1974-1976: la parabola di AO

III edizione giugno 2024

c’eravamo tanto amati

Il periodo che mi vide operare dentro il gruppo dirigente di una organizzazione della sinistra rivoluzionaria è il più difficile da raccontare perché, da allora, sono cambiato molto ed è stata la riflessione su quella esperienza a determinare la radicalità del mio cambiamento: non più rivoluzionario, non più comunista, non più fiducioso (come una volta) nella possibilità che le cose si possano cambiare attraverso l’impegno nella lotta politica.

Penso che siano necessari impegni di altro genere sul fronte educativo e della testimonianza e che comunque il pedale su cui spingere non sia quello della lotta di classe.

Perché se è vero che le classi sociali esistono e influenzano il procedere della storia, non è vero che esista una classe destinata a svolgere un ruolo palingenetico (il proletariato industriale) ed è discutibile, alla luce dei mutamenti sopravvenuti nel modo di produrre e di consumare nella parte finale del XX secolo e nei primi decenni del XXI, che in estensione e consapevolezza si possa continuare a parlarne come di una classe sociale.

Mi sono ritrovato ad essere più attento ai cambiamenti che vengono da lontano, che procedono lentamente e che determinano le scelte importanti nella vita nelle persone, come quelli che si determinano nella scuola. Cosa farò da grande? Qual è il mio stile di vita? Cosa penso  dei rapporti tra le persone? Per cosa vale la pena di impegnarsi?

Nel giro di pochi mesi, dall’estate del 76 ai primi mesi del 77 ho vissuto  una trasformazione molecolare molto profonda che non ha riguardato solo la politica e non principalmente la politica. Ho cambiato stile e modo di vita; sono molto più solitario e disincantato di un tempo, ho bisogno del rapporto fisico con la naturalità (dai boschi, ai fiumi, alla autoproduzione agricola; sono sempre una persona appassionata e disposta a giocarsi per le cose per cui vale la pena di vivere. Sono disincanto nei confronti di tutti i miti, ma dico sì agli ideali.

Marciavamo con l’anima in spalla nelle tenebre lassù
ma la lotta per la nostra libertà il cammino ci illuminerà.
Non sapevo qual era il tuo nome, neanche il mio potevo dir
il tuo nome di battaglia era Pinìn e io ero Sandokan.
Eravam tutti pronti a morire ma della morte noi mai parlavam,
parlavamo del futuro, se il destino ci allontana
il ricordo di quei giorni sempre uniti ci terrà.
Mi ricordo che poi venne l’alba, e poi qualche cosa di colpo cambiò,
il domani era venuto e la notte era passata,
c’era il sole su nel cielo sorto nella libertà.

Sono i versi della canzone di Armando Trovajoli che fa da tormentone a c’eravamo tanto amati di Ettore Scola (la trovate su Youtube). Il film me lo sono rivisto e mi ha dato la forza per terminare il pezzo della autobiografia più difficile da scrivere (insieme a quello sulla storia di mio padre), quello del c’eravamo tanto amati.

Chi siamo stati:  Gianni, Antonio o Nicola? Il marpione, il proletario dalla fede indistruttibile o l’intellettuale sognatore, o forse tutti e tre insieme? Sentiamo cosa dicono:


– Gianni: Certo che la nostra generazione ha fatto proprio schifo.
– Nicola: Piuttosto che inseguire un’improbabile felicità è meglio preparare qualche piacevole ricordo per il futuro.
– Antonio: Quando si rischia la vita con qualcuno ci rimani sempre attaccato come se il pericolo non fosse passato mai.
– Nicola: Credevamo di cambiare il mondo invece il mondo ha cambiato a noi.
– Antonio: 306 seggi [della DC], e chi se lo poteva immaginare?
Gianni: Ti devo dire una cosa.
– Antonio: E che me vòi di’, lo so! Abbiamo sottovalutato un sacco di fattori che hanno concorso a mettercelo nel chiccherone: i soldi americani, la paura di Stalin, i preti, le monache, le madonne piangenti, la paura dell’inferno…
Gianni: Io e Luciana ci vogliamo bene. È questo che ti volevo dire.
– Antonio: Ci vogliamo bene… in… che senso?
Gianni: Ci amiamo

le cose positive che abbiamo fatto o che abbiamo contribuito a fare

Il giudizio positivo che dò su quel periodo non riguarda la sola Avanguardia Operaia, ma tutti i movimenti e le organizzazioni che, dal 68 al 75, riuscirono a determinare innovazioni e trasformazioni sul piano del costume, un riassestamento dei rapporti sociali a favore dei meno agiati, mutamenti nella legislazione e nelle istituzioni, cambiamenti nella Chiesa Cattolica e un generale spostamento a sinistra nel paese. Pensate a Pio XII e confrontatelo con Papa Francesco per farvi un’idea di come è cambiato il mondo.

Penso alla fine dell’autoritarismo che governava le piccole e grandi istituzioni (dalla famiglia all’esercito), al contratto dei metalmeccanici del 69 cui seguirono, in rapida successione, quelli delle altre categorie, alla affermazione dei diritti nelle fabbriche e nelle scuole, alle trasformazioni nella magistratura, alla abolizione dei manicomi, alla trasformazione delle carceri, alla democratizzazione nell’esercito e nei corpi di polizia, alla crisi del sindacalismo autonomo a favore di quello confederale, alla forte spinta verso l’unità sindacale, alla tutela della donna.  Tutte queste trasformazioni sono state opera nostra anche se, ovviamente, non solo nostra. E dunque le affermo con l’orgoglio se non del protagonosta, almeno del comprimario.

Tutto è iniziato da un processo generale e generazionale che ha riguardato l’intero mondo occidentale e i paesi dell’est; poi c’è stata una particolarità italiana dentro la quale abbiamo operato noi che, dopo il 68, facemmo la scelta di andare nei gruppi.

I senzaMao e la lotta rivoluzionaria per le riforme

Il libro che Silverio Corvisieri ha scritto sul finire del 1976 quando ha lasciato Avanguardia Operaia da sinistra per poi approdare, come molti di noi, al PCI – io almeno me ne sono andato dalla parte giusta che era quella della difesa delle istituzioni democratiche

Ho provato a rileggere alcuni dei documenti di allora e mi riesce difficile farlo perché rimango sùbito colpito sfavorevolmente dalla astrattezza di certe problematiche, del volersi ad ogni costo ritagliare un ruolo che in realtà non avevamo.

Ho riletto con attenzione I senzaMao del mio direttore al Quotidiano dei Lavoratori, Silverio Corvisieri, soffermandomi in particolare sul suo intervento al IV congresso di Avanguardia Operaia, quello della trasformazione di AO in un partito, anche se allora era vietato chiamarlo così.

Silverio ha il pregio della brillantezza giornalistica anche quando tratta di cose pesanti come le disquisizioni intorno al centralismo democratico, al rapporto tra il partito e le masse, alla definizione di proletariato nel contesto dell’Italia degli anni 70. Ma non mi ci ritrovo per niente sul piano razionale; allora non mi ci ritrovavo senza capire bene il perché; avevo l’impressione che ci fossero delle forzature.

Il titolo, I senzaMao, deriva dal fatto che in quell’anno (il 1976) dopo la botta delle elezioni politiche (a giugno) ci fu la morte di Mao (a settembre) ad accrescere il disorientamento. Il vento dell’est aveva smesso di soffiare e noi, presto, saremmo stati in balia di quei matti della autonomia e dei terroristi conseguenti.

Per converso Silverio mi ha fatto tornare alla mente il tema della lotta rivoluzionaria per le riforme, una definizione di comodo che avevamo inventato per spiegare che eravamo per la rivoluzione socialista ma che, nel contesto dato, non era pensabile ragionare in termini di insurrezione.

Avevamo il doppio problema di smarcarci dagli spontaneisti del tutto e subito e, contemporaneamente, dire che non ci piacevano, perché troppo istituzionali e codiste, le posizioni di quelli del giro del Manifesto-PDUP, i togliattiani di sinistra impegnati nel tentare di spostare a sinistra il partito comunista.

Mi pare emblematico che si tratti di una questione che non interessa più a nessuno, a differenza dell’ottenimento di risultati di trasformazione degli assetti istituzionali. Anche io rimasi affascinato dalla idea di fare la rivoluzione attraverso le riforme leggendo nell’estate del 68 un libro di Andreè Gorz, il socialismo difficile. Gorz era il vicedirettore di Les Temps Modernes, la rivista di Sartre. Ne ho parlato nel capitolo dedicato al 68 e ci ritorno sopra volentieri.

Quella di Gorz era la corrente dei riformisti rivoluzionari. I riformisti rivoluzionari rifiutavano l’esperienza del socialismo reale e vedevano in un movimento di massa in grado di imporre riforme strutturali il nuovo modo di arrivare al socialismo nei paesi dell’Occidente. In Italia, il maggiore esponente di questa linea di pensiero era Bruno Trentin (insieme a Lelio Basso) e si trattava di una delle tante correnti di pensiero di matrice luxembourghiana che giravano per l’Europa.

Quel libro lo discussi passo dopo passo con Oskian e Claudia Sorlini che ne criticavano la insufficienza in nome del leninismo e, alla fine di quelle discussioni, decisi di entrare in AO: vi trovai belle persone, alcune con una storia antica dentro il PCI, altre emergenti come Oskian o Randazzo, tutte decise a rifondare il comunismo passando da Lenin ma senza fare sconti all’URSS.

la crisi nel gruppo dirigente

La seconda fase del mio impegno in AO, a partire dal 73, con una serie progressiva di promozioni e crescenti assunzioni di responsabilità fu caratterizzato da due elementi:

  • bisognava crescere e rafforzarci perché, se i tempi della rivoluzione non dipendevano da noi, dipendeva da noi il fatto di arrivarci avendo risolto il problema della guida del processo rivoluzionario. Far emergere il partito attraverso un processo di scomposizioni e ricomposizioni nel quale AO, pur non essendo l’embrione di tale partito, doveva giocare un ruolo principale
  • stavamo trasformandoci da gruppo semilocale, a Organizzazione Nazionale, a un simil-partito e ciò comportava un rafforzamento dell’impegno, il non farsi troppe domande, stringere i denti e puntare ad allargarci; accettare di essere inviati in giro per l’Italia a gettare il seme, cedere i propri beni materiali alla organizzazione, rinunciare alla professione post laurea nel caso dei quadri del movimento di scienze.

E’ questa la ragione per la quale, comportandomi come uno stronzo, lasciai passare senza muovere un dito un episodio come la radiazione/espulsione di Maurizio Bertasi, Flavio Crippa e Pietro Spotti (rei di lesa maestà per aver osato mettere in discussione le decisioni del segretario politico e della supersegretria che lo contornava). Alla stessa stregua considerai accettabile la non spiegazione circa l’auto-allontanamento dal giornale di Silverio Corvisieri. Il fondatore del giornale se ne andava, non salutava nemmeno la redazione; c’era qualche problema ma non era il caso di parlarne: passo fermo e sguardo in avanti verso il sol dell’avvenire.

Dopo la pubblicazione della prima versione di questa autobiografia ho ricevuto numerose testimonianze relative al Comitato Centrale della espulsione-radiazione cui non partecipai perchè c’era da confezonare il Quotidiano. Non fui presente al Comitato Centrale ma lo fui alla riunione precedente della segretria estesa ai membri del C.C. milanesi. Ho letto il verbale che ne fece Umberto Tartari. I tre che espongono i loro dati; Oskian e Vinci che li contestano e noi tutti zitti.

Molti compagni che presenziarono al successivo Comitato Centrale descrivono un clima pesante, il non trovarsi d’accordo ma avere paura di parlare, per finire con le richieste di autocritica a quei pochi che osarono dire qualcosa.

Non c’era tempo, bisognava fare e così si finiva per non fare domande e nemmeno farsele. Per esempio dalla lettura dei senzaMao vedo che nella decisione di Silverio di lasciare il giornale e tornare a Roma c’erano sia elementi di logoramento personale, sia l’emergere di preoccupazioni politiche per il processo che ci stava facendo avvicinare al PDUP e allontanare da Lotta Continua. Probabilmente il pezzo su Gioia di Vivere e Lotta di Classe fu il suo modo di lanciare un sasso.

Apparentemente tutto filava liscio ma il fuoco covava sotto la cenere e un pomeriggio, in una riunione di segreteria nazionale, Luigi Vinci richiese a freddo le dimissioni del segretario nazionale Aurelio Campi accusandolo di gestione padronale del partito. Non ricordo se fosse la fine del 75 o l’inizio del 76 ma il fatto è di poco successivo all’allontanamento di Silverio dal Quotidiano. Era l’inizio di una storia durata all’incirca un anno in cui i due principali contendenti alternarono bordate, punture di spillo e giravolte strumentali.

Ho vissuto l’attacco ad Oskian come una autentica pugnalata tirata a freddo. In realtà c’era parecchio malessere nei confronti di Oskian per il suo decisionismo che molto spesso si trasformava in autoritarismo e a ciò si sommava il timore che stesse progettando una fusione-confluenza con la componente comunista (non psiuppina) del Pdup.

Mi sono poi reso conto, dalle successive dinamiche in Ufficio Politico, che si trattava di un atto preparato con cura da Luigi Vinci (che controllava l’apparato e l’organizzazione), in accordo con molti segretari regionali. Così Avanguardia Operaia, in un momento in cui sarebbe servito il massimo di iniziativa politica e di unità interna, sia prima, sia dopo le elezioni del 76, fu invece vittima di una crisi al vertice tenuta lungamente segreta, ma che non le fece certamente bene.

In quei mesi mi resi conto frequentando i gruppi dirigenti di AO e del PDUP di quanto pesassero le miserie personali nel determinare le scelte politiche e quello fu il primo disvelamento del fatto che non basta credere nel comunismo e appellarsi ad esso per essere all’altezza del compito.

Con il IV congresso dell’ottobre 74 Avanguardia Operaia fece uno sforzo per guardare lontano, stare dentro i movimenti sociali ma, contemporaneamente, cercare di costruire una analisi della società italiana che facesse i conti con le caratteristiche dei due blocchi sociali che riscuotevano il consenso della gran massa degli italiani: il blocco intorno alla DC e quello intorno al Partito Comunista.

Ma una parte del gruppo dirigente storico guardò a quel tentativo con sospetto, come una forma di liquidazionismo. Se devo fare un paragone un po’ forte, ma che aiuta a capire, nel momento in cui avevamo bisogno di Gramsci AO si rifugiò nelle braccia di Bordiga travestito da Lenin.

Il Comitato Centrale, con oltre 100 compagni, tutti con una storia di militanza importante, tutti dotati di esperienza politica, faticava a capire, anche perchè le divergenze reali non venivano palesate, se ne discuteva nei corridoi, in parte in Ufficio politico, ma mai in maniera esplicita. Vinci e Campi un giorno si davano ragione, ma appena temevano che dietro l’unità ci fosse lo zampino del diavolo, rovesciavano il tavolo.

Fu così, nella incapacità di capire cosa era era successo con il risultato delle elezioni di giugno (straordinario balzo in avanti del PCI, tenuta della DC, misero risultato della sinistra rivoluzionaria) che si produsse lo sgretolamento, dapprima lento e poi clamoroso delle tre organizzazioni principali della sinistra rivoluzionaria; AO, LC e il PDUP seguite subito dopo dal MLS.

Nessuna di esse era riuscita ad essere una alternativa a quei blocchi di consenso politico ed ora crollavano stritolate da un lato dal PCI e dall’altro lato dai movimenti della autonomia e dal terrorismo.

la mia reazione

Disgustato da come si svolse la discussione intrecciata tra il risultato deludente delle elezioni politiche e la prospettiva di unire o meno Avanguardia Operaia e il Pdup, decisi di andarmene e nei primi giorni di luglio 76 preparai anche un poderoso documento politico di dimissioni dalla organizzazione a cui avevo dato tanto.

La manchette che apriva il lungo articolo in tre puntate in cui decisi che era ora di finirla con le chiacchiere da convento di clausura

Da qualche mese avevo iniziato a studiare le parti di teoria politica dei Quaderni dal carcere di Gramsci (in particolare le Note sul Macchiavelli) e mi rendevo conto che c’era un vuoto da colmare tra le intuizioni di Gramsci sulla democrazia, sul socialismo, sulla politica, sul blocco storico, sul ruolo della chiesa cattolica, sulla lotta culturale per la egemonia e il nostro appello al leninismo.

Il leninismo si era inverato in una realtà profondamente diversa da quella italiana e per di più, o forse per quello, aveva avuto una deriva fallimentare in cui il giacobinismo della prima ora si era ben presto trasfornato in autoritarismo e poi in una forma di totalitarismo burocratico in grado di garantire solo la propria sopravvivenza (com qualche milione di vittime).

Nel mese di luglio (mentre ero in ferie dal giornale) mi incontrai con Oskian e Claudia Sorlini per informarli della mia decisione di andarmene da una organizzazione che non aveva il coraggio di discutere a viso aperto. Oskian, che in quel momento non era più segretario politico, ma coordinatore di una segreteria collegiale che aveva il compito di preparare le tesi per il V congresso, mi convinse a rimanere promettendomi che si sarebbe aperta la battaglia politica e non quella personale.

Misi da parte il documento di dimissioni (che è rimasto chissa dove in una agenda e si è perso con lei) e nei primi giorni di agosto pubblicai in tre puntate, sul quotidiano, un lungo articolo dedicato alle prospettive che ci stavano di fronte e a quella che secondo me poteva essere la strada per uscirne. Lo trovate qui “perché ho votato contro al Comitato Centrale“.

Di questioni politiche ce ne sono dentro molte e ciò che mi ha colpito è l’insistenza sulla necessità di una riflessione teorico politica di grande respiro, insieme a problematiche di tipo minore che, con gli occhi di oggi, mi fanno sorridere.

A settembre, al rientro dalle ferie dei dirigenti, mi aspettavo una discussione politica (e come si vede dalla D di dibattito nella manchette, pensavo di farlo sul giornale); invece fui processato in Ufficio Politico per aver infranto il Centralismo Democratico e mi venne messo al fianco, in funzione di controllo, Vittorio Borelli, trasferito da Verona e del tutto digiuno di giornalismo.

In redazione non la prendemmo bene, anche perché, come si vede dalla lettura del testo, si trattava di un contributo politico del tutto legittimo nell’ambito della discussione su come arrivare al V congresso di AO.

Le congiure di palazzo e le manovre di corridoio continuavano da entrambe le parti. Non me la sentii di continuare con l’ottimismo della volontà e ai prmi di ottobre decisi che era meglio andarmene e tornare al lavoro minuto, ma importante, di docente. Rimisi il naso in redazione una volta sola quando ci fu lo scontro a fuoco (di cui ho parlato nel pezzo dedicato agli anni del QdL) in cui morirono Walter Alasia e due funzionari di polizia.

un cambiamento profondo

L’esplosione del terrorismo e la violenza dei movimenti della autonomia mi convinsero della necessità di seguire altre strade e lavorare più in profondità. Non abbandonai la passione politica, ma abbandonai l’idea della politica al primo posto, quella del rivoluzionario di professione che sarebbe meglio chiamare uomo ad una dimensione.

Non fu una decisione immediata, ma progressiva. Ricordo che, nei primi mesi del 77, alla assemblea in cui la destra di AO decise di andarsene e aderire al PDUP partecipai, ma mi sentivo ormai un osservatore esterno e non un protagonista. Non ricordo nulla dell’incontro residenziale che si tenne a Rocca di Papa; alcuni amici che proseguirono in quel percorso mi dicono che feci un intervento importante ma non mi è rimasto nemmeno il ricordo. Mi ritrovavo con tante persone a cui volevo bene ma che stavano per intraprendere un ennesimo tentativo volontaristico.

La parabola di AO si era visibilmente chiusa anche se la maggioranza ottenne risultati tra il 70 e l’80%; altri tentarono di fare DP e in quel periodo mi resi conto della drammaticità della situazione.

Il terrorismo cresceva, faceva le rapine, gli autonomi erano alla ricerca dello scontro per lo scontro, la popolarità delle BR nel brodo di coltura della autonomia operaia cresceva, iniziavano gli omicidi e i miei ex compagni continuavano a fare i distinguo come nello slogan infelice nè con lo stato nè con le BR, come se lo stato democratico, le BR e prima Linea, si potessero mettere sullo stesso piano.

Tutti quei tentativi, per quanto generosi, che avevano caratterizzato la mia vita nella prima metà degli anni 70, per quanto animati da persone appassionate, sul piano della soggettività, finirono nel nulla. Non fu così, come ho detto all’inizio, per le trasformazioni che si determinarono nella società e negli assetti istituzionali. L’Italia era cambiata in meglio e noi avevamo fatto la nostra parte.

In questi anni, molti di quei compagni che hanno fatto parte di quel gruppo dirigente sono venuti a mancare e li voglio ricordare, al di là dei dissensi e della diversità di percorso: Marco Pezzi di Faenza, il primo a morire; Attilio Mangano, Umberto Tartari, Severino Cesari, Franco Calamida, Vittorio Rieser, Massimo Gorla, Pietro Spotti, per restare a quelli che conoscevo direttamente.


La pagina con l’indice della mia autobiografia da cui potete scegliere i capitoli da leggere


I commenti dei compagni di allora sono benvenuti e, perché ne rimanga traccia, vi prego di metterli sotto l’articolo e non sulla grande cloaca di Facebook. Già, per effetto delle precedenti edizioni, ce ne sono un certo numero.

Questo è il breve commento con cui ho accompagnato il link su FB

C’eravamo tanto amati … e poi il “giocattolo” si è rotto, il mondo è cambiato e ciascuno di noi ha fatto le sue scelte.
Verso quelle persone con cui ad un certo punto si determinò una rottura conservo un grande senso di simpatia e negli anni tutte le spigolosità sono sparite e voglio bene a tutti loro. Qualcuno con orgoglio dice “volevamo cambiare il mondo, non ci siamo riusciti, ma il mondo non ha cambiato noi”. Detta così non la condivido perchè vivere vuol dire essere disposti a cambiare e ad accettare il cambiamento. La nostra vita, la vita di tutti è bella perché è caratterizzata dal mutamento.



Giovani, politica, fede

nuvola cominelli giovani politica

Nell’intervista fatta da Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera di domenica 19 maggio, il cantautore Niccolò Moriconi, in arte “Ultimo”, 28 anni, dichiara: “Essere giovani oggi è tremendo”. Da prendere sul serio, perché si tratta di un esponente “intellettuale”, lo dico senza ironia, della generazione Zeta, quella che decorre dal 1995.

Intellettuale, perché fornisce autocoscienza e materiali per la costruzione del Sé a milioni di ragazzi-follower, più di 3 milioni e 600 mila. Canta “l’ira funesta”, le pulsioni belliche, il nazionalismo aggressivo, le velleità rivoluzionarie, la volontà di rivolta di una generazione? No, ne canta “il disagio”, la depressione, il ritiro dal mondo verso la propria interiorità…

Dice Ultimo: “… la realtà non è sensata. La realtà è tremenda. È schifosa. Guerra, paura, sottomissione, chiusura… Per questo ci costruiamo un altrove”. Perché, siamo tutti dominati dal Mercato.

La mancanza di incisività della politica

Le uniche forze che potrebbero fornire un senso allo stare nel mondo sono la religione e la politica. Ma in chiesa non ci va più nessuno.  Quanto alla politica, Ultimo confessa di non avere mai votato: “…siamo stufi di questa spaccatura tra destra e sinistra… sono contrapposizioni che hanno stancato. Fascisti e comunisti: i giovani non ne possono più. Cos’è la sinistra? L’ipocrisia del buonismo? Cos’è la destra? Il cattivismo di chi chiude i porti a coloro che muoiono in mare?”.

Liquidata così la politica, prigioniera degli opposti estremismi del buonismo e del cattivismo, che cosa resta ad un ragazzo? Beh, un universo di universi, à la Matrix, il mondo virtuale dei social, di Tik Tok, di Instagram. Ma, osserva Ultimo, “i social ti anestetizzano… ti stuprano il cervello”.

Così “… ci stiamo addormentando… stiamo diventando amebe”. Che cosa resta, infine? “L’interiorità, l’idea di superare se stessi”. O la generosità dell’impegno personale. Resta il privato dei buoni sentimenti, di una carezza all’alba, prima che “lei” se ne vada e tu resti nel tuo letto – così nella canzone “Alba” -, magari avvinto ad un social. Qualora non bastasse, c’è sempre uno psicoterapeuta con cui fare quattro chiacchiere. Oppure, e qui Ultimo cita Carl Gustav Jung, restano “le sincronicità: come incontrare la persona giusta al momento giusto”.

Alla domanda “Qual è l’altrove per lei?”, Ultimo risponde: “Bere un buon vino con i miei amici. Guardare Shameless, una serie americana, con la mia fidanzata Jacqueline. Le canzoni. Non è scappare dal mondo; è guardarlo con gli occhi dell’altrove”. Questo è quanto.

La percezione falsa della storia umana

Si potrebbero avanzare maliziose considerazioni sulla redditizia industria del disagio, che fa la fortuna di cantautori e rapper. Ma il disagio è un fatto. È quello dei nostri ragazzi, che sono l’avvenire delle nostre famiglie e, in ogni caso, dell’Italia.

Intanto, occorre, in prima istanza, circoscrivere l’area geopolitica del disagio. Si tratta dell’Occidente. I giovani cinesi o indiani o iraniani o africani non paiono soffrire della “sindrome del non-senso”.

Si confrontano direttamente con un mondo scabro, con una storia dura. Secondariamente, e nonostante le retoriche sulla povertà e sulla disoccupazione giovanile, il disagio in Occidente non nasce da ragioni economico-sociali, benché esistano, ovviamente, fasce minoritarie “povere”.

La gioventù italiana e occidentale di oggi, se paragonata a quella delle generazioni precedenti, non è mai stata così opulenta, così benestante, così assistita, così protetta.

Mi sarei aspettato che l’intervistatore Cazzullo, in quanto giornalista e persona adulta, movesse una contestazione elementare: “Sei proprio sicuro che la realtà sia così schifosa, tremenda, insopportabile?”. “Guerra, paura, sottomissione, chiusura” sono fenomeni apparsi solo dopo il 1996, anno della tua nascita?

Perché è mancato il coraggio di far notare a Ultimo che la sua percezione della storia e del mondo è radicalmente falsa? Forse la Storia del ‘900 e dei secoli precedenti è stata più sensata?  Donde viene questa visione del mondo, per la quale ci si attende un improbabile l’Eden, così che la Storia reale che ci viene incontro è vissuta come un Inferno?

La crisi metafisica delle giovani generazioni e di quelle adulte

La mancanza di senso dei giovani non nasce dallo stomaco, ma dal loro cervello e da quello dei loro padri/madri.

È una crisi metafisica. È effetto della caduta della Fede e della Ragione. Per chi ha Fede, il senso della Storia è già dato. Devi solo decidere se stare o no nella corrente di senso, che Dio immette nella storia, da sempre. Per chi ha solo la fede nella Ragione, la Storia si presenta certo come Caos e come Caso, ma alla Ragione è attribuita la capacità di individuare e di introdurre delle nervature di senso nella Storia.

Così dal Caos si passa al Cosmos, dal Caso al Destino.  Le tre virtù teologali – fede, speranza, carità – sono sempre state il motore della Storia umana, perché sono le leggi della vita, dei corpi viventi, dell’evoluzione autocosciente. Solo che la Storia come la Vita ha anche un’altra faccia: dello scacco, della lotta violenta per l’esistenza, della morte. In una parola, della finitudine. La Storia reale è questo intreccio. È la condizione umana. Non ce n’è un’altra.

Ora et Labora

Alla domanda sul perché questo motore si stia spegnendo nel cervello collettivo dell’Occidente bianco sono state date molte risposte, da Friedrich Nietzsche in avanti. Qui le by-passiamo, tanto sono note.

Anche perché sono costretto a confessare di non avere risposte né per il destino dell’Occidente né per quello dell’umanità né per Ultimo. Ma mi soccorre il racconto che san Gregorio Magno (540-604) nel Secondo libro dei Dialoghi – riportati dalla grande Patrologia del Migne – fa della vita del giovane quasi suo contemporaneo Benedetto da Norcia (480-547), mandato dalla sua nobile famiglia di provincia a studiare a Roma.

Trovatosi nella Roma del declino dell’Impero, tra la jeunesse dorée della dissoluta aristocrazia romana, Benedetto “retraxit pedem”: “ritrasse il piede che aveva appena posto sulla soglia del mondo per non precipitare anche lui totalmente nell’immane precipizio. Disprezzò quindi gli studi letterari, abbandonò la casa e i beni paterni e volle far parte della vita monastica”.

Ne scaturì quell’” Ora et Labora” che ha fondato l’Europa. Tradotto: “Ora” – prega – significa andare verso il mondo con il senso del proprio limite e della propria finitudine. Quanto al “Labora”: lo si può tradurre con la stoica esortazione che Max Weber rivolse ai suoi studenti a Monaco nel tragico inverno del 1918: “Ci metteremo al nostro lavoro e adempiremo al ‘compito quotidiano’, nella nostra qualità di uomini e nella nostra attività professionale”.

Aggiungo un consiglio accorato ai genitori degli Ultimo: accompagnateli nel mondo, non proteggeteli dal mondo. E ai figli: non disprezzate gli studi letterari. Lo studio della Filosofia, della Storia, degli scrittori e dei poeti vi fa vedere la storia umana così com’è e come possiamo, ogni generazione che viene al mondo, renderla abitabile per ciascuno di noi. L’Altrove non esiste. “Il ritorno all’interiorità”, vuota della Storia reale, è solo narcisismo.




ha esagerato Travaglio o Meloni?

travaglioIeri ero sinceramente imbarazzato e ho scelto di limitarmi ad un post su Facebook in cui stigmatizzavo lo stile buldozer di Travaglio. Qualche amico ha preso la palla al balzo per dire … E Meloni?

Ci ha pensato, con equilibrio e spirito critico Christiano. Condivido quello che scrive su Travaglio, su Meloni e anche su Forti. Forse mi rimane qualche riserva su Travaglio, abile ma … spietato quando gli conviene (C.C.)
Stimo Travaglio, anche se spesso eccede. In questo caso, probabilmente è andato sopra le righe, più che altro per fare del sensazionalismo.

Ovviamente lui sosterrà di aver perfettamente ragione, ed in effetti è così: le verità scientifiche e quelle processuali sono le uniche verità oggettive, anche secondo un orientamento epistemologico.

Quindi, con una condanna definitiva per omicidio volontario (credo) premeditato, dire che è un assassino non è tecnicamente errato. Oltretutto, è stato un omicidio legato a motivi personali, e non ideologici, giusti o sbagliati che siano stati. Certo, in questo caso si potrebbe giustificare come Vannacci, che lancia il sasso nel concetto di normalità, salvo opporvi una (quasi) perfetta interpretazione statistica quando viene tracciato di omofobia, ecc…

Probabilmente Travaglio voleva stigmatizzare, con il titolo, il fatto che un condannato per omicidio sia stato fatto rientrare in patria senza che abbia commesso reati “politici”, come invece è stato per quasi tutti quelli che sono rientrati fino ad ora, sia da latitanti che da condannati, e quelli che, come la Salis, se la sono andata a cercare, come spesso commentano da quella parte verso chi eccede in internazionalismo.

È una cosa certa la gaffe che si è fatta accogliendolo con le alte autorità, anche se sono convinto che ciò sia avvenuto al solo fine di cercare visibilità in un successo più tecnico-diplomatico che politico e morale. Sed sunt tempora...

Dietro i fatti narrati dalle sentenze, tuttavia, c’è un uomo e la sua dimensione esistenziale. Sebbene possa aver sbagliato, comunque si può dire che abbia espiato, e di sia umanamente recuperato, quindi non ha alcun senso tenerlo in prigione, nemmeno in Italia.

Quindi Travaglio non deve, come fanno anche altri, passare così invadentemente e pesantemente sulle storie delle persone per criticare indirettamente misere vicende di politica. Rischia di sfiorare lo squallore di altri giornalisti che invece lo fanno nei titoli di tutti i giorni. Fino ad ora Travaglio è stato così duro solo con i politici, e questo non è generalmente abietto.




volevano il Roccella bis

espugnare la natalità

Non so chi siano quei duecento scellerati che oggi volevano marciare sugli stati generali della natalità, dove oggi interveniva anche papa Francesco. So che però questa volta ci ha pensato la polizia a fermarli, senza eccedere, ma in maniera ferma. Meno male.

Il problema della natalità esiste e, ovviamente, a seconda dei riferimenti culturali e ideologici che si hanno vengono avanzate proposte diverse che non sono oggetto di questo articolo perché c’è un problema che sta a monte:  il diritto di tutti di esprimere in maniera pubblica e organizzata il proprio pensiero e, per converso, il diritto di esprimere in maniera organizzata il proprio dissenso.

Si tratta di due elementi essenziali di ogni sistema democratico e mi rifaccio ad una domanda che per primo si pose in maniera esplicita Popper, il teorico della società aperta: possiamo tollerare gli intolleranti? E pur cogliendone l’aspetto paradossale (chi non tolera l’intollerante lo diventa a sua volta) egli sostenne che che l’intolleranza non va tollerata perché quando la si accetta si accetta anche di far cadere i principi cardine di ogni discussione:

1. «È possibile che io abbia torto e tu abbia ragione»; 2. «Discutendo le cose razionalmente, potremmo essere in grado di correggere alcuni dei nostri errori»; 3. «Se discutiamo razionalmente, potremmo giungere entrambi più vicini alla verità».

Con l’intollernte ciò non è possibile come abbiamo visto ieri e anche oggi. Sulla scelta della polizia di non lasciarli nemmeno avvicinare c’è poco da dire se non plaudire e basta guardarli, guardare le bandiere, per capire che a questi del tema della natalità gli importa meno di zero.

Ma voglio tornare alla giornata di ieri.

contestazione Roccella

Un gruppo di ragazzini è entrato di soppiatto nell’aula del convegno con l’intenzione di contestare la ministra della natalità Roccella. E fin qui ci siamo, una contestazione folcloristica e di durata limitata fa parte delle regole di espressione del dissenso.

Ai cartelli sandwiche sono seguite le urla e già qui non ci siamo. Ieri sul sito dell’Ansa c’era un video con immagini e sonotro impressionanti. L’organizzatore degli Stati generali, in nome del quieto vivere ha dato loro la parola (ricerca del confronto con gli intolleranti) e questi hanno fatto il loro comizietto contro il governo dichiarando che era il governo ad organizzare gli stati generali. Falso e fuori tema; d’altra parte sul tema della natalità non avevano nulla da dire.

Finito il comizietto, per alleggerire la tensione sono stati fatti alri interventi dal tavolo della presidenza, ma ogni volta che toccava alla ministra Rocella riprendeva la bagarre perché la Roccella non deve parlare. E così dopo il terzo tentativo la ministra se ne è andata e se ne sono andati anche i nostri eroi. Per spirito democratico ne riporto in coda all’articolo il testo.

Qui non c’entrano nulla nè il diritto al dissenso nè quello a manifestare. Se vuoi manifestare ti organizzi la tua manifestazione (il cui scopo non può essere l’occupazione manu militari degli spazi della altrui manifestazione); se vuoi dissentire lo fai in maniera civile (vanno bene i cartelli o gli uomini sandwiches ma poi la pianti). Se impedisci di parlare ad uno a casa sua mentre tu sei ospite sei un intollerante e non mi interessa se fai i gesti del femminismo; sei un intollerante e in Italia hai un bel precedente, il movimento fascista (le squadracce, gli assalti alle case del Popolo, la Marcia su Roma).

Questi sono dei bimbetti che non sono stati educati. Ci pensino i loro genitori a farlo e la polizia li accompagni fuori.

Roccella poi è doppiamente odiata perché da radicale con il padre fondatore fel Partito Radicale, dopo aver succhiato latte e Pannella si è convertita. Si sa i convertiti sono la peggio cosa … perché si portano addosso lo stigma del tradimento. Ha delle posizioni da credente-femminista e sostiene tesi  che danno fastidio su diverse questioni riguardanti la procreazione non naturale, posizioni che in altri momenti e luoghi sono state sostenute anche dai movimenti femministi più radicaloi.

Mi era già successo nel 2010 al festival dell’Unità a Milano a un dibattito sulla scuola. Doveva intervenire Valentina Aprea sottosegretario all’Istruzione con delega alle superiori; ero andato per ascoltarla sulle questioni delle ipotesi di riforma dello stato giuridico. Quando venne il suo turno, dopo la sfilata degli onorevoli di sinistra, iniziò la contestazione organizzata e le fu materialmente impedito di parlare (ed eravamo in casa PD).

Occorre che la sinistra la pianti, su queste faccende di comportarsi a seconda delle convenienze.


Il testo dell’intervento che Roccella non ha potuto leggere

Quest’anno ricorre il trentennale della Conferenza del Cairo su popolazione e sviluppo. Trent’anni non sono molti, eppure sembra passato un secolo, perché oggi il quadro è drasticamente cambiato, si è praticamente capovolto. Le previsioni fatte all’epoca, che hanno orientato le politiche nazionali e internazionali, si sono rivelate completamente sbagliate.

Alla Conferenza internazionale su popolazione e sviluppo che si è svolta al Cairo nel 1994, 179 paesi, partendo dal principio che sviluppo e popolazione sono strettamente collegati, hanno sostanzialmente ritenuto che frenare la crescita demografica portasse alla crescita economica: insomma, meno figli voleva dire più ricchezza e sviluppo. Oggi invece è ormai un fatto assodato che il nesso tra natalità e sviluppo c’è, ma è all’opposto di quello che si è detto al Cairo. La modernizzazione, lo sviluppo economico, sociale e tecnologico, sono accompagnati in genere da un continuo calo delle nascite, e questo calo alla fine crea nuovi rischi per il benessere individuale e collettivo. Insomma il tempo ci ha insegnato che non è intervenendo per abbassare le nascite che produciamo sviluppo, ma producendo sviluppo le nascite tendono spontaneamente a calare. I dati parlano chiaro: pochissimi sono ormai i paesi nel mondo sviluppato in cui la natalità viaggia intorno al cosiddetto tasso di sostituzione, quei due figli per donna che garantiscono l’equilibrio tra nascite e morti. Per molto tempo, almeno dagli anni Cinquanta del secolo scorso, siamo vissuti nell’idea che la popolazione mondiale sarebbe aumentata a dismisura, e che questo avrebbe prodotto uno squilibrio drammatico tra i limiti delle risorse disponibili e una crescita demografica che si immaginava senza limiti. Basterebbe ricordare le previsioni del prestigioso Club di Roma, un gruppo di scienziati e studiosi di grande rilievo internazionale. Si parlava di “population bomb”, titolo del famoso libro di Paul Ehrlich, considerando quindi l’incremento demografico come un’arma letale, una minaccia per la sopravvivenza stessa dell’umanità, che avrebbe impedito il progresso e lo sviluppo, producendo fame, miseria, conflitti. Abbiamo attraversato decenni in cui si sono intensificate le politiche per il controllo della natalità, finanziate spesso da organismi internazionali, e i piani per arrestarne la crescita, in particolare in quei paesi dove sembrava irrefrenabile, come molte nazioni asiatiche.

Ricordiamo che il segretario dell’Onu, Pérez de Cuellar, premiò negli anni 80 la politica del figlio unico della Cina, una politica attuata in modo autoritario e oppressivo nei confronti della libertà delle famiglie e delle donne in particolare. Oggi però la Cina è alle prese con il problema opposto, con tassi di natalità troppo bassi, inferiori al tasso di sostituzione, e persino l’India, che era il più lampante esempio di nazione sovrappopolata, è attualmente ferma a due figli per donna o poco più. L’esempio più evidente di quello che stiamo dicendo è la Corea del sud, che ha avuto uno sviluppo galoppante, e in parallelo ha effettuato una altrettanto galoppante rincorsa verso il crollo demografico.

Anche le prospettive del continente africano, in cui oggi la popolazione è in aumento e il tasso di natalità è ancora mediamente alto, si avviano a un veloce assestamento al ribasso.

Le cause di questo fenomeno sono tante, e gli studiosi hanno cominciato a esplorarle e approfondirle a livello globale, tanto che alcune analisi sono finite sulle pagine della grande stampa internazionale.

Cito solo qualche titolo. New York Times, 9 novembre 2023. Dean Spears, economista al Population Research Center della University of Texas,  afferma: 
“Sono sempre meno i paesi con elevati tassi di natalità, e in nessuno dei paesi in cui i tassi di nascita sono scesi sotto il valore di 2, questo valore poi è risalito. I tassi di nascita stanno diminuendo anche nell’Africa sub-sahariana. Man mano che aumentano gli standard di vita, la natalità cala”. 

Lancet, rivista scientifica che non ha bisogno di presentazione, ha pubblicato quest’anno uno studio sulla fertilità globale in 204 paesi e territori, dal 1950 al 2021, con previsioni fino al 2100: un’analisi demografica con proiezioni sui futuri tassi di fertilità che continuano a scendere in tutto il mondo e che, cito, “resterà bassa anche nell’ambito di un’attuazione efficace di politiche pro natalità”. Le previsioni indicano che nel 2100 i tassi di fertilità saranno sotto il livello di sostituzione nel 95 per cento dei paesi. 

Niall Ferguson, ha scritto di calo demografico su Bloomberg, nel marzo 2024. Ferguson, che insegna storia moderna a Harvard, citando dati di agenzie internazionali, commenta la denatalità mondiale con un saggio significativamente titolato “Il crash della popolazione mondiale non è più fantascienza”.

Per tornare in Italia, il 30 aprile scorso sul Corriere della Sera è uscito un articolo di Federico Rampini, giornalista estremamente informato sulla situazione internazionale, con il titolo: “Dall’Europa alla Cina la denatalità non dipende dai soldi”. Nel pezzo, Rampini riporta il commento di John Burn-Murdoch del Financial Times, che riassume gli esiti di diversi studi in materia demografica, specie dal mondo anglosassone, concludendo che ormai è scontato come l’aspetto economico sia irrilevante per la decisione di avere figli. Il titolo dell’articolo inglese era: “Perché le politiche a favore della famiglia non aumentano i tassi di natalità. Gli incentivi finanziari diretti sono sconfitti da tendenze sociali molto più forti”.

Un panorama scoraggiante. Che fare, allora? Dobbiamo rassegnarci a un mondo sempre meno popolato, e a tutte le ricadute che questo ha su di noi, sul nostro territorio e sulla nostra vita? Naturalmente no. Se non pensassi questo, se non credessi che si può cambiare rotta, non avrei accettato di assumermi l’onore e l’onere di guidare un ministero a cui, per la prima volta nella storia della Repubblica italiana, sono state assegnate le deleghe per la natalità. Perché, bisogna dirlo, creare queste deleghe è stato un atto di coraggio politico. Per molto tempo in Italia la natalità è stata una parola tabù, ne parlavano solo i cattolici, gli esperti e pochi altri. Chi spiegava che il calo delle nascite comportava rischi materiali e immateriali per la nostra società veniva accusato di voler replicare le politiche mussoliniane, di voler relegare le donne a casa, di voler distruggere l’ambiente, e così via. Ancora oggi non è facile promuovere la natalità senza incorrere in accuse di ogni tipo.

Il nostro governo però ha messo la questione al centro della sua azione, e lo ha fatto proprio perché dietro c’è una visione precisa: lo sviluppo economico, tecnologico, sociale, democratico, insomma la crescita,  è un obiettivo irrinunciabile, ma dobbiamo trovare i modi per conciliarlo con una nuova primavera demografica, altrimenti i rischi sono enormi. Non voglio qui dipingere uno scenario cupo, ma vorrei accennare almeno a un paio di punti, gli stessi su cui mi sono soffermata nella relazione di apertura alla Conferenza europea sulla demografia che abbiamo organizzato poche settimane fa.

Quando si parla dei rischi connessi alle culle vuote ci si riferisce di solito all’equilibrio pensionistico e all’aumento della spesa sanitaria, e più raramente di due argomenti che in realtà sono già nell’agenda europea: uno è l’ambiente, l’altro la solitudine.

Oggi è molto in auge la visione dell’uomo come distruttore dell’ambiente, ma la verità è diversa. La radice di ecologia è il termine greco oikos, che vuol dire casa. L’ambiente è la casa dell’uomo, ed è la cura da parte dell’uomo che lo vive e lo abita che può preservare i territori dal degrado e dall’abbandono.

Il nostro ambiente è costituito infatti di natura, di tradizione, di cultura. Avrete visto forse il film “Un mondo a parte”. Ecco, quei paesi del’Appennino, quelle aree interne descritte nel film, sono custodi di biodiversità, di identità nazionale e di un immenso patrimonio diffuso di carattere storico-culturale.

Perdere popolazione significa abbandonare all’incuria porzioni di territorio oggi alimentate dalle attività e dalla presenza umana. Significa condannare i borghi alla decadenza urbanistica e le costruzioni alla rovina.

Anche questa è ecologia, cioè conservazione di un ambiente prezioso. Il sindaco di un piccolo paese della Puglia, Biccari, che ha parlato alla conferenza, ha detto, citando il titolo del film: “Noi non vogliamo essere un mondo a parte, vogliamo essere parte del mondo”. Mi sembra una sintesi perfetta.

L’ altro tema fondamentale è la solitudine. Uno studio apparso recentemente in una prestigiosa rivista scientifica ha stimato il calo del numero di parenti nelle diverse nazioni del mondo, con una proiezione fino al 2100. In media, nel mondo, una donna di 65 anni nel 1950 aveva 41 parenti viventi; nel 2095 ne avrà una media di 25, con un calo di quasi il 40 per cento. La tendenza riguarda indistintamente tutti i paesi del mondo: per esempio nello Zimbabwe una donna di 65 anni aveva 50 anni fa più di 80 parenti, ma già oggi ne ha la metà. Questo vuol dire meno zii, cugini, nipoti. Cioè meno persone della comunità naturale di prossimità, all’interno della quale ognuno di noi è nato e ha vissuto, e che è il primo ambito in cui impariamo cosa è la vita; il primo ambito di vicinanza, di condivisione e di solidarietà in caso di difficoltà personali.
 E’ un cambiamento che incide sul singolo, sulla formazione individuale: le persone vissute in una rete famigliare ridotta, crescono senza aver mai sperimentato cosa significa vivere in una rete fitta di rapporti parentali, di prossimità.
 Insomma, nelle società colpite dall’inverno demografico non si diventa soli a una certa età, ma si cresce nell’esperienza della solitudine.

In alcuni paesi, come in  Gran Bretagna o in Giappone, è stato istituito addirittura un ministero dedicato alla solitudine, e molti sono i provvedimenti che i governi stanno prendendo, per esempio quello tedesco, per far fronte a questo problema. Ma sono sempre provvedimenti che non possono sostituire l’antidoto naturale alla solitudine, che è appunto la rete parentale, allargata alla comunità.

Il nostro governo non ha soltanto voluto e saputo imporre all’attenzione il tema delle culle vuote, rendendolo centrale nel dibattito pubblico. Ha agito molto concretamente, e lo ha fatto fin da subito, già nella prima legge finanziaria, a poche settimane dal nostro insediamento. La via italiana, chiamiamola così,  alle politiche nataliste, si fonda su tre cardini. Il primo è il sostegno diretto alle famiglie. L’aumento della spesa per l’Assegno unico è passato da 16,5 miliardi di euro nel 2022 a più di 19 miliardi per il 2024, ed è riassumibile nell’impegno verso la fascia da 0 a 3 anni, con l’incremento del 50 per cento per i nuovi nati,  e per le famiglie numerose.

L’altro cardine è composto da due punti, il lavoro femminile e la conciliazione famiglia-lavoro. Sul primo punto abbiamo già ottenuto, in questo anno e mezzo di governo, un risultato di cui siamo fieri, con un aumento di 260.000 posti di lavoro in più per le donne, e con il più alto tasso di occupazione femminile mai raggiunto dal nostro paese fino a oggi. Lo abbiamo fatto anche grazie alla decontribuzione per le donne con due o più figli e con facilitazioni per l’assunzione di donne e giovani. Inoltre il governo sta coinvolgendo nella sfida della conciliazione le imprese, attraverso la certificazione di parità di genere (che è un obiettivo Pnrr) e il nuovo patto di responsabilità per la maternità e le pari opportunità nelle imprese. A questo aggiungiamo i congedi parentali, che, per due mensilità sono passati dal 30 all’80 per cento di copertura.

L’ultimo cardine sono i servizi socio-educativi per la fascia di età 0-3. L’attuale legge finanziaria ha previsto un rimborso praticamente completo per le famiglie con due o più figli a copertura delle rette per gli asili nido, inoltre abbiamo appena rifinanziato i centri estivi, mentre il ministro dell’Istruzione ha promosso l’apertura delle scuole anche durante i mesi di vacanza.

Ma il problema della denatalità, come abbiamo detto all’inizio, oltrepassa i confini nazionali, riguarda tutto il mondo sviluppato, e sempre più rapidamente investirà anche  paesi che sembravano immuni dal problema, e che venivano considerati riserve inesauribili di nuovi nati.

Insomma l’inverno demografico sta raffreddando il mondo intero: è una questione globale che penso vada affrontata a livello globale, a cominciare dal nostro continente, l’Europa. L’Italia intende portare nella nuova Commissione e nel nuovo Parlamento il tema della demografia come una priorità del prossimo quinquennio. E’ per questo che abbiamo voluto organizzare la Conferenza europea a cui ho accennato all’inizio, a cui ha partecipato la commissaria europea all’uguaglianza, Helena Dalli, proprio per la luce che abbiamo voluto accendere sulle questioni che riguardano il lavoro femminile e la conciliazione vita-lavoro, e la vicepresidente della Commissione, che è anche commissaria per la Demografia, Dubravka Suica. Come già fatto sulla transizione green e digitale, anche l’investimento nella transizione demografica deve diventare centrale per il governo europeo, non solo perché, come ho detto, l’intero continente è a rischio spopolamento, ma perché oggi il peso delle decisioni che si prendono in Europa è sempre più influente e importante. Non è pensabile invertire la tendenza alla denatalità senza un forte coinvolgimento dell’Unione europea, senza che, per esempio, gli investimenti per le politiche demografiche siano considerati, appunto, investimenti, e non solo capitoli di spesa.  L’Europa è definita il “vecchio continente”, ma con questo termine si allude alla grande storia che abbiamo alle spalle, al nostro patrimonio di tradizioni e di passato. Non vogliamo che diventi invece una definizione anagrafica.
Abbiamo bisogno quindi di una convergenza di tutti i livelli di governo, dagli enti locali, le regioni e i comuni, che possono fare moltissimo, fino al governo nazionale, e poi a quello europeo, e anche oltre. Oggi abbiamo un ministero che ha le deleghe alla natalità e una commissaria europea alla demografia. Abbiamo tutti gli strumenti per avviare un grande lavoro comune e cambiare le cose.




il re è nudo e la compassione è pelosa

Anche io sono tra quelli che domenica, dopo aver sentito le dichiarazioni di Piantedosi sono saltati sulla sedia e mi sono detto: tu sei il ministro degli interni, non quello degli esteri o la Presidente del Consiglio, a te non spetta il ruolo di dispensatore di buoni consigli ai disperati e nemmeno quello di stringere accordi con gli stati per impedire le partenze, ti spetta invece quello di organizzare l’approdo e poi la identificazione in maniera sicura. Se uno sta annegando non puoi cazziarlo perché non ha fatto dei buoni corsi di nuoto, ti occupi invece di soccorso in mare, di teli termici, di giubbotti di sicurezza.

Ora che il fumo si sta diradando emerge in tutta la sua crudezza il non detto o meglio il non fatto: la filosofia corrente degli ultimi governi accentuata dall’ultimo è quella del disincentivare:

  • rendere difficile il lavoro delle ONG in modo che la raccolta in mare su navi sicure risulti difficile ed onerosa
  • far fare alle ONG dei giri inutili per arrivare a porti sicuri più lontani, in modo che le navi soccorso siano meno presenti quando servirebbe
  • trasformare le operazioni di sbarco da operazioni di soccorso (capitanerie di porto) in operazioni di polizia (guardia di finanza) in modo di incentivare da parte degli scafisti la linea del non farsi vedere costi quel che costi, anche a costo di finire sugli scogli.
  • limitare il soccorso alla conclamata emergenza anziché alla predisposizione di strutture che intervengano sempre e comunque in maniera cautelare

Se si evita localmente il gioco al massacro, mi sta bene che ci sia anche l’intervento nei luoghi di partenza per disincentivare le stesse. Ma quali sono questi interventi? Il blocco in Libia di persone che hanno già attraversato il Sahara partendo dal Sudan o dalla Eritrea o dallo Yemen? Il blocco in Turchia di chi è partito dall’Afghanistan e che è scappato da una situazione in cui è il mitico Occidente ad aver creato 20 anni fa le condizioni che oggi portano alla fuga?

Dunque, OK al contenimento, o al tentativo del medesimo ma sapendo che si tratta di una delle strategie possibili e che serve solo a tentare di tamponare una falla che ha origini epocali e che rinvia ai rapporti di forza economici, sociali e militari su scala planetaria.




le punizioni a scuola – di Giovanni Cominelli

Il Ministro dell’istruzione e del Merito Giuseppe Valditara,  rispondendo a Milano a una domanda sul bullismo, ha proposto come esempio positivo il modo con cui il Preside di un Istituto tecnico di Gallarate ha trattato il caso di un ragazzo colpevole di aver preso a pugni una docente. Il ragazzo è stato punito con la sospensione di un anno. Il Preside ha affrontato pubblicamente con i ragazzi il caso. Il Ministro ha elogiato il Preside quale educatore, perché, diversamente da altri dirigenti e docenti, non ha giustificato il comportamento del ragazzo, magari ricorrendo alle sue motivazioni nascoste o alla condizione sociale: colpa del liberismo selvaggio o, perché no, del mutamento climatico?

Ha poi aggiunto: “…Noi dobbiamo ripristinare non soltanto la scuola dei diritti, ma anche la scuola dei doveri. Quel ragazzo deve fare i lavori socialmente utili, perché soltanto lavorando per la collettività, per la comunità scolastica, umiliandosi anche… evviva l’umiliazione che è un fattore fondamentale nella crescita e nella costruzione della personalità! Di fronte ai suoi compagni è lui, lì, che si prende la responsabilità dei propri atti e fa lavori per la collettività. Da lì nasce il riscatto. Da lì nasce la maturazione. Da lì nasce la responsabilizzazione”.

Il lemma umiliazione ha fatto scattare l’indignazione delle vedove – del Ministero –  in gramaglie, dal Centro fino alla Sinistra estrema. Carlo Calenda: "Ma questi dove li hanno presi! Che vergogna!". Si suppone che alluda ai Ministri. Furfaro, deputato PD: "… ma Valditara ha mai letto un qualsivoglia studio di psicologia e pedagogia? ". Luca Bizzarri, attore e comico, 1,6 mln di follower sul social network: "… Un Ministro dell'Istruzione che parla dell'umiliazione pubblica come strumento di crescita. La stigmatizzazione pubblica. Io sono favorevole ai lavori socialmente utili, ma credo, sommessamente, che questo sia fascismo". Altri hanno rimproverato al Ministro di ignorare le neuroscienze e forse anche i neuroni a specchio.

Ora, umiliazione è certamente termine metaforico inadeguato e poco formale tanto in un contesto giuridico quanto in quello relazionale-educativo. Ma l’ondata di reazioni che è venuta dal suo uso improprio è altamente istruttiva ed allarmante, perché dà la misura della malafede e dell’ignoranza, di cui soffrono parecchi politici, dirigenti scolastici, insegnanti, genitori, giornalisti, opinion leader e blogger…, su come si costruisca l’etica individuale e quella pubblica. O, detto in altro modo ancora: di quale irresponsabilità educativa, civile e politica essi siano colpevoli.

All’on. Furfaro, psico-pedagogista di complemento, si dovrebbe chiedere se abbia mai letto, lui, un libro di antropologia o semplicemente di storia. Perché scoprirebbe che i comportamenti socialmente positivi, che noi eleviamo a modelli e che, perciò, chiamiamo valori, si affermano solo attraverso un lungo e spesso doloroso apprendistato sociale, nel quale ciò che la famiglia, il clan, la tribù, la società civile ritengono socialmente positivo viene premiato e ciò che ritengono negativo viene sanzionato pubblicamente. Persuasione e coercizione si intrecciano, fatalmente.

La punizione assume varie forme, tutte pubbliche. Perché la pubblicità dell’umiliazione del colpevole – di violenza, di furto, di omicidio… – serve a educare tutti, eventualmente anche il colpevole, al rispetto dei valori e delle regole condivisi.

Il colpevole ha ceduto all’impulso? Tutti, lui compreso, devono sapere che sarà punito socialmente cedere agli impulsi belluini. Aveva fame? Non perciò si giustifica il furto. Se uno commette un reato, viene condannato. La condanna consiste, in primo luogo, nella stigmatizzazione pubblica della colpa oltre che, eventualmente, nella privazione della libertà individuale. La condanna è un atto pubblico pedagogico, attraverso il quale la società costringe il colpevole e tutti gli altri, che non lo sono, ma che potrebbero imitarlo, a prendere atto che quel comportamento è distruttivo dei rapporti sociali.

Sì, è un’umiliazione. Humiliare: riportare un individuo alla terra, all”humus” appunto. La coercizione/punizione/umiliazione è educativa? Certamente lo è per ogni individuo. Lo è anche per il colpevole? La punizione è un incentivo a evitare di ripetere il gesto. Può anche rigenerare la sua scala di valori, per cui l’umiliazione si trasformi in occasione di redenzione e di metanoia individuale? Dipende da lui, in primo luogo, ma anche dalle modalità di somministrazione della pena.

Se queste sono le regole sociali, non si capisce perché non debbano valere anche nell’istituzione scolastica, che è, insieme alla famiglia, uno dei luoghi nei quali l’individuo introietta i valori sociali e si forma il carattere. La famiglia e la scuola sono le fonti generative della società civile. Non si comprende perché nella scuola e in generale nell’educazione dei ragazzi e degli adolescenti debba valere la pretesa dell’impunità, in forza della quale non si risponde pubblicamente e non si paga pubblicamente il conto delle proprie azioni. Perché debba valere l’idea sottesa che non ci si debba assumere delle responsabilità nello stare nel mondo e che non ci sia un’autorità – che rappresenta la Realtà – ben oltre la nostra coscienza soggettiva, cui si deve rispondere.

Agli educatori più avvertiti non sfugge che gli adulti, in fuga dall’educare, stanno producendo una generazione di ragazzi e di giovani che hanno paura del mondo, che non reggono le frustrazioni che la realtà infligge a ciascun individuo in tempi e modi diversi nel corso della sua vita. Depressione e bullismo sono due virus, che si moltiplicano in questo humus di irresponsabilità, di impunitismo, di facilismo, di rapporto irrealistico con la realtà del mondo. Sì, la punizione deve essere pubblica! O si pensa che l’ammissione della colpa e la sua espiazione debbano avvenire nel complice segreto del confessionale o, come oggi si dice, in regime di privacy?

È venuta avanti una marea di battute sui “lavori socialmente utili”, cui il  Ministro ha proposto di destinare eventualmente il ragazzo colpevole di bullismo. Le battute trasmettono malafede, superficialità e diserzione educativa da parte del mondo adulto. C’è un altro modo per educare all’assunzione di responsabilità, al riscatto e alla ricostruzione del Sé, se non quello di accompagnare in un ambiente, in cui si risponda a regole, a persone, a un’organizzazione collettiva? Non è questo, d’altronde, anche il senso educativo dell’alternanza scuola/lavoro? Non è la pratica il modo concreto di apprendere l’etica pubblica?

Resterebbe da interrogarsi sull’allegra antropologia che parte della sinistra teorizza e pratica. Allan Bloom l’ha già definita nel suo libro del 1987, intitolato La chiusura della mente americana, “un nichilismo senza abisso”. Un’idea della storia umana senza giudizio finale – al Liceo romano Morgani hanno deciso di non dare più i voti, ma daranno i giudizi di verità? – senza dramma, senza dolore, senza fatica. Sant’Agostino direbbe: “senza peccato originale”. Giacché, se fossimo esenti da quello, non avremmo bisogno di autorità, di educazione, di responsabilità, di pena, di espiazione. Tutto verrebbe facile come pare accadesse nel Paradiso terrestre. Peccato che lo stiamo facendo credere anche ai nostri ragazzi. Ai quali stiamo così preparando un futuro tutt’altro che paradisiaco. Quella del peccato originale ti pare una fake news? Puoi sempre ripiegare sulla constatazione di una permanente animalità della specie sapiens. Dovrebbe bastare.

 




Manifesto per la pace anche a fianco di Lucifero – di Roberto Ceriani

Almeno non fate finta di meravigliarvi! Almeno piantatela di fingere di scoprire che in guerra muoiono anche i bambini!

Che la Russia abbia invaso l’Ucraina lo sapevo già. Che Putin sia un criminale lo sapevo già. Che le prime vittime di qualsiasi guerra siano persone innocenti e bambini lo sapevo già.

Ma che la pace non si raggiunga mai con le armi anche voi lo sapevate già. Ma che nel 21esimo secolo sia impossibile pensare che una guerra termini con una vittoria sul campo anche voi lo sapevate già. Ma che qualunque vendetta serva solo a generare una peggiore controvendetta anche voi lo sapevate già.

Allora piantiamola di fingere di meravigliarci ogni volta che la TV ci mostra orrori e distruzioni. Allora mettiamoci in testa una buona volta che solo una trattativa può portare a una tregua. Allora non fingiamo di non sapere che solo l’impegno collaborativo dell’Europa, di tanti Paesi e dell’ONU potrà portare a un accordo di progressiva pace che porti lentamente a un ritiro concordato delle armi.

Allora convinciamoci che pace non significa sconfitta, ma premessa per accordi di progressiva riduzione delle ingiustizie, condizione necessaria per una convivenza che permetta alle future generazioni di odiarsi un po’ meno.

Voglio la pace! Voglio una pace che sia pure un poco ingiusta, ma non troppo.

Per questa pace sarò in piazza appena qualsiasi partito, movimento o organizzazione vorrà manifestare per la pace; anche una pace un poco ingiusta, ma non troppo.

Vorrei che il PD fosse il promotore di questa manifestazione, ma non mi importa chi la indirà. Sarò in piazza anche se sarà indetta da Lucifero in persona! (10 ottobre 2022)


Si può rinunciare alla Cittadinanza Europea? Visto il progressivo suicidio dell’Europa dovremmo domandarcelo seriamente.

Proprio ora che si aprono piccoli spiragli di trattative di pace persino nell’Amministrazione americana (a parte qualche triste uscita di Biden, che straparla quando dimentica la pillola della sera), il 6 ottobre il Parlamento Europeo ha approvato una mozione che ripropone la guerra come soluzione dei problemi internazionali. Questa Europa non è più la mia Europa!

La mozione, che sembra scritta da Zelensky-Stranamore (unico caso al mondo di capo di Stato che proibisce per legge qualsiasi trattativa di pace) è stata approvata con 504 voti a favore, 26 contrari e 36 astenuti.

La mozione approvata dai nostri cosiddetti “rappresentanti”:

  • richiede agli stati membri di “rafforzare massicciamente la loro assistenza militare” ed esorta gli “Stati esitanti a fornire la loro giusta parte di assistenza militare necessaria per contribuire a una conclusione più rapida della guerra” (punto 5)
  • propone “un’iniziativa dell’UE per la fornitura di sistemi di armamento avanzati come i carri armati Leopard” e “l’addestramento dei soldati ucraini” da parte degli Stati membri (punto 6)
  • richiede “ulteriori pacchetti di sanzioni” sostenendo “l’adozione di sanzioni individuali” (punto 9)
  • richiede “un embargo immediato e totale sulle importazioni russe di combustibili fossili e uranio nonché la completa dismissione dei gasdotti Nord Stream 1 e 2” (punto 10)
  • invita “a includere la Bielorussia nella nuova ondata di sanzioni” (punto 11)
  • invita “gli Stati membri e i partner internazionali a preparare una risposta rapida e decisa qualora la Russia compia un attacco nucleare” (punto 16)

Il punto 23 è però il più interessante: si chiede nientepopodimeno che “l’istituzione di un tribunale internazionale ad hoc per il crimine di aggressione contro l’Ucraina, dinanzi al quale Putin e tutti i funzionari civili e militari russi nonché i loro mandatari responsabili di aver orchestrato, avviato e condotto la guerra in Ucraina sarebbero perseguiti”.

E’ il punto più interessante, almeno per i retrogradi come me che pensano ancora che le sentenze vadano emesse da un tribunale DOPO un processo, non prima. Ma forse questi sono solo vecchi princìpi su cui si basava un’Europa ormai sorpassata.

Invece l’Europa moderna, incarnata dalla bionda con l’elmetto Ursula Sorridens, non si occupa più di queste anticaglie e guarda fiduciosa al futuro. Un futuro sempre più simile agli anni ’60, con il Muro di Berlino spostato un po’ più a Est e costruito non dall’URSS, ma da noi.

Noi che siamo un Occidente sempre più impaurito da una Globalizzazione che si illudeva fosse al servizio dell’ampliamento dei suoi mercati ma che, al contrario, sta diventando lo strumento di ampliamento dei mercati cinesi (BRI docet).

Ma per fortuna c’è una bella guerra in Ucraina! E’ un’occasione d’oro da sfruttare se vogliamo tornare a dividere il pianeta in due bei blocchi contrapposti e chiuderla con queste illusioni di Mondo Multipolare! E gli ucraini che muoiono in nome di una legge che proibisce loro di avviare trattative di pace? Beh, non si può sempre pensare a tutto! In fondo ogni grande progetto ha sempre qualche piccolo effetto collaterale…

(9 ottobre 2022)


“Il miglior contratto è quello che scontenta tutti”. Così diceva negli anni ’70 il grande sindacalista Luciano Lama. Ma cosa intendeva dire?

Per risolvere un conflitto, solamente scontentando un po’ tutti gli interlocutori si potrà raggiungere un punto di equilibrio che possa garantire a tutti una soluzione accettabile per un tempo ragionevole. Se, al contrario, con la vittoria di una parte si arrivasse ad accontentare solo alcuni e scontentare altri, o peggio ad umiliarli, nascerebbe la condizione migliore per una ripresa del conflitto in tempi brevi.

E’ vero che conflitti sindacali e conflitti geostrategici sono cose diverse, ma se si vuole la pace in Europa il principio di Lama può essere adattato anche alla questione ucraina. Invece purtroppo in Europa prevalgono i sostenitori dell’ipotesi di “vincere la guerra” e “umiliare Putin”, puntando alla sua sostituzione (con chi? con il falco Mevdevev? quello che sostiene la “soluzione nucleare”?).

Quella europea è in fondo la stessa posizione di Israele che pensa di garantire solo la propria sicurezza ignorando quella altrui; è la ricetta ideale per diventare un Paese insicuro, in guerra ininterrotta da 74 anni! E’ una posizione tristemente simile ai trattati post Prima Guerra Mondiale. Quei trattati che hanno posto le migliori premesse per garantire il Secondo Tempo della guerra mondiale, dopo una breve pausa ventennale.

E’ una posizione che non ha nulla a che vedere con la ricerca della pace e con le mediazioni diplomatiche, ma ha molto in comune con le Crociate di antica memoria.

UNA PACE UN POCO INGIUSTA

Da queste scelte suicide prende le distanze il giornale cattolico Avvenire che, su probabile suggerimento vaticano, propone “Sette passi per una pace giusta e duratura non solo in Ucraina

Nonostante il titolo, l’obiettivo non dichiarato della proposta è arrivare a una “pace un poco ingiusta”, cioè a un compromesso diplomatico che tenga conto delle esigenze dei diversi attori in gioco. Un compromesso che, scontentando un po’ tutti, metta le premesse per una pace accettabile dalle parti coinvolte.

In sintesi i Sette Punti dell’Avvenire sono:

  1. Risoluzione dell’ONU che garantisca la neutralità dell’Ucraina. NO ingresso nella NATO. SI ingresso in Europa.
  2. I cinque membri permanenti ONU (Cina, Francia, Russia, UK, USA),’oltre a UE e Turchia, garantiscono all’Ucraina sovranità, indipendenza e integrità territoriale
  3. Per alcuni anni la Russia conserva il controllo “de facto” della Crimea. In seguito le parti cercano, per via diplomatica, una sistemazione “de iure” permanente. E’ garantito alle comunità locali l’accesso sia all’Ucraina sia alla Russia
  4. Le regioni di Lugansk e Donetsk restano all’Ucraina, ma hanno diritti di autonomia economica, politica e culturale
  5. Russia e Ucraina hanno accesso garantito ai porti del Mar Nero per attività commerciali.
  6. Rimozione graduale delle sanzioni occidentali alla Russia in parallelo con il ritiro delle truppe e degli armamenti russi dall’Ucraina
  7. Creazione di un Fondo Multilaterale per la Ricostruzione e lo Sviluppo delle aree danneggiate dell’Ucraina. La Russia concorre al fondo in base a criteri di proporzionalità

ma nel frattempo

  • la Finlandia, Paese NATO, respinge alle frontiere i russi che si rifiutano di combattere contro l’Ucraina
  • Elon Musk, come fece Kissinger oltre sei mesi fa, propone un referendum, sotto il controllo dell’ONU per far decidere alle popolazioni del Donbass il loro destino
  • Zelensky si incazza con Elon Musk, dichiara che riconquisterà la Crimea, firma la richiesta di adesione alla NATO e firma un decreto che proibisce di negoziare con Putin
  • Zelensky è candidato al Nobel per la Pace

(5 ottobre 2022)

 




la guerra infinita – di Roberto Ceriani

Presidente Biden: "I Taliban potrebbero entrare a Kabul fra 90 giorni".Pensionato Ceriani: "Saranno a Kabul entro una decina di giorni".

Ceriani-Biden: Uno a Zero! Ma perché non mi fanno Presidente degli Stati Uniti? Ah, già! La solita vecchia questione della cittadinanza…

Comunque è bello pensare che adesso gli Stati Uniti accoglieranno migliaia di profughi afghani. Pensarlo è bello, e poi è anche gratis! Realizzarlo è un po' più costoso ma, dopo aver speso centinaia di miliardi di dollari per finanziare una guerra un pochino inutile, sarà pure avanzato qualche spicciolo per i profughi, vero?

Da Roma partono aerei vuoti e tornano da Kabul pieni di profughi afghani. Per ridurre lo spreco si potrebbero riempire i voli di andata con i profughi italiani in fuga dalla Dittatura Sanitaria. A Kabul li aspettano a Kalashnikov aperti…

Matteo Nazionale lo dice chiaramente: "Vengano qui donne afghane e bambini, ma lasciamo là gli uomini perché potrebbero essere terroristi". Grande Matteo! Lui l'ha sempre detto che i bambini hanno diritto a una mamma e un papà. Allora pensa di fare lui da papà adottivo ai bambini profughi? Nobile e generoso! E se poi i suoi piccoli adottati da grandi diventeranno terroristi cosa farà papà-Matteo? Chiederà aiuto a mamma-Giorgia?

Secondo Matteo, il padre biologico di questi bimbi-con-sola-mamma potrebbe essere un terrorista che vuole scappare dai Taliban, a loro volta terroristi che mettono in fuga terroristi. Roba forte! Neanche Freud… Comunque per Matteo una cosa è chiara: non esistono donne terroriste! Come è bello il magico mondo di Matteo! Un po' lo invidio. Mi ricorda i cartoni di Heidi…

Hanno consenso. Non fingiamo di non saperlo; i Taliban godono di consenso fra gli afghani. Altrimenti come si spiegherebbe che 300.000 soldati si sono arresi in due settimane? Tutti fifoni? Tutte quinte colonne? Consenso non significa che tutti sono d'accordo, ma che una grossa fetta di popolazione trova migliore appoggiare alcuni piuttosto che altri. Sarà perché quegli alcuni sono veramente migliori, o forse perché gli altri fanno proprio schifo, comunque hanno consenso.
Se hanno consenso staranno al potere per decenni, che ci piaccia o no. Rifiutare di dialogare con loro significa regalarli a chi gli spalanca le porte (Pakistan, Cina, Russia). Ci conviene?

Invece sento importanti e seri politici italiani dichiarare "Hanno tradito i patti quindi non dialoghiamo con loro!". Sono le stesse frasi che dicevamo da bambini quando tiravamo i sassi ai coetanei della banda della strada parallela. Ora capisco perché abbiamo regalato la Farnesina a un ottimo venditore di bibite! Chiudere i rapporti con i Taliban servirà solo a rinforzare le loro componenti più integraliste e militariste, mettendo in secondo piano quelli più ragionevoli. O forse vogliamo illuderci che i Taliban siano tutti uguali? Siamo diventati tutti salviniani?

Qualcuno qui in Europa già lo teorizza: sosteniamo i ribelli del Nord, così l'Afghanistan verrà destabilizzato. In pratica vogliono una bella guerra infinita, nostalgici di quella appena finita. Non sono contrario alla "guerra giusta" (anche se mi ricorda molto la "guerra santa"), penso solo che sia una guerra che non ci conviene.

Facciamo finta per 10 minuti che ce ne freghi veramente qualche cosa del futuro di milioni di donne afghane. Milioni, non le sole 3-5.000 che hanno lavorato con noi, quelle che hanno studiato, che fanno le scrittrici o le giornaliste. È giusto difenderle, ma ce sono anche altri milioni a Herat, Kandahar, Maimana, Kunduz, Bamyan, Mazar-i-Sharif, oltre a quelle delle campagne o dei monti dell'Hindukush.

Milioni di donne, comprese le bambine piccole e quelle che nasceranno fra 5 anni. Il futuro di questi milioni di donne sarà migliore o peggiore se decidiamo di non dialogare con i Taliban? Se ci illudiamo di isolarli e di farli cadere da soli, questi milioni di donne (ma pare che in Afghanistan esistano anche milioni di uomini) avranno una possibilità in più o in meno di accedere all'istruzione? O forse pensiamo che l'Afghanistan sia solo a Kabul, anzi solo nell'aeroporto pieno di giornalisti?




Buio a mezzogiorno – di Arthur Koestler (recensione)

Quando ho recensito il caso Toulaev di Victor Serge mi sono reso conto, sia dai riferimenti nella introduzione, sia dai commenti degli amici, che non avevo mai letto l'altro libro di riferimento, scritto nello stesso periodo (1938/1939) e riferito ai grandi processi del 37-38, "Buio a Mezzogiorno".

Anche Koestler (Budapest 1905 – Londra 1983), come Serge, è un militante comunista, ma nel suo caso si tratta di un comunista prevalentemente vissuto al di qua del confine con l'est. Koestler è ungherese (viene dalla capitale dell'impero asburgico), proviene da una famiglia ebraica, studia a Vienna e dunque scrive in tedesco ( anche perché, sul piano profeessionale ha lungamente operato in Germania) e sino alla fine, cerca suo malgrado, di di essere fedele al punto di vista di Mosca.

La sua storia di scrittore inizia da giovanissimo, con il racconto della sua esperienza in Palestina a lavorare in un Kibbutz ("La schiuma della terra") stretto tra le ostilità degli Inglesi e degli Arabi. Dopo il periodo palestinese riesce a farsi assumere da grandi gruppi editoriali tedeschi e in quegli anni (anche dopo l'adesione al partito comunista tedesco) continuerà a lavorare per il partito, in incognito, con la indicazione di apparire come un giornalista liberal che però, quando può, difende gli interessi dell'URSS. Lo farà in Germania, poi in Spagna e infine in Francia.

La sua rottura con il comunismo e la denuncia dei crimini dello stalinismo avviene solo nel 1938 perché, nonostante viva a contatto con i problemi del totalitarismo staliniano, mette sempre al primo posto la resistenza al nazismo e la necessità che le forze antinaziste rimangano unite. Tutto ciò nonostante tocchi con mano, sin dal primo viaggio in URSS pensato come propagandistico, le condizioni di vita della popolazione russa, lo strangolamento dei kulachi, la persecuzione, di qua e di là del confine sovietico degli oppositori. Buona parte del materiale documentario del romanzo gli viene da una testimone diretta (di carceri e inchieste) che aveva conosciuto nel corso del viaggio in URSS Eva Weissberg e che è stata liberata grazie a pressioni internazionali mentre il marito Alex era stato consegnato alla Gestapo.

Buio a mezzogiorno, insieme ad altri due romanzi dello stesso periodo, I Gladiatori e Arrivo e Partenza ha come tema centrale il rifiuto del principio secondo cui "il fine giustifica i mezzi": il partito è infallibile in quanto avanguardia del proletariato e il proletariato era l'incarnazione del processo storico verso il progresso. Per una ampia biografia su Koestler potete leggere il sito della storica Valentina Piattelli.

Il romanzo, in cui qualcuno ha individiato elementi legati al processo a Bucharin per via della confessionefinale, racconta il processo ad un ex commissario del popolo, Nicola Salmanovič Rubashov, l'ultimo sopravvissuto, oltre a Stalin, della foto di gruppo della vecchia guardia che fino a poco prima stava in tutti gli uffici pubblici (e anche alla Lubjanka), che ora non c'è più perché la vecchia guardia, le teste numerate della fotografia, non c'è più.

Ci sono elementi di similitudine con quanto già scritto da Serge (le celle, i corridoi, gli interrogatori notturni, le figure degli inquisitori, il sotterraneo delle esecuzioni) ma questa volta (a differenza del caso Toulaev) c'è una unica vicenda e un racconto in cui, man mano che procedono gli interrogatori ci sono i salti indietro che ci descrivono la vita e il ruolo di Rubashov che negli anni 30, per conto della Internazionale si dedicava agli interventi di raddrizzamento ed espulsione di militanti delle cellule all'estero (in Germania in pieno nazismo e poi in Belgio).

Rubashov è sereno ma fermissimo; non sono ammessi dissensi, chi dissente è fuori, come capita ai membri della cellula degli scaricatori di un porto del Belgio che avevano organizzato il boicottaggio delle merci dedicate ai nazifascisti e che, la sera prima dello sbarco, apprendono che stanno arrivando dalla patria del socialismo cinque cargo neri, ciascuno con il nome di un grande capo della Rivoluzione e con la bandiera rossa bella in vista. Sono carichi di petrolio da instradare poi, via terra, verso l'Italia di Mussolini, impegnata nella aggressione all'Etiopia e soggetta all'embargo da parte della Società delle Nazioni,

Questo è lo scambio finale con Riccardo, il militante tedesco che ha osato non distribuire il materiale propagandistico giunto da Mosca e sostituirlo con cose scritte sul posto, perché più aderenti alla realtà.


«Il Partito non può mai sbagliare» disse allora Rubasciov. «Tu ed io possiamo commettere degli errori, ma non il Partito. Il Partito, compagno, è piú di te, di me e di mille altri come te e come me. Il Partito è l’incarnazione dell’idea rivoluzionaria nella Storia. La Storia non conosce né scrupoli né esitazioni. Scorre, inerte e infallibile, verso la sua meta. Ad ogni curva del suo corso lascia il fango che porta con sé e i cadaveri degli affogati. La Storia sa dove va. Non commette errori. Colui che non ha una fede assoluta nella Storia non è nelle file del Partito.»

«Hai impedito la diffusione del nostro materiale; hai soppresso la voce del Partito. Hai distribuito volantini ogni parola dei quali era pericolosa e falsa. Hai scritto: “I resti del movimento rivoluzionario debbono unirsi e tutte le forze ostili alla tirannide formare un blocco; dobbiamo porre fine alle nostre vecchie lotte interne e cominciare di nuovo la lotta comune”. Questo è un errore. Il Partito non deve allearsi ai moderati. Sono essi che in perfetta buona fede hanno innumerevoli volte tradito il movimento, e lo faranno ancora alla prossima occasione, e poi ancora alla prossima. Chi scende a un compromesso con essi uccide la rivoluzione. Hai scritto: “Quando la casa brucia, tutti devono contribuire a soffocare l’incendio; se continuiamo a discutere sulle teorie, l’incendio ci ridurrà tutti in cenere”. Altro errore. Noi combattiamo il fuoco con l’acqua; gli altri con l’olio. Pertanto dobbiamo prima decidere quale è il sistema giusto, se l’acqua o l’olio, prima di unire le brigate dei pompieri.


Quando Rubasciov torna in Russia dopo due anni di carcere in Germania trova che molti degli uomini barbuti della fotografia non esistevano più e che i loro nomi non potevano nemmeno essere pronunciati e per questa ragione rimane solo 15 giorni prima di essere inviato in Belgio sui sua richiesta dove gestirà la ribellione dei portuali.


Un’immagine gli comparve alla mente, una grande fotografia in una cornice di legno: i delegati al primo Congresso del Partito. Erano seduti attorno a una grande tavola, chi con i gomiti puntati sopra, altri con le mani sulle ginocchia; seri e barbuti tutti guardavano fisso verso l’obiettivo. Sopra ogni testa si vedeva un piccolo cerchio, che racchiudeva un numero corrispondente a un nome stampato ai piedi della fotografia. Tutti erano solenni, solo il vecchio che presiedeva aveva un’espressione scaltra e divertita negli occhi obliqui da tartaro. Rubasciov era il secondo alla sua destra, col pince-nez sul naso. Il N. 1 era seduto all’altro capo della tavola, in fondo, massiccio e quadrato. Sembrava la riunione del Consiglio municipale di una cittadina di provincia, e preparavano invece la piú grande rivoluzione della Storia. Erano a quel tempo un pugno d’uomini di una specie interamente nuova: filosofi militanti. Conoscevano tutti le prigioni delle città europee come i viaggiatori di commercio conoscono gli alberghi delle loro “piazze”. Sognavano la conquista del potere per abolire il potere; di governare sul popolo per svezzarlo dall’abitudine di essere governato. Tutti i loro pensieri si trasformavano in fatti e tutti i loro sogni divenivano realtà. Dove erano? I loro cervelli, che avevano cambiato il corso del mondo, avevano ricevuto ognuno una scarica di piombo. Chi nella fronte, chi nella nuca. Solo due o tre s’erano salvati, erano spersi per il mondo, logori, finiti. E lui; e il N. 1.


Nonostante ciò Rubashov va in Belgio a gestire la espulsione degli scaricatori, fa espellere i capi della sezione e denuncia il loro leader Nano Loewy come agente provocatore ed è nel periodo belga che Rubashov entra in contatto con labbro leporino il figlio di un diplomatico che sarà utilizzato per imbastire le accuse contro di lui.

In epoca staliniana le eliminazioni seguono due strade:

  • la pratica amministrativa (storicamente ampiamente utlizzata contro i tecnici e gli agronomi) in cui il partito decide che non ci sia interesse ad arrivare al processo e si viene eliminati direttamente su indicazione degli inquirenti (è quanto accade ad un vecchi amico di Rubashov, Bogrov per una questione relativa al tonnellaggio dei sottomarini).
  • il processo pubblico che viene istruito utilizzando chiamate di correità, confessioni, raccolte di documentazione mentre il potenziale imputato è in libertà, si perfeziona con l'arresto e gli interrogatori notturni che hanno la funzione di portare l'imputato allo sfinimento sino a fargli ammettere qualsiasi cosa pur di riposare e che ha come livello massimo di perfezione la ammissione, da parte dell'imputato delle verità più assurde sino al pentimento finale e alla richiesta di espiazione (inclusa la morte) in nome del socialismo.

Rubasciov è un dirigente rivoluzionario e dunque la sua pratica viene affidata ad un amico della prima ora, il giudice Ivanov che si trova ad interagire con un sottoposto della generazione successiva Gletkin, un fanatico convinto che l'imputato vada spezzato distruggendolo. Anche Ivanov, dopo che è riuscito a convincere Rubashov della sua colpevolezza, finirà eliminato per via amministrativa e la pratica passerà all'esperto in confessioni e connessioni in cui da un pelo si costruisce una pelliccia: Rubashov ha ammesso di avere sbagliato convinto dai ragionamenti di Ivanov e Gletkin farà il resto.

Rubashov, reso dubbioso dalle cose che ha visto, ha dei dubbi sull'Io e sul Noi. La dottrina rivoluzionaria si basa sulla divisione aritmetica: l'individuo è il frutto della divisione "una moltitudine di un milione divisa per un milione" ed è su questi temi che viene convinto da UIvanov, ma alla fine, nella sua cella, dopo che il processo si è concluso con la condanna alla fucilazione Rubashov continua ad interrogarsi.


Per che cosa muori tu, in realtà?”, non trovava alcuna risposta. C’era un errore nel sistema; forse consisteva nel precetto, ch’egli aveva considerato finora incontestabile, in nome del quale aveva sacrificato gli altri ed ora egli stesso veniva sacrificato: nel precetto, che il fine giustifica i mezzi. Era questa frase che aveva ucciso la grande fraternità della Rivoluzione e gettato tutti allo sbaraglio. Che cosa aveva scritto egli una volta nel suo diario? “Abbiamo gettato a mare tutte le convenzioni, la nostra sola guida è quella della logica conseguente; navighiamo senza zavorra etica.

Forse la radice del male era tutta qui. Forse non s’addiceva all’umanità navigare senza zavorra. E forse la ragione soltanto era una bussola difettosa, che faceva seguire una rotta cosí tortuosa da fare sparire nella nebbia il punto d’approdo. Forse ora veniva il tempo della grande tenebra.

Forse piú tardi, molto piú tardi, il nuovo movimento sarebbe sorto… con nuove bandiere, con un nuovo spirito, conscio e della fatalità economica e del “senso oceanico”. Forse i membri del nuovo partito avrebbero portato tonache fratesche e predicato che solo la purità dei mezzi può giustificare il fine. Forse avrebbero insegnato ch’è fallace il detto secondo cui un uomo è il prodotto di un milione diviso per un milione e avrebbero introdotto una nuova specie di aritmetica basata sulla moltiplicazione, in modo da formare con un milione di individui una nuova entità che, non piú massa amorfa, sviluppasse una coscienza e un’individualità propria, con una “sensazione oceanica” accresciuta di un milione di volte, in uno spazio illimitato e tuttavia contenuto in se stesso.


Potrei riempirvi di altre decine di citazioni. Il processo razionale che porta Rubashov ad accettare la sua colpevolezza è complesso.Il moderno Prometeo si è annullato nel Partito, ha ammesso di essere al servizio della storia e null'altro conta. I comportamenti delle teste numerate mandate alla fucilazione dal numero 1 sono stati tra loro diversi: c'è chi ha confessato e chiesto la grazia, c'è chi ha ammesso la organizzazione di una opposizione ed è andato con dignità nel corridoio delle cantine della Lubjanka, chi come Zinov'ev è crollato psicologicamente e ha dovuto essere sorretto dai carcerieri. Una tragedia raccontata con grande attenzione all'uomo e alla storia, i due corni del dilemma.


Arthur Koestler

Buio a Mezzogiorno




Nome di donna –> Bella da morire – Cristiana Capotondi

Sulla Rai, da due settimane, va in onda una fiction social-poliziesca interpretata alla grande da Cristiana Capotondi e domenica 29 marzo ci sarà la terza puntata (due episodi da 50 minuti a puntata): Bella da morire (prime share con oltre 5 milioni di spetttori ogni volta). In replica su RaiPlay.

Ho visto i primi quattro episodi in sequenza, con tutti i vantaggi e svantaggi della mancata sedimentazione che si ha nella visione a puntate. Molto buona l'idea originale di una poliziotta tosta e intransigente dalla parte delle donne, ma credo che si sia peccato con l'effetto trascinamento, in una storia che si diluisce e si arricchisce di personaggi di contorno per dare linfa alle molte puntate rischiando di trasformare l'idea della denuncia della violenza sulle donne in un polpettone.

Eva Cantini (Cristiana Capotondi) è una giovane ispettrice di polizia, milanese, esperta in femmminicidi, dura e tosta (con fama di rompicoglioni), che si trasferisce in un paesello della bassa (Lagonero), il suo paese di origine, per dare una mano alla sorella, ragazza madre con un bimbo di 10 anni, fuori come una mina e con problemi da parte dei genitori dei compagni, maestre e servizi sociali (al punto che sembra più saggio ed equilibrato il bimbo). La sorella è in rotta con il padre, anche lui a Lagonero, che non l'avrebbe sufficientemente seguita nel momento della gravidanza (frutto di uno stupro tenuto occultato).

La Bella da morire è una giovane fotomodella Gioia Scuderi che sparisce e, come sottolinea da subito Eva, le donne non si allontanano e dunque quando scompaiono bisogna cercarle perché è certamente accaduto qualcosa di grave; in effetti Gioia è in fondo al lago, strangolata. Ed ecco l'elenco delle problematiche che mi hanno fatto scrivere che si è messa troppa carne al fuoco, e siamo solo ai primi quattro episodi (e dunque ci sarà dell'altro, magari un prete pedofilo):

  • la battaglia di Eva per i diritti delle donne portata avanti con durezza e continue rotture
  • la storia tormentata con un collega, solido ma che ha avuto alle spalle un episodio di violenza e dunque per Eva si tratta di un vulnus indigeribile
  • il rapporto con la sorella, quello tra la sorella e il figlio, il rapporto con il padre
  • le dinamiche interne alla famiglia di Gioia con un padre disperato, una madre in Halzahimer, una sorella vittima di violenze in famiglia
  • i due fidanzati di Gioia (che era ai primi mesi di gravidanza): il suo agente che la menava e con cui aveva una storia (disegnato come uno stronzo da odiare e a cui Eva in ogni situazione non le manda a dire) e un secondo personaggio, innamorato perso e con una mogle cieca dalla nascita che intuisce, capisce e non perdona
  • la giudice che segue il caso (Lucrezia Lante della Rovere) che vive un rapporto a metà tra quello materno e quello di sorellanza verso Eva che la mette comunque in crisi rispetto ad un tran tran fatto di saggezze e tradimenti come accade nella terza età
  • la medico-legale, Anita Mancuso, una giovane single, insicura ma brava, innamorata del suo professore, ahime dannatamente gay

Mi chiedo se le fiction debbano essere per forza così, ma la bravura di Cristiana Capotondi mi ha indotto a cercare i suoi film e così ne ho trovato uno del 2018, presentato l'8 marzo, Nome di donna, per la regia di Marco Tullio Giordana, vedendo il quale ho capito come mai si sia arrivati a questa fiction (tema e scelta della attrice protagonista). Come in un film che si rispetti qui la storia è una sola ed è una storia di molestie verso una donna dentro una istituzione paraecclesiastica.

Il film è tutto lombardo e ambientato in un luogo indefinito della bassa tra le province di Pavia, Lodi e Cremona: campagna lombarda, cascine, ville nobiliari, tanta acqua e campi coltivati; la scena iniziale in cui Nina arriva al Baratta mi ha ricordato inizialmente villa San Martino di Berlusconi, ma la facciata era più imponente e mi sono subito ricreduto.

Nina è una ragazza madre con una figlia di una decina d'anni che, grazie alla raccomandazione del prete del paese viene assunta come inserviente per una sostituzione estiva in una grande villa trasformata in residenza di lusso per anziani, il Baratta. La sostituzione va bene e don Roberto Ferrari (Bebo Storti), formalmente capo del personale ma deus ex machina della struttura, come promesso, la assume a tempo ideterminato.

Don Roberto è colui che manovra il Consiglio di Amministrazione, che decide, che copre quello che non va perché il Baratta sta in piedi sulla qualità del servizio. E' la figura del prete manager che si occupa del quieto vivere, disponibile ma con l'occhio di chi ha ben chiara la differenza tra il potere e i subordinati. Nina fa una buona impressione per essersi presentata a vedere il posto di lavoro prima della casa che le daranno in comodato e quando risponde alla domanda se, oltre alla figlia, ha altri parenti, dicendo che ha un compagno che lavora a MIlano, il prete puntualizza beh non è che si tratti proprio di un parente.

Nella residenza lavorano molte donne, in maggioranza dell'est, in servizio con una divisa verdina, i capelli raccolti e le calze velate bianche. Fa tutto parte dello stile, ma fa anche parte di uno degli inconfessabili segreti della struttura, i segreti del direttore Marco Maria Torri, che ama farle venire nel suo ufficio in divisa, a fine turno perchè la divisa lo attizza e gli consente di esercitare il suo potere fatto di sottintesi, tentativi di violenza, profferte di auto in cambio di sesso, con un modo di operare in  cui il maniaco alterna tecniche di seduzione a scatti d'ira.

Anche Nina viene convocata a fine turno; è  stata appena confermata, è preoccupata perché per lei il lavoro è la  base della autonomia e di una esistenza dignitosa, si chiede cosa vorrà da lei il boss e Torri ci prova in un ambiente ambiguo che si conclude con un abbraccio in pieno stile te lo appoggio. Nina se ne va sconvolta, parla con le compagne e scopre che si tratta della norma. Così quando il giorno dopo Torri la convoca e in presenza della segretaria finge di non conoscerla, decide di andare fino in fondo contro il parere del compagno e mentre le compagne per paura, per abitudine e per quieto vivere la mollano.

Si rivolge alla CGIL che sta iniziando le campagne contro mobbing, stalking e molestie e decide di andare avanti. II giudice non la ascolta nemmeno, sente le compagne, sente la direzione e decide di archiviare per il buon nome del Baratta.

Per NIna inizia il calvario sino ad una lettera di ritrattazione predisposta da don Roberto per evitare il licenziamento. Clima duro, mobbing, sgarbi, isolamento ma Nina tiene duro, cerca prove testimoniali, riesce a piazzare telecamere nascoste … e tutto finisce in gloria con la magistratura che pian piano si schioda e in appello si arriva ad una condanna esemplare di Torri e di don Roberto mentre le di lui moglie e figlia se ne vanno da casa.

Tutto è bene ciò che finisce bene? No ci dice il regista Giordana. Grandi feste all'uscita del tribunale; una giornalista tv si rivolge al suo capo e gli chiede come è andata. Tutto bene, però dovresti essere un po' più … un po' più … e le appoggia la mano sull'inguine.

Bravo Marco Tullio Giordana, quello de La meglio gioventù e dei Cento passi. Brava Cristiana Capotondi, molto più misurata di quanto non avvenga nella fiction e bravissimo Bebo Storti nella parte del prete. Nel film non si vedono mai i ricchi ricoverati, con la eccezione di una attrice a riposo egregiamente interpretata da Adriana Asti.