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1974-1976: QdL – la grande avventura — 17 commenti

  1. Quando ero agli esteri pubblicai un articolo sul Libano, dove operava l'OLP e la Siria aveva una forte influenza. La Siria diceva di sostenere l'OLP, ma secondo me faceva solo i suoi interessi e così scrissi. Due o tre giorni dopo vedo arrivare Massimo Gorla con la faccia scura, mi mette davanti il mio articolo e mi fa un cazziatone tremendo. I siriani si erano lamentati con lui, incazzati neri. Io avevo 20 anni, non immaginavo nemmeno che lui avesse rapporti diretti coi siriani e che questi leggessero attentamente il QdL. Naturalmente non scrissi più nulla sull'argomento, ma sono ancora convinto che avevo ragione io.

  2. Molto bello e interessante. Aggiungo qualche mio ricordo:
    Come fattorini eravamo in due, io e Nicola, quando uno stava tornando in redazione con le agenzie, l'altro partiva in tram  per arrivare alla sede Ansa in piazza Cavour dove trovavamo le agenzie in una cassettina contrassegnata QdL, in modo da fornire alla redazione un flusso di notizie continuo anche se non proprio in tempo reale. Non era una brutta vita, si girava in tram, senza problemi.
    Arrivate le telescriventi mi occupai dell'archivio fotografico, catalogazione delle foto e ricerca delle immagini richieste dai grafici, sostituendo un compagno che si chiamava Daniele. Devo correggere la tua mappa: la stanza 4 era il centralino-reception, i fotografi avevano la camera oscura al piano di sotto, mentre l'archivio foto era nella stanza 5, più o meno dove tu indichi la porta tra le stanze 4 e 5 (che non c'era, penso di ricordarmi bene). Con Tille e Saverio (simpaticissimi) a volte lavorava Macalli, altro simpaticone che mi chiamava "reduce" perché avevo avuto un problema che mi constrinse ad assentarmi per una settimana (vivevo a casa di Kasangian per non essere rintracciabile a casa mia). Con loro imparai ad impaginare i menabò per dare una mano quando c'era bisogno e imparai dai fotografi (Nereo e l'altro con la barba di cui non ricordo il nome) a sviluppare e stampare le foto. Quando su tua proposta passai in redazione, per prima cosa dovetti scrivere un "pastone politico", non per pubblicarlo, ma come verifica di cosa sapessi fare. Ero nella stanza 6, quella di Ida e Giovanna, teso per la prova, ma era difficile concentrarsi per il continuo andirivieni di persone e telefonate, mi sembrava che tutte le femministe di Milano passassero da quella stanza, mentre io lottavo con la macchina da scrivere e il foglio bianco.
    Superata la prova, passai alla Cronaca, con Mario Pucci (che fine ha fatto? mi piacerebbe rivederlo), quando arrivava notizia di qualche avvenimento milanese correvo sul posto in motorino. C'erano alcuni collaboratori, che in sostanza dovevo coordinare, e sistemavo le corrispondenze che arrivavano dalle altre città, ricordo che Frank Cimini mandava da Salerno certi pizzini scritti fitti fitti, che bisognava decifrare.
    Poi passai agli Esteri, al posto di Mario Gamba che si spostò alla terza pagina (avevamo anche quella al QdL!). Con Astrit, che era il caposervizio e mi insegnò molto, c'era Alessandro Fugnoli che però poco tempo dopo entrò in crisi e non si fece più vedere. Nel frattempo Astrit, che doveva mantenere la famiglia, trovò lavoro come insegnante, così mi trovai a comporre la pagina praticamente da solo. Questo però mi diede l'opportunità di partecipare alla riunione mattutina dei capiservizio che in quel periodo (primi mesi del '76) si svolgeva nella stanza della segreteria, a volte diretta da Oskian. Se ricordo bene, lo stanzino delle telescriventi era in fondo, dopo quella della segreteria che confinava con quella degli esteri, infatti mi ricordo ora che, quando c'era una riunione di segreteria un po' agitata, dalla stanza degli esteri sentivo le voci alterate, pur senza distinguere le parole.
    Chiusa la pagina, salivo sull'ultimo furgone che partiva per la tipografia, perchè lì lavorava la mia ragazza Marilena come correttrice di bozze, così aiutavo a finire la correzione degli articoli e osservavo il funzionamento della tipografia. Ho potuto conoscere tutto il ciclo di produzione del giornale dall'inizio alla fine.
    Sono arrivato al QdL quando avevo 19 anni, nell'ottobre '74, all'epoca dei numeri di prova, quando sembrava che la testata dovesse essere "Bandiera rossa". Ricordo bene? Me ne andai a fine aprile '76, perchè avevo bisogno di guadagnare qualche soldo e avevo trovato lavoro, come operaio alla Falck. Parlai con Oskian che mi invitava a rimanere, io gli chiesi se poteva garantirmi di prendere qualche soldo ogni mese, lui onestamente mi rispose di no e con dispiacere dovetti andarmene perchè la mia famiglia era in grosse difficoltà economiche.

    • Grazie a Gigi; provvederò a correggere la planimetria; ero certo di aver sbagliato con i fotografi ma sono passati 40 anni. Belli questi ricordi, se ne arrivassero altri si potrebbe costruire un pezzo spostandoli dai commenti.
      —–
      ore 16:31, fatto

  3. Un grazie ti va dato per la ricostruzione, e per l'analisi critica. Mi hai fatto rivivere anni importanti (quelli prima) e vivere a spanne quelli dopo ( uscii con espulsione nel 72, per intolleranza all'eccesso di disciplina). Orgogliosamente appartengo ancora a quell'organizzazione che considero la più seria dell'epoca, e concordo con le tue critiche e richiesta di spiegazioni dei compagni dirgentidi allora
     

  4. POSTILLE ALLE NOTE DI CLAUDIO CEREDA SUL “QUOTIDIANO DEI LAVORATORI
    Trovo davvero prezioso questo tuo lavoro sulla memoria. Come pare d’intravvedere da qualche commento, esso può tra l’altro dare una spinta positiva ad altri per fare altrettanto; e colmare un vuoto, un silenzio molto brutto e quasi vile su quegli anni così intensi e complicati. Sul punto, davvero dolente e amaro, della tua «considerazione conclusiva»: l’espulsione di Flavio Crippa e Pietro Spotti, che – ricordo – arrivò come un fulmine e fu per me sconcertante (avevo conosciuto personalmente il simpaticissimo Spotti quando coordinavo il raggruppamento in espansione delle cellule Sesto-Cologno-Cinisello-Meda, mi permetto di dire che trovo la tua spiegazione troppo aggrappata all’ideologia. 
    Sì, quel « carogne, traditori, controrivoluzionari» e quel «siamo rimasti zitti» possono pure rientrare nella «tradizione della storia del comunismo» (la peggiore però, non la «migliore», anche se capisco che il tuo aggettivo dovrebbe essere ironico…), ma già allora chi era “informato dei fatti” sapeva che l’ideologia faceva da copertura a scelte e spinte ben più concrete. E queste sarebbero, almeno oggi a distanza di tanti anni, da riconsiderare con più esattezza, in modi più empirici. Anche per capire bene cosa significava nei fatti essere antistalinisti o stalinisti allora, qui, in Italia, tra i “rivoluzionari” degli anni ’70.
    E già che ci sono, a me viene in mente anche il caso del povero Michele Randazzo. Arrivò ( forse si era nel 75?) mogio mogio a lavorare con noi “compagni periferici” , defenestrato di fatto (e non ho mai capito perché) dal gruppo dirigente di cui fino a quel momento faceva parte.
    Per cambiare tono. Ecco due pezzi del mio “Narratorio” che però ha a che fare con il clima da te evocato. Giuro però che quando ho inventato la figura delle «tre volpi» nulla sapevo della «supersegreteria» e non pensavo ai tre dirigenti che tu nomini. Il secondo alla lontana allude proprio a Randazzo ( ovviamente l’accusa nei suoi confronti è invenzione letteraria):
    1.
    Ora osserviamo Unio proprio mentre, come tanti suoi coetanei risvegliati dal ’68, segue un congresso politico della Compagnia, in cui è entrato volenteroso apprendista politico. S’è forzato non poco. Ha messo da parte libri di religione, letteratura, poesia e arte che gli occupavano la mente. E vuole crescere – la maturità è tutto, come diceva il Piemontese del mestiere di vivere – occupandosi di politica. Con l’ansia, sospetta per noi che lo conosciamo, di chi sente di aver perso tempo o addirittura di essere corso dietro favole popolari. È l’ora del materialismo scientifico. Tenete presente che fino ad allora aveva sempre guardato le faccende politiche con disinteresse. O con la coda dell’occhio, quasi pezzo di un paesaggio in ombra. Non diciamo che le ombre non vanno a un certo punto diradate. Per quel che è possibile. Ma che fa in fondo la Compagnia in cui è entrato? Dopo la sfuriata in cui tutti hanno parlato di rivoluzione, s’è organizzata per imporre all’attenzione degli elettori tre sui dirigenti abbastanza in vista. Tutto qua. C’è da entusiasmarsi? Qualcuno già li chiama le tre volpi. Sono lì. Si aggirano solenni e seri nel salone fra i partecipanti al congresso. Quell che gira pavoneggiandosi di più è il primo delle tre volpi. Ha sul capo un cappuccio medioevale, come quelli che usano a Granada durante la processione della settimana santa. Sopra sta scritto: io sono il capo. Poi si fanno notare anche altri dirigenti. Sono quelli fuori dal giro delle tre volpi. Ma anche loro, sulla fronte però, portano scritto: io desidero essere il capo. E attorno a loro tanti giovani che discutono in modi accaniti, ma superficiali. Un’accolita di ambiziosi e confusionari, pensa deluso Unio. Vorrebbe rimproverarli. E sa anche che dovrebbe rimproverare se stesso. Ma ora sul palco è salito un dirigente di secondo piano, un bonaccione accomodante e cauto. Presiederà il congresso. Ma subito è in difficoltà. Deve difendersi da un’accusa infamante: si sarebbe appropriato del danaro della Compagnia. Tutti sanno che è una falsità. Ma a muovere l’accusa contro di lui, sono dirigenti ben più potenti di lui, coalizzatisi per liquidarlo. E nessuno nella Compagnia osa fiatare. Unio vorrebbe gridare: Perché vi mettete tanto facilmente dalla parte delle tre volpi, che è dopotutto solo una fazione della Compagnia e nemmeno ascoltate più le ragioni degli oppositori? Ma è troppo tardi. I giochi sono stati fatti. E lui con la sua preparazione politica da apprendista non conta proprio nulla.
    2.
    Unio va a un congresso della Compagnia. S’aggira in quella folla solo per cercare Michele, il dirigente buono, meridionale come lui, un siciliano. Non c’è. Allora prova a cercarlo nella trattoria dove, ai vecchi tempi, quando le riunioni si prolungavano, tutti andavano a mangiare un panino o un piatto veloce. Qui compagni che si salutano, si scambiano battute, si baciano sulle guance con la compagna appena riconosciuta. Come allora. Lì Michele dev’esserci per forza. C’è. Unio lo capisce appena adocchia un tizio che, pur voltandogli le spalle, ha la corporatura massiccia di Michele. Sta discutendo seduto a un tavolo con altri. Unio s’avvicina, lo saluta, si siede con loro. Si stanno ripetendo che l’Organizzazione, invece di consolidarsi in vero partito, va sfaldandosi in fazioni contrapposte. Michele è di quella più moderata e conciliante. Ma è ormai lo stesso una fazione, vorrebbe dirgli Unio. Da tempo aveva temuto lo sfascio. Tace però. Michele gli resta simpatico. Ha qualcosa di diverso dai dirigenti di spicco. E’ una volpe meno volpe? Come quelle del Sud? Come Unio? O un animale politico non solo volpe? Nella trattoria c’è animazione. Quasi allegria. Ma ad un tratto Unio sussulta e si fa vigile. Nel tavolo accanto qualcuno riferisce di una nuova bega scoppiata nella Compagnia. Un vecchio compagno se l’è presa coi dirigenti, che una volta l’avevano accusato per la “faccenda di Trieste” (1) e ora, invece, fanno a gara per dimostrarsi a favore delle “nazionalità” e delle “piccole patrie”.
    (1) I fatti del 1953. l’8 marzo 1952 una bomba uccise alcuni manifestanti di un corteo di italiani;
    nell’agosto-settembre 1953 il governo italiano inviò truppe lungo il confine con la Jugoslavia;
    nel novembre del 1953 in occasione di altri scontri con le truppe Angloamericane si registrarono ulteriori vittime (Pierino Addobbati, Erminio Bassa, Leonardo Manzi, Saverio Montano, Francesco Paglia e Antonio Zavadil) [da Wikipedia]

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