Ilaria Salis, le case occupate e la destra becera

Ilaria Salis non mi è particolarmente simpatica perché fa scelte che non condivido. Pensa che antifascismo significhi menare i nazisti e che occupare case possa garantire il diritto a un’abitazione.

Però difendo la Salis quando viene trattata in modo indegno dalla pseudo-giustizia di Orban. Inoltre difendo il suo diritto alla libertà in quanto rappresentante di migliaia di elettori che condividono le sue posizioni.

Adesso vedo giornali e politici reazionari che vogliono che lei paghi 90.000 euro di affitto all’ALER perché un giorno di 10 anni fa è stata trovata all’interno di una casa occupata (ipotesi: 9.000 euro di mancato affitto all’anno). La richiesta di questi reazionari ha una sua logica che però loro stessi tradiscono non chiedendo la stessa pena pecuniaria per le decine di migliaia di occupanti abusivi di altrettante case popolari (ma questi reazionari sono gli stessi che parlavano sempre di “fumus persecutionis“?).

Di fronte a questa richiesta (che è arrivata persino dal Consiglio Regionale della Lombardia) la Salis e il partito per cui è stata eletta rispondono nel modo peggiore: rivendicano il diritto a lottare per la casa. E’ esattamente la risposta che desideravano i reazionari che la accusano. Ora possono scatenare un “dibattito” per dividere gli onesti (di destra) che pagano l’affitto e i disonesti (di sinistra) che non lo pagano.

Se io fossi un reazionario ringrazierei Fratoianni e C. per avere fatto quello che desideravo con ansia.
Se invece questi politici di sinistra avessero un minimo di intelligenza politica sceglierebbero un’altra strada.

Io al loro posto direi: “Cari accusatori, se un giorno di 10 anni fa la Salis è stata identificata in una casa occupata e poi nessuno si è mai più curato di vedere se l’occupazione continuava, significa che l’ALER ha abbandonato per 10 anni una casa che spettava a famiglie di lavoratori che ne avevano diritto. Questa è una grave colpa dell’ALER, non certamente della signora Salis che agli atti risulta essere stata in quella casa un solo giorno, quello dell’identificazione. Dato che non esiste alcuna documentazione che provi l’occupazione per altre giornate, occorre chiederle l’affitto di un solo giorno, senza però gli interessi maturati in 10 anni in quanto tale affitto non è mai stato chiesto prima (altra colpa dell’ALER)

Questa sarebbe la linea di difesa di qualunque garantista, in quanto nessun cittadino può essere accusato di colpe non dimostrate. Questa difesa sarebbe molto più politica della rivendicazione del “diritto a lottare per la casa“. Sarebbe molto più politica perché userebbe le armi dell’accusatore (paladino del garantismo) per accusare l’accusatore di mancanza di garantismo.

In generale credo che nei conflitti non si debba usare la propria logica, utile solo a ingigantire il conflitto, ma la logica dell’avversario per ritorcergli contro le sue stesse ragioni. Sarò un po’ vecchio stampo, ma per me questa si chiama Politica.




1974-1976: la parabola di AO

III edizione giugno 2024

c’eravamo tanto amati

Il periodo che mi vide operare dentro il gruppo dirigente di una organizzazione della sinistra rivoluzionaria è il più difficile da raccontare perché, da allora, sono cambiato molto ed è stata la riflessione su quella esperienza a determinare la radicalità del mio cambiamento: non più rivoluzionario, non più comunista, non più fiducioso (come una volta) nella possibilità che le cose si possano cambiare attraverso l’impegno nella lotta politica.

Penso che siano necessari impegni di altro genere sul fronte educativo e della testimonianza e che comunque il pedale su cui spingere non sia quello della lotta di classe.

Perché se è vero che le classi sociali esistono e influenzano il procedere della storia, non è vero che esista una classe destinata a svolgere un ruolo palingenetico (il proletariato industriale) ed è discutibile, alla luce dei mutamenti sopravvenuti nel modo di produrre e di consumare nella parte finale del XX secolo e nei primi decenni del XXI, che in estensione e consapevolezza si possa continuare a parlarne come di una classe sociale.

Mi sono ritrovato ad essere più attento ai cambiamenti che vengono da lontano, che procedono lentamente e che determinano le scelte importanti nella vita nelle persone, come quelli che si determinano nella scuola. Cosa farò da grande? Qual è il mio stile di vita? Cosa penso  dei rapporti tra le persone? Per cosa vale la pena di impegnarsi?

Nel giro di pochi mesi, dall’estate del 76 ai primi mesi del 77 ho vissuto  una trasformazione molecolare molto profonda che non ha riguardato solo la politica e non principalmente la politica. Ho cambiato stile e modo di vita; sono molto più solitario e disincantato di un tempo, ho bisogno del rapporto fisico con la naturalità (dai boschi, ai fiumi, alla autoproduzione agricola; sono sempre una persona appassionata e disposta a giocarsi per le cose per cui vale la pena di vivere. Sono disincanto nei confronti di tutti i miti, ma dico sì agli ideali.

Marciavamo con l’anima in spalla nelle tenebre lassù
ma la lotta per la nostra libertà il cammino ci illuminerà.
Non sapevo qual era il tuo nome, neanche il mio potevo dir
il tuo nome di battaglia era Pinìn e io ero Sandokan.
Eravam tutti pronti a morire ma della morte noi mai parlavam,
parlavamo del futuro, se il destino ci allontana
il ricordo di quei giorni sempre uniti ci terrà.
Mi ricordo che poi venne l’alba, e poi qualche cosa di colpo cambiò,
il domani era venuto e la notte era passata,
c’era il sole su nel cielo sorto nella libertà.

Sono i versi della canzone di Armando Trovajoli che fa da tormentone a c’eravamo tanto amati di Ettore Scola (la trovate su Youtube). Il film me lo sono rivisto e mi ha dato la forza per terminare il pezzo della autobiografia più difficile da scrivere (insieme a quello sulla storia di mio padre), quello del c’eravamo tanto amati.

Chi siamo stati:  Gianni, Antonio o Nicola? Il marpione, il proletario dalla fede indistruttibile o l’intellettuale sognatore, o forse tutti e tre insieme? Sentiamo cosa dicono:


– Gianni: Certo che la nostra generazione ha fatto proprio schifo.
– Nicola: Piuttosto che inseguire un’improbabile felicità è meglio preparare qualche piacevole ricordo per il futuro.
– Antonio: Quando si rischia la vita con qualcuno ci rimani sempre attaccato come se il pericolo non fosse passato mai.
– Nicola: Credevamo di cambiare il mondo invece il mondo ha cambiato a noi.
– Antonio: 306 seggi [della DC], e chi se lo poteva immaginare?
Gianni: Ti devo dire una cosa.
– Antonio: E che me vòi di’, lo so! Abbiamo sottovalutato un sacco di fattori che hanno concorso a mettercelo nel chiccherone: i soldi americani, la paura di Stalin, i preti, le monache, le madonne piangenti, la paura dell’inferno…
Gianni: Io e Luciana ci vogliamo bene. È questo che ti volevo dire.
– Antonio: Ci vogliamo bene… in… che senso?
Gianni: Ci amiamo

le cose positive che abbiamo fatto o che abbiamo contribuito a fare

Il giudizio positivo che dò su quel periodo non riguarda la sola Avanguardia Operaia, ma tutti i movimenti e le organizzazioni che, dal 68 al 75, riuscirono a determinare innovazioni e trasformazioni sul piano del costume, un riassestamento dei rapporti sociali a favore dei meno agiati, mutamenti nella legislazione e nelle istituzioni, cambiamenti nella Chiesa Cattolica e un generale spostamento a sinistra nel paese. Pensate a Pio XII e confrontatelo con Papa Francesco per farvi un’idea di come è cambiato il mondo.

Penso alla fine dell’autoritarismo che governava le piccole e grandi istituzioni (dalla famiglia all’esercito), al contratto dei metalmeccanici del 69 cui seguirono, in rapida successione, quelli delle altre categorie, alla affermazione dei diritti nelle fabbriche e nelle scuole, alle trasformazioni nella magistratura, alla abolizione dei manicomi, alla trasformazione delle carceri, alla democratizzazione nell’esercito e nei corpi di polizia, alla crisi del sindacalismo autonomo a favore di quello confederale, alla forte spinta verso l’unità sindacale, alla tutela della donna.  Tutte queste trasformazioni sono state opera nostra anche se, ovviamente, non solo nostra. E dunque le affermo con l’orgoglio se non del protagonosta, almeno del comprimario.

Tutto è iniziato da un processo generale e generazionale che ha riguardato l’intero mondo occidentale e i paesi dell’est; poi c’è stata una particolarità italiana dentro la quale abbiamo operato noi che, dopo il 68, facemmo la scelta di andare nei gruppi.

I senzaMao e la lotta rivoluzionaria per le riforme

Il libro che Silverio Corvisieri ha scritto sul finire del 1976 quando ha lasciato Avanguardia Operaia da sinistra per poi approdare, come molti di noi, al PCI – io almeno me ne sono andato dalla parte giusta che era quella della difesa delle istituzioni democratiche

Ho provato a rileggere alcuni dei documenti di allora e mi riesce difficile farlo perché rimango sùbito colpito sfavorevolmente dalla astrattezza di certe problematiche, del volersi ad ogni costo ritagliare un ruolo che in realtà non avevamo.

Ho riletto con attenzione I senzaMao del mio direttore al Quotidiano dei Lavoratori, Silverio Corvisieri, soffermandomi in particolare sul suo intervento al IV congresso di Avanguardia Operaia, quello della trasformazione di AO in un partito, anche se allora era vietato chiamarlo così.

Silverio ha il pregio della brillantezza giornalistica anche quando tratta di cose pesanti come le disquisizioni intorno al centralismo democratico, al rapporto tra il partito e le masse, alla definizione di proletariato nel contesto dell’Italia degli anni 70. Ma non mi ci ritrovo per niente sul piano razionale; allora non mi ci ritrovavo senza capire bene il perché; avevo l’impressione che ci fossero delle forzature.

Il titolo, I senzaMao, deriva dal fatto che in quell’anno (il 1976) dopo la botta delle elezioni politiche (a giugno) ci fu la morte di Mao (a settembre) ad accrescere il disorientamento. Il vento dell’est aveva smesso di soffiare e noi, presto, saremmo stati in balia di quei matti della autonomia e dei terroristi conseguenti.

Per converso Silverio mi ha fatto tornare alla mente il tema della lotta rivoluzionaria per le riforme, una definizione di comodo che avevamo inventato per spiegare che eravamo per la rivoluzione socialista ma che, nel contesto dato, non era pensabile ragionare in termini di insurrezione.

Avevamo il doppio problema di smarcarci dagli spontaneisti del tutto e subito e, contemporaneamente, dire che non ci piacevano, perché troppo istituzionali e codiste, le posizioni di quelli del giro del Manifesto-PDUP, i togliattiani di sinistra impegnati nel tentare di spostare a sinistra il partito comunista.

Mi pare emblematico che si tratti di una questione che non interessa più a nessuno, a differenza dell’ottenimento di risultati di trasformazione degli assetti istituzionali. Anche io rimasi affascinato dalla idea di fare la rivoluzione attraverso le riforme leggendo nell’estate del 68 un libro di Andreè Gorz, il socialismo difficile. Gorz era il vicedirettore di Les Temps Modernes, la rivista di Sartre. Ne ho parlato nel capitolo dedicato al 68 e ci ritorno sopra volentieri.

Quella di Gorz era la corrente dei riformisti rivoluzionari. I riformisti rivoluzionari rifiutavano l’esperienza del socialismo reale e vedevano in un movimento di massa in grado di imporre riforme strutturali il nuovo modo di arrivare al socialismo nei paesi dell’Occidente. In Italia, il maggiore esponente di questa linea di pensiero era Bruno Trentin (insieme a Lelio Basso) e si trattava di una delle tante correnti di pensiero di matrice luxembourghiana che giravano per l’Europa.

Quel libro lo discussi passo dopo passo con Oskian e Claudia Sorlini che ne criticavano la insufficienza in nome del leninismo e, alla fine di quelle discussioni, decisi di entrare in AO: vi trovai belle persone, alcune con una storia antica dentro il PCI, altre emergenti come Oskian o Randazzo, tutte decise a rifondare il comunismo passando da Lenin ma senza fare sconti all’URSS.

la crisi nel gruppo dirigente

La seconda fase del mio impegno in AO, a partire dal 73, con una serie progressiva di promozioni e crescenti assunzioni di responsabilità fu caratterizzato da due elementi:

  • bisognava crescere e rafforzarci perché, se i tempi della rivoluzione non dipendevano da noi, dipendeva da noi il fatto di arrivarci avendo risolto il problema della guida del processo rivoluzionario. Far emergere il partito attraverso un processo di scomposizioni e ricomposizioni nel quale AO, pur non essendo l’embrione di tale partito, doveva giocare un ruolo principale
  • stavamo trasformandoci da gruppo semilocale, a Organizzazione Nazionale, a un simil-partito e ciò comportava un rafforzamento dell’impegno, il non farsi troppe domande, stringere i denti e puntare ad allargarci; accettare di essere inviati in giro per l’Italia a gettare il seme, cedere i propri beni materiali alla organizzazione, rinunciare alla professione post laurea nel caso dei quadri del movimento di scienze.

E’ questa la ragione per la quale, comportandomi come uno stronzo, lasciai passare senza muovere un dito un episodio come la radiazione/espulsione di Maurizio Bertasi, Flavio Crippa e Pietro Spotti (rei di lesa maestà per aver osato mettere in discussione le decisioni del segretario politico e della supersegretria che lo contornava). Alla stessa stregua considerai accettabile la non spiegazione circa l’auto-allontanamento dal giornale di Silverio Corvisieri. Il fondatore del giornale se ne andava, non salutava nemmeno la redazione; c’era qualche problema ma non era il caso di parlarne: passo fermo e sguardo in avanti verso il sol dell’avvenire.

Dopo la pubblicazione della prima versione di questa autobiografia ho ricevuto numerose testimonianze relative al Comitato Centrale della espulsione-radiazione cui non partecipai perchè c’era da confezonare il Quotidiano. Non fui presente al Comitato Centrale ma lo fui alla riunione precedente della segretria estesa ai membri del C.C. milanesi. Ho letto il verbale che ne fece Umberto Tartari. I tre che espongono i loro dati; Oskian e Vinci che li contestano e noi tutti zitti.

Molti compagni che presenziarono al successivo Comitato Centrale descrivono un clima pesante, il non trovarsi d’accordo ma avere paura di parlare, per finire con le richieste di autocritica a quei pochi che osarono dire qualcosa.

Non c’era tempo, bisognava fare e così si finiva per non fare domande e nemmeno farsele. Per esempio dalla lettura dei senzaMao vedo che nella decisione di Silverio di lasciare il giornale e tornare a Roma c’erano sia elementi di logoramento personale, sia l’emergere di preoccupazioni politiche per il processo che ci stava facendo avvicinare al PDUP e allontanare da Lotta Continua. Probabilmente il pezzo su Gioia di Vivere e Lotta di Classe fu il suo modo di lanciare un sasso.

Apparentemente tutto filava liscio ma il fuoco covava sotto la cenere e un pomeriggio, in una riunione di segreteria nazionale, Luigi Vinci richiese a freddo le dimissioni del segretario nazionale Aurelio Campi accusandolo di gestione padronale del partito. Non ricordo se fosse la fine del 75 o l’inizio del 76 ma il fatto è di poco successivo all’allontanamento di Silverio dal Quotidiano. Era l’inizio di una storia durata all’incirca un anno in cui i due principali contendenti alternarono bordate, punture di spillo e giravolte strumentali.

Ho vissuto l’attacco ad Oskian come una autentica pugnalata tirata a freddo. In realtà c’era parecchio malessere nei confronti di Oskian per il suo decisionismo che molto spesso si trasformava in autoritarismo e a ciò si sommava il timore che stesse progettando una fusione-confluenza con la componente comunista (non psiuppina) del Pdup.

Mi sono poi reso conto, dalle successive dinamiche in Ufficio Politico, che si trattava di un atto preparato con cura da Luigi Vinci (che controllava l’apparato e l’organizzazione), in accordo con molti segretari regionali. Così Avanguardia Operaia, in un momento in cui sarebbe servito il massimo di iniziativa politica e di unità interna, sia prima, sia dopo le elezioni del 76, fu invece vittima di una crisi al vertice tenuta lungamente segreta, ma che non le fece certamente bene.

In quei mesi mi resi conto frequentando i gruppi dirigenti di AO e del PDUP di quanto pesassero le miserie personali nel determinare le scelte politiche e quello fu il primo disvelamento del fatto che non basta credere nel comunismo e appellarsi ad esso per essere all’altezza del compito.

Con il IV congresso dell’ottobre 74 Avanguardia Operaia fece uno sforzo per guardare lontano, stare dentro i movimenti sociali ma, contemporaneamente, cercare di costruire una analisi della società italiana che facesse i conti con le caratteristiche dei due blocchi sociali che riscuotevano il consenso della gran massa degli italiani: il blocco intorno alla DC e quello intorno al Partito Comunista.

Ma una parte del gruppo dirigente storico guardò a quel tentativo con sospetto, come una forma di liquidazionismo. Se devo fare un paragone un po’ forte, ma che aiuta a capire, nel momento in cui avevamo bisogno di Gramsci AO si rifugiò nelle braccia di Bordiga travestito da Lenin.

Il Comitato Centrale, con oltre 100 compagni, tutti con una storia di militanza importante, tutti dotati di esperienza politica, faticava a capire, anche perchè le divergenze reali non venivano palesate, se ne discuteva nei corridoi, in parte in Ufficio politico, ma mai in maniera esplicita. Vinci e Campi un giorno si davano ragione, ma appena temevano che dietro l’unità ci fosse lo zampino del diavolo, rovesciavano il tavolo.

Fu così, nella incapacità di capire cosa era era successo con il risultato delle elezioni di giugno (straordinario balzo in avanti del PCI, tenuta della DC, misero risultato della sinistra rivoluzionaria) che si produsse lo sgretolamento, dapprima lento e poi clamoroso delle tre organizzazioni principali della sinistra rivoluzionaria; AO, LC e il PDUP seguite subito dopo dal MLS.

Nessuna di esse era riuscita ad essere una alternativa a quei blocchi di consenso politico ed ora crollavano stritolate da un lato dal PCI e dall’altro lato dai movimenti della autonomia e dal terrorismo.

la mia reazione

Disgustato da come si svolse la discussione intrecciata tra il risultato deludente delle elezioni politiche e la prospettiva di unire o meno Avanguardia Operaia e il Pdup, decisi di andarmene e nei primi giorni di luglio 76 preparai anche un poderoso documento politico di dimissioni dalla organizzazione a cui avevo dato tanto.

La manchette che apriva il lungo articolo in tre puntate in cui decisi che era ora di finirla con le chiacchiere da convento di clausura

Da qualche mese avevo iniziato a studiare le parti di teoria politica dei Quaderni dal carcere di Gramsci (in particolare le Note sul Macchiavelli) e mi rendevo conto che c’era un vuoto da colmare tra le intuizioni di Gramsci sulla democrazia, sul socialismo, sulla politica, sul blocco storico, sul ruolo della chiesa cattolica, sulla lotta culturale per la egemonia e il nostro appello al leninismo.

Il leninismo si era inverato in una realtà profondamente diversa da quella italiana e per di più, o forse per quello, aveva avuto una deriva fallimentare in cui il giacobinismo della prima ora si era ben presto trasfornato in autoritarismo e poi in una forma di totalitarismo burocratico in grado di garantire solo la propria sopravvivenza (com qualche milione di vittime).

Nel mese di luglio (mentre ero in ferie dal giornale) mi incontrai con Oskian e Claudia Sorlini per informarli della mia decisione di andarmene da una organizzazione che non aveva il coraggio di discutere a viso aperto. Oskian, che in quel momento non era più segretario politico, ma coordinatore di una segreteria collegiale che aveva il compito di preparare le tesi per il V congresso, mi convinse a rimanere promettendomi che si sarebbe aperta la battaglia politica e non quella personale.

Misi da parte il documento di dimissioni (che è rimasto chissa dove in una agenda e si è perso con lei) e nei primi giorni di agosto pubblicai in tre puntate, sul quotidiano, un lungo articolo dedicato alle prospettive che ci stavano di fronte e a quella che secondo me poteva essere la strada per uscirne. Lo trovate qui “perché ho votato contro al Comitato Centrale“.

Di questioni politiche ce ne sono dentro molte e ciò che mi ha colpito è l’insistenza sulla necessità di una riflessione teorico politica di grande respiro, insieme a problematiche di tipo minore che, con gli occhi di oggi, mi fanno sorridere.

A settembre, al rientro dalle ferie dei dirigenti, mi aspettavo una discussione politica (e come si vede dalla D di dibattito nella manchette, pensavo di farlo sul giornale); invece fui processato in Ufficio Politico per aver infranto il Centralismo Democratico e mi venne messo al fianco, in funzione di controllo, Vittorio Borelli, trasferito da Verona e del tutto digiuno di giornalismo.

In redazione non la prendemmo bene, anche perché, come si vede dalla lettura del testo, si trattava di un contributo politico del tutto legittimo nell’ambito della discussione su come arrivare al V congresso di AO.

Le congiure di palazzo e le manovre di corridoio continuavano da entrambe le parti. Non me la sentii di continuare con l’ottimismo della volontà e ai prmi di ottobre decisi che era meglio andarmene e tornare al lavoro minuto, ma importante, di docente. Rimisi il naso in redazione una volta sola quando ci fu lo scontro a fuoco (di cui ho parlato nel pezzo dedicato agli anni del QdL) in cui morirono Walter Alasia e due funzionari di polizia.

un cambiamento profondo

L’esplosione del terrorismo e la violenza dei movimenti della autonomia mi convinsero della necessità di seguire altre strade e lavorare più in profondità. Non abbandonai la passione politica, ma abbandonai l’idea della politica al primo posto, quella del rivoluzionario di professione che sarebbe meglio chiamare uomo ad una dimensione.

Non fu una decisione immediata, ma progressiva. Ricordo che, nei primi mesi del 77, alla assemblea in cui la destra di AO decise di andarsene e aderire al PDUP partecipai, ma mi sentivo ormai un osservatore esterno e non un protagonista. Non ricordo nulla dell’incontro residenziale che si tenne a Rocca di Papa; alcuni amici che proseguirono in quel percorso mi dicono che feci un intervento importante ma non mi è rimasto nemmeno il ricordo. Mi ritrovavo con tante persone a cui volevo bene ma che stavano per intraprendere un ennesimo tentativo volontaristico.

La parabola di AO si era visibilmente chiusa anche se la maggioranza ottenne risultati tra il 70 e l’80%; altri tentarono di fare DP e in quel periodo mi resi conto della drammaticità della situazione.

Il terrorismo cresceva, faceva le rapine, gli autonomi erano alla ricerca dello scontro per lo scontro, la popolarità delle BR nel brodo di coltura della autonomia operaia cresceva, iniziavano gli omicidi e i miei ex compagni continuavano a fare i distinguo come nello slogan infelice nè con lo stato nè con le BR, come se lo stato democratico, le BR e prima Linea, si potessero mettere sullo stesso piano.

Tutti quei tentativi, per quanto generosi, che avevano caratterizzato la mia vita nella prima metà degli anni 70, per quanto animati da persone appassionate, sul piano della soggettività, finirono nel nulla. Non fu così, come ho detto all’inizio, per le trasformazioni che si determinarono nella società e negli assetti istituzionali. L’Italia era cambiata in meglio e noi avevamo fatto la nostra parte.

In questi anni, molti di quei compagni che hanno fatto parte di quel gruppo dirigente sono venuti a mancare e li voglio ricordare, al di là dei dissensi e della diversità di percorso: Marco Pezzi di Faenza, il primo a morire; Attilio Mangano, Umberto Tartari, Severino Cesari, Franco Calamida, Vittorio Rieser, Massimo Gorla, Pietro Spotti, per restare a quelli che conoscevo direttamente.


La pagina con l’indice della mia autobiografia da cui potete scegliere i capitoli da leggere


I commenti dei compagni di allora sono benvenuti e, perché ne rimanga traccia, vi prego di metterli sotto l’articolo e non sulla grande cloaca di Facebook. Già, per effetto delle precedenti edizioni, ce ne sono un certo numero.

Questo è il breve commento con cui ho accompagnato il link su FB

C’eravamo tanto amati … e poi il “giocattolo” si è rotto, il mondo è cambiato e ciascuno di noi ha fatto le sue scelte.
Verso quelle persone con cui ad un certo punto si determinò una rottura conservo un grande senso di simpatia e negli anni tutte le spigolosità sono sparite e voglio bene a tutti loro. Qualcuno con orgoglio dice “volevamo cambiare il mondo, non ci siamo riusciti, ma il mondo non ha cambiato noi”. Detta così non la condivido perchè vivere vuol dire essere disposti a cambiare e ad accettare il cambiamento. La nostra vita, la vita di tutti è bella perché è caratterizzata dal mutamento.



Bea ricorda la mamma Giulietta

Beatrice Bazoli è la figlia più grande di Giulietta Banzi, quella dei tre figli che ha i ricordi maggiori, perché era grandina (8 anni) e con la mamma andava alle mostre e/o alle manifestazioni e poi raccontava sul quaderno dei pensierini.

Pochi giorni dopo il 25 aprile del ’74 scriveva: con la mamma sono andata alla manifestazione del 1° maggio e la mamma mi ha preso un gelato.

Questo è il suo intervento alla manifestazione di Brescia per i 50 anni dalla strage di piazza della Loggia; l’ho ripreso da una immagine di un foglio spieghettato e così l’ho dovuta ribattere e mi hanno preso la commozione e un grande rispetto per questa famiglia di maestri di legalità e stile di vita. Volevamo cambiare il mondo …


ciao Mamma

Brescia – la lapide della strage – la colonna sbrecciata, il manifesto e la stele con i nomi

In questi anni, in questa piazza sono stati fatti tantissimi discorsi. Rivolti a tutti, per ricordare la strage che la ha insanguinata e le sue vittime. Pieni di parole nobili e importanti, come memoria, tolleranza, democrazia, libertà, rispetto, legalità.

Chiedo scusa a tutti, io oggi farò un discorso molto personale ed intimo. Quasi rivolto a me stessa, la bambina che ero, la ragazza che sono stata, la donna che sono oggi. Partendo da due parole modeste: Ciao, mamma. Da 50 anni non dico più queste due semplici parole, non saluto più la mia mamma, come ogni bambino vuole fare.

Dire ciao mamma davanti a una foto, od ad una lapide, non è la stessa cosa. Nessuno, nessuno potrà più toccarmi, abbracciarmi, rispondermi.

Ciao mamma sono due parole semplici, quasi banali. 50 anni fa ho dovuto smettere di pronunciarle e mi sono rimaste in gola fino ad oggi.

Ho passato gli ultimi 50 anni consapevole di avere qualcosa di bloccato. Queste parole sono così semplici e cariche di significato, di amore, di dolore che mi hanno impedito di respirare, di sentirmi pienamente viva, intera. E hanno bloccato anche tutto il resto di me, come se fossi cresciuta con un’ ala spezzata.

Non desidero parlare di morte ma di vita. Di dolore e di insegnamento. Non è un caso se tutti i parenti di vittime del terrorismo che ho conosciuto non cercano vendetta ma giustizia. Tutti noi abbiamo conosciuto la cattiveria, la bassezza e la malvagità degli uomini. Ma non siamo diventati cattivi. Forse perché il nostro dolore è condiviso da tante persone.

Fare memoria insieme aiuta, non sentirsi soli nella sofferenza aiuta. O forse perché aver conosciuto la cattiveria in maniera così viscerale ce la rende insopportabile. Non reaagire secondo brutalità violenza, Ma secondo la civiltà, la legge.

In questa piazza la mia mamma ha versato il suo sangue. Tra il fumo, le urla, ha provato le sue ultime emozioni.

Avrà avuto un dolore? Sicuramente, tantissimo. Non sapremo mai se abbia avuto una consapevolezza che stava morendo. Avrà anche avuto pensieri di incredulità, cosa è successo o cosa mi è successo? Cosa mi succederà, perché a me? Era una persona. Non un semplice nome su una stele.

Una insegnante di 36 anni, sposata da quasi 10, con tre figli di 8, 5 e 4 anni. Ha lasciato una famiglia distrutta con le ali spezzate aveva due fratelli, altri parenti, amici e amiche carissime.

Aveva perso da poco la sua mamma, morta in casa nostra di tumore Dopo un lungo periodo di dolore.

Tante persone in questi 50 anni, mi hanno raccontato quanto fosse speciale. Spiritosa, con gli occhi luminosi, attenta. Io ricordo una mamma affettuosa e svagata che mi regalava libri e sbagliava gli appuntamenti dal dentista. Che sapeva essere severa, che lavorava nella casa nello studio di casa e mi aiutava a fare i compiti, che mi aspettava sul divano quando tornavo da scuola, e fischiettava e faceva buffi disegnini.

Altri avranno ricordato altri aspetti del suo carattere. Non tutti la apprezzavano, ovviamente. Ma ha lasciato un segno, anche in chi l’ha conosciuta brevemente. Tra le lettere di condoglianze ricevute da papà nei drammatici di un giorni dopo la morte di mamma, numerosissime testimonianze di vicinanza, affetto, dolore. Altre, al contrario partivano con parole di cordoglio continuavano con se fosse stata a casa non sarebbe successo, una mamma deve stare coi suoi bambini ed altri luoghi comuni.

Papà ha avuto il coraggio di conservarle tutte, le une con le altre punte: Io non so se sarei stata così generosa; temo avrei strappato quelle che con la scusa di manifestare dolore in realtà danno giudizi perentori e categorici. In sostanza sfondati dal superfluo, un se l’è cercata. Come per le donne stuprate, che è sempre comunque colpa loro.

La mamma non cercava né morte né martirio. Voleva vivere intensamente. Aveva un marito tre figli per cui vivere, un lavoro che la appassionava, idee in cui credeva profondamente. Una persona con le sue contraddizioni, i suoi sogni, speranze, come tutti noi.

Recarsi in una piazza per manifestare pacificamente, legalmente, non è cercarsela. Una manifestazione occorre ricordarlo sempre, contro la violenza. Lo si può leggere chiaramente in quella copia del manifesto apposta per sempre accanto alla stele. Dopo la mamma seguono altri sette nomi. Alcuni li ho conosciuti personalmente, li ricordo con affetto altri non li ricordo, ma ricordi i loro cari, che mi salutavano, abbracciavano ogni anno in questa giornata dedicata alla memoria.

Questa piazza è stata bagnata dal sangue di Giulietta, mia mamma, di Livia, Alberto, Clementina, Euplo, Luigi, Bartolomeo, Vittorio. E delle centinaia di feriti sopravvissuti ma segnati per sempre. Il sangue è stato lavato via con gli idranti, ma gli idranti non possono cancellare il ricordo del sangue, la sua memoria, la sua persistenza. Ancora oggi non lo vediamo, ma c’è. Ci sarà per sempre e non potrà mai essere cancellata finché ricordiamo.

Ricordiamo queste persone che erano vive fino alle 10:12 del 28 maggio 1974. Che ridevano, amavano, provavano sentimenti ed emozioni. Stringiamo in un abbraccio forte,  ed affettuoso tutte le persone che si sono trovate come un’ ala spezzata dalla loro morte. Qui la mia mamma 50 anni fa ha provato le sue ultime emozioni sono certa che il suo ultimo pensiero sia stato per me, per i miei fratelli Guido ed Alfredo, per il nostro papà Luigi. Ci amava e non voleva lasciarci. Questo è anche il luogo dove ha riso, ha respirato per l’ultima volta. Dove è stata viva.

Qui, oggi, ora, posso dire ciao mamma. Sciolgo quel groppo bloccato in gola. Qui era viva 50 anni fa e ora mi ascolta.




Brescia 50 anni dalla strage

Era il 28 maggio del 74, un martedì, tarda mattinata, Filippo Castrezzati era a metà del suo comizio, quando di sentì un suono secco e poi le grida.

Pioveva e sotto i portici di piazza della Loggia, proprio dove si era rifugiato il gruppo di attivisti della CGIL Scuola esplose una bomba collocata in uno di quei cestini metallici della spazzatura che si trovano ovunque nelle nostre città.

Morirono sùbito in 6 dilaniati dalla bomba, altri due erano gravissimi e morirono nei giorni successivi. I feriti, colpiti dalle schegge furono oltre un centinaio.

Piazza della Loggia un attimo prima dello scoppio della bomba

le vittime

  • Giulietta Banzi Bazoli, 34 anni, insegnante di francese.
  • Livia Bottardi in Milani, 32 anni, insegnante di lettere alle medie.
  • Alberto Trebeschi, 37 anni, insegnante di fisica.
  • Clementina Calzari Trebeschi, 31 anni, insegnante.
  • Euplo Natali, 69 anni, pensionato, ex partigiano.
  • Luigi Pinto, 25 anni, insegnante.
  • Bartolomeo Talenti, 56 anni, operaio.
  • Vittorio Zambarda, 60 anni, operaio.

Tra gli 8 morti si contano 5 professori, attivisti della CGIL Scuola, due di essi Giulietta Banzi e Luigi Pinto sono anche militanti di Avanguardia Operaia.

l’attentato

Potete ascoltare qui il documento sonoro del comizio con lo scoppio intorno al minuto 9 della registrazione.

Si era concluso da poco il referendum sul divorzio voluto da Fanfani e Almirante con la grande vittoria del no alla abrogazione e la provincia di Brescia, da alcuni mesi era stata teatro di iniziative fasciste di vario genere; la manifestazione, con sciopero generale era stata convocata pensando ad una protesta che facesse da argine.

Invece ci fu l’attentato seguito poi dalla rivendicazione da parte di organizzazioni fasciste nate per filiazione dopo lo scioglimento di Ordine Nuovo

Brescia Oggi il quotidiano progressista di Brescia uscì con una edizione straordinaria nel pomeriggio stesso della strage

Sono stati giorni tristi e frenetici; ero il segretario regionale lombardo di AO e con la mia Aermacchi 350 mi recai a Brescia tutti i pomeriggi sino al giorno dei funerali, venerdì 31, per stare vicino ai compagni che fino al giorno prima avevano lavorato fianco a fianco di Giulietta e Luigi.

il numero del settimanale di AO con la notizia

Luigi era ancora vivo, sarebbe spirato il 1 giugno per gli effetti del gravissimo trauma spinale che aveva subìto. Nel preparare questo articolo ho trovato anche la testimonianza del medico che lo accolse in ospedale, era cosciente e voleva sapere del suo stato.

Da Milano organizzammo un treno speciale in occasione dei funerali. Erano altri tempi; i funerali  furono grandiosi con una partecipazione popolare tra le 500 e le 600 mila persone (4 volte la popolazione di Brescia). Peccammo certamente di estremismo (compagna Giulietta sarai vendicata) e in assenza dei fascisti cercammo di prendercela con le istituzioni dello stato, in primis con la DC mettendo sullo stesso piano il Presidente Leone o Rumor e la DC bresciana notoriamente di sinistra, popolare e antifascista. Se ne trova traccia nei documenti e nelle tesi di laurea. La gente sapeva di Giulietta, della sua militanza, e quando entrammo in piazza con lo striscione di AO fummo accolti da una marea di applausi.

che persone erano?

comunicazione CGIL

La CGIL di Brescia comunica al nazionale la morte degli iscritti

I 5 docenti morti erano, ciascuno con le sue peculiarità, persone eccezionali impegnate nella costruzione del sindacato scuola CGIL, nato da pochissimi anni e ciascuno di loro si portava dietro storie di impegno politico-culturale, di famiglia, di alpinismo, di emigrazione.

In questi anni un po’ di istituzioni locali si sono preoccupate del ricordo, esiste un sito con diverso materiale documentario, sono state fatte delle tesi di laurea su alcuni di questi protagonisti e, nelle loro scuole e/o città di provenienza sono ricordati con delle lapidi.

Giulietta Banzi

Giulietta Banzi insegnava francese al liceo Arnaldi, aveva tre figli piccoli che ricordano lo sballottolamento per le riunioni e le manifestazioni. Il figlio mschio, Afredo, che allora aveva 5 anni, è senatore del Partito Democratico.

Giulietta Banzi con i tre figli e sotto il diario impagabile di Beatrice, la figlia maggiore per la manifestazione del XXV aprile

Era sposata con un avvocato democristiano di sinistra che, ai tempi della strage, era assessore all’Urbanistica al comune di Brescia. Aveva iniziato il suo spostamento a sinistra nella seconda metà degli anni 60 aderendo ad un circolo culturale in cui si approfondiva, lavorando sui testi, il pensiero di Marx e di Lenin; da qualche mese entrata in contatto con il Comitato di Agitazione degli insegnanti (creatura milanese messa in piedi da Maria Teresa Torre Rossi e Claudio Annarratone) aveva aderito ad Avanguardia Operaia.

Tra i ricordi di lei mi è piaciuto quello di una ex studentessa: ci dava del lei, come forma di rispetto nei nostri confronti e ci diceva che la letteratura francese, che lei insegnava, era importante, ma che era più importante non scordarsi della Rivoluzione Francese.

Strane le vite vere, non vi pare? Le nostre analisi di allora non prevedevano queste cose, una compagna che vive una vita felice con un marito democristano, ma questo marito democristiano fece portare sulla bara di Giulietta la sua bandiera rossa creando scandalo in certi ambienti.

Qualcosa del lavoro politico di allora di Avanguardia Operaia a Brescia è rimasto con la esperienza di Brescia anticapitalista. La CGIL Scuola, che ora si chiama Federazione Lavoratori della Conoscenza (FLC), in questi anni ha fatto un meritorio lavoro per ricordare le vittime producendo un libricino biografico di ciascuno. Questo è quello dedicato a Giulietta. La tête bien faite che richiama un famoso aforisma di Montaigne a proposito di scuole ed educazione, aforisma ripreso da Egadgar Morin: meglio una testa ben fatta piuttosto che una testa ben piena.

Alberto Trebeschi

Al momento della strage sapevo poco o nulla di lui. Era un insegnante di fisica, come me appassionato degli aspetti culturali e formativi di questa disciplina. Si occupava di storia della scienza e di problematiche  di unità del sapere. E’ morto con la moglie, entrambi erano appassionati di montagna. Alberto, prima di approdare al partito comunista aveva avuto una lunga militanza nel partito radicale ed era tra gli animatole del circolo culturale Antonio Banfi frequentato da tutto il gruppo impegnato nella costruzione del sindacato scuola.

Qualche anno dopo la strage, quando avevo ripreso ad insegnare ho scoperto che gli Editori Riuniti avevano pubblicato un suo lavoro postumo, frutto del riassemblaggio di appunti e materiale didattico: Lineamenti di Storia del Pensiero Scientifico. Ne feci un largo uso nei primi tre anni di ritorno al Frisi dopo il 1977. Questa è la sua biografia Alberto. Una questione scientifica

Luigi Pinto

No alla scuola di classe, no alla selezione, corsi abilitanti occupazione

Luigi veniva dal sud, dalla provincia di Foggia, era perito industriale e nella vita, prima di approdare all’insegnamento a tempo indeterminato di Applicazioni Tecniche nella scuola media, aveva fatto un po’ di tutto, concorso per le ferrovie, lavoro al Petrolchimico di Marghera, cambi frequenti di residenza nel tentativo di costruirsi una vita come capita ai giovani volenterosi del sud.

Ma anche l’insegnamento nel bresciano non è semplice, levatacce per andare con i mezzi pubblici da Brescia a Montisola, sul lago di Iseo, traghetto incluso. Riprendo dalla biografia di FLC Luigi una storia semplice

due sembrano, tra le altre, le principali qualità dell’uomo: la generosità e il senso di responsabilità.

La prima significava,  per Luigi, disponibilità, attenzione, rispetto, cura degli altri: parenti, amici, alunni, colleghi, compagni del partito e del sindacato.

La seconda, dovere, coerenza, serietà, consapevolezza, rigore nel lavoro e nella militanza politica e sindacale. L’espletamento del dovere comportava per lui, animato da un profondo senso di giustizia sociale, la rivendicazione dei diritti dei lavoratori, il miglioramento delle loro condizioni di vita, l’innalzamento della qualità della scuola, l’allargamento delle possibilità occupazionali.

A ciò lo sollecitavano i suoi convincimenti politici, la sua simpatia per Avanguardia Operaia e il suo impegno sindacale, ma anche la sua condizione di emigrante, di proletario, di giovane meridionale, costretto, come tanti lavoratori del Sud, a cercare fortuna lontano dal luogo d’origine e dalla famiglia.

per chiudere

31 maggio 1974 – i funerali

Ogni volta che mi imbatto nelle stragi fasciste mi prende una sorta di malinconica rassegnazione tra processi che non finiscono mai, condanne da cui restano fuori una bella fetta di mandanti, una specie di storia infinita che, si spera, sia finita negli anni 80. E ti resta sempre una domanda, che non mi rimane quando mi documento sul terrorismo rosso: sappiamo tutto? Li abbiamo presi tutti? Chi ha organizzato e commesso le stragi sta pagando?

E’ questa la ragione per cui è necessario che la destra italiana non abbia paura di tirare la riga nei confronti non tanto e non solo dei fascisti stragisti ma anche di tutto quel mondo ambiguo che le circonda fatto di tolleranze  e di va beh.

 




Senza lo studio della storia …

identità e responsabilità traballano

nuvola insegnamento storia

La settimana scorsa il Ministro della Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara ha nominato una Commissione, con il compito di revisionare le “Indicazioni nazionali per il curricolo della Scuola d’infanzia e del Primo ciclo di istruzione”, un malloppo di 68 pag. in PdF, che risale al 2012.

Ha presentato la Commissione con motivazioni semplici: ridurre, a vantaggio di una migliore qualità, la quantità di nozioni, che vengono somministrate quotidianamente ai nostri ragazzi mediante l’imbuto di Norimberga.

Quale coordinatrice della Commissione ministeriale è stata nominata Loredana Perla, docente di Didattica e Pedagogia speciale all’Università di Bari e, ultimamente, coautrice insieme a Galli della Loggia di un libretto intitolato “Insegnare l’Italia. Una proposta per la scuola dell’obbligo”.

Il libro sostiene che ”se la scuola deve servire a formare buoni cittadini, per essere pedagogicamente efficace dovrebbe affrontare soprattutto quegli aspetti che agli occhi dei bambini e degli adolescenti rivestono una immediata familiarità e importanza: l’Italia, la sua storia, la sua geografia, la sua cultura. In una parola, la sua identità”.

Ora, molti pedagogisti, quando sentono questa parola, mettono mano alla pistola, solo ideologica, si intende, perché associano “identità” a razzismo, a rifiuto della diversità, a etnicismo, a intolleranza.

Leggi “identità”, ma pensi Meloni, anzi, peggio, Salvini. La storia, si dice, è innanzitutto umana, è fatta di molte culture, tutte legittime, tutte eguali. Sotto la superficie delle culture sta l’individuo universale, quale che sia il cielo sotto cui vagisce.

D’altronde le Indicazioni del 2012 parlano chiaro: “Il curricolo sarà articolato intorno ad alcuni snodi periodizzanti della vicenda umana quali: il processo di ominazione, la rivoluzione neolitica, la rivoluzione industriale e i processi di globalizzazione e di mondializzazione”.

Risultato, i nostri ragazzi sanno districarsi perfettamente tra le numerose specie di dinosauri e di ominidi, sanno leggere una tavoletta di Ebla, sanno leggere l’accadico e il sumero – assai meno in Italiano – ma ignorano chi sono i Micenei e non sanno che Milano è stata fondata dai Celti e che il nome del fiume Serio – in dialetto “Sère” – che nomina anche la Valle Seriana – è parente filologico stretto dei celtici Isère, Saar, Isar… Insomma, ignorano la storia e la civiltà del luogo dove sono nati, non conoscono la storia d’Italia.

Identità e storicità

Gli storici Francesco Remotti e Antonio Brusa hanno fatto notare la contraddizione che si creerebbe tra un curricolo di Storia identitario, imputato ai desideri di Ernesto Galli della Loggia e di Loredana Perla, e un curricolo cognitivo/scientifico, che, secondo le Indicazioni nazionali  sarebbe l’unico in grado di garantire la comprensione della società, del quale tutti i cittadini devono essere dotati: “Trasformare la storia da disciplina di studio a strumento di rappresentanza delle diverse identità rischia di comprometterne il carattere scientifico e, conseguentemente, di diminuire l’efficacia formativa del curricolo”.

Qui la discussione fa un salto quantico: dall’orbita della didattica della Storia a quella psico-socio-antropologica.  Come si costruisce l’identità di un individuo, gettato a caso nella storia del mondo? Come prende coscienza della propria “Geschichtlichkeit” (storicità)? Non astraendosi dalla storia.

Tra identità e storicità non c’è contraddizione, poiché l’identità è un’autocostruzione del Sé, fatta con i materiali costituiti dai legami, dall’appartenenza, dalle relazioni, dal territorio, dalla comunità dove si è venuti al mondo. Cioè: l’identità è fatta di storia. Tuttavia non vi si riduce.

La libertà dell’individuo trascende ogni contingenza, ogni situazione determinata, non è mai totalmente assorbita dalla sua storicità. Questa trascendenza è il motore della storia umana.

Sì, la libertà accomuna tutti gli esseri della specie, è il lato universalistico dell’identità. Non è tuttavia necessario flirtare con la dialettica hegeliana per prendere atto che identità concreta e universalità dell’umano si tengono, che la trascendenza della libertà individuale regge solo se muove dall’immanenza dell’identità, che è la radice e la pedana da cui la libertà fa il salto verso l’Oltre.

Ne consegue che un individuo può/deve avere una Patria, senza che questa entri in conflitto con le Patrie altrui sotto gli altri cieli del pianeta. E che, dunque, per tornare all’orbita pedagogico-didattica, il bambino ha bisogno di rendersi conto del proprio ambiente, del proprio territorio, della propria patria, della propria storia per muovere verso il mondo, verso il pianeta.

Sì, certo, anche per tornare indietro fino a quei dinosauri, la cui scomparsa involontaria ha favorito l’insorgenza della nostra specie. Mai asteroide fu così provvidenziale! Ma oggi il rischio antropologico che corrono i nostri ragazzi è lo sradicamento da ogni appartenenza, e quindi il non sentirsi impegnati con niente e nessuno, perciò neppure verso di sé e quindi irresponsabili verso gli altri e verso di sé, free -floating in un universo virtuale fasullo.

Perché la sinistra pedagogica e politica diffida dell’identità e della Patria? Solo perché il Fascismo e il Nazismo ne hanno fatto un uso tragico e catastrofico? Forse perché è ancora condizionata dall’internazionalismo del Movimento operaio – proletarizzazione dell’Illuminismo settecentesco – che oggi si è trasformato in internazionalismo dei diritti e, per eterogenesi dei fini, in individualismo assoluto, sul quale si sta edificando una torre di Babele di diritti che si innalza verso il cielo, finché non rovinerà addosso a tutti noi, in una conflagrazione di conflitti individuali, sociali e nazionali.

Serve una Commissione di indagine sull’insegnamento della Storia

Che dire della Commissione ministeriale? Il palazzo di Viale Trastevere nasconde nei suoi sotterranei la necropoli di molte Commissioni.  Se la Commissione appena istituita non volesse fare la stessa fine, dovrebbe funzionare come “Commissione di indagine sull’insegnamento della Storia nella Scuola italiana”.

Dovrebbe fare carotaggi in profondità nel sistema, andare ad ascoltare i Collegi dei docenti, i Consigli di classe, al Nord, al Centro, al Sud, dei vari ordini di scuole e dei vari indirizzi. Servirebbero, pertanto, mezzi di indagine scientifici, quantitativi e non solo chiacchiere qualitative, e pertanto studiosi e ricercatori di sociologia dell’istruzione piuttosto che pedagogisti e ideologi.

E nel mirino di questa inchiesta dovrebbero entrare anche le Case editrici, che scrivono nei loro libri di testo le reali Indicazioni nazionali, cioè i Programmi, assai più delle Commissioni ministeriali, assai più dei Ministri e assai più dei docenti.

Le Indicazioni, gli orientamenti ministeriali, i progetti di riforma passano attraverso tre spessi filtri: la burocrazia ministeriale centrale, regionale e provinciale, gli ottocentomila docenti, le decine di Case editrici. Nessun Ministro finora è mai andato a vedere quale rigagnolo arrivi dell’acqua versata dall’alto.

Eppure, prima di abbozzare riforme globali o riforme puntiformi, riguardino esse i contenuti dei saperi, gli ordinamenti o gli assetti di governance, sarebbe opportuna una conoscenza scientifica del sistema di istruzione. Sennò una Commissione a cosa serve?




dal ’68 al 2024

il 68 del 2024

L’occupazione di circa duecento campus americani – tra cui Berkeley, Harvard, Ucla –  del Trinity College di Dublino, di università in Francia – Sorbona e Sciences PO –  in Kuwait,  in Giordania, in India, in Giappone e i movimenti e le contestazioni alla Sapienza di Roma, alla Statale di Milano e di Torino, all’Alma Mater di Bologna annunciano un nuovo ‘68? Le analogie con quello di cinquant’anni fa non mancano.

Il motore di quello era a due cilindri: uno, la rivendicazione di spazi generazionali di libertà e di consumi dentro la società opulenta; due, la rivolta morale contro le ingiustizie del mondo. Alle spalle l’utopia di una nuova Storia, di “cieli nuovi e terra nuova”. Davanti pareva dispiegarsi un futuro di liberazione universale. “L’umanesimo plenario”, annunciato dalla Populorum Progressio, si poteva toccare solo allungando una mano verso l’orizzonte.

Quali le differenze rispetto all’oggi? Il firmamento che incombe su questo “ ’68 del 2024” è illuminato dalle stesse stelle, ma è luce di stelle morte. L’Età dello Spirito, prevista da Gioachino da Fiore, non è arrivata.

Le società umane, tutte, continuano ad essere colme di ingiustizie, di diseguaglianze, di esclusione, di violenza, di guerre. La violenza non è stata espunta dai comportamenti della specie. Insomma: c’è il Bene e c’è il Male, da sempre. La globalizzazione fa i conti con i propri successi e le proprie contraddizioni.

Otto miliardi di persone continuano ad essere divisi per nazioni, religioni, culture, stati e classi sociali. Per quanto riguarda l’Occidente bianco, la sua egemonia storica è messa in discussione da nuovi competitori globali in ascesa. La guerra preme alle porte dell’Europa da Est e da Sud-Est. L’Africa mediterranea è in ebollizione, quella centrale in rivolta.

Questo mondo complicato, conflittuale, pericoloso viene traguardato attraverso il prisma a tre facce dell’ideologia woke/cancel culture/politically correct. È maledettamente semplice e deformante.  La Storia diventa uno zaino troppo pesante da portare in spalla, meglio disfarsene.

Se l’imperativo categorico morale ci impone di abolire il Male, allora distruggiamo il passato storico, che è il Male, e perciò facciamo tabula rasa dell’Occidente capitalista, colonialista, sfruttatore, dominatore e manipolatore.

Negli anni ’60 era il marxismo la teoria-guida della liberazione, oggi sta diventando l’islamismo. Così lo aveva proposto Komeini a Gorbaciov in una famosa Lettera del 1989. Pare stia accadendo. E così nascono strani puzzle: islamo-marxismo, islamo-fascismo, rosso-brunismo, e, amarum in fundo, ondate di antisemitismo.

Conclusione: come osserva Gilles Keppel, lo studioso francese dell’Islam e del Medioriente, “una parte dell’Occidente si è schierata con i carnefici”, cioè con Hamas contro Israele; proclama nelle Università slogan tipo “Dal fiume al mare”, senza sapere dove si trovano l’uno e l’altro, non muove dito o piazza a difesa delle donne e dei ragazzi iraniani, torturati e impiccati in Iran, chiede di arrendersi a Putin, nel nome della pace.

Gli studenti occupano università prestigiose al grido di “Palestina libera”, confondendo i Palestinesi con Hamas, cancellano il pogrom del 7 di ottobre, dimenticano di chiedere la liberazione degli ostaggi, ignorano che Hamas non vuole uno Stato palestinese, a fianco di Israele,  vuole la sua distruzione. Quali le cause di questa deriva?

La caduta del sapere

La prima l’ha individuata Gilles Keppel, interrogandosi sulla plateale capitolazione di Sciences PO all’ideologia woke: “L’istituzione ha rinunciato al primato del sapere in nome della democratizzazione e dell’internazionalizzazione”.

Le istituzioni accademiche europee e americane, in particolare quelle a indirizzo umanistico, hanno fatto a pezzi le discipline, hanno frammentato gli insegnamenti di storia e di sociologia, sostituiti da corsi sull’anticolonialismo, sulla tratta transatlantica degli schiavi, su sesso e gender, su antirazzismo, su climatologia…  e, si intende, hanno abbassato l’asta delle verifiche. È questa una tendenza generale che risale al ’68, quello vero: innalzare la quantità e abbassare la qualità.

Così, mentre i settori STEM prosperano e sviluppano un’intelligenza tecnocratica asfittica, ma remunerativa, i dipartimenti umanistici – quelli che costruiscono la coscienza pubblica – hanno smarrito la fondamentale distinzione platonica tra δόξα, πίστις, ἐπιστήμη, tra l’opinione, la credenza, la scienza.

Il sapere è diventato opinione. Le classi intellettuali-accademiche, le gerarchie/burocrazie universitarie, “i chierici” si sono chiusi in un sistema autoreferenziale e automoltiplicativo.

Il lassismo, combinato con il valore legale del titolo di studio, ha prodotto una caduta generale del sapere collettivo, coperta da una diffusione massiccia via-social di ogni luogo comune. La caduta dell’insegnamento della Storia e della Geo-storia nella formazione della coscienza delle giovani generazioni incomincia nelle prime classi, si aggrava in quelle superiori.

Quante classi dell’ultimo anno arrivano a oltrepassare il 1945? Se i ragazzi pensano che la Storia contemporanea non esista e che si riduca all’Oggi che sperimentano qui e ora, chi glielo ha fatto credere?

“La trahison morale des clercs”

Un’altra causa, è forse quella decisiva, è quella già sperimentata tragicamente negli Anni ’30 del ‘900: “la trahison des clercs”. Un tradimento morale. Paradossale: perché è proprio nel nome della morale superiore alla Storia che la classe accademico-intellettuale e giornalistica sta rinunciando in questa contingenza storica alla difesa delle libertà. Sta perdendo i fondamenti di ciò che chiamiamo “Europa, Occidente, Democrazia liberale…”.

Come spiegare diversamente la spensierata viltà di interi Senati accademici, che cedono a minoranze violente che chiedono l’interruzione dei rapporti scientifici con le Università israeliane? O il tremore del Rettore dell’Università statale di Milano, che nega un’aula per un convegno su Israele, con il pretesto, smentito dalla Questura di Milano, della mancanza di sicurezza? Come non comprendere che questa è una china, lungo la quale qualsiasi minoranza che abbia capacità, vera o presunta, di minaccia è in grado di privare ogni altra della libertà di manifestazione del proprio pensiero? Che cosa spinge a questi cedimenti? La paura di perdere gli iscritti/clienti e quindi le cattedre e quindi i finanziamenti e quindi il potere di generare cattedre fasulle a mezzo di cattedre fasulle? È questo il miserabile segreto?

Abbiamo spesso ironizzato sulla figura dell’intellettuale organico del ‘900, che pretendeva di mettere le brache al mondo. Ma che dire di questi intellettuali disorganici, chiusi nei propri specialismi (?), nelle proprie carriere, incapaci di “verità e di maestria”, maestri cattivi o assenti o silenziosi? La storia del mondo si è incamminata su una strada pericolosa, i nostri ragazzi non ne vedono le pietre d’inciampo, sono preda del lato tossico dell’utopia, per il quale si inneggia al politically correct, si impianta la polizia morale, si porta l’Intifada nelle Università, ma i “maestri” li assecondano e girano la faccia dall’altra parte per quel loro quieto vivere, che chiamano pace.

È questo il nuovo ’68 o non è piuttosto una variante di quei torbidi movimenti giovanili rosso-bruni degli Anni ’30, che hanno preparato una guerra mondiale? Si ruppero vetri, si bruciarono libri, si finì per bruciare esseri umani. 

Heinrich Heine aveva messo in guardia fin dal 1821, criticando le Burschenschaften studentesche che bruciavano il libri “antitedeschi”: “Dort wo man Bücher verbrennt, verbrennt man auch am Ende Menschen” – Là, dove si bruciano libri, alla fine si bruciano anche uomini-. La fame e sete di giustizia fondata su un’ignoranza coltivata della Storia: questo il lato d’ombra che occorre incessantemente illuminare.




1943-1945: mio padre, il suo processo

III edizione – maggio 2024

papà e mamma entrano al calzaturificio

papà e mamma scesi dalla carrozza a cavalli entrano nella sede del calzaturificio con Rosanna Malacrida e Franco Locati che fanno da paggetti

Questo processo me lo porto dietro anche anagraficamente. Sono nato l’8 ottobre del 1946; il processo, con assoluzione e scarcerazione, si è celebrato l’11 dicembre 1945 e ho ritrovato la ricevuta di saldo a pagamento dell’avvocato datata 3 gennaio 1946, a liberazione avvenuta.

I miei genitori si sono sposati a fine maggio del 44 e mio fratello Sandro è nato il 13/3/45 (dieci mesi mese dopo il matrimonio); mio padre è uscito dal campo di concentramento a fine processo e io sono arrivato dieci mesi dopo, puntuale come un orologio svizzero.

Papà è rimasto fascista anche dopo la liberazione ed è sempre stato orgoglioso della sua coerenza (lui parlava di fedeltà ai propri ideali). E’ morto il 24 aprile del 95, un giorno prima del cinquantenario della liberazione e con mia moglie ci abbiamo scherzato su: ha deciso che se doveva morire era meglio farlo prima del cinquantenario.

il processo

Del processo avevo sentito parlare qualche volta in famiglia, senza troppi dettagli, e non sapevo che mia madre ne conservasse gelosamente gli atti, che sono saltati fuori solo dopo la sua morte nel 2003.  La mamma teneva tutte le cose speciali nel secondo cassetto del cassettone della camera da letto: i gioielli di famiglia, le lettere di papà e le nostre dal collegio, i rogiti notarili del Taboga, ma anche, sotto a tutto gli atti del processo. Sono copie dattiloscritte mentre il fascicolo originale è all’archivio di Stato di Milano in attesa di catalogazione.

Il capo di imputazione riguardava un punto generale (aver fondato e diretto il fascio repubblicano di Villasanta dall’ottobre 43 all’aprile 45 con una interruzione da gennaio a settembre 44 per richiamo alle armi) e due addebiti specifici: minacce alla moglie di un partigiano e non aver fatto a sufficienza per impedire la deportazione a Mauthausen di un lavoratore di Villasanta arrestato dopo gli scioperi di Sesto San Giovanni del marzo 44.

Osvaldo Marzagalli e Mario Colombo (calzaturificio La Rondine); due amici di papà ad una uscita del CAI

L’arresto avvenne l’8 maggio del 45 su disposizione del CLN di Villasanta dopo un precedente interrogatorio in comune, da parte del dr. Aldo Buzzelli, che non aveva ritenuto di procedere all’arresto. C’erano due episodi che tornavano fuori nei discorsi della mamma: l’arresto e lo smascheramento del vero responsabile delle minacce alla moglie del partigiano. Del terzo fatto ho saputo dagli atti.

Mio fratello Sandro aveva due mesi e mia madre raccontava l’arresto con coloriture gergali del tipo cià ven giò e parlava dello spavento che si era presa e dei mitra spianati. In quei giorni si faceva in fretta a morire.

Dell’episodio relativo alle presunte minacce alla moglie di un partigiano era molto orgogliosa; in particolare della sceneggiata con le donne della cascina Bagordo di Concorezzo e con la moglie del Valaguzza (il partigiano ricercato).
Aveva in mano la foto di quello che, ragionando con gli altri fascisti detenuti, mio padre aveva individuato come responsabile e si rivolgeva loro dicendo:
– ma guardatelo, forse vi siete sbagliate, non può essere mio marito.
ci dispiace signora Anita, ma è proprio lui. Lo riconosco.
In effetti era stato lui, quello della fotografia (tale Luciano Crosta di Monza), a fare minacce non mio padre.

Nient’altro sul processo, in particolare da mio padre, che aveva seppellito tutta la sua storia giovanile. La vicenda lo aveva segnato, perché riteneva di aver sempre agito nel giusto e aveva un po’ di rimpianto per come era andata a finire la politica sociale della RSI in cui aveva creduto e per la quale aveva investito del suo. Dagli atti del processo emerge che ci aveva messo a fondo perduto circa 250’000 lire e se tenete conto che, nello stesso periodo, il valore di mercato di un paio di scarpe belle, franco fabbrica, era di 250 lire, il conto è presto fatto.

i fucilati del 45

Qualche volta accennava al tema del sangue dei vinti parlando di amici ingiustamente perseguitati e, in un caso, uccisi. In effetti dagli atti del processo ritorna in un paio di occasioni il nome di uno dei due fascisti villasantesi fucilati a Vimercate. Si tratta di Pietro Erba, che risulta partecipare agli interrogatori della Muti e di Osvaldo Marzagalli relativamente al quale non risulta nulla.

Era lui l’amico di cui parlava mio padre. Ho fatto qualche ricerca e ho visto che è stato uno dei fondatori del CAI, appassionato di sci e di alpinismo. Compare in molte foto del volume per il 70° del CAI accanto ad altri soci che poi furono dalla parte giusta e l’impressione che se ne ha è quella di un giovane esuberante che, probabilmente, pensò di continuare le sue avventure impegnandosi con la RSI.

Guardando quelle foto della fine degli anni 30 si resta impressionati. Ne ho trovata anche una in cui ci sono Carlo Magni (partigiano cristiano) accanto a mio padre e Mariuccio Calderara morto sul fronte greco albanese dove era appena arrivato come volontario nelle milizie fasciste.

il dopoguerra e il nostro rapporto

Finita l’avventura della RSI, con la riabilitazione, papà si è buttato in quella del calcio portando il Villasanta in serie C mentre il nonno continuava ad occuparsi della banda musicale di Villasanta.

Raccontava con orgoglio delle sfide con il Monza e con la Pro-Lissone, mentre la mamma si lamentava di quanti soldi hai buttato via. Di quel periodo mi rimane una bellissima spilla d’oro a forma di pallone da calcio, con un contorno di rubini e la scritta AC Villasanta che, nella divisione dei ricordi di famiglia, è toccata a me.

gara di sci alla Presolana

gara del CAI alla Presolana, fine anni 30: Mariuccio Calderara, papà, Carlo Magni. Alla estrema destra Angelo Erba e Guerrino Cereda

Il nonno, il cav. Alessandro Cereda è morto nel 53; credo che lui fosse davvero un fascista da camicia nera e credo che non fosse molto contento dell’impegno sociale del figlio. Lo intuisco da qualche lettera, che dice e non dice, durante la detenzione di mio padre.

Con papà, ovviamente, a spizzichi e bocconi, abbiamo parlato della sua storia e del suo processo perché non gli è stato facile digerire il progressivo e inesorabile spostamento a sinistra dei suoi due figli grandi: bravi a scuola, impegnati e altruisti come lui, ma di sinistra.

C’erano stima reciproca e affetto; amore contenuto, come usava allora. Lo stimavo molto per la capacità che aveva avuto di inventarsi un nuovo lavoro a 45 anni, con cinque figli da mantenere (da 0 a 15 anni) quando nel 59 il Calzaturificio Monzese chiuse l’attività (si veda il capitolo dedicato al Calzaturificio Monzese).

Ci siamo scritti di cose serie mentre ero a militare nel 1970. Io ero sconvolto dall’autoritarismo sfrenato di quell’ambiente, che mi appariva organizzato solo per annientare la personalità, con lui che mi rispondeva cercando il lato positivo della faccenda (la formazione del carattere, l’obbedienza, …).

Ero e sono orgoglioso di questo papà, così diverso da me, cordiale e da bar, quanto io sono orso, amante delle rimpatriate e della tavola, sempre disponibile per quelli di Villasanta: il ragionier Cereda o più amichevolmente ragiunier che, negli anni 60 e 70, passava molte ore della sua giornata da Ugo da Pedren e ci faceva anche un po’ del lavoro di sub agente assicuratore (una specie di ufficio al bar).

Io diventavo di sinistra e lui non si è mai permesso di pormi un divieto. Me lo pose una volta sua sorella maggiore (la zia Giovanna di cui trovate un ricordo nei racconti), inviperita e preoccupata perché ero stato visto alla Casa del Popolo in occasione di una Festa dell’Avanti. Era il 1964,avevo 18 anni, mi prese da parte e mi disse: spero che tu sia andato lì per conoscerli, in modo di combatterli meglio, perché, ricordati, che sei un Cereda. Una di quelle cose che ti lasciano allibito e che non ti dimentichi più.

Papà era compiaciuto del fatto che facessi politica; non ce lo siamo mai detti, ma si capiva: bravo a scuola, si mantiene agli studi e si dà da fare per gli altri. Ricordo il suo orgoglio quando, nel 76, andai a Tribuna Politica, per conto del Quotidiano dei Lavoratori, a intervistare il segretario del PSI De Martino. Un figlio che va in televisione, e allora mica c’erano duemila reti e Tribuna Politica la guardavano tutti.

Il contrario dei messaggi che ricevevo dalla mamma: non fare come tuo padre, hai visto cosa gli è successo, impara a farti gli affari tuoi. Due concezioni del mondo opposte e cosa volete che scelga un giovane tra un papaà orgoglioso del tuo impegno e una mamma che ti invita a pensare ai fatti tuoi?

Così non ho mai avuto bisogno di contare balle in casa; ricordo ancora la trattativa per restare a dormire nella università occupata nel marzo 68 (la prima occupazione di fisica). Patti chiari, amicizia lunga: sii onesto, fai il tuo dovere e poi fai quello che vuoi.

Naturalmente mi capitò di domandargli le ragioni di quell’impegno con i fascisti, del suo non farsi domande anche dopo, del restare affezionato al Duce, dell’acquistare dal giro dei reduci libri che non avrebbe mai letto e che adesso ho io, del non perdersi una Tribuna Politica di Almirante.

Sulle ragioni di quell’impegno non aveva dubbi: darsi da fare per gli altri e cercare di salvaguardare Villasanta. Come emerge dai documenti, dalla sua autodifesa e dalle testimonianze, nell’accettare la carica di segretario aveva posto precise condizioni: niente violenza, no alla brigata nera.

Alle mie domande ma papà, hai presente l’allenza con i nazisti, ma papà i nazisti nel 43? La risposta era sempre la stessa: garantire l’onore dell’Italia nel tener fede alla parola data. Io non capivo e mi rendevo conto che eravamo cresciuti in due mondi diversi. E’ stata una sorpresa trovare quelle carte: gli atti del processo e le lettere d’amore a mia madre con i tipici litigi tra fidanzati, con lei che fa la sostenuta e lui che striscia ai suoi piedi.

la vicenda processuale

cartolina alla fidanzata durante la chiamata alle armi del 41 (sototenente di artiglieria).

La storia del Valaguzza la conoscevo già, anche se, in aggiunta, ho trovato la dichiarazione del fratello della moglie che racconta di essersi lamentato con lui delle minacce e di aver avuto rassicurazioni sul fatto che nessuno l’avrebbe più infastidita e così fu.

Ma sono state le altre vicende a impressionarmi e mi spiace non averle conosciute in tempo per ossessionarlo di domande; una più di tutte, ma tu da che parte stavi?

I rapporti con i fascisti e gli antifascisti

La madre di Ambrogio Villa (medaglia d’oro al valor militare) Ancri Giovannina (vedova Villa) è ospitata alla sede del fascio (scuola Notari) sotto la protezione-assistenza di papà. E’ mamma di una medaglia d’oro ma è anche sorella di comunisti ricercati. Vediamo i documenti.

Luigi Ancri operaio comunista

Nel frattempo il signor Cereda provvide a dare aiuto a mia moglie e ai miei bambini con denaro e viveri in quanto ciò non era possibile da parte mia, perché continuamente perseguitato dalla Muti, essendo io un comunista.


Giovannina Ancri

Dopo qualche giorno ne parlai con il signor Cereda il quale mi disse di avere pazienza perché non sanno quello che fanno e di tasca sua pagò vari danni che mi avevano arrecato.


Altri episodi agli atti

Protegge il futuro sindaco della Liberazione Giuseppe Sala di cui resterà amico per tutti gli anni 50 (e di ciò ho ricordi personali).

La sera stessa mi trovavo in compagnia di mio cugino Stucchi Paolo che era venuto a cercarmi, e mi ha detto: tu devi venire con me che ti porto dal signor Cereda che ti può aiutare perché ne ha già aiutati molti.

Questi ci chiamò a rapporto rivolgendoci alcune domande alle quali rispondemmo autodifendendoci. Le redarguizioni ebbero termine con le seguenti testuali parole del signor Cereda: io non impongo, ognuno pensa come vuole, ma è bene usare prudenza nel parlare, in questi momenti.


La protezione di sbandati e irregolari

funerali cav. Alessandro Cereda

L’ultimo saluto al nonno, ci sono anche io dietro il carro, vicino a Ugo Saini, e poi tutta la famiglia Cereda allargata con le tre figlie (Giovanna, Linda e Fiora), papà e mamma, gli zii e i cugini

Su questo terreno opera in modi diversi: in maniera clandestina procurando documenti falsi e facendo finte assunzioni in azienda; in maniera diretta intervenendo presso le autorità affinché si possa sanare ciò che è sanabile (come nel caso di modifica alle  domande di arruolamento).

Agli atti sono citati con nome e cognome una decina di casi. Sui rapporti con il governo repubblichino non ho trovato documenti, ma ho ricordi di testimonianza diretta: papà si è recato a Gardone, Verona e Salò in più di una occasione per perorare cause e sistemare situazioni.

Si tratta di Mojoli Tino (Lesmo), Bianchi Piero (Concorezzo), Sala Luigi (Arcore), Sala Vladimiro (Villasanta), Rossi Mario (Villasanta), Fiorenza Filippo e Pannetta Giorgio (siciliani)

Naturalmente, siccome mio figlio non aveva alcuna volontà di appartenervi, ed in considerazione della manovra alquanto subdola ed illegale adoperata, egli si è sempre astenuto dal rispondere al sia pur ristretto numero di chiamate in servizio, cosicché alla fine non venne più importunato.

La lettera del parroco don Gaetano Galli

Lettera del 28/11/45 di don Gaetano Galli, parroco di Villasanta al P.M. avvocato Buzzelli.

Già dal maggio u.s. vive in campo di concentramento un mio buon parrocchiano, il signor Cereda Alfredo, il quale se ha una colpa, è quella di essere troppo buono, soprattutto se si tratta di poveri. Sono ormai 47 anni da che mi trovo a Villasanta e posso dire di conoscerlo bene.

Scrivo alla vostra signoria illustrissima non per invito di qualcuno, non per spirito di parte. Da giorni sento un impulso che non so vincere e che mi spinge a manifestare un piccolo particolare non conosciuto.

ma cosa ti venne in mente di far rivivere ancora il fascio!Ed egli calmo mi rispose: proprio per salvare il mio paese e per fare del bene e soprattutto pe impedire, che venisse qualche elemento torbido e violento a buttar sossopra la nostra popolazione. Parole testuali. E difatti:

  1. reintegrò tosto la refezione scolastica sovvenendola di propria borsa

25 anni dopo la morte di mio papà morto mangiando.

Se avete avuto la pazienza di seguirmi sino alla fine vi sarà ora più chiaro il motivo per cui, senza deflettere di un millimetro sul fatto che nella tragedia dal 43 al 45 c’erano quelli dalla parte giusta e quelli dalla parte sbagliata, io pensi che non ci sia nulla di bello in una guerra civile e si debba oggi lavorare in positivo sulla solidarietà, sulla disponibilità ad impegnarsi per gli altri e sulla legalità.

Aggiungo che quando ho pubblicato per la prima volta su Pensieri in Libertà questo episodio, accanto  nuove manifestazioni di affetto da parte di villasantesi che lo avevano conosciuto ho trovato anche un commento che mi ha impressionato: avrebbero dovuto ammazzarlo come i suoi amici, sarebbe stato un fascista di meno.

Questa cosa mi è rimasta dentro e ogni volta che sento degli antifascisti inneggiare allo scempio dei cadavere del Duce e della sua amante Claretta Petacci in piazza Loreto o inneggiare agli aspetti sanguinari della lotta di Liberazione mi viene un nodo alla gola e penso che, con pazienza, si debba lavorare per fare del 25 aprile la festa della unità nazionale e della libertà repubblicana.


Ultima modifica di Claudio Cereda il 9 maggio 2024


La pagina con l’indice della mia autobiografia da cui potete scegliere i capitoli da leggere





Resistenza e dintorni

l regime democratico è nato il 25 aprile 1945. Grazie alla Resistenza? Non solo né principalmente. I 350 mila ragazzi degli eserciti alleati, sepolti ciascuno, nome per nome, sotto le croci bianche dei cimiteri di guerra, sparsi in tutta Italia, ne sono la tragica controprova.

Il 25 aprile in Italia è una festa nazionale, perché la Nazione non è stata solo oggetto, ma soggetto della Liberazione, perché vi hanno contribuito la Monarchia, alleata degli Alleati dopo l’8 settembre, l’Esercito, il CLN, che lancia il movimento di Resistenza, e il popolo. Tutto? Non proprio tutto. Dimenticare la grande zona grigia che si estendeva tra Fascismo e Anti-fascismo è un cattivo servizio di una memoria debole.

Il Fascismo è finito il 25 aprile del 1945. Ha continuato a finire negli anni successivi, proprio attraverso i suoi nostalgici eredi, da Almirante a Gianfranco Fini, a Giorgia Meloni. Bisognerà che la sinistra si decida ad accettare questa evidenza. Se vuole combattere la cultura e la politica della destra, meglio che non si nasconda sotto il velo dell’antifascismo. Meglio se propone cultura politica e programmi.

L’antifascismo gridato nelle piazze o in “Bella Chat” non basta. Non è mai bastato. Se la sinistra è contraria, come sembra, al premierato, perché farlo in nome dell’antifascismo? Ha dimenticato che nel 1997-98 era favorevole al semi-presidenzialismo? Con i criteri di oggi non sarebbe fascistissimo?

Se è contraria all’occupazione governativa, talora sguaiata, della TV pubblica, perché, dopo aver fatto una doverosa autocritica sui decenni precedenti, non propone che i partiti liberino definitivamente l’ostaggio dell’informazione pubblica dall’occupazione di partito?

Non tutto l’antifascismo è democratico, non tutto l’anticomunismo è filo-fascista
Aldo Cazzullo, giornalista del Corriere della Sera e spesso in TV, ha sostenuto la tesi che se la celebrazione del 25 aprile è ridiventata settaria, dopo anni tranquilli, dal 1994 in poi, ciò si deve al fatto che “la destra ha sempre rifiutato di riconoscersi in un patrimonio di valori comuni”.

La riesumazione della dialettica fascismo-antifascismo sarebbe stata opera di Berlusconi, perché gli conveniva elettoralmente. Conveniva molto meno ai post-comunisti, “avviati al compito ciclopico di costruire un nuovo campo progressista col cattolicesimo democratico e dunque interessati a seppellire per sempre il muro contro muro ideologico”.

Insomma, alla domanda su chi abbia incominciato per primo, su chi ha dato il primo spintone, Cazzullo risponde: Berlusconi! I post-comunisti hanno dato soltanto il secondo, per reazione. Ma “chi c’era” ha ricordi diversi. Berlusconi meditava da qualche anno di “scendere in campo”.

Il primo gesto politico ufficiale fu l’appoggio a Fini nelle elezioni comunali di Roma del 1° novembre 1993. Per la sinistra post-comunista fu già la prova che Berlusconi era filo-fascista. Ma non se preoccupò più di tanto: quando il Cavaliere “discese” in campo, il 26 gennaio 1994, D’Alema lo dava ancora e solo al 6%.

Discese in campo facendo appello all’anticomunismo. In realtà il comunismo, all’epoca, era morto almeno quanto il fascismo. Ma alla sinistra, tramortita dalla sconfitta del 27-28 marzo 1994, non parve vero di poter mettere insieme nel contrasto a Berlusconi l’accusa di anticomunismo e di filo-fascismo, il secondo conseguenza necessaria del primo.

Da allora i 25 Aprile hanno tagliato fuori Berlusconi e gli esponenti della destra dall’ “idem sentire” resistenziale-repubblicano, almeno fino al discorso di Onna del 25 Aprile 2009, nel quale egli prese ufficialmente atto che quello era il giorno della Festa della libertà, perché in quel giorno la libertà era stata liberata dalla Resistenza.

Sì, a Berlusconi ha fatto comodo, come sottolinea Cazzullo, evocare l’anticomunismo, ma solo perché per i post-comunisti continuarono a funzionare le equazioni: anticomunismo=filofascismo e antifascista=democratico. Equazioni false: perché si può essere antifascisti, ma anche antidemocratici. Tutti i comunisti sono stati antifascisti, non tutti democratici. Vedi alla voce Stalin e seguaci. Simmetricamente, non tutti gli anticomunisti sono stati democratici, ma si può essere anticomunisti ed essere democratici.

Il bando che la sinistra ha decretato, ad ogni rintoccar del 25 Aprile, verso gli esponenti della destra non è stata colpa delle mosse di Berlusconi verso gli eredi del MSI, ma della propria equazione-trappola: che l’anticomunismo tenda fatalmente verso il filo-fascismo.

Istruzioni per il 25 Aprile 2025

Augusto Barbera, attuale presidente della Corte costituzionale, il 25 aprile 2009 scrisse un articolo sul Secolo XIX, nel quale proponeva di concentrare nel 25 Aprile la Festa della liberazione e la Festa della Repubblica, oggi del 2 giugno. Il Secolo XIX ha deciso meritoriamente di ripubblicarlo il 27 aprile scorso.

Unirci sul 25 Aprile, perché è di lì che gli Italiani hanno incominciato a tessere l’arazzo complicato della democrazia italiana. Quel giorno unitario sarebbe la condensazione istituzionale di una memoria condivisa, la fine del rancore reciproco, la sutura di una ferita che non si decide a guarire: la Festa della Nazione.

Una tale Festa non può essere convocata dall’ANPI, ma dalle istituzioni della Repubblica: dai Comuni, dalle Regioni, dal Parlamento, dalla Presidenza della Repubblica.

Sulla proposta Barbera tutte le Associazioni partigiane potrebbero/dovrebbero raccogliere centinaia di migliaia di firme per una proposta di legge popolare. Così l’ANPI e la FIAP ritroverebbero un ruolo culturale ed educativo rispetto alle giovani generazioni, che non hanno memoria della Resistenza e poco sentore della Repubblica. Sennò sono destinate alla scomparsa o, come nel caso dell’ANPI, a trasformarsi nel refugium peccatorum di tutti i frammenti della sinistra radicale.

Nota finale su Brigata ebraica, Palestinesi e… maranza

Il 25 aprile di Roma e di Milano ha mostrato per l’ennesima volta che il 25 Aprile è diventato una zattera, dove ogni anno ciascuno porta i materiali più eterogenei. Ogni difensore di nobili cause, vere o presunte, si infila nella manifestazione e viene a gridare le proprie ragioni, più o meno fondate.

Sta già comparendo all’orizzonte la… “resistenza climatica”. Quest’anno a Milano c’erano “i maranza”, gruppi di giovani teppisti, molti dei quali figli di immigrati di seconda generazione, che calano dall’hinterland e dalle periferie verso il centro, per segnalare la propria estraneità violenta al Paese nel quale si trovano a vivere, fruendo delle opportunità e delle libertà che proprio la Resistenza ha instaurato e che mancano nei Paesi di origine.

È ora di far rispettare i confini del 25 Aprile. Dentro questi confini sta la Brigata ebraica, che ha pagato un prezzo alla liberazione dell’Italia. Fuori devono stare i Palestinesi. I quali hanno diritto di manifestare per la propria causa ogni giorno dell’anno, ma nulla c’entrano con la storia d’Italia e con il nostro 25 Aprile.




il 25 aprile a Milano

25 aprile riconciliazione

Il 25 aprile ero in piazza Duomo, abbarbicato sul lampione a venti metri dal palco delle autorità, e mi sono sciroppato i discorsi di Sala, di Scurati e di PIF. Non sono riuscito a resistere quando il dirigente della UIL ha cominciato a urlare la sua arringa in tonalità insurrezione, e me ne sono andato a guardare il corteo, talmente lungo che alle 16:30 arrivava ancora fino in fondo a via Manzoni.

Dai discorsi di tutti gli oratori si evinceva che in Italia c’è un pericolo fascista, se non un fascismo in atto, e questo sarebbe dimostrato dal fatto che la Meloni e quelli del suo governo non pronunciano la fatidica frase “Sono antifascista“. Leggo proprio oggi che lo dice anche la Litizzetto, quindi deve essere vero.

Ascoltando i discorsi del palco mi sono venuti in mente tanti ricordi.

Io sono nato il 20 aprile del 44 all’ospedale di Niguarda e mia mamma mi raccontava sempre di quando suonavano le sirene e lei correva giù per le scale verso il rifugio con me in braccio. Le veniva il magone tutte le volte che ci raccontava del bombardamento degli Alleati sulla scuola di Gorla e dei duecento bambini uccisi con le maestre. Ci raccontava che mio nonno, capo operaio alla Siemens, fu a un passo dall’essere bruciato vivo nei forni della fabbrica e si salvò solo per l’intervento di un operaio comunista che lo difese e garantì per lui. Diceva che la cosa più brutta del 25 aprile era che molte persone, conosciute da tutti nel quartiere per essere fascisti sfegatati, quella mattina uscirono di casa con il fazzoletto rosso al collo.

La mia famiglia non era “fascista”: era una famiglia operaia di Milano che si barcamenava tra le fazioni politiche per campare. Tra i parenti meno stretti ce n’erano un paio compromessi con il fascio, ma i miei non ci tenevano a frequentarli, perché volevano tenersi fuori dalla politica. “La politica è una cosa sporca” mi hanno ripetuto per anni, anche dopo la fine della guerra, e mi proibivano di leggere il Corriere perché parlava di politica (oltre che di cronaca nera).

Storie di piccola borghesia ex operaia milanese del dopoguerra. Questi ricordi mi riaffioravano nella mente mentre ascoltavo le arringhe che arrivavano dal palco. Il volume degli altoparlanti era talmente alto che gli slogan dell’esagitato gruppo filopalestinese, saldamente arroccato di fronte al palco fin dal mattino, si intuivano solo dal labiale.

Ho pensato: l’anno prossimo, a 80 anni dal ’45, vorrei che invece della Liberazione si festeggiasse la Riconciliazione. Vorrei che si formasse un CNR (Comitato Nazionale Riconciliazione). Vorrei che, liberi tutti di commemorare i propri morti, si decidesse che è ora di finirla e che è tempo di diventare adulti.

Io penso che la riconciliazione, che nasce dalla compassione e dal perdono, è un valore superiore anche all’antifascismo: lo contiene e lo veste di umanità.

So che molti si scandalizzeranno alla mia affermazione: ma se si è onesti con sé stessi, penso che lo si debba ammettere. Esprimo questo desiderio, anche se so che non si concretizzerà in tempo perché io possa vederlo avverarsi. Anche perché sono convinto che i grandi cambiamenti avvengono soltanto dopo le grandi catastrofi.

Tuttavia, con quel fondo di illuminismo che i miei compagni mi contestavano, spero ancora che la mia nipotina, che ha due anni, possa vivere in un mondo in cui la faziosità sia soppiantata dalla solidarietà.

Spero che qualcuno si farà promotore di un patto di riconciliazione tra le fazioni, destra e sinistra, fascisti e antifascisti e tutte le altre etichette “divisive” che gli esseri umani si inventano ogni giorno. Qualcuno che faccia il primo passo, che è la cosa più difficile ma anche la più nobile.

PS: Il 26 aprile ho trovato due articoli, uno su L’Inkiesta e uno su Huffington Post, che con la loro intelligenza e la loro arguzia mi hanno confortato, e mi sono sentito meno solo. Grazie, Helene e grazie, Guia.

Il 25 aprile che divide (e sui social ancora di più)La Brigata Giannini e la liberazione dal senso del ridicolo

 




a proposito di anti-…

In questi giorni la discussione su anti-(fascismo, totalitarismo, comunismo, imperialismo, sionismo, violenza, …) e quella su filo-(ambientalismo, pacifismo, …) va per la maggiore e diverse forze che lanciano strali o polemiche sono spesso sguarnite su un pezzo dell’anti o del filo.

Parto dalla questione dell’antifascismo per sottolineare un dato di natura storica: l’Italia, a differenza della Germania (dove il nazismo aveva letteralmente stritolato ogni forma di opposizione) ha partecipato direttamente alla propria liberazione dal nazi-fascismo attraverso una esperienza di lotta armata abbastanza significativa sul piano dimensionale, esperienza che si è aggiunta all’azione degli eserciti alleati che risalivano la penisola, in collaborazione e in funzione di stimolo.

Si è trattato di un elemento importante sottolineato da De Gasperi alla conferenza di Parigi e ciò ha consentito la organizzazione della democrazia senza bisogno di essere messi sotto tutela, anche se i condizionamenti ci furono, almeno in parte, ma ciò è naturale in qualsiasi processo storico. Non è stato così per la Germania, divisa in quattro e poi in due quando russi e alleati occidentali hanno iniziato a litigare e, men che meno lo è stato per i paesi dell’est schiacciati dal tallone di ferro sovietico.

E’ questa la ragione per la quale oltre che dirsi anti-totalitari, in Italia è opportuno dirsi anti-fascisti.

A suo tempo ho molto apprezzato il coraggio di Gianfranco Fini nel traghettare il partito neofascista verso la democrazia. Serviva dare un taglio netto e Fini lo diede visto che Alleanza Nazionale ereditava tutto dal MSI, un partito nato nel dopoguerra per organizzare il consenso dei nostalgici della RSI. Molti di quei personaggi erano gli stessi padri fondatori (penso a Mirko Tremaglia), altri erano i rappresentanti del neofascismo degli anni 70 (penso a Ignazio La Russa) sempre a metà tra legalità, fascismo militante e trame nere. Ognuno ha avuto il suo album di famiglia: Avanguardia Nazionale, Ordine Nuovo, i NAR.

Di sicuro, in quella storia, non possiamo metterci Giorgia Meloni che ha le stesse ascendenze, ma viene da una generazione dopo, quella culturalmente ancora interna al linguaggio e ai riferimenti culturali del nazionalismo e della reazione, ma che, anche per ragioni generazionali, non può essere definita neo-fascista.

Qualcosa di analogo ha caratterizzato l’evoluzione della ex sinistra comunista. Il PCI è sempre stato qualcosa di diverso dal modello sovietico e leninista-stalinista, anche se quel modello faceva parte del suo DNA a partire dalla origine del 1921 (si pensi alla ostilità verso i socialisti che spesso perdura ancora oggi).

Il PCI ha contribuito in energie umane e sangue alla nascita della Repubblica Italiana accettando da subito un modello di Costituzione diverso da quello delle Democrazie Popolari (pur nel desiderio represso di fare come la Russia). Bisogna darne atto e questa è la ragione per la quale molti dirigenti politici, che da quella esperienza politica vengono, si dichiarano oggi anti-comunisti in quanto anti-totalitari e, contemporaneamente, si dichiarano orgogliosi di essere stati comunisti-italiani (primo tra tutti Walter Veltroni).

Attenzione, certe incrostazioni non si trovano solo dalle parti della Meloni ma anche sul fronte degli antifascisti militanti (e vanno denunciate come tali).

  • Nel giro della Meloni si hanno difficoltà a prendere le distanze da certe commemorazioni paramilitari di stampo neofascista (penso a quella su Acca Larenzia o a quella del cimitero monumentale di Milano che si tiene il 25 aprile) e comunque la parola anti-fascista dà fastidio e si preferisce fare di ogni era un fascio dicendo che, siccome siamo contro il totalitarismo, siamo anche antifascisti enon lo deiciamo perché c’è e c’è stato un antifascismo militante che ha insanguinato le nostre fila (e si cita spesso il caso di Ramelli).
  • Nel giro antifascista ci sono modelli e interpretazioni diverse, anche molto diverse ma il 25 aprile scatta il trigger della memoria e si scende in piazza tutti insieme. Così si ha difficoltà a dire che noi non abbiamo niente da spartire con una parte di quelli che hanno manifestato ieri a Milano. Parlo di quelli che davano dei nazisti alla parte di corteo con le insegne della brigata ebraica, o di quelli che hanno una visione sanguinaria della resa dei conti e che rifarebbero domani Piazzale Loreto, o di quelli che erano in piazza per impedire al Sindaco Sala di parlare. Quando invitiamo Giorgia Meloni a dichiararsi antifascista lodobbiamo fare chiarendo che l’antifascismo che proponiamo nulla ha a che vedere con certe idee o comportamenti.

Non sto sostenendo una sorta di visione rivisitata  della antica proposta della lotta agli opposti estremismi, sto auspicando la necessità di convergere su un blocco di valori che caratterizzano l’Italia Repubblicana, quella di oggi, diversa da quella del 45, ma comunque figlia di una riga che venne tracciata allora.

Penso che lo si debba fare nel reciproco rispetto e con lungimiranza capendo che in politica, spesso, sono necessari dei tempi per elaborare il lutto e dunque bisogna avere pazienza e testardaggine.