma Cadorin, era un po’ fuori Treviso, sulla strada feltrina, ma ad una distanza accettabile dalle mura.
Per altro, di lì a qualche mese mi arrivò la 500 che avevo comperato a rate nel 67 e che, in mia assenza, stava usando Bruna la mia compagna (anzi la mia fidanzata, come si diceva allora), sposata poi a settembre.
L’infermeria era in una palazzina a sé stante a destra dell’ingresso e abbastanza vicina al muro (cosa di cui approfittava qualche collega per entrate e uscite fuori ordinanza).
Al piano terra c’erano le sale visite e d’attesa, i servizi igienici e un deposito per il magazzino medicinali e per i disinfettanti. Al piano superiore le camere di ricovero, una cucina e anche una cameretta per l’aiutante di sanità in turno notturno con letto vero, armadietti vari e persino il telefono. Ovviamente la palazzina era collegata al riscaldamento centrale del comando.
La cameretta (in fondo a sinistra), invece che all’aiutante in turno notturno, veniva riservata all’aiutante più anziano e gli altri dormivano nelle stanze dei ricoveri se c’era posto, oppure in camerata (eravamo comunque aggregati alla compagnia comando dove stavano quelli che lavoravano negli uffici del reggimento).
il 33° artiglieria Folgore
La caserma Cadorin, comando di reggimento del 33° artiglieria (divisione Folgore), ospitava 3 battaglioni, due di obici da 105 e 155 mm e una di carri semoventi, anche quelli dotati di obice. Poi c’era un distaccamento a Gradisca d’Isonzo anch’esso con carri semoventi.
Il reggimento era comandato dal colonnello Danese, una persona ammodo e raffinata, già addetto militare a Lisbona, e che poi avrebbe fatto carriera, sino a terminare come generale di Corpo d’Armata (era il fratello della moglie di Andreotti … e si sapeva).
In un paio di occasioni abbiamo fatto delle esercitazioni serie (sparando con gli obici) nelle zone del Friuli oltre Cordenons (greto del Meduna Cellina) e una volta verso il Tagliamento. In quelle esercitazioni di artiglieria non si capisce molto cosa accada, lo sanno gli ufficiali. Eravamo accantonati in edifici dismessi e in una delle due uscite, galeotto il Cabernet sfuso, mi beccai l’unica sbornia pesante di vino della mia vita. Ricordo che non riuscivo a stare in piedi ritto e però, se mi sdraiavo incominciava a girare tutto il mondo. Era una sbornia di quelle in cui conservi ancora un minimo di coscienza, prima del coma etilico, il che è peggio.
Un’altra volta abbiamo accompagnato i corpi di polizia al poligono e per tutto il viaggio ho ammirato la pistola mitragliatrice M12 abbandonata sul sedile accanto a me: un gioiellino di meccanica. Al poligono, tra mitra e pistole, i poliziotti sparavano davvero.
La vita in infermeria
Sveglia alle 6:30, abluzioni, prima colazione preparata da noi e poi pulizie con strofinaccio, disinfettanti vari (tanto cloruro di calcio) e poi iniziava la fase delle visite. Noi si dava una mano ai due ufficiali medici, si facevano le terapie e il disbrigo delle pratiche d’ufficio..
Mi hanno sempre affascinato le medicine dello Stabilimento Chimico Farmaceutico Militare di Firenze di cui avevamo un bel deposito (oltre agli armadi della sala visite) e che andavamo, una volta al mese, a prelevare, con la Campagnola, all’Ospedale Militare di Padova. Ho visto che ora l’istituto è stato incaricato di produrre la Cannabis ad uso terapeutico.
Avevamo un po’ di tutto: antibiotici iniettabili (pennicillina e streptomicina), tetraciclina in capsule, sulfamdici, antisettici, antireumatici, antidolorifici, spasmolitici, sedativi come il Valium e il Talofen, complessi vitaminici ed epatoprotettori, pomate, tra cui tanto Foille, essenziale in artiglieria (ustioni dei serventi al pezzo), garze e bende a non finire, il palloncino Ambu, attrezzi vari di immobilizzazione, vaccini e, in un armadio protetto, la morfina che non abbiamo mai usato.
Poi c’erano due cose ad uso esclusivo della infermeria: il brandy e soprattutto l’elisir di china che avevamo in bottiglioni da due litri. Ho visto sul sito che lo fanno ancora e lo vendono (“Pregiato liquore ottenuto per estrazione a freddo da corteccia di china e scorza di arancio amaro invecchiato almeno un anno in botti di rovere secondo la storica ricetta presente nella Farmacopea Militare del 1877“). Era proprio pregiato, e per quello lo tenevamo per noi.
Il lavoro con quelli che marcavano visita era molto di routine e ci voleva un attimo a distinguere i malati, dai furbi a cui, comunque, si dava servizio e non servizio punibile. I casi meno gravi ricevevano il riposo in branda e quelli più seri venivano ricoverati.
Ogni tanto capitavano i casi gravi: traumi ed incidenti connessi al lavoro sugli obici (in un caso ci fu la amputazione della mano) e crisi psicomotorie di poveri cristi del sud che ogni tanto schizzavano e magari si aiutavano (con qualche sostanza) per essere mandati all’ospedale militare in psichiatria e da lì in convalescenza o magari in congedo.
Si mormorava di strani intrugli e di metodi per scatenare un brusco rialzo della temperatura; qualcuno praticava forme di autolesionismo. Spesso le crisi di agitazione psicomotoria si sovrapponevano a quelle di grande male epilettico e si interveniva in tre o quattro per sedare il paziente (tra Talofen, Valium, barbiturici, straccio in bocca per evitare che si masticassero la lingua, cinghie di contenimento).
Il lavoro per le terapie prevedeva le iniezioni, i lavaggi auricolari per la estrazione dei tappi di cerume, i cambi di medicazione, le misurazioni di pressione e temperatura.
Quando arriva un nuovo contingente c’era il rito della vaccinazione (antitetanica, antivaiolosa, antidifterica).
La antivaiolosa sul braccio e l’altra nel muscolo vicino a un capezzolo. Si disinfettava con batuffoli di cotone impregnati di tintura di iodio e dopo un po’ di quel lavoro, anche se si tenevano le finestre aperte, tutti i locali erano inondati dai vapori della tintura e dal puzzo dei corpi sudati.
Mi ricordo di una vaccinazione antivaiolosa in cui il medico, che lo faceva per la prima volta, ci dette dentro un po’ troppo in profondità con i graffi nel muscolo del braccio. Ci trovammo con un paio di compagnie a letto con febbre alta, qualche caso di encefalite e delle croste e cicatrici di quelle che poi si vedono per sempre.
Ho conosciuto 4 ufficiali medici e se si esclude il primo, tal Straface di Reggio Calabria, che non valeva nulla e quindi si dava un sacco di arie, con gli altri tre (uno di Vittorio Veneto, uno di Este e l’altro di Mestre) sono stato benissimo e, il dr Vincenzo Guariento, quello di Este, sono anche andato a trovarlo anni dopo. Il rapporto era di assoluta parità e lo stesso valeva per gli altri aiutanti di sanità con cui si faceva vita comune (uno di Cremona, uno di Roma, uno di Pistoia e uno di Treviso).
Durante quei mesi mi sono fatto altre tonsilliti e una notte ebbi un violento attacco d’asma. Mi svegliai che non riuscivo più a respirare. Per fortuna ero in infermeria e avevamo la teofillina. Comunque fu l’occasione per smettere di fumare, per sempre.
I fratelli soldato
Nei primi mesi del 71, di noi 5 fratelli eravamo a militare in tre. Fabio, il terzo, era partito con il primo 50 ed era a Gorizia, Sandro, il maggiore con il secondo 50 era ad Udine e io con il terzo 50 a Treviso. Era stata appena abolita la norma che esentava dal servizio il terzo fratello delle famiglie numerose e in quel caso sarebbe toccato a me visto che Fabio, non avendo fatto l’Università, era partito per primo. Così, alla fine, il militare lo abbiamo fatto tutti e cinque.
Sandro, dopo essere stato a Palmanova, era arrivato a Udine alla famosa caserma Spaccamela e lì, lui che aveva sempre fatto poca politica, aveva incominciato a lavorare con quelli di Proletari in Divisa (volantinaggi, sciopero del rancio, …).
C’erano degli infiltrati, li beccarono tutti, qualcuno finì a Peschiera, qualcuno in CPR (camera di punizione di rigore), tutti vennero trasferiti e sparpagliati e Sandro fu mandato a Gradisca di Isonzo al distaccamento del 33° artiglieria.
Andai dal colonnello Danese a vedere se, nell’ambito dei trasferimenti interni, si poteva farlo venire a Treviso; fu molto cortese, persino elogiativo verso di me e il mio curriculum di studi, mi promise che lo avrebbe fatto. Io non avevo detto nulla sulle ragioni del trasferimento di Sandro, ma poi, evidentemente arrivarono le note informative e Sandro restò a Gradisca per gli ultimi mesi del suo servizio.
A Treviso: comandi !?
A Treviso la gente voleva bene ai soldati e c’era tanta gentilezza a partire dal fatto che quando chiedevi qualcosa iniziavano a risponderti dicendo “comandi?“. A pranzo facevamo da noi con la cucina della infermeria e con materie prime che arrivavano direttamente dagli addetti alle cucine, ma tutte le sere andavamo a cena in una trattoria a ridosso di piazza dei Signori, nel vecchio centro attraversato da canali che finiscono nel Sile. La trattoressa, che aveva un figlio a militare, ci trattava tutti come figli suoi. Si beveva il Raboso del Piave e fuori pasto si andava ad ombre con il Prosecco in caraffa.
Nel Veneto si dice ombre, andare ad ombre, richiamando una tradizione veneziana degli ambulanti, con il carrettino per la mescita del Prosecco, che si spostavano in piazza San Marco seguendo l’ombra del campanile. E Bruno, l’autante di Sanità di Treviso, ci portava ad ombre (prosecco, acciughe, soppressa e uova sode), in tutte le osterie sino alla Colonna, dove si beveva il Clintòn, una variante del fragolino, nella scodella di maiolica bianca.
Con gli ufficiali medici mi è capitato di andare (in borghese) a prendere l’aperitivo al bar Borsa, quello reso famoso dal film Signore e signori: tramezzini di tutti i tipi, prosecco in caraffa e anche il Karkadé che ho conosciuto in quella occasione.
Negli ultimi mesi del servizio ho acquisito il diritto alla cameretta dell’aiutante anziano e me la sono arredata. Di pomeriggio e il sabato e domenica davo anche qualche lezione privata a domicilio di matematica e di fisica e, con i proventi, ho comperato un po’ di libri alla agenzia Einaudi. Faceva impressione entrare in un locale della caserma e trovare Il capitale monopolistico di Baran e Sweezy, I quaderni dal carcere di Gramsci e le Teorie sul plusvalore di Marx.
matrimonio e congedo
Nel corso dell’estate si liberò, a Villasanta, un appartamento di proprietà della zia Giovanna (Giuanina dal Cereda) in piazza Camperio e Bruna, che non ne poteva più di stare in famiglia, prese la palla al balzo; una occasione così non si può perdere.
Qualche mese prima, nel corso di una licenza eravamo stati a vedere una casa nei pressi della stazione del metrò di Villa San Giovanni perché il nostro progetto di vita prevedeva di vivere su Milano. Non se ne fece nulla e così la mia vita, sino al trasferimento in Toscana, è poi rimasta centrata su Villasanta.
Si è occupata lei di tutto e, nel mese di settembre mi sono sposato. Ci fu qualcosa di comico perché per sposarsi bisognava essere autorizzati dal comndo e così mi toccò fare domanda. L’autorizzazione mi fu concessa ma, nella domanda, dovetti precisare che mi volevo sposare anche se Bruna non era incinta (la cosa era sconvolgente per i militari, evidentemente abituati al matrimonio riparatore). Ricordo che la domanda di autorizzazione si chiudeva con “in fede, subordinatamente“. Mi vergognavo ma era obbligatorio.
Non avevo ancora usufruito della licenza ordinaria di 10 giorni e me ne spettava un’altra di 5 giorni per una donazione di sangue; le sommarono e così non mi diedero la licenza matrimoniale; generosi sino alla fine.
Tornai a casa il 23 dicembre con il congedo illimitato e, dopo le vacanze di Natale presi servizio all’ITIS di Sesto San Giovanni: docente di fisica, cattedra di 15 ore di cui 6 di laboratorio.
Avevo tutto il tempo di dedicarmi alla costruzione di AO a Monza, ma negli anni successivi tra i sogni ricorrenti, espressione di paure ed angosce, è entrato a far parte anche quello del richiamo in servizio.
Da allora nell’esercito è cambiato quasi tutto. Sono finite certe angherie; dapprima hanno avuto il permesso di girare in borghese fuori dal servizio senza avere più l’ossessione della ronda o il salutare mettendosi sugli attenti se passava un ufficiale, si è ammorbidito il regolamento di disciplina e, alla fine, è stato abolita la coscrizione obbligatoria.
Se guardo ai ragazzi di adesso credo che sia sbagliato non aver mantenuto una forma di servizio alla comunità da farsi lontano da casa: fa bene alla autonomia, fa bene alla formazione della personalità e fa bene alla comunità. Il servizio civile su base volontaria e, spesso, a due passi da casa, non è la stessa cosa.
La pagina con l’indice della mia autobiografia da cui potete scegliere i capitoli da leggere e vedere una sintesi di ciascuno