Imma Tataranni sostituto procuratore

Ho visto su Rai Play le due stagioni per un totale di 14 episodi di due ore ciascuno: la Basilicata e Matera, la magistratura inquirente e la polizia giudiziaria, il mondo della provincia meridionale tra libere professioni e istituzioni dello stato, una donna forte e dalla intelligenza fuori dal comune, abiti improponibili cambiati in continuazione, un incedere da caporal maggiore, la mafia e il contiguo mondo degli affari, i problemi di famiglia tra anziani e adolescenti in crescita, l'immigrazione e le adozioni, uno spaccato dell'Italia con i suoi problemi e le sue contraddizioni.

La Rai ha fatto una operazione controcorrente rispetto alle soap opera e alle false rappresentazioni delle TV berlusconiane che, in questi anni, hanno cambiato in profondità il modo di essere e di pensare degli Italiani e che la RAI stessa ha introeiettato (si veda per esempio Un passo dal cielo), Vediamone insieme gli aspetti principali.

La magistratura inquirente che in questi anni, un po' per colpa sua (eccesso di potere, elasticità delle regole in base alle convenienze, irresponsabilità, delirio di onnipotenza), un po' per le caratteristiche del nostro sistema giuridico e procedurale, ha visto il suo indice di gradimento in progressiva discesa ne esce bene perché la procura viene vista dal di dentro con i suoi aspetti umani, con il rapporto di scontro-collaborazione con cancellieri e i carabinieri, con le esitazioni e le intuizioni. Insomma non va sempre tutto bene ma alla fine la giustizia, guidata dalla intelligenza, vince.

Nel disegnare i personaggi il genere femminile predomina in genere su quello maschile: le donne sono più vispe, le nonne sono sagge anche quando perdono lucidità; gli uomini sono troppo impulsivi e sbagliano spesso con la eccezione del marito di Imma che, essendo a fianco di un caporal maggiore, viene disegnato con una inversione dei ruoli, casalingo, pacato, saggio, sensibile, sempre disposto a comprendere e pazientare, che sa ma tace.

Il procuratore capo ha il senso del potere e dei rapporti istituzionali in una città di provincia, ma sa scegliere, sa decidere, ha una moglie rimasta a Napoli e vive a Matera con un figlio adottivo di pelle scura con tutte le caratteristiche del giovane che, in altri contesti, avrebbe fatto il 68 (impulsivo ma saggio e deputato a controllare Valentina, la figlia di Imma).

Il collaboratori di Imma sono l'amica cancelliera, esitante, sensibile tormentata dal volere una vita tranquilla e la voglia di trasgressione e il giovane maresciallo Calogiuri innamorato di Imma ma conscio dei suoi doveri istituzionali verso una capa a cui dà comunque del lei e la chiama dottoressa.

Il marito di Imma, Pietro de Ruggeri, impiegato tecnico in Regione è inamorato della moglie ma sogna un rapporto più paritario e vorrebbe rompere con il tran tran della vita impiegatizia (il jazz, un locale per spettacoli, il sax, …) somatizza il suo rapporto di subalternità. E' interpretato da Massimiliano Gallo e con Vanessa Scalera (Imma) ha interpretato magnificamente una versione ciinematografica di Filomena Marturano (visione consigliata su Rai Play proprio per la efficacia interpretativa di entrambi).

Nei diversi episodi si parla di mafia, di immigrazione, di badanti, di RSA, di rifiuti tossici, di cordate di speciulatori, di immigrazione e la soluzione dei diversi casi, grazie alla grinta e intelligenza di Imma non è mai banale.

 

 




Niente di nuovo sul fronte occidentale – Edward Berger

I romanzi di Eric Maria Remarque sono stati stampati e ristampati più volte e sono dedicati all'orrore della I guerra mondiale visto con gli occhi dei giovani tedeschi desiderosi di battersi e vincere sul fronte francese. Vengono ripercorsi i mesi di guerra, il ritorno e poi le problematiche che portarono alla crisi della repubblica di Weimar.

Mi riferisco in particolare a Niente di nuovo sul fronte occidentale (di cui analizzo qui la recente versione cinematografica, terza versione), La via del ritorno e Tre camerati. Questi tre romanzi (il terzo meno noto) consentono, in particolare ai più giovani di riflettere non solo sugli orrori della prima guerra mondiale, la guerra in cui compare la tecnologia al servizio della morte (i gas, gli aerei, i lanciafiamme, i carri) in un contesto di guerra di trincea e di massacri della fanteria, ma anche sul disorientamento ideologico dei reduci, fossero essi vinti o vincitori e di comprendere le ragioni sociali del consenso alla ascesa dei due totalitarismi fascista e nazista.

Questo nuovo film di produzione tedesca usa appieno gli effetti speciali e le tecniche di ripresa del XXI secolo per rappresentare in maniera diretta gli assalti all'arma bianca, i tanti modi di morire, la scoperta che il nemico che stai per pugnalare è un uomo come te, che la morte non ha nulla nè di bello nè di eroico, che la agonia nelle buche prodotte dai colpi di artiglieria  è una cosa tremenda, che quando sei messo male in un ospedale da campo, all'aperto, se ti danno in mano una forchetta la usi per colpirti alla giugulare in modo di farla finita ed evitare di rimanere senza una gamba per tutta la vita.

Il film è piuttosto lungo (2h e 20') e cupo; me lo sono guardato a pezzi per non cadere vittima della angoscia. Rispetto al romanzo si tratta di un libero adattamento e lo scopo prncipale, più che analizzare la fregatura dei giovani interventisti è quello di documentare l'orrore e la insensatezza della guerra, di quella guerra o forse di tutte le guerre della categoria inaugurata nel 14-18.

Perché questi giovani, consci di essere stati illusi continuno a battersi? Perché il protagonista che ha già visto morire tutti i suoi amici va ancora all'attacco negli ultimi minuti che precedono la cessazione definitiva delle ostilità? Poco da dire sugli stati maggiori con i loro riti, le loro inutili crudeltà che fanno da controcanto alle scene sugli inutili attacchi e gli inutili massacri. Il fronte occidentale è stato l'equivalente franco-tredesco delle nostre battaglie dell'Isonzo. In questo caso si parla di milioni di morti e di un fronte che in 4 anni guerra si sposta di poche centinaia di metri.

Che serva almeno a suscitare, a livello mondiale, il grido del rifiuto della guerra.

 

 

 




dai libri alla TV

Non so se sia un segno dell'età, ma ultimamente mi sto dedicando più alla visione delle serie TV che ai libri e alla carta stampata in genere e, dopo questa indigestione ho deciso di farci sopra qualche ragionamento.

Ho iniziato con la visualizzazione della lunghissima serie di Un passo dal cielo che inizialmente sembrava essere l'occasione per gialli leggeri in un contesto ambientale di alta montagna e di rapporto con la natura (forestale, arrampicatori, veterinari, lupi, cavalli, la palafitta sul lago di Braies). Sin dall'inizio era presente un po' di clima da fotoromanzo e poi, man mano, questo clima da fotoromanzo ha preso il sopravvento al punto che nella fase calda degli amori contrastati tra la fotomodella spagnola e il vice questore Nappi utilizzavo la apposita funzione di avanzamento di 10 s per saltare le mielose ed inutili parti sdolcinate.

Poi, con la trasformazione del corpo forestale dello stato in carabinieri forestali e con la sostituzione dei protagonisti la parte ambientale si è sempre più ridotta e un passo dal cielo è diventato un fotoromanzo movie pieno zeppo di pubblicità più o meno occulte dall'Alto Adige al Cadore. Buon per loro, ma la settima stagione, attualmente in corso mi è bastata per 10' e ho chiuso nonostante parti piacevoli legate alla interpretazione di Janniello e alla saggezza proverbiale di Huber.

In precedenza mi sono guardato le vicende del commissario Nardone della mobile di Milano (l'inventore della squadra mobile) per una immersione nella Milano anni 50 e ho ritrovato tratti di cronaca della mia infanzia a partire dall'infame quotidiano del pomeriggio  La Notte che anche mio papà acquistava e che dunque vedevo girare per casa. Uno spaccato interessante del come vivevamo e chi eravamo.

Su suggerimento di mia moglie sono passato alla serie del vicequestore Schiavone. I romanzi di Manzini, editi da Sellerio, me li ero letti in sequenza un paio d'anni fa ed ero rimasto affascinato sia dalla sceneggiatura (che ben si prestava ad una traduzione televisiva), sia dai personaggi comprimari (i collaboratori alla questura di Aosta e gli amici malavitosi romani), sia dal protagonista un intelligente e moderno Robin Hood con una visione di cosa sia giusto netta e schematica che porta un servitore dello stato a vivere costantemente dentro e fuori dai vincoli della legge.

Intelligenza, acume, sentimento, contrasto tra cultura del nord e mondo romano, complessità e contraddizione del mondo del ministero degli interni, figure femminili interessanti e affascinanti, a partire dal fantasma della moglie Marina che fa da psicoanalista di Rocco, sdoganamento della Marijuana, un medico legale assolutamente unico (Fumagalli), una bella figura di PM, in parte condizionato da Rocco ma ligio al suo essere magistrato e che, dunque, non fa sconti.

La serie di Schiavone, bella, nulla toglie alla necessità e utilità di leggere gli originali cartacei. Ora sono alle prese con la Basilicata di Imma Tataranni, altro bel personaggio in cui la intelligenza si mischia con una interpretazione femminile fuori dal comune (tra ruoli di magistrato, madre, moglie e figlia). Vi saprò dire.

PS. sulla app di RaiPlay la pubblicità è davvero fastidiosa; va beh all'inizio e alla fine, ma la intromissione anche se metti in pausa o sbagli un tap è eccessiva. Si può ovviare usando il browser, munito di blocco della pubblicità non solo sul PC ma anche sullo smartphone.

 

 




Esterno notte (Marco Bellocchio)

Marco Bellocchio si era già occupato del caso Moro nel 2013 con Buongiorno, notte  dedicato alle dinamiche psicologiche dei terroristi assassini (lo potete rivedere su Rai Play così come i 6 episodi di Esterno Notte).

Si tratta di una serie TV su 6 episodi a tanti anni distanza: Aldo Moro, Francesco Cossiga, Papa Montini, Adriana Faranda e Valerio Morucci, la moglie Nora, l'epilogo.

Per quelli con una storia simile alla mia la vicenda di Aldo Moro è scolpita nella coscienza perché il passaggio da posizioni di sinistra rivoluzionaria a quelle di una sinistra riformatrice sino all'abbandono successivo della stessa prospettiva comunista è avvenuto nella seconda metà degli anni 70 assumendo i valori dello stato democratico e della sua difesa come riferimenti dell'agire politico (riflessione sul ruolo e specificità delle forze politiche inclusa la DC, rifiuto della violenza come strumento di lotta politica, …). Quando ripenso a quegli anni ho come l'impressione di non aver fatto abbastanza, del non aver osato quando era il momento di osare.

Del caso Moro me ne sono occupato più volte e vi rimando ad un articolo di 10 anni fa Moro, noi e gli altri che, oltre a qualche considerazione di sintesi, rimanda ad altri articoli dedicati al terrorismo di genesi comunista ed in particolare alla storia del gruppo dell'Appartamento di Reggio Emilia (Il sol dell'avvenire) e alla bella intervista di Mario Moretti a Rossana Rossanda.

Anche se c'è chi la pensa diversamente, io penso che sulle dinamiche e sulla gestione del caso Moro, ci sia poco da aggiungere: le BR hanno agito nella loro autonomia, le forze politiche hanno scelto, in maggioranza, che si doveva tener duro sulla linea della fermezza e sono state conseguenti sino a sacrificare la vita di Moro. Nel nuovo lavoro di Bellocchio ci sono assenze importanti quali il contrasto tra fautori della trattativa e fautori della fermezza (forze politiche ma anche gente comune), il ruolo giocato dal PCI in parlamento e nel paese, il ruolo dei servizi deviati e della P2 solo sfiorati con i comunicati sul Lago della Duchessa. Con la eccezione di Cossiga gli altri leader democristiani sono rappresentati solo negli elementi essenziali (Andreotti un po' cinico e senza tentennamenti, Zaccagnini del tutto inutile). Ho trovato non particolarmente efficace la trattazione della figura di Papa Montini tranne nel tormento finale della lettera aperta agli uomini delle Brigate Rosse.

Le cose che mi hanno colpito favorevolmente e che segnalo sono tre.

  • L'esame della figura di Aldo Moro leader della DC e tessitore della apertura a sinistra, quella del professore dialogico verso i suoi studenti e che considera la Università oltre che come una occasione in cui giocare un ruolo di maestro un momento importante per rapportarsi al paese e comprenderne la evoluzione.

Francesco Gifuni si è calato in profondità nel personaggio riuscendo a restituirci gli elementi essenziali del suo carattere (la pacatezza, la pazienza, l'argomentare teso a portare l'interlocutore sulle sue posizioni, la attenzione alle piccole cose). Moro è un politico determinato e lo lascia trasparire sia quando tratta con i suoi compagni di cordata, sia quando parla con il Papa, sia quando si rapporta alle intemperanze di chi lo contrasta.

  • L'attenzione alla figura di Francesco Cossiga nei suoi aspetti personali: elementi caratteriali, solitudine, matrimonio in crisi, personalità bipolare, crisi di dover fare il ministro degli interni del partito della fermezza e contemporaneamente il sentirsi carnefice del suo maestro.

Bellocchio dedica a Cossiga e alla sala d'ascolto del Ministero degli Interni largo spazio, uno spazio che serve a far risaltare il disorientamento, la solitudine, la somatizzazione del personaggio che, come farà anche negli anni successivi, tende a comportarsi da boia a e da redentore come una scheggia impazzita.

  • La figura di Eleonora Moro (Noretta) magistralmente interpretata da Margherita Buy che dopo il rapimento del marito fa la sua battaglia nei confronti dell'establishment e di Paolo VI e cerca, senza riuscirci, di tenere aperto il canale della trattativa sino alla decisione finale dei funerali di stato senza la bara. A suo contorno ci sono le tre figlie ed il figlio con in primo piano la amata primogenita Maria Fida, quella che più degli altri subirà sul piano umano e delle traiettorie politiche la scomparsa del padre (DC, Rifondazione, MSI, AN, Dini, Radicali, …).

Dopo aver pubblicato l'articolo ho nuovamente approfittato di RAI Play e mi sono guardato "Aldo Moro, il professore" interpretato da Sergio Castellitto. Sono i giorni prima, durante e dopo il sequestro e l'assassinio e attraverso un mix di fiction e di testimonianze dirette si ricostruisce l'immagine di Aldo Moro educatore che alla fine di ogni corso accompagna su un pulman scassato i suoi studenti a visitare un carcere per ergastolani e un manicomio giudiziario.

Un professore che discute con loro di progetti di vita, di ruolo del diritto, di disumanità non solo della pena di morte ma anche dell'ergastolo che nega ogni ipotesi di rieducazione. Lo consiglio per comprendere come Aldo Moro sia stato il politico che è stato perché, in primo luogo era un educatore.

 




non conosci Papicha – Roberto Ceriani

Sono ragazze sui 20 anni. Quella con i capelli lunghi rossi, liberi sulle spalle, ne dimostra un paio di più di quella più piccola, magra, con i capelli neri raccolti e annodati sopra la testa. Sono molto belle. Si ammirano fra di loro. Parlano guardandosi negli occhi. Si amano.

Sono sedute proprio davanti a me, a parte una fila libera per il distanziamento Covid. Siamo al cinema all’aperto nel cortile di Palazzo Reale. Qui passeggiava il Re quelle rare volte che veniva a Milano. Arrivava alla Stazione Centrale e veniva accolto nella zona reale della stazione, oggi diremmo “sala VIP”, che oggi è usata per le feste durante la Settimana della Moda. Per macabra ironia la sala si trova vicino al famigerato binario da cui partivano le deportazioni per i lager.

Le ragazze aspettano abbracciate l’inizio del film. Sono arrivate a piedi da una strana piazza Duomo che, timidamente, cerca di tornare alla normalità dopo la tragedia Covid. Un po’ distanziate fra loro riappaiono coraggiose famiglie con mascherine e piccoli gruppi di turisti che si fanno selfie con lo sfondo bianco della Cattedrale. L’ambiente è a metà strada fra l’urbano e la serata balneare.

Questa sera nel cortile del Re proiettano un bellissimo film algerino, “Non conosci Papicha”, sottotitolato, in cui si parla una strana lingua un po’ araba e un po’ francese.
E’ la storia di un gruppo di ragazze di Algeri che, nei maledetti anni ’90, tentavano di esplorare percorsi di sopravvivenza umana, mentre la città era teatro di decine di attentati e sanguinose vendette operate da ignoranti integralisti musulmani che volevano piegare la società alle loro ossessioni fintamente religiose.

A quel tempo le due ragazze di fronte a me non erano ancora nate. Mi sforzo di immaginare cosa possano capire di questo film, di quel periodo terribile, ma capisco subito quanto la mia domanda sia fuori luogo. Mezzo secolo mi divide da loro e un’eternità mi divide dai loro pensieri.

Il film riporta la mia mente al 1972, quando giravo l’Algeria in autostop e i camionisti mi portavano nelle loro case. Mi facevano dormire sul tappeto; non era morbido, ma era sempre meglio del pavimento nudo di una notte passata in galera. Le famiglie mi spiegavano cosa avevano fatto 10 anni prima, durante la Guerra di Liberazione dai francesi. Sui banconi dei negozi c’erano scatole per raccogliere fondi per sostenere la guerra in Vietnam. Sulle scatole erano incollate bandiere algerine e vietnamite e una scritta del tipo “Sosteniamo la lotta dei vietnamiti contro gli americani che stanno facendo quello che abbiamo fatto noi lottando contro i francesi”.

Le ragazze protagoniste del film, ventenni negli anni ’90, hanno sentito sicuramente queste storie dai loro genitori. Invece le ragazze sedute di fronte a me non le hanno neppure imparate a scuola. Cosa potranno capire delle scene di violenza che appaiono sullo schermo? Accidenti, sto ricascando nelle domande inutili…

In quegli anni il fondamentalismo islamico uccideva in tutta l’Algeria; il terrore era la regola di vita in un territorio immenso. Negli stessi anni il Ministro dell’Istruzione Luigi Berlinguer aveva sottoscritto un accordo con i Ministri dei Paesi che si affacciano sul Mediterraneo (Spagna, Francia, Marocco, Algeria, Libia, Egitto, Israele, ecc.). L’accordo prevedeva contatti culturali per mettere in comune i curriculi scolastici delle scuole superiori e cercare di armonizzarli fra di loro. Io fui incaricato di lavorare sui curriculi di Fisica e avevo già avuto visto e biglietto per Algeri, dove si doveva tenere la prima riunione internazionale, annullata pochi giorni prima della data stabilita a causa delle minacce terroristiche. Il progetto naufragò.

Il fondamentalismo islamico aveva vinto con il terrore anche questa piccola battaglia culturale; volevano appiattire la società al loro modello di uniformità forzata, in nome di un ideale in cui avevano bisogno di credere. Nel frattempo da noi qualche cosa di simile a un “fondamentalismo di sinistra” riuscì a fare fuori Berlinguer; volevano appiattire la scuola al loro modello di uniformità forzata, in nome di un ideale in cui forse credevano veramente.

Mentre penso a queste vecchie storie vedo le ragazze di fronte a me che si stringono forte durante le scene di violenza e ogni tanto si scambiano baci affettuosi, quasi per farsi coraggio l’una con l’altra. Quando il film arriva alla fine si vede, nella fase post-terroristica, qualche tentativo degli algerini di ritornare alla normalità. Dopo aver pagato un prezzo esagerato finalmente riprendono a vivere dando nuovo valore alle piccole cose quotidiane e guardando con fatica a un futuro molto incerto.

Riaccese le luci si vedono a fatica le stelle nel cielo. Gli spettatori si alzano e si avviano verso l’uscita. Il cortile di Palazzo Reale si svuota lentamente.
Si cammina cercando di mantenere le distanze e quasi tutti indossano la mascherina. Invece le due ragazze camminano senza mascherina, sempre abbracciate, baciandosi fra una parola e l’altra. Mi domando cosa avrei pensato se avessi visto la stessa scena 15 o 20 anni fa. Come avrebbe reagito la gente qui presente? Poi mi domando per quale ragione mi faccio queste domande.

Penso che forse è normale che un vecchietto cerchi di capire la realtà usando la Storia, ma anche che è normale, forse giusto, che due giovani ragazze vivano la loro storia e, proprio grazie alla loro storia, facciano la loro parte per costruire la Storia. Buona serata, ragazze!




Una sconfinata giovinezza – Pupi Avati 2010 – recensione

Oggi un’amica ha pubblicato un cammeo sul tema della memoria (memoria di vita, di scuola e di futuro): memoria come ricordo, come rimpianto, come domanda e quando mi sono chiesto quale apparato iconografico utilizzare mi è subito venuto in mente un film di Pupi Avati del 2010: una sconfinata giovinezza, una tenera storia d’amore dentro la malattia di Halzeimer che ti riporta ai luoghi e agli ambienti dell’infanzia.

Secondo me, insieme a Comencini, Pupi Avati è il più grande regista del cinema italiano del dopoguerra ed è anche uno dei più prolifici. Ma come non citi Fellini? Secondo me viene dopo.

Ho scoperto che quando lo vidi, qualche anno fa, avevo anche fatto la recensione ma mi ero dmenticato di mettere l’articolo nella pagina delle recensioni insieme ai film di costume e così stamane non l’ho trovata subito. Nel 2012 mi sono guardato gran parte della filmografia di Pupi Avati e ho imparato a conoscere alcuni attori caratteristi come Gianni Cavina e Carlo delle Piane che Avati utilizza molto spesso, quasi mai come protagonisti. Sono  andato a rivedermelo e così ho scoperto che alla mostra di Venezia del 2010 questo film non è stato ritenuto degno di rappresentare l’italia tra i film in concorso

Una sconfinata giovinezza (2010) è dedicato alla malattia di Alzheimer attraverso il racconto di una esperienza di vita di due coniugi di successo, che si vogliono bene e che, improvvisamente, si trovano a fare i conti con la malattia che isola progressivamente da sè, dai propri affetti e dalla propria vita.

Il film mi ha colpito. L’ho visto in agosto 2012 e me lo sono riguardato a novembre prestando attenzione alle cose che mi avevano colpito prescidendo dal richiamo alla malattia: il ritorno all’infanzia; i ricordi sugli amici, i giochi, gli ambienti. Su Youtube ne parlano il regista e i due protagonisti.

La sceneggiatura nasce da un romanzo-racconto dello stesso Pupi Avati e la storia si svolge su due piani: c’è l’Alzheimer, ma con la scusa della malattia, ci sono il ritorno all’infanzia e la trasformazione di un amore coniugale in amore filiale. Di fronte alla scena del ragazzino che ritaglia i tondi delle figurine di cartone e li ficca nelle “agrette” delle bibite per giocare al “giro d’Italia” mi sono commosso: l’ho fatto anche io da bambino e i nomi erano gli stessi; Kobler, Nencini, Gaul, Bartali. Anche noi giocavamo nei cortili del paese su piste in terra battuta in cui inserivamo vari livelli di difficoltà: le salite, le gallerie, le curve a gomito. Si tirava usando come una molla il dito indice caricato dal pollice e bisognava dosare con attenzione perché se tiravi troppo forte l’agretta usciva di strada e il tuo ciclista restava fermo un giro.

Lino Settembre (Fabrizio Bentivglio) fa il capocronista sportivo al Messaggero ed è uno dei volti delle trasmissioni TV di sport; la moglie Chicca (Francesca Neri) è una docente universitaria di filologia romanza con alle spalle una di quelle famiglie patriarcali emiliane con genitori, fratelli, cognate, nipoti che si ritrovano per il pranzo di Natale e per le occasioni canoniche.

Si affacciano i primi segni di perdita di memoria (inizialmente nella scelta dei vocaboli), poi pian piano nella costruzione dei concetti e del rapporto con il reale. Si passa attraverso le fasi classiche: l’ironia, la negazione, la scelta di nascondere fino alla diagnosi e alla esplosione dei sintomi.

Lino regredisce e Chicca vede nascere in lui, pian piano, il bambino che non hanno mai avuto. Sceglie di stargli vicino finché esplodono la rabbia e la violenza. Si allontana, ma poi ritorna per giocare con lui al giro d’Italia.

Lino si ritrova dapprima smarrito durante una trasmissione in diretta TV, poi inizia a mischiare nei suoi pezzi componenti professionali e ricordi di infanzia finché, nella cerimonia di commiato dal giornale si rompono i freni inibitori ed escono i ricordi, quelli più intimi su Chicca, che mettono in imbarazzo tutti con il racconto di quando l’ha vista nuda la prima volta. E dopo i ricordi scoppia la violenza verso Chicca che gli ha rovinato la festa.

In un momento di scoramento Chicca si rivolge ad un collega con la moglie malata da tempo. Lui ha scelto di tenerla con sè e la scena di Chicca che viene presentata come il tecnico che fa la punta alle matite colorate è drammatica e dura. Chicca decide di provarci a tener duro.

Tutto il film è inframmezzato dai ricordi di infanzia di Lino: la morte del padre in un incidente d’auto: il trasferimento dagli zii sull’Appennino bolognese, il cane Perché, i due amici e fratelli scombinati (quello con la palatoschisi, un po’ suonato, ma che sapeva le tabelline oltre il 10 e quello che fa risuscitare i morti), le prime sveltine con una coetanea, il ritrovamento del brillante dell’anello del padre tra i frammenti dei cristalli dell’auto la cui vendita da parte della zia (Serena Grandi) consentiranno a Lino di andare in collegio a studiare. In tutto il film i ricordi di infanzia fanno da pendant al procedere della malattia.

Un giorno Chicca ha un incidente d’auto fuori di casa e Lino lasciato da solo all’ospedale si perde; prende il treno e va a Bologna. Prende un taxi (Gianni Cavina) e si mette alla ricerca dei due fratelli; vuole ritrovare Perché e si perde definitivamente nelle brume dell’Appenino davanti ad un cimitero di montagna. En passant il taxista e la moglie che lo scorazzano per l’Appennino si prendono in cambio i 10 mila euro della liquidazione, anzi di più quando riportano Chicca e suo fratello a vedere il punto della scomparsa si prendono anche un surplus perché con uno così chi vuole che abbia pensato ai soldi.

Avati è molto bravo nell’alternare i diversi piani narrativi e nel ricostruire gli ambienti: la TV, la redazione, la famiglia patriarcale di Chicca con i pranzi tradizionali, il mondo contadino povero dell’Appennino bolognese verso Porretta (la lotta per palpare le ragazzine, la visione del culo delle donne occhieggiando tra le assi sconnesse delle latrine a secco annesse alla casa, …).


Il mio voto: 9; 10 alla interpretazione di Lino. Francesca Neri rimane bellissima anche quando, come in questo film, la fanno invecchiare.




Difret il coraggio per cambiare – recensione

Dopo aver visto Il ragazzo che catturò il vento mi sono messo in testa di guardare un po' di film africani. Si trova poco perchè li mandano ai festival europei ma poi nessuno li traduce e li distribuisce. Questo, come vedete dalla locandina, ha superato le barriere perché è prodotto da Angelina Jolie.

E' un film etiopico di 6 anni fa e ci parla di un problema che noi tranquilli europei pensavamo scomparso: il rapimento delle bambine da stuprare e poi sposare perché la tradizione vuole così.

Siamo nelle campagne non molto lontano da Addis Abeba con i villaggi di paglia e lamiera dove la giustizia è ancora amministrata dalle corti di villaggio che si riuniscono all'ombra di un grande albero e a cui partecipano solo gli adulti maschi e dove ci si muove a piedi, con l'asino o a cavallo.

La regia e la sceneggiatura sono di Zeresenay Berhane Mehari (formatosi negli USA ma tornato poi nel suo paese) e il fatto che ci siano voluti circa 10 anni sino ai soldi della Jolie per la realizzazione la dice lunga. Gli attori sono tutti etiopi. La parte più interessante del film l'ho trovata nel contrasto tra i costumi della tradizione e la burocrazia di uno stato in via di formazione (la polizia, la magistratura inquirente, il mondo della città, la magistratura giudicante).

Uomini e donne molto belli, arretratezza, strade polverose, vecchie auto della Toyota, telefoni a linea fissa, enormi macchine da scrivere e ogni tanto qualche pc portatile.

La storia è vera ed è del 1996 quando circa il 40% delle adolescenti etiope subivano la sorte di Hirut una ragazzina di 14 anni che mentre torna a piedi dalla scuola viene rapita da un gruppo di giovani a cavallo guidati da Tadele che la rapisce, sequesta e violenta per sposarla. Si tratta di una cosa talmente normale che il rapitore la mattina dopo lascia nella baracca il suo fucile mitragliatore e la porta aperta quando viene chiamato dagli amici.

Hirut cerca di fuggire portando con sè il fucile e, quando viene raggiunta, spara e uccide Tadele. Rischia di essere sgozzata sul posto e viene portata al posto di polizia dove viene subito messo in  chiaro che dovrà essere giustiziata.

Il film si gioca tutto sul rapporto tra Hirut, spaventata ma determinata, e Meaza Ashenafi, una avvocato donna che ha lasciato la magistratura per fondare ANDENET una associazione che si occupa di tutela legale delle donne maltrattate sino al processo finale concluso con la assoluzione di Hirut ed è in questa successione di eventi che emergono tutti i contrasti e le trasformazioni in atto nella società etiopica.

 




Sanguepazzo – film di Marco Tullio Giordana

Quando questo film è uscito (2008) ero in tuttaltre faccende affacendato e così, nonostante avessi fortemente apprezzato La meglio gioventù (2003), il passo successivo di Marco Tullio Giordana mi è sfuggito e l'ho scoperto scorrendo la sua filmografia mentre scrivevo di Nome di donna.

Giordana dopo aver raccontato 37 anni di storia italiana del dopoguerra ha scelto di parlare di fascismo e di resistenza scegliendo un argomento affine al suo lavoro (il mondo del cinema) e scomodo (gli effetti tragici della guerra civile).

Il film è bello, rigoroso, con una grande interpretazione di Luca Zingaretti e una buona presenza di Monica Bellucci che riesce ad essere molto di più di una bella mora e inizia con una bimba che raccoglie una pizza cinematografica tra le macerie di una Milano semidistrutta, davanti a due cadaveri, per terminare con la stessa bimba che, dopo aver riavvolto il nastro di celluloide, se ne va in bicicletta.

In mezzo, attraverso un alternarsi di va e vieni nel tempo c'è la storia d'amore e la vita di due attori dal loro primo incontro sino alla fucilazione: l'esuberanza e l'istrionismo di Valenti, la Ferida che ama due uomini molto diversi per cultura e origine sociale, iul secondo è un regista immaginario e nobile (Visconti?), la cocaina, la scelta di Valenti di non essere nè accomodante nè voltagabbana, il rapporto con quelli della banda Kock procacciatori di morfina, la X MAS e l'incontro con Junio Valerio Borghese.

Luisa Ferida (Luigia Manfrini) e Osvaldo Valenti sono stati due importanti attori del cinema italiano tra gli anni 30 e 40 del novecento e, a differenza di chi rimase a Roma inaugurando il filone neorealista, dopo lo smantellamento di Cinecittà scelsero di andare a Venezia a seguire le sorti del fascismo cadente e della RSI.

Da Venezia andarono a Milano (l'ultimo film è del 44) inseguendo l'approvvigionamento di droga (di cui Valenti era fortemente dipendente), ma se si va a cercare tra i documenti si trova quello che nel film non c'è e cioè il suo lavoro nella X MAS in alcune azioni di contrabbando organizzato con la Svizzera con sede a Lanzo d'Intelvi per procurare valuta pregiata alla RSI.

Sanguepazzo è una ipotesi di film dissacrante che Valenti sogna di fare e che non si farà mai: "E' un film che sto girando da 10 anni e che non finirò mai; sanguepazzo è la mia merda, la merda, i soldi, il sangue, il sesso; quello che vogliamo nascondere, quello che non vogliamo sapere …". Così si racconta, prima di lasciare Venezia a chi gli propone di diventare il capo della cinematografia della RSI, avere un passaporto diplomatico e scappare in Spagna. Invece lui si arruola nella X MAS e si trasferisce a MIlano.

Il responsabile della brigata Pasubio cui si erano consegnati spontaneamente riferì che l'ordine di fucilazione arrivava direttamente dal CLNAI e in particolare da Pertini e, come per molti episodi della primavera 45, ci fu poi, nel dopoguerra, un processo da cui emerse che non dovevano essere fucilati. Se volete saperne di più trovate in rete un sacco di materiale incluse due biografie.

Ma il film è un racconto di vita e di ambienti con una serie di dettagli della loro vita, del mondo del regime, del mondo dei semplici e di quello dei privilegiati. Alcuni di questi dettagli, se si va a scavare, si scopre che corrispondono alla verità storica. Per esempio c'è l'amante di Pietro Kock , una subrette fanatica ammiratrice della Ferida che si dilettava ad imitarla con sceneggiate presso gli antifascisti detenuti e torturati e che, nel processo sommario del 45, fu probabilmente scambiata per la Ferida.

Dura oltre due ore e mezza ma la sceneggiatura, la interpretazione di Zingaretti e la bravura di Giordana nel ricostruire e documentare fanno scorrere il tempo senza far pesare la lunghezza del lavoro. Ho trovato singolare, alla fine del film, che a comandare il plotone di esecuzione sia stato scelto Luigi Lo Cascio, il protagonista della Meglio Gioventù, quasi a stabilire un nesso ideale e sottile tra i due film: "abbiamo messo il cartello … giustizia è stata fatta", mentre il partigiano cui si rivolge lo guarda con aria perplessa.


dichiarazioni di Marco Tullio Giordana alla uscita del film

Non erano colpevoli delle cose di cui furono accusati. Valenti frequentava, è vero, Koch, ma perché quello gli passava la droga che gli era necessaria.

Non avrei mai voluto trovarmi nei panni di chi ha dovuto decidere del lo­ro destino. Probabilmente anch'io, date le circostanze, avrei scelto la condanna a morte.Si era nella fase in cui punire alcuni simboli aveva la funzione catartica di sal­vare tutti gli altri.

Ebbi I'occasione di parlare con i testimoni diretti, compresi alcuni del plotone d’esecuzione. Da alcuni silenzi, da certe esitazioni, da un modo di abbassare gli occhi, cioè da dettagli che nessun libro potrà mai restituire, mi convinsi del disagio di molti protagonisti.

Se gli eccessi, quando cui furono, fossero stati resi noti nel momento di massima efficienza del mito della Resistenza, cioè nell’immediato dopoguerra, il mito stesso non ne sarebbe stato intaccato e avremmo potuto più velocemente voltare pagina senza portarci dietro per troppo tempo i veleni che ci hanno costretto a vivere in una perenne guerra civile

Il film è un viaggio nella biografia individuale di due attori baciati dal successo e ruota attorno a una domanda inespressa ma assillante: perché aderirono a Salò? Avrebbero potuto imboscarsi, come altri colleghi. Invece decidono di andare fino in fondo per quella maledizione scritta nel carattere.

Ma non si può pretendere che esista una memoria uguale per tutti, è un atro di prepotenza. Per questo esistono gli artisti, per dare vo­ce alle memorie più diverse, per racconta­re le storie. Non la Storia. Quello è compito degli storici.

Mio padre e mio nonno sono stati eroi della Resistenza, e non vorrei incontrandoli nell'aldilà, dovermi sentire in colpa. È stato Pavone nel 1991 a infrangere il tabù sulla guerra di Liberazione e sulla Resistenza, parlando di guerra civile, quindi mi sono sentito autorizzato a uscire anch'io dal mito.




Nome di donna –> Bella da morire – Cristiana Capotondi

Sulla Rai, da due settimane, va in onda una fiction social-poliziesca interpretata alla grande da Cristiana Capotondi e domenica 29 marzo ci sarà la terza puntata (due episodi da 50 minuti a puntata): Bella da morire (prime share con oltre 5 milioni di spetttori ogni volta). In replica su RaiPlay.

Ho visto i primi quattro episodi in sequenza, con tutti i vantaggi e svantaggi della mancata sedimentazione che si ha nella visione a puntate. Molto buona l'idea originale di una poliziotta tosta e intransigente dalla parte delle donne, ma credo che si sia peccato con l'effetto trascinamento, in una storia che si diluisce e si arricchisce di personaggi di contorno per dare linfa alle molte puntate rischiando di trasformare l'idea della denuncia della violenza sulle donne in un polpettone.

Eva Cantini (Cristiana Capotondi) è una giovane ispettrice di polizia, milanese, esperta in femmminicidi, dura e tosta (con fama di rompicoglioni), che si trasferisce in un paesello della bassa (Lagonero), il suo paese di origine, per dare una mano alla sorella, ragazza madre con un bimbo di 10 anni, fuori come una mina e con problemi da parte dei genitori dei compagni, maestre e servizi sociali (al punto che sembra più saggio ed equilibrato il bimbo). La sorella è in rotta con il padre, anche lui a Lagonero, che non l'avrebbe sufficientemente seguita nel momento della gravidanza (frutto di uno stupro tenuto occultato).

La Bella da morire è una giovane fotomodella Gioia Scuderi che sparisce e, come sottolinea da subito Eva, le donne non si allontanano e dunque quando scompaiono bisogna cercarle perché è certamente accaduto qualcosa di grave; in effetti Gioia è in fondo al lago, strangolata. Ed ecco l'elenco delle problematiche che mi hanno fatto scrivere che si è messa troppa carne al fuoco, e siamo solo ai primi quattro episodi (e dunque ci sarà dell'altro, magari un prete pedofilo):

  • la battaglia di Eva per i diritti delle donne portata avanti con durezza e continue rotture
  • la storia tormentata con un collega, solido ma che ha avuto alle spalle un episodio di violenza e dunque per Eva si tratta di un vulnus indigeribile
  • il rapporto con la sorella, quello tra la sorella e il figlio, il rapporto con il padre
  • le dinamiche interne alla famiglia di Gioia con un padre disperato, una madre in Halzahimer, una sorella vittima di violenze in famiglia
  • i due fidanzati di Gioia (che era ai primi mesi di gravidanza): il suo agente che la menava e con cui aveva una storia (disegnato come uno stronzo da odiare e a cui Eva in ogni situazione non le manda a dire) e un secondo personaggio, innamorato perso e con una mogle cieca dalla nascita che intuisce, capisce e non perdona
  • la giudice che segue il caso (Lucrezia Lante della Rovere) che vive un rapporto a metà tra quello materno e quello di sorellanza verso Eva che la mette comunque in crisi rispetto ad un tran tran fatto di saggezze e tradimenti come accade nella terza età
  • la medico-legale, Anita Mancuso, una giovane single, insicura ma brava, innamorata del suo professore, ahime dannatamente gay

Mi chiedo se le fiction debbano essere per forza così, ma la bravura di Cristiana Capotondi mi ha indotto a cercare i suoi film e così ne ho trovato uno del 2018, presentato l'8 marzo, Nome di donna, per la regia di Marco Tullio Giordana, vedendo il quale ho capito come mai si sia arrivati a questa fiction (tema e scelta della attrice protagonista). Come in un film che si rispetti qui la storia è una sola ed è una storia di molestie verso una donna dentro una istituzione paraecclesiastica.

Il film è tutto lombardo e ambientato in un luogo indefinito della bassa tra le province di Pavia, Lodi e Cremona: campagna lombarda, cascine, ville nobiliari, tanta acqua e campi coltivati; la scena iniziale in cui Nina arriva al Baratta mi ha ricordato inizialmente villa San Martino di Berlusconi, ma la facciata era più imponente e mi sono subito ricreduto.

Nina è una ragazza madre con una figlia di una decina d'anni che, grazie alla raccomandazione del prete del paese viene assunta come inserviente per una sostituzione estiva in una grande villa trasformata in residenza di lusso per anziani, il Baratta. La sostituzione va bene e don Roberto Ferrari (Bebo Storti), formalmente capo del personale ma deus ex machina della struttura, come promesso, la assume a tempo ideterminato.

Don Roberto è colui che manovra il Consiglio di Amministrazione, che decide, che copre quello che non va perché il Baratta sta in piedi sulla qualità del servizio. E' la figura del prete manager che si occupa del quieto vivere, disponibile ma con l'occhio di chi ha ben chiara la differenza tra il potere e i subordinati. Nina fa una buona impressione per essersi presentata a vedere il posto di lavoro prima della casa che le daranno in comodato e quando risponde alla domanda se, oltre alla figlia, ha altri parenti, dicendo che ha un compagno che lavora a MIlano, il prete puntualizza beh non è che si tratti proprio di un parente.

Nella residenza lavorano molte donne, in maggioranza dell'est, in servizio con una divisa verdina, i capelli raccolti e le calze velate bianche. Fa tutto parte dello stile, ma fa anche parte di uno degli inconfessabili segreti della struttura, i segreti del direttore Marco Maria Torri, che ama farle venire nel suo ufficio in divisa, a fine turno perchè la divisa lo attizza e gli consente di esercitare il suo potere fatto di sottintesi, tentativi di violenza, profferte di auto in cambio di sesso, con un modo di operare in  cui il maniaco alterna tecniche di seduzione a scatti d'ira.

Anche Nina viene convocata a fine turno; è  stata appena confermata, è preoccupata perché per lei il lavoro è la  base della autonomia e di una esistenza dignitosa, si chiede cosa vorrà da lei il boss e Torri ci prova in un ambiente ambiguo che si conclude con un abbraccio in pieno stile te lo appoggio. Nina se ne va sconvolta, parla con le compagne e scopre che si tratta della norma. Così quando il giorno dopo Torri la convoca e in presenza della segretaria finge di non conoscerla, decide di andare fino in fondo contro il parere del compagno e mentre le compagne per paura, per abitudine e per quieto vivere la mollano.

Si rivolge alla CGIL che sta iniziando le campagne contro mobbing, stalking e molestie e decide di andare avanti. II giudice non la ascolta nemmeno, sente le compagne, sente la direzione e decide di archiviare per il buon nome del Baratta.

Per NIna inizia il calvario sino ad una lettera di ritrattazione predisposta da don Roberto per evitare il licenziamento. Clima duro, mobbing, sgarbi, isolamento ma Nina tiene duro, cerca prove testimoniali, riesce a piazzare telecamere nascoste … e tutto finisce in gloria con la magistratura che pian piano si schioda e in appello si arriva ad una condanna esemplare di Torri e di don Roberto mentre le di lui moglie e figlia se ne vanno da casa.

Tutto è bene ciò che finisce bene? No ci dice il regista Giordana. Grandi feste all'uscita del tribunale; una giornalista tv si rivolge al suo capo e gli chiede come è andata. Tutto bene, però dovresti essere un po' più … un po' più … e le appoggia la mano sull'inguine.

Bravo Marco Tullio Giordana, quello de La meglio gioventù e dei Cento passi. Brava Cristiana Capotondi, molto più misurata di quanto non avvenga nella fiction e bravissimo Bebo Storti nella parte del prete. Nel film non si vedono mai i ricchi ricoverati, con la eccezione di una attrice a riposo egregiamente interpretata da Adriana Asti.




Il ragazzo che catturò il vento – film di Chiwetel Ejiofor

Il Malawi è uno stato dell'Africa meridionale (ex Rhodesia del nord tra lo Zambia, la Tanzania e il Mozambico) e il film è tratto da un romanzo autobiografico; racconta la storia di William Kamkwamba, un ragazzino di quelli che nella nostra ricca civiltà occidentale si vedono sempre di meno, uno di quelli che di fronte ad un problema si mette in testa di risolverlo usando senso pratico, inventiva e un po' di scienza.

Agricoltura povera senza nemmeno il supporto del lavoro animale, mancanza di elettricità e mancanza di acqua. Si zappa e si sopravvive a condizione che il ritmo delle stagioni non impazzisca, che le troppe piogge non distruggano le povere coltivazioni e che alle piogge non si sovrapponga poi la siccità.

Mi ha fatto venire in mente episodi di sopravvivenza del giovane Rychard Feynman che da ragazzino si manteneva agli studi rovistando nelle discariche alla ricerca di cose da smontare e rimontare mettendo insieme tre cose rotte per farne una funzionante.

L'Africa profonda ci porta indietro di quasi un secolo e i problemi sono gli stessi. Non c'è l'energia elettrica e la comunicazione con il mondo avviene attraverso vecchie rado a transistor alimentate a pile che ti mollano sul più bello (ma non c'è la rivendita dove si comperano le pile nuove).

C'è la scuola (luogo di promozione sociale), ci sono gli allievi con la divisa della festa, ci sono regole rigide e formali, niente è gratuito e se non puoi pagare sei fuori. La scuola come occasione di uscita dal mondo della tradizione, dei riti magici, del destino incerto.

C'è la discarica dove vengono gettati i macchinari di risulta della società che gestisce il monopolio del tabacco: avanzi di trattori, elettrodomestici semidistrutti, mangiacassette, accumulatori esausti.

William, dotato di senso pratico e immaginazione, smonta le cose non funzionanti per creare qualcosa che funzioni; mettendo in parallelo tante pile scariche un po' di energia risalta fuori, la radio ricomincia a funzionare e la comunità può ascoltare la partita.

Oltre la metà del film è dedicata alla descrizione della società dei riti magici, del potere politico che visita i villaggi alla ricerca del consenso ma è durissimo nella repressione di chi rialza la testa, delle dinamiche interne alla famiglia di William con il padre onesto e testardo che sogna un futuro per i figli basato sulla istruzione, della povertà, quella così pesante che al primo imprevisto ti porta alla disperazione.

In piena crisi legata alla siccità William riesce ad accedere alla bibliotechina della scuola da cui è stato espulso perché la famiglia non è più in grado di pagare la retta e lo colpisce un libro di scienza popolare legato alla energia. Lì c'è tanto vento e con il vento si potrebbe far girare una pala in grado di far girare una dinamo, con la elettricità della dinamo si potrebbe tenere in carica una batteria di accumulatori da cui si siano estratti gli elementi ancora buoni, con l'accumulatore carico si può far funzionare una pompa in grado di tirar su l'acqua dal pozzo, con l'acqua del pozzo si possono seminare verdure in grado di far resistere la comunità sino al prossino raccolto e, in prospettiva, risolvere il problema della siccità.

La storia è questa, con tutti i piccoli drammi interni allla comunità e alla famiglia, con la conquista di consenso tra i coetanei, con la difficoltà a procurarsi la dinamo della bici del padre che dovrà sacrificare l'unico bene rimasto, la bici, che dovrà essere segata per realizzare il sistema di tramissione dell'energia meccanica delle pale in energia di rotazione della dinamo, la realizzazione di un prototipo che consente di accendere una radio sino al modello gigante di mulino a vento.

Mi ha lasciato perplesso l'idea della dinamo da bici per via delle potenze in gioco molto ridotte, ma sembra che si sia trattato di una storia vera che ha consentito alla comun ità di sopravvivere e a William di studiare grazie alle borse di studio legate alla generalizzazione del progetto.

In questi giorni in cui la nostra società attraversa una crisi paragonabile a quella delle due guerre mondiali un bel messaggio a favore della concretezza, della famiglia, del ruolo della istruzione, della esistenza di persone positive. E poi che bello un film pensato, realizzato in Africa con maestranze africane e sui problemi dell'Africa.

Regia di Chiwetel Ejiofor (che interpreta il ruolo del padre). Un film con Chiwetel Ejiofor, Joseph Marcell, Aïssa Maïga, Noma Dumezweni, Lemogang Tsipa.