riflessioni sulla democrazia

È nella consapevolezza di moltissimi, se non di tutti, che la democrazia così come è stata progettata e perseguita nel pensiero politico occidentale, negli ultimi tempi, sia andata inesorabilmente in crisi.

Questa forma di organizzazione della politica nelle varie forme in cui è stata declinata negli stati che si sono autodefiniti “Occidente” già alla fine del ‘900 e in modo sempre più evidente nel secondo millennio ha mostrato segni di cedimento o di regressione.

La “Democrazia Occidentale” con le sue forme e le sue norme, le sue ritualità finanche i suoi costumi è diventata, specialmente dopo la II guerra mondiale, nonostante tutto, esempio, miraggio e obiettivo di tutti quei Paesi che si affrancavano dal colonialismo o che cercavano di accreditarsi paritariamente nel consesso internazionale delle cosiddette nazioni “libere”.

Non sempre questo percorso è stato lineare e pacifico; ad avanzamenti spesso seguivano drammatici arretramenti, ma fu un processo che vide coinvolti quasi tutti i paesi dell’Asia, dell’Africa e del Sud America. I valori della democrazia sono stati considerati, o si sono autodichiarati “valori universali”; in tal senso si espresse anche Enrico Berlinguer a Mosca nel nov. 1977 in occasione del 60° anniversario della Rivoluzione d’Ottobre proprio in casa del Partito Comunista Sovietico che da sempre aveva mostrato pregiudizi negativi e ambiguità nei confronti dei regimi democratici.

Il suffragio universale, tratto fondamentale della democrazia, è adottato ormai in quasi tutti i paesi del mondo escluso quei pochi che oggi sono retti da regimi a impronta tribale o dittature personali conclamate. È anche vero, e non lo si ripete mai abbastanza, che la democrazia non si esaurisce con la semplice pratica elettorale come tendono troppo spesso a farci credere le forze populiste che spingono verso interpretazioni plebiscitarie, anche se il voto ne costituisce uno dei momenti fondamentali. La libertà di esprimere il proprio pensiero, la libertà di professare la propria religione, la tutela delle minoranze sia etniche sia culturali, il diritto all’istruzione e alla sanità con cure mediche per tutti, determinano nel loro insieme il livello di democrazia in un determinato paese.

Ma ora veniamo alla considerazione iniziale per cui, qui in occidente, percepiamo che la democrazia stia attraversando una fase regressiva tale da minare, in taluni casi, i suoi presupposti fondamentali e costitutivi per cui si coniano delle definizioni quali “democratura” o “democrazia illiberale” per indicare queste trasformazioni.

Svilupperei al fine della comprensione di questo fenomeno alcuni punti di vista che si legano tra loro.

collocazione storica della democrazia

Abbiamo considerato la democrazia, troppo superficialmente e ingenuamente, come un valore socio-organizzativo strutturale della nostra civiltà e finanche irreversibile come lo sono stati il fuoco o la ruota dal punto di vista tecnologico. Anzi non poteva che progredire e migliorare. Ma si dà il caso che la democrazia non sia un bene tecnologico e se la nostra civiltà non la possiamo immaginare senza la ruota o una qualsivoglia forma di energia elettromagnetica, il consesso umano potrà sicuramente sopravvivere anche senza democrazia.

la Grecia

Teniamo presente che nella plurimillenaria storia dell’umanità la democrazia, come fenomeno politico sociale occupa uno spazio di tempo estremamente esiguo: a conti fatti circa 150 anni tra il V e il IV sec. aC. e altrettanti dagli ultimi decenni dell’ ‘800 a oggi e non in maniera continuativa. Forse forme di democrazia sono state esercitate in diversi ma esigui contesti sociali ma comunque irrilevanti dal punto di vista storico.

La forma di democrazia che si è venuta a costituire in Occidente ha le sue antiche radici nel travaglio politico che scosse la città-stato di Atene sullo scadere del VI sec. aC.

Nell’arco di circa cinquant’anni trasformò l’assetto politico dello stato da una sostanziale monarchia, chiamata allora tirannide, in una organizzazione socio-politica e culturale che si diede il nome di democrazia. I più importanti e noti artefici di questa immane trasformazione furono dapprima il grande legislatore Solone, poi Clistene che di fatto con un’azione temeraria e violenta mise fine alla tirannide e il grande stratega Temistocle.

Ma il personaggio che più si identificò nel processo democratico fu sicuramente Pericle che giganteggia con la sua figura politica per gran parte del ‘400 aC. Fu con lui che Atene prese consapevolezza piena che il regime politico da loro “inventato” non aveva uguali nel mondo conosciuto e sopravanzava di gran lunga per complessità e articolazione tutti gli altri e fu lui che, nel celebre epitaffio per i morti nel primo anno della guerra del Peloponneso, vantò orgogliosamente che Atene, non solo non aveva nulla da imparare politicamente dagli altri ma il suo regime democratico era d’esempio e di guida per tutti gli altri popoli, concludendo con un lapidario “…noi ad Atene facciamo così!”. Nel suo insieme questo epitaffio esprime la consapevolezza di una superiorità etica del regime democratico con i suoi concetti di uguaglianza e giustizia, ma non solo, si può intravvedere anche una considerazione estetica, la bellezza e l’armonia dei suoi rapporti politici.

Questa fase durò circa 160 anni, compreso un breve periodo tra il 411 e il 404 aC. quando, a seguito di un colpo di stato, il sistema politico si caratterizzò come una oligarchia ossia una riduzione energica del corpo avente diritto elettorale trasformandosi di fatto da “potere del popolo” a “potere di pochi”. L’esperienza democratica terminò di fatto con la conquista delle città greche da parte di Alessandro Magno nel 338 aC. e successivamente con l’occupazione di tutta la Grecia da parte dei romani e la sua riduzione a provincia di Roma.

Roma

Da allora in poi di democrazia non se ne parlò più per quasi 2000 anni. Il termine stesso di democrazia scomparì anche dal vocabolario politico. Nella Roma repubblicana la parola che più si avvicinava a democrazia fu Res Publica che indicava per estensione non solo la cosa pubblica ma lo Stato nel suo insieme, ma non l’esercizio giuridico del potere. Il “kratos” ossia il potere come volontà giuridica nel suo esercizio forse poteva essere compreso e contenuto nell’acronimo SPQR che indicava l’insieme del potere legislativo e deliberativo che il Senato esercitava a nome di tutto il popolo di Roma.

l’illuminismo

I primi a riprendere il termine democrazia e considerarlo come progetto spendibile politicamente furono gli illuministi della seconda metà del 1700. Con la Rivoluzione Americana prima e con la Rivoluzione Francese il termine democrazia entrò a pieno titolo nei progetti politici dei protagonisti di quegli eventi, anzi fu proprio con la Rivoluzione dell’ ’89 che si amalgamò in simbiosi con i valori di “Egalitè”, e “Libertè” insieme al valore etico di “Fraternitè”.

Ci volle praticamente un secolo, tutto l’ ‘800, cento anni di lotte sanguinose, massacri di massa come alla Comune di Parigi e l’innesto di teorie politiche nuove come il “pensiero socialista” nel suo insieme per dare alla democrazia la spinta per approdare, a cavallo del ‘900, nel patrimonio politico di non poche forze presenti nei parlamenti europei e americani.

Il pensiero e l’azione delle varie correnti del socialismo, con i marxisti in prima fila, arricchì il concetto di democrazia di nuovi e sostanziali valori. L’uguaglianza, per esempio, non fu solamente intesa come concetto mistico e giuridico: “Siamo tutti uguali davanti a Dio e alla legge” ma si caricò anche di una valenza economica: non si può essere veramente liberi ed uguali senza abbattere le grandi differenze materiali che separano le classi sociali. Al vecchio dilemma di Menenio Agrippa veniva data una soluzione diversa da quella prospettata dal console romano 2300 anni prima, non più compromessi ma lotta di classe, la plebe forte di un suo pensiero autonomo non si sarebbe ritirata sull’Aventino, come allora, ma avrebbe accettato la sfida per conquistare la vera democrazia cioè l’esercizio del potere.

il socialismo

Per contrastare questa nuova interpretazione del concetto di democrazia ai reazionari e conservatori, nostalgici dell’ancient regime, si aggregò quel ceto borghese imprenditoriale, che realisticamente non poteva e voleva ritornare agli antichi meccanismi feudali, ma che intendevano la libertà come concetto individuale e non collettivo e non potevano accettare le tendenze economiche-egualitarie proposte dai socialisti.

Questi ceti sociali si unirono in una inedita alleanza, si impossessarono del concetto di democrazia ma lo svuotarono dei suoi valori progressivi. A questo punto il conflitto tra le due visioni della democrazia e tra le classi sociali da esse interpretate divenne insanabile. Detonatore di questo conflitto fu anche la sciagurata, sul lungo periodo, interpretazione marxista che rappresentava la democrazia come la dittatura di una minoranza borghese alla quale si doveva contrapporre una dittatura dei lavoratori, la maggioranza, e in particolare dei proletari appresentati dal loro partito.

Non solo, ma la borghesia conservatrice cercava di frenare in ogni modo l’estensione del diritto di voto mettendo delle barriere di censo o di scolarizzazione al suo esercizio mentre i partiti socialisti spingevano con alterni risultati per una legge elettorale sempre più rappresentativa delle masse popolari o, addirittura per un suffragio universale. Queste forze contrapposte e in conflitto tra loro non erano comunque rappresentate omogeneamente in Europa. In Germania, Francia e Inghilterra, le forze che rappresentavano gli interessi delle classi lavoratrici, pur restando sempre delle minoranze parlamentari, conquistavano in quei consessi istituzionali sempre più peso.

In Russia, per una debolezza intrinseca della borghesia, la democrazia era compressa ai minimi termini; vigendo sostanzialmente un regime feudale ancorché boccheggiante ma violentemente repressivo, le forze progressiste, schiacciate all’impossibilità di una opposizione legalitaria, non avevano altro spazio se non quello di attentati terroristici nichilisti.

La Grande Guerra dei nazionalismi, se da un lato indebolì l’idea che da più di 60 anni scaldava i cuori dei lavoratori: “Proletari di tutto il mondo unitevi”, dall’altro, per poter organizzare gli eserciti, richiese di armare massicciamente proprio le masse popolari. Il rifiuto della guerra, il possesso delle armi e organizzazioni politiche con parole d’ordine semplici ma efficaci furono l’alchimia storica che permise lo scoppio della “Rivoluzione d’Ottobre” e lo sradicamento di un regime zarista ormai antistorico.

Storici e studiosi delle dottrine politiche concordano nell’affermare che la presa del “Palazzo d’Inverno” fu un punto di rottura e di svolta nel panorama politico europeo se non mondiale. Nel pensiero politico europeo si produsse una rottura e una divaricazione nel concetto di democrazia. I conservatori e la destra in generale, da una parte, radicalizzarono il loro concetto di libertà in rapporto alla democrazia spingendolo ad una prerogativa sempre più individuale.

il nazifascismo

A sinistra invece si radicalizzò il progetto politico per la conquista del potere: “Facciamo come in Russia” svuotando e indebolendo la strategia storica della socialdemocrazia per la via parlamentare producendo una spaccatura nelle forze progressiste europee. Il velleitarismo inconcludente della frazione comunista innescò la reazione politica delle destre che identificando concettualmente il socialismo con la democrazia si mossero per distruggerli entrambi precipitando non senza benevolenza nel fascismo in Italia e nel nazismo in Germania con tutto quello che ne seguì sul piano internazionale.

La stratega per ottenere successo si sviluppò, per entrambi i movimenti, su più direttive tra le quali le più importanti furono:

  1. L’uso della violenza per contrastare e mettere a tacere gli avversari politici.
  2. Esasperare propagandisticamente il sentimento nazionalista del popolo vittima a detta loro di discriminazioni e congiure internazionali (europee) e da gruppi economici finanziari (ebrei) dai quali necessita riscattarsi, rafforzando e contrapponendo una idea di nazione e di razza in pericolo.
  3. Svuatamento e annichilamento di tutte le forme socio organizzative e politiche che caratterizzano una democrazia.

Fu questo processo, politico e culturale insieme, che portò al potere il fascismo e il nazismo guardato a tratti anche con simpatia e benevolenza dalle cosiddette democrazie liberali le quali ne apprezzavano la loro risolutezza nella lotta e argine a quello che ritenevano il vero pericolo ossia il “bolscevismo” dilagante.

Sull’altro fronte già spaccato, le due visioni strategiche contrapposte, quella parlamentare e quella rivoluzionaria, furono ulteriormente divaricate dalla sciagurata direttiva del Partito Comunista sovietico che etichettava i socialisti e socialdemocratici europei come “social-fascisti” da combattere alla stregua dei veri fascisti e nazisti.

Con la costituzione del Fronte Popolare in Francia nel 1936 e il sostegno al governo legittimo spagnolo contro il colpo di stato organizzato da Francisco Franco le forze democratiche ritrovarono una unità politica e d’azione che in Italia si concretizzò con la resistenza al nazi-fascismo e la lotta di liberazione dal 1943 al ’45. Dal riavvicinamento delle forze progressiste e democratiche e dal loro lavoro politico in comune scaturì, nell’immediato dopoguerra, la Costituzione faro e guida della nostra Democrazia Repubblicana.

carattere dinamico e non statico delle democrazie

Questa superficiale e schematica ricostruzione storica, assolutamente non esaustiva, mi permette di affrontare il secondo argomento che mi ero riproposto, cioè il carattere dinamico della democrazia con lo scorrere della storia.

La democrazia, come esercizio del potere da parte del popolo con le modalità e le regole che si autoimpone, al suo esordio, nell’Atene del VI secolo aC. si realizzava in un contesto statuale non paragonabile a quello attuale. L’organizzazione socio-politica faceva riferimento alla città-stato di Atene e il popolo chiamato e a esercitare questo potere era costituito esclusivamente da ateniesi discendenti da ateniesi.

Erano esclusi, sebbene residenti, i cittadini di origine straniera chiamati meteci e gli schiavi. Anche le donne non potevano esercitare alcun diritto politico e questo non ci deve sorprendere dato che in Italia alle donne venne concesso il diritto di voto solo nel 1946 e nel cuore dell’Europa, in Svizzera, si dovette aspettare fino al 1971 e in alcuni paesi arabi come la Giordania, il Kuwait, gli Emirati Arabi Uniti e altri, ancora oggi le donne non hanno ancora diritto di voto. Ma quelli erano i tempi, quello era il contesto culturale che dobbiamo sempre tener presente quando facciamo dei paragoni storici: contestualizzare, storicizzare.

La base elettorale, di allora, si stima fossero circa 30.000 aventi diritto di cui solo una decina di migliaia al massimo partecipava saltuariamente alle assemblee deliberative. Per ovviare al fenomeno dell’astensionismo e incitare maggiormente alla partecipazione fu introdotto una sorta di salario, un obolo, un gettone di presenza diremmo oggi e in alcuni periodi finanche un tipo di “intervento poliziesco” per costringere i cittadini a non disertare i dibattiti politici. Alcune cariche organizzative e giudiziarie erano a sorteggio mentre quelle più tecniche e militari erano elettive.

Ma l’aspetto più importante rispetto alle forme di governo precedenti fu l’assunzione di un concetto-valore fondamentale: una testa un voto, quindi l’equivalenza potenziale di tutti gli aventi diritto che produce di conseguenza il concetto di maggioranza, cioè la maggioranza ha ragione, la maggioranza governa.

Oggi siamo, come è evidente, in un contesto storico, giuridico e etico completamente differente e la democrazia da diretta è diventata rappresentativa e questi due concetti fondamentali “una testa un voto” e “la maggioranza governa” hanno mantenuto il loro ruolo fondamentale nel rappresentare il sistema democratico anche se, in questi quasi due secoli in cui questo sistema è ricomparso come prassi politica, i due valori citati sono stati di volta in volta dilatati o compressi a seconda dei rapporti di forza che emergevano nel confronto-conflitto tra le diverse forze, progressisti o conservatori, che si contendevano il potere nella democrazia.

La lotta per estendere o comprimere il diritto di voto (la base elettorale) e di come esercitare il diritto della maggioranza a governare tutelando in equilibrio i diritti individuali con i diritti collettivi e i diritti delle minoranze è stata protagonista delle vicende politiche del passato novecentesco e continua nel presente.

Le leggi elettorali che stabilivano il diritto di voto in base al censo sono rimaste un retaggio ottocentesco superate ormai dal suffragio universale adottato come si è visto da quasi tutti i paesi. Quali e quanto siano estesi i diritti della maggioranza e le tutele delle minoranze è un terreno sul quale si confrontano le forze conservatrici e quelle progressiste che si oppongono a quello che già Aristotele nella sua opera “La Politica”, dove analizzava le varie forme di governo, individuava alla voce democrazia il pericolo e una possibilità di una sua degenerazione  verso “la dittatura della maggioranza”.

Questo andamento conflittuale tra le forze sociali mi induce a sottolineare il carattere dinamico, assolutamente non unidirezionale, della nostra democrazia e il popolo non è per nulla garantito che i risultati sociali raggiunti siano stabili, ma esiste sempre la possibilità che essi siano ridotti se non addirittura abrogati.

La nostra Costituzione, quale legge fondamentale dello Stato, indica le linee guida per ulteriori progressi della democrazia da essa scaturita, ma pur essendo una Costituzione “rigida” può essere soggetta a revisioni e non sempre in senso progressista.

Per questo a tutti coloro che superficialmente e ingenuamente si sentono tutelati dalla Costituzione dico di stare molto in guardia e in particolar modo auspico che i nostri rappresentanti facciano della difesa dello spirito della Costituzione il loro lavoro prioritario.

La difesa dei principi fondamentali della Carta si esplicano principalmente nel contrasto di quei provvedimenti o norme apparentemente secondari che con il pretesto della sicurezza o del risparmio di bilancio intaccano di fatto le libertà collettive e gli standard della nostra vita sociale. In questi, individuo tutti quei provvedimenti che intaccano il diritto alla salute per tutti, il diritto allo studio in una scuola pubblica fino ai più alti livelli, il diritto ad una vita dignitosa che solo un lavoro ben retribuito può offrire e i principi di solidarietà sociale. La possibilità che vengano intaccati o ridotti questi diritti e questi principi è indice di un indebolimento della democrazia e della nostra libertà.

come le dinamiche sociali influenzano e modificano la prassi democratica

Il terzo punto della mia riflessione cerca senza pretese di verità assolute di cogliere i meccanismi essenziali che legano le trasformazioni sociali con i relativi e conseguenti riflessi legislativi.

Prendo a pretesto un concetto espresso dal prof. Canfora che in un dibattito contestava l’espressione “… siamo in una fase di transizione storica” usata da un suo interlocutore ribadendo che tutti i momenti sono di transizione cambia solo la velocità di questa trasformazione. Ci sono fasi, epoche in cui le trasformazioni sono più lente ed altre che sono più accelerate. Così vale anche per le leggi che regolano e disciplinano i rapporti sociali, il nostro vivere civile. Queste leggi seguono l’andamento dei cambiamenti sociali, anche se una volta varate, le leggi per loro natura oppongono una certa resistenza al cambiamento. È questa resistenza, questa non sincronia tra trasformazione dei rapporti sociali, dei costumi e della cultura e le norme che regolano una società che genera i conflitti sociali tra i sostenitori dei vecchi schemi e i fautori di nuovi valori o di un nuovo ordine.

l’altro ieri

Quando le trasformazioni avvengono in tempi lunghi è più facile per le regole e le norme adeguarsi alle nuove situazioni, a volte pur restando nel corpus legislativo sono superate dagli usi quotidiani e non più applicate e cadono nell’oblio e vengono abrogate effettivamente nel corso dei periodici adeguamenti dei codici.

Quando invece i cambiamenti avvengono in tempi ristretti i conflitti sono quasi sempre inevitabili. Lo si è visto alla fine del ‘700 quando l’impostazione generale dello stato, la monarchia assoluta, fu incapace di assorbire e adeguarsi alle istanze di un ceto produttivo emergente, economicamente forte, e si arroccò nella difesa delle proprie prerogative e previlegi anacronistici decretando così la propria condanna a morte.

Sempre in quel periodo a cavallo tra ‘700 e ‘800 e sulla spinta dei nuovi valori etici da una parte ed esigenze economiche determinate da nuovi assetti produttivi fu messo in discussione l’istituto del rapporto schiavistico vecchio quanto la storia dell’uomo. Dapprima fu proibita la riduzione in schiavitù di uomini nati liberi, poi fu vietato il commercio e la tratta degli schiavi dall’Africa alle Americhe, poi con circa cinquant’anni di ritardo rispetto all’Europa, in America per opera del presidente Lincoln, nel 1864 fu abolita la schiavitù scatenando la feroce e sanguinosa guerra civile americana.

Le trasformazioni economiche e tecniche cambiano i rapporti sociali e modificano il pensiero, il modo di intendere la vita creando nuovi valori e scale di valori e quindi priorità sociali, ma succede anche l’inverso cioè che valori etici nuovi e nuove sensibilità modificando i rapporti sociali inducono a inventare nuovi modi di produzione.

Oggi le trasformazioni tecnico scientifiche e sono estremamente accelerate come mai è accaduto nella storia accompagnate da sensibilità e prospettive culturali nuove, si pensi solamente quanto siano cambiati i computer in pochi anni e la recente attenzione ai cambiamenti climatici.

Quante generazioni sono passate tra il neolitico e l’età del rame, cioè tra gli 11.000 anni aC. il 3.000 aC.? secondo calcoli approssimativi, con una vita media di 25 anni, si può calcolare circa 320 generazioni.

La trasmissione del sapere era lenta e le piccole trasformazioni tecniche che di volta in volta venivano approntate avevano tutto il tempo per essere assimilate come nell’agricoltura o nell’allevamento del bestiame, ma la ruota comparve solo nel 2500 aC., prima come attrezzo tecnico nel tornio dei vasari, poi come componente di un veicolo probabilmente un prototipo di carro. Sto parlando di 80 secoli.

Mini trasformazioni tecniche e abilità manuali, come scheggiare sempre meglio la selce o l’ossidiana, sono state tramandate de una generazione all’altra modificando molto lentamente il modo di vivere delle generazioni che hanno attraversato quel lungo periodo storico. Il bagaglio culturale di una generazione veniva trasferito a quella successiva senza traumi o scossoni.

Ora facendo un salto di qualche migliaio di anni ci poniamo un’altra considerazione dello stesso tipo: quanti secoli sono passati per assimilare nel sapere collettivo dominante che la Terra fosse scalzata dal centro dell’universo per lasciare quel posto al sole, per passare quindi dalle tesi Aristotelico-Tolemaiche al sistema Copernicano?  Beh, le prime furono definite “scientificamente” nel II sec. dC. dall’astronomo egiziano Claudio Tolomeo le seconde si affermarono dopo la pubblicazione del “De revolutionibus orbium coelestium” di Nicolò Copernico nel 1543, cioè 14 secoli dopo. Ma fu solo nel 1851 ad opera di Foucault che si dimostrò matematicamente e sperimentalmente che la Terra girasse effettivamente attorno al sole; ben 300 anni dopo, diciamo dalle 9 alle 12 generazioni.

Come si vede i tempi per assimilare nella coscienza e nella cultura collettiva quelle innovazioni tecnologiche e scientifiche che incidono profondamente nel modo di pensare sé stessi e il mondo si accorciano inesorabilmente. Faccio un ultimo esempio che mi è particolarmente caro perché l’ho usato con le mie figlie e lo userò con i miei nipoti.

ieri

Mia nonna nacque nel 1878, quattro o cinque generazioni fa. Ai suoi tempi si andava ancora a cavallo o in carrozza, molto più spesso a piedi, proprio come si muovevano le legioni di Giulio Cesare alla conquista delle Gallie. Il treno a vapore aveva da poco cominciato a macinare i suoi primi chilometri, la luce nelle case era data da lumi a petrolio e i bambini di 10 anni in Italia aiutavano nei lavori nei campi mentre nell’Inghilterra vittoriana venivano cacciati nei cunicoli più stretti delle miniere di carbone. I bisogni corporali si facevano giù in cortile in un gabinetto comune per tutto il caseggiato e l’acqua la si pompava a mano dal pozzo. I migranti con “il vapore” (così si chiamavano le navi) impiegavano più di 60 giorni di navigazione per raggiungere San Paolo in Brasile da Genova e più di tre mesi per arrivare in Australia, e la risposta ad una lettera da loro spedita arrivava non prima di sette mesi.

Nel corso della sua vita, nonna Gina è morta nel 1969, ha visto suo malgrado due guerre mondiali, la bomba atomica e l’uomo dai primi tentativi di volo dopo solo una sessantina di anni andare sulla luna. A 68 anni nel 1946 ha votato per la prima volta e ha votato: Repubblica.

Se considero l’arco temporale della mia generazione (sono del ’50) ricordo il grembiule nero, il colletto bianco inamidato, il fiocco blu al mio primo giorno di scuola; pagine e pagine di quaderno riempite con le lettere dell’alfabeto scritte con la cannuccia e i pennini a torre o a picche per la bella calligrafia intinti nel calamaio sul banco; ricordo quando mettemmo il telefono in casa, a muro perché quello da tavolo era un optional di lusso, era un “duplex” con la nostra vicina di pianerottolo, cioè sei lei telefonava noi non potevamo ne ricevere ne chiamare e viceversa, per le telefonate “interurbane” bisognava prenotarsi tramite un’operatrice della Stipel, il costume da bagno era una mutanda in lanetta con una stringa laterale per poterlo indossare senza prima togliersi le mutande … ecc.

oggi

Oggi comunico in videochiamata contemporanea con un interlocutore in Sud America e l’altro in Australia attraverso il mio smartphone, mi spazientisco se la connessione internet del PC ha qualche frazione di secondo di ritardo o sfasamento, pago passando su un POS il mio smartwatch che oltre all’ora mi indica il livello della pressione arteriosa e mi segnala delle email in arrivo.

Questi sono i tempi in cui è scandita la nostra vita, questi sono i tempi in cui la tecnologia forza il nostro cervello a pensare e ad agire; questa è la grande, violenta e veloce trasformazione a cui siamo sottoposti e costretti ad agire e si tratta quasi sempre in una manciata di secondi.

Ora se pensiamo che le regole, le leggi, lo stile di vita vivano in rapporto diretto con tutto quel mondo che la tecnologia e la comunicazione determinano non possiamo credere che le leggi socio-politiche pensate, elaborate, promulgate e scritte in un tempo che possiamo definire un’altra epoca e che sintetizzo con una immagine: scritte con la penna stilografica e trasmesso con il telegrafo, possano rapportarsi efficacemente con l’oggi o con il domani in cui la AI la farà da padrone.

ripensamenti

La Costituzione che è la legge fondamentale dello Stato, sintesi e progetto della nostra democrazia va ripensata, la Democrazia nella sua forma organizzativa va ripensata. Non so come, ma occorre prendere atto della inadeguatezza fattuale delle sue regole così come sono e non perdere tempo nel progettare forme nuove più adatte e in sintonia coi tempi. Se si dovesse lasciare l’iniziativa alle destre queste, come sarebbe già nelle loro intenzioni, la modificherebbero in senso liberticida e ridurrebbero tutte quelle norme di garanzia e bilanciamento dei poteri.

Opporsi a questa strategia estremamente pericolosa con il suo contrario ossia la difesa ad oltranza con rigidità quasi filologica della Carta Costituzionale, quella promulgata nel 1947, può diventare una posizione conservatrice e di retroguardia. Bisogna cambiare prospettiva e tentare di modificarla conservando i valori etici fondamentali in modo comunque da adeguarla alle trasformazioni epocali che stanno modificando la società.

Dichiarare che “il bello della democrazia è la sua lentezza e i suoi riti” significa inconsapevolmente condannarla a morte certa per inefficienza e inadeguatezza. Lo sforzo intellettuale e politico che viene richiesto è che l’equazione “la forma è sostanza” rimanga valida anche cambiando i termini che costituiscono la “forma”. I meccanismi burocratici-amministrativi individuati e scritti nella Costituzione quando si asciugavano i tratti di penna con la carta assorbente non funzionano più.

Forme nuove devono armonizzare i principi e i valori fondamentali con la realtà della vita quotidiana in cui la velocità decisionale deve misurarsi con la velocità della comunicazione e forse solo una nuova Assemblea Costituente può assolvere a questo compito importante.

Ma qualsiasi tecnicalità istituzionale messa in campo per adeguare la velocità decisionale alla velocità dei cambiamenti in atto non serve a nulla se non si affronta e risolve il problema-cancrena che sta facendo marcire la nostra Democrazia: l’astensionismo.

Senza partecipazione la democrazia è vuota, di più, non esiste. Ci possono essere dei governi più o meno illuminati, più o meno progressisti, ma non hanno nulla a che fare con la democrazia, sono un’altra cosa se non sono legittimati da una partecipazione elettorale significativa e comunque superiore almeno al 50%. E se oggi siamo ridotti alla situazione che al voto si recano meno del 50% la responsabilità totale, la colpa storica è dei partiti, di tutti i partiti che hanno trasformato la democrazia in una oligarchia autoreferenziale.

La partecipazione poi non può essere intesa solamente all’esercizio elettorale, ma soprattutto all’elaborazione delle scelte e delle strategie politiche. La gente per apprezzare la politica deve sentirsi  considerata e partecipe alla progettualità politica e non solamente una mano per porre una scheda nell’urna. Invertire la rotta di questa caduta vertiginosa della credibilità della politica è la sfida epocale del nostro tempo.




la botte piena e la moglie ubriaca

Faccio una premessa: non tratterò qui della intera vicenda del torturatore libico (tribunale dell’Aja, gestione da parte di G. Meloni, reticenze, …) mi limito a dire che siamo sotto ricatto (per ragioni di approvvigionamento energetico e per la presenza di uomini a rischio che abbiamo in Libia) e dunque la cosa migliore sarebbe stata mettere il segreto di stato.

Ho ascoltato Nordio e Piantedosi.

Nordio è stato bravo nel motivare giuridicamente le ragioni del suo comportamento. In buona sostanza ci ha detto: non sono un passacarte, per via del mio passato di cose giuridiche me ne intendo, il mandato di arresto nella sua prima formulazione era gravemente carente sul piano formale (errori gravi nella datazione) al punto di essere nullo e per questa ragione non ho potuto esprimere immediatamente al tribunale di Roma la mia richiesta di convalida. Quel che dico è talmente vero che uno dei tre giudici dell’Aja si è dissociato e il tribunale, in un secondo momento, ha corretto gli errori di datazione.

Tutto ok salvo che avrebbe potuto chiedere al tribunale di Roma una dilazione motivata, visto che afferma che se avesse trasmesso le carte al tribunale di Roma esso non avrebbe convalidato la richiesta di arresto per le medesime ragioni. Non lo ha fatto. Qualcosa non ha funzionato nella comunicazione tra ministro e tribunale e tra governo e corte dell’Aja.

E veniamo a Piantedosi, il burocrate di Stato, l’uomo che non rischia e non prende decisioni. Vediamo: il torturatore libico, dice, era un uomo pericoloso e pertanto per ragioni di sicurezza l’ho espulso dopo la revoca del mandato di arresto. Un momento, se è pericoloso, esistono o no esigenze cautelari che ti obbligano a trattenerlo? O che so riportarlo alla frontiera da cui è entrato in Italia?

E’ su queste cose che si è vista la assenza di Giorgia Meloni.

Il resto, le urla, Pinocchio, il gatto e la volpe,  il Coniglio, …, non mi interessa e, se non ho capito male, l’opposizione si è limitata a gridare o ironizzare. Amen.

 




su certe cose sono sgangherati

Ieri sera quando ho visto comparire al telegiornale Giorgia Meloni con il suo foglietto in mano mi sono cadute in un attimo tutte le mie speranze sulle sue capacità di statista.

Sulla questione del torturatore libico il governo si è mosso male e l’ha fatta grossa: non ha avuto il coraggio di dire i nostri interessi in Libia non ci consentono di fare diversamente e così si è imbastita una sceneggiata: a) tocca alla magistratura b) prepariamo l’aereo c) Nordio prende tempo, deve leggere le carte e non interviene d) la magistratura revoca l’arresto perché Nordio non è intervenuto e) Piantedosi (ex burocrate di stato) dice che il tipo è pericoloso e poiché si trova a piede libero bisogna espellerlo f) parte l’aereo e il problema è risolto.

Ma:

  • Un avvocato presenta un esposto alla procura contro presidente del consiglio e ministri coinvolti e la procura manda agli interessati l’avviso di apertura indagini come prevede la legge in vista della eventuale trasmissione degli atti al tribunale dei ministri
  • Meloni: questo avvocato è un amico di Prodi ed è famoso per aver difeso dei mafiosi; il procuratore è lo stesso che ha indagato Salvini – (l’avvocato Li Gotti ha difeso mafiosi ma si è anche occupato di caso Moro e di piazza Fontana – è stato nel MSI, poi con Di Pietro e ora si dichiara vicino al PD )
  • centro destra a più voci: si tratta della vendetta della magistratura contro la riforma del governo
  • ANM: non c’è stata nessuna iniziativa della procura ma un atto dovuto a fronte di una denuncia da parte di un terzo

e vai con i balletti. L’unico risultato sembra essere il fatto che non ci srà la prevista informativa al Parlamento.

Giorgia Meloni si è mossa bene sulla questione Sala-Iran: velocità e spirito di iniziativa; continua a muoversi bene in politica estera vedi Arabia Saudita e USA perché risponde all’immobilismo con azioni a vantaggio dell’Italia.

Ma sulla questione Libia non poteva far molto: il torturatore ha girato mezza Europa in tourneè calcistica; lo hanno identificato in Germania ma il tribunale dell’Aja non aveva ancora emesso il mandato e l’Aja si è mossa quando è arrivato in Italia.

Era un trappolone? Erano i tempi di questi organismi sovranazionali?

Era la scelta, a parte gli interessi ENI, di non pagare il dazio a chi in LIbia fa il gioco sporco aprendo e chiudendo il rubinetto dei barchini e gommoni?

In ogni caso non è stata all’altezza


Ho trovato interessante questo post su FB dell’avvocato Giandomenico Cajazza già presidente delle “Camere penali”

Che quella di non eseguire l’ordine di arresto internazionale contro una persona accusata di spaventosi crimini contro l’umanità sia stata una precisa (e sciagurata) scelta politica del Governo e del Ministro Nordio -invano informato il 19 gennaio dalla Digos e di nuovo il 20 dalla Procura Generale di Roma- è semplicemente indiscutibile. Ma un Governo risponde delle sue scelte politiche al Parlamento ed ai cittadini, non ad una Procura della Repubblica o al Tribunale dei Ministri, solo perché una persona sostiene in un esposto che, con quella decisione, siano stati commessi dei reati. Nessun atto giudiziario, per quanto “dovuto”, può essere compiuto senza una preventiva valutazione di “non infondatezza”. Basta ipocrisie. La storia repubblicana degli ultimi 30 anni è piena di “atti dovuti” con i quali la magistratura ha indebitamente invaso la sovranità della politica.




lo stallo dei riformisti nella sinistra

I riformisti del PD, sia nella modalità ex-migliorista/comunista, sia in quella catto/degasperiana/scoppoliana – che la dossettiana Rosy Bindi chiama “Orvietani”, quasi si trattasse di una setta di eresiarchi – sia in quella catto/dossettiana – “i prodiani” di Castagnetti e di Ruffini – da qualche tempo scavano cunicoli sotto il prato verdeggiante di Elly Schlein.

Ben scavato vecchie talpe!, osserverebbe compiaciuto il vecchio Marx. Ma il terreno continua ad essere solido.

Per un verso, i riformisti moderni, per dirla con il leader degli ex-miglioristi Enrico Morando, continuano a constatare che il PD in formato Schlein è il deposito più grosso che c’è a sinistra. E perciò, se si è fedeli ad una vocazione bipolare-maggioritaria, è lì che bisogna stare. Ma poi ciascuno di loro deve anche constatare ogni giorno di essere solo una vox clamantis nel deserto, nel quale sono costretti a cibarsi di locuste e nel quale nessuno ha voglia di andare a farsi battezzare.

Produrre cultura politica e idee

Resta loro un’unica chance: produrre cultura politica e idee per il governo del Paese. Lo hanno fatto in questi anni e continuano brillantemente a farlo. Ma lo stallo dell’impotenza è evidente. Nel PD contano zero. Perché l’invaso-PD non ha un estuario di governo, è una grande palude.

Ma gli Orvietani sono prigionieri politici per scelta. Eppure, se, come ha ribadito Paolo Gentiloni, Extra Ecclesiam nulla salus, ma, contemporaneamente, il Pd è dichiarato inadatto a costruire uno schieramento di governo alternativo all’attuale governo di destra-centro, vuol dire che nel PD non c’è nessuna “salus” – solo qualche posticino, ma non per tutti – e che la strategia politica dei riformisti “interni” è paralizzata.
Così, l’ultima risorsa è rimasta la ricerca ricorrente e fallimentare del “federatore” o del “Veltro” dantesco, che riesca a rimettere insieme “il vulgo disperso” dei riformisti, che di nomi ne hanno anche troppi, e a mettere in minoranza i moderni massimalisti.

Altra visione, più terra terra, quella dei prodiani. Che hanno sostenuto e sostengono la Schlein. Si sentono, però, ai margini e rivendicano spazi di rappresentanza del mondo cattolico. Il quale, tuttavia, si rappresenta ormai benissimo da sé. Se il Card. Ruini faceva valere presso i governi le istanze del mondo cattolico senza più la Dc, il Card. Zuppi lo fa senza passare dai cattolici del PD.

Le correnti politico-culturali del PD

Il PD nacque ufficialmente il 14 ottobre 2007 dalla fusione dei Democratici di Sinistra e della Margherita. Dentro il “nuovo” partito erano confluiti svariati filoni di culture politiche. Per quanto riguarda il cattolicesimo politico, almeno quattro: la corrente cristiano-sociale di Ermanno Gorrieri e di Pierre Carniti, che aveva già aderito ai DS nel 1998; quella dossettiana; quella popolare-morotea di Martinazzoli; quella degasperiano-scoppoliana-fucina.

Da sinistra, il PCI-PDS-DS portava in dote il ventaglio delle sue correnti storiche: una spruzzata di ingraismo, che si era però condensato soprattutto in Rifondazione comunista, un’area migliorista, articolata in socialdemocratici e social-liberali, un correntone berlingueriano, dai toni fortemente etico-giustizialisti, prima rivolti contro Craxi, poi contro Berlusconi.

Il by-passaggio del socialismo di Craxi

Perché il PD non riesce ancora oggi a diventare sinistra di governo? Al suo atto di nascita sta un peccato originale, da cui nessuno lo ha mai più redento. È rimasto berlingueriano “dentro”, per la parte di sinistra di quell’amalgama mal riuscito.

Quando Achille Occhetto passò dal XVIII Congresso – 18/22 Marzo 1989 – nel quale ancora si fantasticava di un nuovo corso del PCI, sull’onda del gorbaciovismo, al XIX Congresso – 7/11 marzo 1990 – allorchè il PCI precipitò in una “Cosa” con un nome e un simbolo provvisori, fu là che non avvenne nessuna metamorfosi.
Si trattò di un “by-passaggio”, mediante salto mortale da “comunista” a “democratico”: la tappa “socialista” fu, appunto, by-passata. “Socialista” all’epoca voleva dire Craxi.

Si trattava di un socialismo matteottiano e turatiano, di una sinistra di governo, attenta alla base sociale operaia e popolare, sensibile al cambiamento istituzionale – la Grande riforma – disponibile a riforme di un socialismo che oggi definiremmo “liberale”: “meriti e bisogni”, anche se Martelli è restio ad accettare quell’aggettivo.

“Il merito” integrava un quid di liberale individualista nel tradizionale discorso egualitario e welfarista della sinistra comunista e socialista. Il PSI di Craxi era la sinistra italo-europea, unica contemporanea del proprio tempo. Il PCI non si presentò a quell’appuntamento con la Storia, che fu mancato per sempre, per responsabilità degli stanchi epigoni di Berlinguer. I miglioristi di Giorgio Napolitano, non certo famoso per il coraggio, non osarono fare il grande passo verso Craxi.

Così, la parola “democratico” si è venuta via via riempiendo degli umori mutevoli delle mode del tempo che passa: giustizialismo, girotondismo, grillismo, wokismo, correttismo, identitarismo

Nel 2008 Elly Schlein è andata alla corte di Obama per apprendere il peggio del Partito democratico americano. È riuscita ad importarlo. E così oggi capita alla sinistra di avere a che fare con un tempo pericolosamente post-liberale, senza essere mai stata né socialista né liberale.

Salus extra Ecclesiam?

Occorre riconoscere che il nuovo mix di cultura politica, timbrata Schlein, ha avuto fortuna, non tanto presso la cinica nomenklatura senza fede del PD, ma tra gli iscritti: ha pescato a strascico ogni possibile umore, da un redivivo antifascismo militante all’apertura all’immigrazione totale, all’alleanza cieca, “stile Mani pulite”, con le toghe, al rifiuto di ogni riforma istituzionale, alla difesa di un regionalismo fallimentare, all’opposizione ad ogni cambiamento nella scuola, all’alleanza con il massimalismo cieco di Landini, all’affermazione di ogni possibile diritto, all’oscillazione tra Israele e Hamas, al pacifismo di piazza…
Per scomporre un tale aggregato cementato di luoghi comuni servirebbe una battaglia culturale e politica rigorosa.

C’è quella culturale, manca quella politico-partitica: le strutture di base e le regole democratiche del partito e dei partiti sono evaporate. Non manca affatto il pluralismo. Tutti sono liberi di dire tutto.

Ma la stretta personalistica è ferrea, tutta giocata tra leader e iscritti, via mass-media e social-media. È la democrazia di X, fortemente criticata, ma entusiasticamente praticata. Così il blocco politico-ideologico è diventato inscalfibile.

Se i riformisti dell’Ecclesia sono impotenti, non stanno meglio quelli che hanno cercato la salvezza fuori. Fino ad ora i tentativi extra Ecclesiam non hanno avuto esiti brillanti. Da parte delle sigle esterne – da Azione a Orizzonti liberali – non è mancato il coraggio politico di scendere sul terreno con gli scarponi.

La domanda “liberal-riformista” emerge, pare mancare l’offerta. Non solo di contenuti, ma, anche qui, di ambiti e strutture di dibattito democratiche. La costruzione del discorso non è separabile da quella dei luoghi condivisi della sua elaborazione. L’irruzione della comunicazione social ha reso più difficile di ieri il processo di formazione collettiva della volontà politica, riducendolo a consultazione referendaria sui quesiti proposti dal leader, cui si risponde con un tweet individuale. Occorrono, appunto, gli scarponi. Chi ha voglia di calzarli?




ma il magnetismo esiste o ha bisogno delle correnti?

C’è una novità che scatta da questo post; i capitoli del corso di fisica contengono una introduzione leggibile anche da chi non entrerà nel merito. E la introduzione uscirà sul mio sito man mano che procedo alle revisioni. Ecco la prima.

Lo scopo di questo capitolo è quello di introdurre la grandezza fondamentale che riguarda i fenomeni magnetici e cioè il vettore induzione magnetica .

Il capitolo si apre con una introduzione di carattere storico-fenomenologica come è nella impostazione di questo corso. La parte di tipo fenomenologica riassume i semplici esperimenti (pratici e/o mentali) che, partendo dalla esistenza dei magneti naturali consentono di arrivare a parlare di poli magnetici e di stabilirne nomenclatura e caratteristiche.

E’ bene sapere che il magnetismo, in origine, è stato studiato come un fenomeno a sé stante e dunque a fine 700 è stata enunciata una legge basata sull’inverso quadrato della distanza in cui comparivano le masse magnetiche e una costante universale (la permeabilità magnetica) che giocava il ruolo della costante dielettrica e. Quando iniziai a studiare la fisica (negli anni 60 del XX secolo) molti testi continuavano ad introdurre il magnetismo attraverso la legge di Coulomb magnetica.

E’ solo a inizio 800 che, osservando le interazioni tra correnti elettriche, che se ne studiano le reciprocità e si arriva a studiare il magnetismo come effetto di correnti elettriche o di cariche in moto. Nel primo paragrafo trovate la genesi e cenni all’epilogo.

Nel secondo paragrafo e terzo vengono descritti i fatti sperimentali che consentono di arrivare alla definizione del vettore B e contestualmente dare la legge che descrive la forza magnetica. La definizione non è semplice da digerire perché il campo magnetico presenta problematiche complicate di orientamento e sul piano delle complicazioni matematiche richiede la introduzione del prodotto vettoriale.

Si definisce la unità di misura, una unità dimensionata malamente perché raramente si hanno campi magnetici dell’ordine del Tesla, ma trattandosi di una grandezza derivata è tutta colpa della definizione dell’unità di corrente. Per altro, con lo sviluppo dei superconduttori, e dell’uso che se ne fa nelle apparecchiature di risonanza magnetica, disponiamo finalmente di campi magnetici in aria dell’ordine del Tesla.

Il quarto paragrafo introduce le due leggi fondamentali dell’elettromagnetismo  che consentono, dato un sistema di correnti elettriche, di determinare punto per punto nello spazio il valore del vettore induzione magnetica. Si tratta di due leggi strutturalmente diverse: la prima ha natura integrale e descrive una proprietà complessiva (nello spazio) del campo magnetico; la seconda ha invece natura differenziale e ci dice, in ogni punto dello spazio quale sia il contributo dato al campo magnetico da ogni piccolo elemento di corrente elettrica.

Come si dimostrano? Non si dimostrano; sono vere e basta e, come molte leggi generali della fisica altro non sono che nostre astrazioni che consentono di descrivere i fenomeni fisici in forma del tutto generale.

Attraverso queste leggi vengono stabilite quelle che esprimono il campo magnetico generato da configurazioni semplici di correnti elettriche quali le spire circolari o i solenoidi (termine introdotto da Ampere) che esprime un insieme di spire ravvicinate (gli avvolgimenti che fanno da base al funzionamento di quasi tutte le macchine elettriche).

Nel quinto paragrafo compare una nuova grandezza fisica che sembra messa lì tanto per dire: il momento magnetico una grandezza che viene definita per l’ago magnetico e per la spira circolare percorsa da corrente. Ma perché complicarsi la vita?

La risposta sta nel fatto che, in fisica atomica e nucleare compaiono proprietà degli atomi e delle particelle elementari che richiedono, per essere descritte, proprio il momento magnetico. Ma c’è di più, per le particelle elementari il momento magnetico è una proprietà intrinseca e non ha bisogno di correnti elettriche. E’ così perché la natura è fatta così. Dunque impariamo a conoscerlo perché ci servirà…

Rispetto alla versione ho completamente eliminato un paragrafo che avevo scritto riscritto più volte e ogni volta che lo rileggevo mi lasciava insoddisfatto: si trattava di descrivere il magnetismo come elemento non sostanziale, ma figlio del campo elettrico in ambito relativistico. Su questo terreno è inutile cercare di divulgare senza introdurre la sostanza (le trasformazioni di Lorentz per il campo elettromagnetico). Non è roba da corsi di fisica generale ed è meglio lasciar perdere.

Il capitolo si chiude con una serie di esercizi di calcolo del campo magnetico utilizzando le due leggi fondamentali. Sono tutti problemi che richiedono l’utilizzo dell’analisi matematica, seppur a livello elementare (in particolare dei rudimenti del calcolo integrale).

Si tratta di problemi molto formativi che ho selezionato con cura dalla miniera di proposte di un testo classico russo (Irodov) che è ancora il testo di riferimento in ambito internazionale. Naturalmente le soluzioni dettagliate sono fatte da me. Consiglio questi problemi (sei in tutto) perché aiutano a strutturare le proprie capacità di problem solving e perché in qualche caso smentiscono le leggi sui solenoidi spesso presentate come vere quando tali non sono.


Il corso di fisica – le news e gli aggiornamenti del corso – il capitolo 0506


 




anche la Santanché fa cose buone

Da ieri è in vigore in Lombardia la “legge Santanché” sugli affitti brevi turistici.

Lo era già da circa un mese in altre quattro regioni, grazie a un piano progressivo che coinvolgerà tutta Italia entro qualche settimana. Verso fine anno la legge sarà applicativa in tutti i dettagli sull’intero territorio nazionale.

La legge, mirata a fare emergere il sommerso illegale, è in fondo una riedizione della “legge Renzi” di 7-8 anni fa che i Governi successivi non hanno mai reso applicativa. Una differenza fra le due leggi è che Santanché, rispetto a Renzi, aumenta le tasse per chi affitta ai turisti più di una casa.

Queste attività, che vanno dal famigliare all’imprenditoriale, vivono quasi esclusivamente grazie ad alcuni portali internazionali (Booking, AirBnb, VRBO, ecc.) e qualche portale italiano di serie B poco utilizzato anche dagli italiani.

Ma è possibile che l’Italia, Paese che vive di turismo, non sia in grado di mettere in piedi un grande portale turistico internazionale? La “legge Santanché” impone condizioni precise ai portali e rilevanti multe in caso di trasgressione sia al portale sia ai proprietari.

Inoltre la legge impone ai proprietari una serie di condizioni di sicurezza (obbligo di estintori, di rilevatori di fumi e di gas, ecc.), oltre all’obbligo di esporre fuori casa il CIN, numero nazionale che identifica la locazione autorizzata all’affitto breve.

La vera novità della legge è però la sua validità nazionale, che supera alcune precedenti confuse normative regionali. Addirittura alcune regioni “distratte” non avevano nessuna normativa simile e in quelle aree prosperava l’affitto turistico in nero.

Se fate le vostre vacanze tramite affitti brevi controllate se all’arrivo vi chiedono i documenti di tutti gli over-18 (i proprietari sono obbligati a copiare i dati sul portale della Polizia di Stato). Se non lo fanno sono abusivi; non pagano le tasse e non garantiscono la vostra sicurezza.

In questo caso potete telefonare alla Finanza e non pagare una lira di affitto. L’abusivo si beccherà una multa di qualche migliaio di euro. Anche la Santanché a volte fa “cose buone”…




1977-1991: con il PCI fino allo scioglimento

III edizione – giugno 2024

la prima pagina di Rinascita che annuncia gli articoli sul Compromesso Storico

Come ho raccontato nel capitolo 12 il mio rapporto con il partito comunista viene da lontano ed inizia nel 1966 quando ero un cattolico inquieto che guardava a sinistra.

Ero uscito dalla Federazione giovanile socialista insieme a quei lombardiani di sinistra che formarono il Movimento Socialista Autonomo (MAS) guidato da Tullia Carettoni e mi guardavo intorno.

E fu guardandomi intorno che incominciai a leggere Rinascita, il settimanale politico-culturale del PCI. Prima la comperavo in edicola e poi, per ragioni di convenienza economica mi ci abbonai. Sono diventato prima di sinistra e poi marxista e non viceversa come mi capitò di vedere in molti estremisti del 68/70 che, proprio per quello, più che compagni, diventavano esperti in ipse dixit, magari citando Stalin, e quello era il massimo.

Rinascita è stato lo strumento che mi ha fatto scoprire la sinistra italiana e che mi ha fatto da scuola-quadri. Non la leggevo tutta (c’era troppa roba) e mi lasciavo guidare dai titoli e dalle aree disciplinari prediligendo quelle più strettamente storico-politiche.

Quando mi abbonai a Rinascita vivevo ancora in famiglia e oltre a Rinascita leggevo Politica, il settimanale della corrente della sinistra Dc La Base, l’Astrolabio (diretto da Parri) e Settegiorni un settimanale della sinistra cattolica diretto da Ruggero Orfei e su cui scriveva quella che sarebbe poi divenuta l’intellighentia laico-socialista, da Bassanini a Girardet, da Covatta a padre Turoldo. Ma Rinascita rimaneva la mia dispensa settimanale per la maturazione politica.

Critica Marxista -aperta a riflessioni a tutto campo – da leggere e studiare

Il PCI mi formava, ma non lo votavo, anche perché non ero maggiorenne e non votavo. Transitai per il PSIUP, per il quale ho votato nel 68, e poi sono iniziati gli anni della sinistra rivoluzionaria. Mi ricordo che i tre articoli di Berlinguer sul compromesso storico (Riflessioni sui fatti del Cile) dell’ottobre 1973 li lessi e li apprezzai prima dell’apertura della querelle sul tema scatenata dal terzo articolo che metteva i piedi nel piatto della situazione italiana parlando per la prima volta del compromesso storico.

Negli ultimi anni della militanza rivoluzionaria si aggiunse lo studio di Critica Marxista; su di essa apprezzavo i contributi di Gerardo Chiaromone e Paolo Bufalini. Il PCI era un luogo strano di elaborazione politica; le svolte le faceva il segretario, ma poi alcuni dirigenti si incaricavano dell’inquadramento teorico (sicuramente i due che ho citato, oltre a Giuseppe Chiarante, Paolo Spriano, Adalberto Minucci e Luciano Gruppi). Ho sempre letto pochissimo l’Unità perché, ironia della sorte, non mi piacciono i quotidiani militanti (inclusi la Repubblica e il Fatto quotidiano).

L’adesione al PCI

i riferimenti politico-culturali

Quando, alla fine del 1976, dopo una riflessione durata qualche mese, di fronte allo sgretolarsi delle organizzazioni della sinistra rivoluzionaria, decisi di non seguire la minoranza di AO che si apprestava ad unirsi alla maggioranza del PDUP, lo feci perché consideravo finita un’epoca e la fine era stata indipendente dalle nostre soggettività, si trattava di una fine oggettiva giudicata in chiave storica. Il periodo della grande ubriacatura era finito.

i 5 volumi dello Spriano nella edizione Einaudi che ho letto e studiato

Avevo ormai digerito i 5 volumi di Paolo Spriano sulla storia del PCI (incluso il dopoguerra) e continuai per qualche mese il lavoro di approfondimento della storia del PCI dal 45 agli anni 70. Dopo aver fatto i conti con le riflessioni di Gramsci sul partito, sul concetto di egemonia e sulla cultura, passai a Togliatti, sia attraverso i suoi scritti, sia attraverso la lettura di saggi  a lui dedicati come quello di Giuseppe Vacca.

Quando nei primi anni 2000 ho ripreso in mano la mia copia delle Note sul Machiavelli di Gramsci e le ho trovate tutte annotate a matita con commenti e riflessioni sulla storia della sinistra rivoluzionaria e sulle sue inadeguatezze (l’intellettuale collettivo, i gruppi dirigenti, l’egemonia, il rapporto tra governanti e governati, i brani famosi sulle casematte e sul ruolo della chiesa cattolica).

non basta pungolare da sinistra

La nostra botta politica era venuta con le elezioni del 76; da esse era emerso in maniera inequivocabile che il problema non era quello di fare la contestazione da sinistra al PCI ma nemmeno quello di pensare di poter fare le mosche cocchiere (cioè la parte sinistra dello schieramento riformatore che avanza idee, critiche e suggestioni nello stile del Manifesto-PDUP).

Non vedevo spazi per altre cose; mi era chiaro allora e mi è chiaro anche oggi, quando dentro e fuori il PD, vedo rinascere continuamente altre mosche che ronzano, svolazzano per un po’ e poi si estinguono dandosi nomi nuovi in cui si declinano parole come sinistra, libertà, uguaglianza, nuovo, comunismo, rifondazione, ecologia.

Le masse popolari di cui ci eravamo riempiti la bocca erano più concrete di noi e quando c’era da votare sceglievano chi desse loro delle garanzie. Semmai il problema era quello di cosa fare per conquistare ad una prospettiva di sinistra, o almeno progressista, la maggioranza del paese, il ventre molle dell’elettorato italiano che pensa spontaneamente a destra e molto spesso ci mette la croce sopra. Me ne sono reso conto trasferendomi in provincia di Siena dove sono in atto significativi spostamenti a destra da parte di fette di elettorato popolare che in passato votava a sinistra, ma lo faceva per pure questioni di interesse mentre conservava una concezione del mondo e della vita di tipo reazionario sui temi legati alla socialità, ai diritti, al diverso.

Tra la passione per l’insegnamento, lo studio della scienza e le conclusioni sulle mosche cocchiere, avevo deciso di rinunciare alla proposta di rimettermi a fare il giornalista per aprire una grande redazione milanese del Manifesto. A rendermi indisponibile verso il gruppo del Manifesto pesò anche il netto dissenso nel giudizio da dare sullo sviluppo scientifico, delle ricerche nella fisica delle alte energie e sul nucleare. La linea la dava Marcello Cini e io non condividevo quasi nulla di quello che scriveva ma non avevo nessuna voglia di mettermi a discuterne.

Il distacco dai compagni che erano andati a lavorare al Manifesto, e in particolare dal mio prediletto Gigi Sullo, fu particolarmente doloroso e con Gigi ci fu uno scambio di lettere che però non attenuarono il dolore reciproco.

nel PCI dal basso

Così nel febbraio del 77 feci domanda di iscrizione al PCI, alla sezione Triante di Monza (quella vicina al liceo dove insegnavo). Meraviglia delle meraviglie, per via dei miei trascorsi, mi fecero scrivere una biografia politica e motivare per iscritto la richiesta di iscrizione, anche se, chi mi presentava (il professor Gianfranco Petrillo) mi conosceva benissimo. Data la mia formazione leninista la cosa non mi dispiacque (era un segno di serietà), ma poi mi lasciarono interdetto due cose.

Ci misero più di due mesi a decidere: la domanda andò in federazione a Milano nelle mani della CCC (commissione centrale di controllo) e non so dire se passò anche da Roma, probabilmente sì, visto il tempo che ci misero. Ho ritrovato la descrizione di quel mondo leggendo i gialli scritti da un dirigente di allora, Vicky Festa, che descrive il mondo della federazione di Milano e che ha come protagonista proprio il presidente della CCC.

Casi simili al mio, ex dirigenti rivoluzionari che non scelsero di entrare dalla base ma contrattarono l’ingresso con i vertici, furono trattati diversamente (con celerità e con tutti gli onori) e questa disparità di trattamento mi diede decisamente fastidio.

Dopo di allora, in occasione delle elezioni, ho visto molti casi di effetto meteora: ingressi in pompa magna e successivi mutamenti di schieramento: è successo nel PCI, nel PDS, nei DS e continua con il PD.

Anni dopo venne fuori un terzo elemento che vissi con viva soddisfazione: chi mi aveva esaminato venne coinvolto pesantemente dallo scandalo di mani pulite (filone IPAB), per la serie descritta dal proverbio brianzolo secondo cui quel puseè san al ga la rogna (quello più sano ha la rogna).

la autonomia e il terrorismo

Pochi giorni dopo gli scontri alla Sapienza culminati nella contestazione a Luciano Lama, alla sezione di Triante, discutemmo della situazione politica in evoluzione ed espressi una forte preoccupazione per quanto stava accadendo e di cui avevo, in piccolo, la percezione anche al liceo. Se continua così, ne vedremo delle belle, dissi.

Mi sembrava che la situazione si stesse incarognendo. La crisi delle formazioni della sinistra rivoluzionaria avveniva in contemporanea alla crescita di un movimento (quello del 77) in cui dominavano slogan infantili, la violenza e la linea del tutto e subìto. I compagni di DP facevano dei sottili distingiuo ma ne erano sommersi e lo erano per le stesse ragioni su cui non era stata fatta chiarezza nei giorni della rottura di AO: la democrazia senza se senza ma, le istituzioni democratiche senza se e senza ma.

Poi ci fu il rapimento Moro e mi fece male, molto male, vedere i miei ex compagni di Democrazia Proletaria sostenere che non bisognava stare in maniera ferma dalla parte dello stato democratico: nè con lo stato nè con le BR. Mi ricordavano i socialisti che nel 1915 coniarono lo slogan nè aderire nè sabotare, ma questa volta in peggio.

Sulla questione della trattativa per il sequestro Moro ero razionalmente d’accordo con la linea della fermezza, ma anche seriamente disorientato per quello che si stava facendo o non  facendo e soprattutto mi davano fastidio le posizioni che passavano sulla testa e sul corpo di Moro paventando addirittura che scrivesse sotto l’effetto delle droghe.

La linea berlingueriana attenta alle problematiche della austerità e della moralità la condividevo, ma mi rendevo conto di quanto fosse necessario uno sblocco della situazione politica e della insufficienza della linea della solidarietà nazionale. Si stava rischiando di sprecare, e fu così, il grande consenso delle elezioni del 76 che richiedeva un cambiamento di rotta nella direzione dell’Italia. Penso che le cose, se non fosse stato rapito Aldo Moro sarebbero andate diversamente.

impegno politico a Monza e nel mio paesello

Il mio modo di far politica, in quegli anni, cambiò in maniera radicale; basta politica diretta e invece azione di supporto ad ogni attività di tipo educativo e culturale che facesse crescere la razionalità e mantenni questo spirito per tutta la prima metà degli anni 80.

Il PCI monzese era storicamente una succursale della Federazione di Milano in cui venivano mandati a fare da segretario cittadino e segretario di zona funzionari milanesi che, quando incominciavano a capirci qualcosa, venivano spostati ad altro incarico. In occasione di un congresso di zona diedi una mano all’amico Giuseppe Meroni (incaricato di preparare il documento sulla cultura) a stendere un documento in cui, per cultura, si intendeva cultura politica e dunque si parlava di Brianza e delle sue storiche differenze da Milano, della necessità di costituire una federazione Monzese e di scegliere la strada della costruzione di una provincia della Brianza separata da Milano. Per le culture politiche di allora fu uno scandalo e non finì bene. Il documento di Meroni venne cassato e ne ebbe una conseguenza negativa il suo posizionamento nel partito.

Ad un certo punto mi sembrò opportuno spostare la mia iscrizione da Monza a Villasanta per dare una mano nel paese in cui vivevo ed ero nato e mi dedicai al giornale locale Progresso e Partecipazione poi trasformatosi ne Il Punto. Il giornale era stato inventato da Giuseppe Meroni e, con il mio arrivo a Villasanta, era naturale che me ne occupassi per via dei trascorsi giuornalistici. Volevamo che non fosse un organo di propaganda politica ma uno strumento di informazione locale orientato in senso progressista che raccontasse il paese e le sue trasformazioni e per questo erano importanti la necessità di uscire con regolarità e la scelta drastica di non fare il solito bollettino parrocchiale.

E’ stata una esperienza interessante perché per ogni numero si facevano tre o quattro riunioni di redazione; si faceva un po’ di pratica giornalistica vera prendendo spunto dalla necessità di parlare di Villasanta; gli articoli più importanti venivano discussi prima e dopo. C’erano Franco Radaelli (Bollo), Ernesto Ornaghi, Gabriella Delfino, Claudio Zana, Franco Ornaghi, Pino Locati. Ho lasciato la direzione quando sono stato eletto consigliere comunale per il “PCI lista aperta” perché ritenevo che ci fosse incompatibilità tra dirigere un giornale aperto ed essere consigliere comunale espressione di una parte.

dalla I alla II repubblica, dal PCI al PDS a … ???

la terza via e l’eurocomunismo

Il progetto eurocomunista di Berlinguer si arenò per mancanza di coraggio verso le questioni di collocazione internazionale e per mancanza di interlocutori e, fallito quello, sarebbe stato necessario fare i conti non solo con la democrazia occidentale, ma anche con il tema di un progetto di progresso e riforma sociale dentro il quadro capitalistico. Erano finite le disquisizioni sulla via italiana al socialismo, inventate per far coesistere la fede nell’URSS con l’essere il più grande partito comunista dell’Occidente, e si trattava di parlare di socialdemocrazia e di ripensare la storia del movimento operaio del primo novecento.

Non affronto la riflessione sul progetto di rinnovamento-competizione a sinistra da parte del Psi iniziato da Craxi per costruire l’autonomia socialista e dotarla di gambe per sopravvivere. Sul piano culturale, quel proigetto, era molto avanzato. Berlinguer morì nel 1984 e la necessità di smarcarsi preventivamente dal mondo comunista che affondava avrebbe richiesto di sanare preventivamente la rottura iniziata a Livorno nel 1921.

Invece il PCI, alle prese con la necessità di costruire un nuovo gruppo dirigente, rimase immobile e tale ritardo significò aprire le ostilità tra i partiti della sinistra e farsi sommergere impotenti dalla caduta del muro e dalla fine della Unione Sovietica. Il crollo dei regimi dell’est e poi dell’Unione Sovietica segnarono la fine del comunismo inteso come esperienza storica ed è inutile rivoltare la frittata dicendo sì, però l’ideale rimane. Secondo me il PCI si mosse in ritardo e l’antagonismo concorrenziale con il PSI fece il resto.

e poi venne giù il castello comunista

Nel momento del crollo del comunismo, alla casa del Popolo di Villasanta, si fece una bella serata di discussione. Comparvero persone che non si vedevano da una vita; parlarono persone che non parlavano mai. Erano disperate per la fine di un progetto a cui avevano dato tutto.

Volli essere ottimista mettendola sul fatto che la fine della competizione anche militare tra quei due mondi avrebbe messo in campo nuove risorse ed energie per l’umanità. Tutto quello che si spendeva in armamenti sarebbe andato in aiuti ed investimenti all’interno e per il terzo mondo. Ci credevo davvero, ma non è andata esattamente così su scala mondiale perché, come si è visto, Gorbaciov, molto popolare in Occidente, non lo era altrettanto in patria.

La Russia ha dapprima incassato il crollo dell’Unione Sovietica e poi ha ricominciato una politica sui confini occidentali che sogna la ricostituzione del vecchio impero zarista, poi staliniano-brezneviano e ora putiniano. Non è rimasto nulla di quello in cui avevo sperato: l’uomo nuovo educato alla razionalità scientifica e alla materialità della vita.

Non solo non è scomparsa la religione ortodossa che, come dice il nome, è in perenne ritardo culturale rispetto alla Chiesa romana, anzi la Chiesa ortodossa è diventata una delle stampelle importanti nel sistema di potere putiniano sempre pronta a giustificare le peggiori efferatezze.

La Russia si è rivelata un paese in perenne ritardo sui processi di rinnovamento sociale, tecnologico e culturale, sempre alle prese con le tematiche delle nazionalità, con i problemi del Caucaso che, ai vecchi tempi erano stati risolti con il tallone di ferro, mentre ora esplodono a macchia di leopardo.

E’ rimasto in piedi un paese che campa sulla enorme estensione del territorio e sulla ricchezza di materie prime con un sistema di gestione del potere basato sulla alleanza tra i nuovi capitalisti che hanno fatto i soldi all’ombra di Putin e il colosso militare che influenza la economia e fa da collante ideologico (il mito della grande Russia e della grande guerra patriottica).

in Italia dopo l’89

Intanto in Italia invece di puntare ad unico partito progressista in cui si incontrassero la moralità e l’organizzazione del PCI con l’innovazione del PSI si giocò la carta della reciproca distruzione e così ci ritrovammo Di Pietro e Berlusconi, poi Grillo e Salvini e infine Giorgia Meloni. Come diceva Nenni, troverai sempre uno più puro di te che prima o poi ti epura.

Non ho aderito alle diverse forme di organizzazione assunte dagli eredi del Pci essenzialmente perché ne ho visto un insufficiente coraggio nel rinnovarsi e incapacità di affrontare il superamento della storia del comunismo (PDS prima e DS poi). Nei primi anni 90 ci fu anche un brutto incidente politico mentre ero capogruppo in Consiglio Comunale. Lavorai per un anno in accordo con il gruppo, per dar vita ad un unico gruppo consiliare riformista che unisse gli 8 del PCI-lista aperta e i 6 del PSI per spezzare gli equilibri politici villasantesi (1 repubblicano, 1 socialdemocratico e 14 democristiani). All’ultimo momento la maggioranza del gruppo PCI cambiò idea. Credo che ci sia stato un intervento dall’alto e fu la rottura.

La II repubblica non ha rinnovato nulla e riprodotto la corruzione. Ho sperato nel partito democratico prima maniera, poi vista la deriva vecchio stile ho creduto nella speranza di rinnovare l’Italia ponendo mano alla II parte della costituzione. Ma pare che in Italia i riformisti, si tratti di istituzioni o di politiche sociali non godono di buona stampa e io osservo il tutto con amarezza e delusione.

Ci sarebbe molto da dire e da scrivere ma questo capitolo riguarda il periodo dal 77 al 91. Cisarà tempo e modo, più avanti di gettare uno sguardo sull’oggi. Come ha scritto Armando Pioltelli, che non è più tra noi, a commento della II edizione “Oggi è peggio di ieri votano chi promette, e vincono gli ubbidienti e non i capaci. E’ per questo che abbiamo una classe politica molto scarsa. Ho conosciuto giganti con la quinta elementare mentre oggi non vedo più giganti ma il loro opposto”.


La pagina con l’indice della mia autobiografia da cui potete scegliere i capitoli da leggere


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Ilaria Salis, le case occupate e la destra becera

Ilaria Salis non mi è particolarmente simpatica perché fa scelte che non condivido. Pensa che antifascismo significhi menare i nazisti e che occupare case possa garantire il diritto a un’abitazione.

Però difendo la Salis quando viene trattata in modo indegno dalla pseudo-giustizia di Orban. Inoltre difendo il suo diritto alla libertà in quanto rappresentante di migliaia di elettori che condividono le sue posizioni.

Adesso vedo giornali e politici reazionari che vogliono che lei paghi 90.000 euro di affitto all’ALER perché un giorno di 10 anni fa è stata trovata all’interno di una casa occupata (ipotesi: 9.000 euro di mancato affitto all’anno). La richiesta di questi reazionari ha una sua logica che però loro stessi tradiscono non chiedendo la stessa pena pecuniaria per le decine di migliaia di occupanti abusivi di altrettante case popolari (ma questi reazionari sono gli stessi che parlavano sempre di “fumus persecutionis“?).

Di fronte a questa richiesta (che è arrivata persino dal Consiglio Regionale della Lombardia) la Salis e il partito per cui è stata eletta rispondono nel modo peggiore: rivendicano il diritto a lottare per la casa. E’ esattamente la risposta che desideravano i reazionari che la accusano. Ora possono scatenare un “dibattito” per dividere gli onesti (di destra) che pagano l’affitto e i disonesti (di sinistra) che non lo pagano.

Se io fossi un reazionario ringrazierei Fratoianni e C. per avere fatto quello che desideravo con ansia.
Se invece questi politici di sinistra avessero un minimo di intelligenza politica sceglierebbero un’altra strada.

Io al loro posto direi: “Cari accusatori, se un giorno di 10 anni fa la Salis è stata identificata in una casa occupata e poi nessuno si è mai più curato di vedere se l’occupazione continuava, significa che l’ALER ha abbandonato per 10 anni una casa che spettava a famiglie di lavoratori che ne avevano diritto. Questa è una grave colpa dell’ALER, non certamente della signora Salis che agli atti risulta essere stata in quella casa un solo giorno, quello dell’identificazione. Dato che non esiste alcuna documentazione che provi l’occupazione per altre giornate, occorre chiederle l’affitto di un solo giorno, senza però gli interessi maturati in 10 anni in quanto tale affitto non è mai stato chiesto prima (altra colpa dell’ALER)

Questa sarebbe la linea di difesa di qualunque garantista, in quanto nessun cittadino può essere accusato di colpe non dimostrate. Questa difesa sarebbe molto più politica della rivendicazione del “diritto a lottare per la casa“. Sarebbe molto più politica perché userebbe le armi dell’accusatore (paladino del garantismo) per accusare l’accusatore di mancanza di garantismo.

In generale credo che nei conflitti non si debba usare la propria logica, utile solo a ingigantire il conflitto, ma la logica dell’avversario per ritorcergli contro le sue stesse ragioni. Sarò un po’ vecchio stampo, ma per me questa si chiama Politica.




Le riforme sospese tra opposti estremismi …

e intanto si smarrisce il senso delle istituzioni

Che cosa sono le istituzioni? La risposta a questa domanda basica stenta ad emergere dalla foschia della tempesta verbale, oggi attraversata dai lampi del premierato e dell’autonomia.

Nell’immaginario collettivo, le istituzioni sono “palazzi”, “sedi”, “poteri”: il Quirinale, Montecitorio, Palazzo Madama, Palazzo Chigi, Palazzo della Consulta… Palazzi occupati e, in democrazia, occupabili e contendibili. Ma l’essenza delle istituzioni è altra.

Esse sono, innanzitutto, le regole rapprese e solidificate della convivenza civile e le reti di imbrigliamento del Potere politico, che tende per natura sua a franare sulle strade della società civile. Le regole addensano e formalizzano i costumi – l’etica storica – la morale individuale, il diritto, nella sua duplice faccia di moral suasion e physical constriction.

Sono il prodotto di un contratto sociale, che è, a sua volta, la risultante effettuale del conflitto e della cooperazione. Sono espresse nel formalismo del linguaggio giuridico, ma non perciò riducibili a formalismi o a galateo. Esse sono la forma di ogni società. Senza la quale, o la società esplode in mille conflitti o viene compressa da un potere dispotico. Gli esempi non mancano, né quelli del primo caso né quelli del secondo.

Il Nuovo Titolo V: una riforma necessaria e mal decisa

Il primo corollario logico di questo discorso è che le regole-istituzioni si definiscono insieme da parte di tutti i soggetti politici. Sulla politics e sulle policy ci si può scontrare, a lungo e ostinatamente, ma sulle regole occorre accordarsi.

Se non lo si fa, politics e policy vacillano. Naturalmente, sarebbe ingenuo ignorare che è fatale tentazione dei gruppi umani quella di proporre regole favorevoli agli interessi della propria parte.

Si sta seduti al tavolo delle regole, ma si guarda a lato, per prevedere se esse favoriranno i miei interessi o no. Tutti i soggetti seduti al tavolo sviluppano questo fisiologico approccio egoistico.

Si deve però prendere atto che nel sistema politico italiano questa fisiologia è divenuta patologia. C’è una data di inizio: l’8 Marzo 2001 il Senato ha approvato con la Legge Costituzionale n. 3/2001 la riforma del Titolo V della Costituzione – artt. 114-132 -, entrata in vigore, a seguito di referendum confermativo, l’8 novembre 2001.

La ratio della riforma era cogente da tempo: adeguare il dettato costituzionale all’istituzione delle Regioni, avvenuta vent’anni dopo il varo della Costituzione. In forza del nuovo dettato, la Repubblica non si identificava più con lo Stato, era più larga. L’art. 114 pone sullo stesso piano i Comuni, le Province, le Città metropolitane, le Regioni e lo Stato quali entità costitutive della Repubblica.

Alle Regioni è riconosciuta ampia autonomia statutaria, legislativa, organizzativa e finanziaria. È la base dottrinale dell’autonomia differenziata. Il Nuovo Titolo V muoveva dal riconoscimento che nel Paese esisteva una questione meridionale storica, ancorché irrisolta, ma che stava montando, anzi era già esplosa, anche una questione settentrionale, di cui la Lega di Bossi era l’epifenomeno e la rappresentanza politica.

Era la presa d’atto che il sistema delle Regioni, nato in ritardo, rispecchiava, senza essere riuscito a ricomporla, la frattura scomposta del Paese. Le Regioni del Nord erano – sono – in grado di governare meglio dello Stato centrale, quelle del Sud lo facevano – e continuano a farlo – sempre peggio. Devolution, deleghe, autonomia differenziata avevano e hanno un solo senso: una gara pacifica tra loro e con l’Amministrazione centrale tra chi è più capace di amministrare le risorse pubbliche date. Ottimo!

Ma tale imponente riforma è stata approvata dal solo centro-sinistra. Il quale, nel tentativo di sottrarre in extremis, come nel 1994, il federalista Bossi alle spire avvolgenti di Berlusconi, ha perpetrato uno smaccato uso/abuso politico di riforma. Da allora in avanti, prima Berlusconi e poi Renzi hanno provato a varare riforme della forma-governo, sempre per via unilaterale.

Sottoposte a referendum confermativo, ha sempre vinto il NO. Anche perché l’invenzione del referendum confermativo avente per oggetto questioni costituzionali complicate, tradotte in quesiti formulati in linguaggio astruso, non è stata felice. Così la posta in gioco finisce per essere, ogni volta, il consenso non all’oggetto del referendum ma al soggetto che lo ha proposto, cioè al governo di turno.

La politica, terra desolata

Venendo alla presente stagione e al cacofonico suon di lei, anch’essa si annuncia incapace di riforme istituzionali come le precedenti. E per le stesse ragioni. Perché il metodo adottato è quello dell’unilateralità settaria, al punto di intersezione di due arroganze: quella di chi governa, che fino a ieri si oppose strenuamente alla riforma del Titolo V e alla riforma Renzi, in nome della difesa della democrazia; quella dell’opposizione, che contesta, sempre nel nome della suddetta democrazia, le soluzioni, che a suo tempo propose con indomita arroganza.

Gli elettori assistono allibiti e disamorati a tale indecente spettacolo, mentre le curve tifose dei costituzionalisti embedded fanno la ola sui giornali e sulle TV.  Un dramma per il Paese, trasformato dai partiti in un melodramma, in cui si recitano tenzoni all’arma bianca e scorre, invece che sangue, sugo di pomodoro.

Così, chi prova a ragionare nel merito delle questioni, come Stefano Ceccanti, si becca da Travaglio l’insulto di inciuciador. E l’opposizione, con annesse Italia Viva e Calenda, chiama a raccolta oves et boves et universa pecora, allo scopo di far cadere il governo. Per salvare l’Italia. Nientedimeno! In realtà, per tentare disperatamente di accumulare macigni sulla strada del governo.

Nessuna discussione di merito. E così ai partiti di governo viene offerto un ottimo alibi per non discutere, a loro volta, dei buchi neri dei loro raffazzonati e frettolosi progetti di riforma. Ma si può dare loro torto, se le forze di opposizione non sono realmente interessate alle riforme? Giacché, se loro importasse seriamente, forse scoprirebbero che l’autonomia differenziata e, ancor di più, il federalismo regionale – cioè la responsabilità impositiva e di spesa – sono la cura della frammentazione del Paese, non la malattia; e che il premierato è la cura del perenne non-governo. Lo hanno sostenuto per anni.

Viene in mente, per analogia, quel che Salvemini diceva causticamente dei cattolici durante il periodo del Fascismo: Quando sono al potere invocano la verità, quando sono all’opposizione invocano la libertà.

Nessuna meraviglia, a questo punto, che almeno a metà del Paese questi opposti estremismi suonino alieni. Così la politica si presenta sempre di più come una waste Land, una terra desolata. E il dibattito politico? Interpellato, oggi Macbeth direbbe che è un racconto narrato da un idiota, pieno di strepiti e furore, significante niente.

 




1974-1976: la parabola di AO

III edizione giugno 2024

c’eravamo tanto amati

Il periodo che mi vide operare dentro il gruppo dirigente di una organizzazione della sinistra rivoluzionaria è il più difficile da raccontare perché, da allora, sono cambiato molto ed è stata la riflessione su quella esperienza a determinare la radicalità del mio cambiamento: non più rivoluzionario, non più comunista, non più fiducioso (come una volta) nella possibilità che le cose si possano cambiare attraverso l’impegno nella lotta politica.

Penso che siano necessari impegni di altro genere sul fronte educativo e della testimonianza e che comunque il pedale su cui spingere non sia quello della lotta di classe.

Perché se è vero che le classi sociali esistono e influenzano il procedere della storia, non è vero che esista una classe destinata a svolgere un ruolo palingenetico (il proletariato industriale) ed è discutibile, alla luce dei mutamenti sopravvenuti nel modo di produrre e di consumare nella parte finale del XX secolo e nei primi decenni del XXI, che in estensione e consapevolezza si possa continuare a parlarne come di una classe sociale.

Mi sono ritrovato ad essere più attento ai cambiamenti che vengono da lontano, che procedono lentamente e che determinano le scelte importanti nella vita nelle persone, come quelli che si determinano nella scuola. Cosa farò da grande? Qual è il mio stile di vita? Cosa penso  dei rapporti tra le persone? Per cosa vale la pena di impegnarsi?

Nel giro di pochi mesi, dall’estate del 76 ai primi mesi del 77 ho vissuto  una trasformazione molecolare molto profonda che non ha riguardato solo la politica e non principalmente la politica. Ho cambiato stile e modo di vita; sono molto più solitario e disincantato di un tempo, ho bisogno del rapporto fisico con la naturalità (dai boschi, ai fiumi, alla autoproduzione agricola; sono sempre una persona appassionata e disposta a giocarsi per le cose per cui vale la pena di vivere. Sono disincanto nei confronti di tutti i miti, ma dico sì agli ideali.

Marciavamo con l’anima in spalla nelle tenebre lassù
ma la lotta per la nostra libertà il cammino ci illuminerà.
Non sapevo qual era il tuo nome, neanche il mio potevo dir
il tuo nome di battaglia era Pinìn e io ero Sandokan.
Eravam tutti pronti a morire ma della morte noi mai parlavam,
parlavamo del futuro, se il destino ci allontana
il ricordo di quei giorni sempre uniti ci terrà.
Mi ricordo che poi venne l’alba, e poi qualche cosa di colpo cambiò,
il domani era venuto e la notte era passata,
c’era il sole su nel cielo sorto nella libertà.

Sono i versi della canzone di Armando Trovajoli che fa da tormentone a c’eravamo tanto amati di Ettore Scola (la trovate su Youtube). Il film me lo sono rivisto e mi ha dato la forza per terminare il pezzo della autobiografia più difficile da scrivere (insieme a quello sulla storia di mio padre), quello del c’eravamo tanto amati.

Chi siamo stati:  Gianni, Antonio o Nicola? Il marpione, il proletario dalla fede indistruttibile o l’intellettuale sognatore, o forse tutti e tre insieme? Sentiamo cosa dicono:


– Gianni: Certo che la nostra generazione ha fatto proprio schifo.
– Nicola: Piuttosto che inseguire un’improbabile felicità è meglio preparare qualche piacevole ricordo per il futuro.
– Antonio: Quando si rischia la vita con qualcuno ci rimani sempre attaccato come se il pericolo non fosse passato mai.
– Nicola: Credevamo di cambiare il mondo invece il mondo ha cambiato a noi.
– Antonio: 306 seggi [della DC], e chi se lo poteva immaginare?
Gianni: Ti devo dire una cosa.
– Antonio: E che me vòi di’, lo so! Abbiamo sottovalutato un sacco di fattori che hanno concorso a mettercelo nel chiccherone: i soldi americani, la paura di Stalin, i preti, le monache, le madonne piangenti, la paura dell’inferno…
Gianni: Io e Luciana ci vogliamo bene. È questo che ti volevo dire.
– Antonio: Ci vogliamo bene… in… che senso?
Gianni: Ci amiamo

le cose positive che abbiamo fatto o che abbiamo contribuito a fare

Il giudizio positivo che dò su quel periodo non riguarda la sola Avanguardia Operaia, ma tutti i movimenti e le organizzazioni che, dal 68 al 75, riuscirono a determinare innovazioni e trasformazioni sul piano del costume, un riassestamento dei rapporti sociali a favore dei meno agiati, mutamenti nella legislazione e nelle istituzioni, cambiamenti nella Chiesa Cattolica e un generale spostamento a sinistra nel paese. Pensate a Pio XII e confrontatelo con Papa Francesco per farvi un’idea di come è cambiato il mondo.

Penso alla fine dell’autoritarismo che governava le piccole e grandi istituzioni (dalla famiglia all’esercito), al contratto dei metalmeccanici del 69 cui seguirono, in rapida successione, quelli delle altre categorie, alla affermazione dei diritti nelle fabbriche e nelle scuole, alle trasformazioni nella magistratura, alla abolizione dei manicomi, alla trasformazione delle carceri, alla democratizzazione nell’esercito e nei corpi di polizia, alla crisi del sindacalismo autonomo a favore di quello confederale, alla forte spinta verso l’unità sindacale, alla tutela della donna.  Tutte queste trasformazioni sono state opera nostra anche se, ovviamente, non solo nostra. E dunque le affermo con l’orgoglio se non del protagonosta, almeno del comprimario.

Tutto è iniziato da un processo generale e generazionale che ha riguardato l’intero mondo occidentale e i paesi dell’est; poi c’è stata una particolarità italiana dentro la quale abbiamo operato noi che, dopo il 68, facemmo la scelta di andare nei gruppi.

I senzaMao e la lotta rivoluzionaria per le riforme

Il libro che Silverio Corvisieri ha scritto sul finire del 1976 quando ha lasciato Avanguardia Operaia da sinistra per poi approdare, come molti di noi, al PCI – io almeno me ne sono andato dalla parte giusta che era quella della difesa delle istituzioni democratiche

Ho provato a rileggere alcuni dei documenti di allora e mi riesce difficile farlo perché rimango sùbito colpito sfavorevolmente dalla astrattezza di certe problematiche, del volersi ad ogni costo ritagliare un ruolo che in realtà non avevamo.

Ho riletto con attenzione I senzaMao del mio direttore al Quotidiano dei Lavoratori, Silverio Corvisieri, soffermandomi in particolare sul suo intervento al IV congresso di Avanguardia Operaia, quello della trasformazione di AO in un partito, anche se allora era vietato chiamarlo così.

Silverio ha il pregio della brillantezza giornalistica anche quando tratta di cose pesanti come le disquisizioni intorno al centralismo democratico, al rapporto tra il partito e le masse, alla definizione di proletariato nel contesto dell’Italia degli anni 70. Ma non mi ci ritrovo per niente sul piano razionale; allora non mi ci ritrovavo senza capire bene il perché; avevo l’impressione che ci fossero delle forzature.

Il titolo, I senzaMao, deriva dal fatto che in quell’anno (il 1976) dopo la botta delle elezioni politiche (a giugno) ci fu la morte di Mao (a settembre) ad accrescere il disorientamento. Il vento dell’est aveva smesso di soffiare e noi, presto, saremmo stati in balia di quei matti della autonomia e dei terroristi conseguenti.

Per converso Silverio mi ha fatto tornare alla mente il tema della lotta rivoluzionaria per le riforme, una definizione di comodo che avevamo inventato per spiegare che eravamo per la rivoluzione socialista ma che, nel contesto dato, non era pensabile ragionare in termini di insurrezione.

Avevamo il doppio problema di smarcarci dagli spontaneisti del tutto e subito e, contemporaneamente, dire che non ci piacevano, perché troppo istituzionali e codiste, le posizioni di quelli del giro del Manifesto-PDUP, i togliattiani di sinistra impegnati nel tentare di spostare a sinistra il partito comunista.

Mi pare emblematico che si tratti di una questione che non interessa più a nessuno, a differenza dell’ottenimento di risultati di trasformazione degli assetti istituzionali. Anche io rimasi affascinato dalla idea di fare la rivoluzione attraverso le riforme leggendo nell’estate del 68 un libro di Andreè Gorz, il socialismo difficile. Gorz era il vicedirettore di Les Temps Modernes, la rivista di Sartre. Ne ho parlato nel capitolo dedicato al 68 e ci ritorno sopra volentieri.

Quella di Gorz era la corrente dei riformisti rivoluzionari. I riformisti rivoluzionari rifiutavano l’esperienza del socialismo reale e vedevano in un movimento di massa in grado di imporre riforme strutturali il nuovo modo di arrivare al socialismo nei paesi dell’Occidente. In Italia, il maggiore esponente di questa linea di pensiero era Bruno Trentin (insieme a Lelio Basso) e si trattava di una delle tante correnti di pensiero di matrice luxembourghiana che giravano per l’Europa.

Quel libro lo discussi passo dopo passo con Oskian e Claudia Sorlini che ne criticavano la insufficienza in nome del leninismo e, alla fine di quelle discussioni, decisi di entrare in AO: vi trovai belle persone, alcune con una storia antica dentro il PCI, altre emergenti come Oskian o Randazzo, tutte decise a rifondare il comunismo passando da Lenin ma senza fare sconti all’URSS.

la crisi nel gruppo dirigente

La seconda fase del mio impegno in AO, a partire dal 73, con una serie progressiva di promozioni e crescenti assunzioni di responsabilità fu caratterizzato da due elementi:

  • bisognava crescere e rafforzarci perché, se i tempi della rivoluzione non dipendevano da noi, dipendeva da noi il fatto di arrivarci avendo risolto il problema della guida del processo rivoluzionario. Far emergere il partito attraverso un processo di scomposizioni e ricomposizioni nel quale AO, pur non essendo l’embrione di tale partito, doveva giocare un ruolo principale
  • stavamo trasformandoci da gruppo semilocale, a Organizzazione Nazionale, a un simil-partito e ciò comportava un rafforzamento dell’impegno, il non farsi troppe domande, stringere i denti e puntare ad allargarci; accettare di essere inviati in giro per l’Italia a gettare il seme, cedere i propri beni materiali alla organizzazione, rinunciare alla professione post laurea nel caso dei quadri del movimento di scienze.

E’ questa la ragione per la quale, comportandomi come uno stronzo, lasciai passare senza muovere un dito un episodio come la radiazione/espulsione di Maurizio Bertasi, Flavio Crippa e Pietro Spotti (rei di lesa maestà per aver osato mettere in discussione le decisioni del segretario politico e della supersegretria che lo contornava). Alla stessa stregua considerai accettabile la non spiegazione circa l’auto-allontanamento dal giornale di Silverio Corvisieri. Il fondatore del giornale se ne andava, non salutava nemmeno la redazione; c’era qualche problema ma non era il caso di parlarne: passo fermo e sguardo in avanti verso il sol dell’avvenire.

Dopo la pubblicazione della prima versione di questa autobiografia ho ricevuto numerose testimonianze relative al Comitato Centrale della espulsione-radiazione cui non partecipai perchè c’era da confezonare il Quotidiano. Non fui presente al Comitato Centrale ma lo fui alla riunione precedente della segretria estesa ai membri del C.C. milanesi. Ho letto il verbale che ne fece Umberto Tartari. I tre che espongono i loro dati; Oskian e Vinci che li contestano e noi tutti zitti.

Molti compagni che presenziarono al successivo Comitato Centrale descrivono un clima pesante, il non trovarsi d’accordo ma avere paura di parlare, per finire con le richieste di autocritica a quei pochi che osarono dire qualcosa.

Non c’era tempo, bisognava fare e così si finiva per non fare domande e nemmeno farsele. Per esempio dalla lettura dei senzaMao vedo che nella decisione di Silverio di lasciare il giornale e tornare a Roma c’erano sia elementi di logoramento personale, sia l’emergere di preoccupazioni politiche per il processo che ci stava facendo avvicinare al PDUP e allontanare da Lotta Continua. Probabilmente il pezzo su Gioia di Vivere e Lotta di Classe fu il suo modo di lanciare un sasso.

Apparentemente tutto filava liscio ma il fuoco covava sotto la cenere e un pomeriggio, in una riunione di segreteria nazionale, Luigi Vinci richiese a freddo le dimissioni del segretario nazionale Aurelio Campi accusandolo di gestione padronale del partito. Non ricordo se fosse la fine del 75 o l’inizio del 76 ma il fatto è di poco successivo all’allontanamento di Silverio dal Quotidiano. Era l’inizio di una storia durata all’incirca un anno in cui i due principali contendenti alternarono bordate, punture di spillo e giravolte strumentali.

Ho vissuto l’attacco ad Oskian come una autentica pugnalata tirata a freddo. In realtà c’era parecchio malessere nei confronti di Oskian per il suo decisionismo che molto spesso si trasformava in autoritarismo e a ciò si sommava il timore che stesse progettando una fusione-confluenza con la componente comunista (non psiuppina) del Pdup.

Mi sono poi reso conto, dalle successive dinamiche in Ufficio Politico, che si trattava di un atto preparato con cura da Luigi Vinci (che controllava l’apparato e l’organizzazione), in accordo con molti segretari regionali. Così Avanguardia Operaia, in un momento in cui sarebbe servito il massimo di iniziativa politica e di unità interna, sia prima, sia dopo le elezioni del 76, fu invece vittima di una crisi al vertice tenuta lungamente segreta, ma che non le fece certamente bene.

In quei mesi mi resi conto frequentando i gruppi dirigenti di AO e del PDUP di quanto pesassero le miserie personali nel determinare le scelte politiche e quello fu il primo disvelamento del fatto che non basta credere nel comunismo e appellarsi ad esso per essere all’altezza del compito.

Con il IV congresso dell’ottobre 74 Avanguardia Operaia fece uno sforzo per guardare lontano, stare dentro i movimenti sociali ma, contemporaneamente, cercare di costruire una analisi della società italiana che facesse i conti con le caratteristiche dei due blocchi sociali che riscuotevano il consenso della gran massa degli italiani: il blocco intorno alla DC e quello intorno al Partito Comunista.

Ma una parte del gruppo dirigente storico guardò a quel tentativo con sospetto, come una forma di liquidazionismo. Se devo fare un paragone un po’ forte, ma che aiuta a capire, nel momento in cui avevamo bisogno di Gramsci AO si rifugiò nelle braccia di Bordiga travestito da Lenin.

Il Comitato Centrale, con oltre 100 compagni, tutti con una storia di militanza importante, tutti dotati di esperienza politica, faticava a capire, anche perchè le divergenze reali non venivano palesate, se ne discuteva nei corridoi, in parte in Ufficio politico, ma mai in maniera esplicita. Vinci e Campi un giorno si davano ragione, ma appena temevano che dietro l’unità ci fosse lo zampino del diavolo, rovesciavano il tavolo.

Fu così, nella incapacità di capire cosa era era successo con il risultato delle elezioni di giugno (straordinario balzo in avanti del PCI, tenuta della DC, misero risultato della sinistra rivoluzionaria) che si produsse lo sgretolamento, dapprima lento e poi clamoroso delle tre organizzazioni principali della sinistra rivoluzionaria; AO, LC e il PDUP seguite subito dopo dal MLS.

Nessuna di esse era riuscita ad essere una alternativa a quei blocchi di consenso politico ed ora crollavano stritolate da un lato dal PCI e dall’altro lato dai movimenti della autonomia e dal terrorismo.

la mia reazione

Disgustato da come si svolse la discussione intrecciata tra il risultato deludente delle elezioni politiche e la prospettiva di unire o meno Avanguardia Operaia e il Pdup, decisi di andarmene e nei primi giorni di luglio 76 preparai anche un poderoso documento politico di dimissioni dalla organizzazione a cui avevo dato tanto.

La manchette che apriva il lungo articolo in tre puntate in cui decisi che era ora di finirla con le chiacchiere da convento di clausura

Da qualche mese avevo iniziato a studiare le parti di teoria politica dei Quaderni dal carcere di Gramsci (in particolare le Note sul Macchiavelli) e mi rendevo conto che c’era un vuoto da colmare tra le intuizioni di Gramsci sulla democrazia, sul socialismo, sulla politica, sul blocco storico, sul ruolo della chiesa cattolica, sulla lotta culturale per la egemonia e il nostro appello al leninismo.

Il leninismo si era inverato in una realtà profondamente diversa da quella italiana e per di più, o forse per quello, aveva avuto una deriva fallimentare in cui il giacobinismo della prima ora si era ben presto trasfornato in autoritarismo e poi in una forma di totalitarismo burocratico in grado di garantire solo la propria sopravvivenza (com qualche milione di vittime).

Nel mese di luglio (mentre ero in ferie dal giornale) mi incontrai con Oskian e Claudia Sorlini per informarli della mia decisione di andarmene da una organizzazione che non aveva il coraggio di discutere a viso aperto. Oskian, che in quel momento non era più segretario politico, ma coordinatore di una segreteria collegiale che aveva il compito di preparare le tesi per il V congresso, mi convinse a rimanere promettendomi che si sarebbe aperta la battaglia politica e non quella personale.

Misi da parte il documento di dimissioni (che è rimasto chissa dove in una agenda e si è perso con lei) e nei primi giorni di agosto pubblicai in tre puntate, sul quotidiano, un lungo articolo dedicato alle prospettive che ci stavano di fronte e a quella che secondo me poteva essere la strada per uscirne. Lo trovate qui “perché ho votato contro al Comitato Centrale“.

Di questioni politiche ce ne sono dentro molte e ciò che mi ha colpito è l’insistenza sulla necessità di una riflessione teorico politica di grande respiro, insieme a problematiche di tipo minore che, con gli occhi di oggi, mi fanno sorridere.

A settembre, al rientro dalle ferie dei dirigenti, mi aspettavo una discussione politica (e come si vede dalla D di dibattito nella manchette, pensavo di farlo sul giornale); invece fui processato in Ufficio Politico per aver infranto il Centralismo Democratico e mi venne messo al fianco, in funzione di controllo, Vittorio Borelli, trasferito da Verona e del tutto digiuno di giornalismo.

In redazione non la prendemmo bene, anche perché, come si vede dalla lettura del testo, si trattava di un contributo politico del tutto legittimo nell’ambito della discussione su come arrivare al V congresso di AO.

Le congiure di palazzo e le manovre di corridoio continuavano da entrambe le parti. Non me la sentii di continuare con l’ottimismo della volontà e ai prmi di ottobre decisi che era meglio andarmene e tornare al lavoro minuto, ma importante, di docente. Rimisi il naso in redazione una volta sola quando ci fu lo scontro a fuoco (di cui ho parlato nel pezzo dedicato agli anni del QdL) in cui morirono Walter Alasia e due funzionari di polizia.

un cambiamento profondo

L’esplosione del terrorismo e la violenza dei movimenti della autonomia mi convinsero della necessità di seguire altre strade e lavorare più in profondità. Non abbandonai la passione politica, ma abbandonai l’idea della politica al primo posto, quella del rivoluzionario di professione che sarebbe meglio chiamare uomo ad una dimensione.

Non fu una decisione immediata, ma progressiva. Ricordo che, nei primi mesi del 77, alla assemblea in cui la destra di AO decise di andarsene e aderire al PDUP partecipai, ma mi sentivo ormai un osservatore esterno e non un protagonista. Non ricordo nulla dell’incontro residenziale che si tenne a Rocca di Papa; alcuni amici che proseguirono in quel percorso mi dicono che feci un intervento importante ma non mi è rimasto nemmeno il ricordo. Mi ritrovavo con tante persone a cui volevo bene ma che stavano per intraprendere un ennesimo tentativo volontaristico.

La parabola di AO si era visibilmente chiusa anche se la maggioranza ottenne risultati tra il 70 e l’80%; altri tentarono di fare DP e in quel periodo mi resi conto della drammaticità della situazione.

Il terrorismo cresceva, faceva le rapine, gli autonomi erano alla ricerca dello scontro per lo scontro, la popolarità delle BR nel brodo di coltura della autonomia operaia cresceva, iniziavano gli omicidi e i miei ex compagni continuavano a fare i distinguo come nello slogan infelice nè con lo stato nè con le BR, come se lo stato democratico, le BR e prima Linea, si potessero mettere sullo stesso piano.

Tutti quei tentativi, per quanto generosi, che avevano caratterizzato la mia vita nella prima metà degli anni 70, per quanto animati da persone appassionate, sul piano della soggettività, finirono nel nulla. Non fu così, come ho detto all’inizio, per le trasformazioni che si determinarono nella società e negli assetti istituzionali. L’Italia era cambiata in meglio e noi avevamo fatto la nostra parte.

In questi anni, molti di quei compagni che hanno fatto parte di quel gruppo dirigente sono venuti a mancare e li voglio ricordare, al di là dei dissensi e della diversità di percorso: Marco Pezzi di Faenza, il primo a morire; Attilio Mangano, Umberto Tartari, Severino Cesari, Franco Calamida, Vittorio Rieser, Massimo Gorla, Pietro Spotti, per restare a quelli che conoscevo direttamente.


La pagina con l’indice della mia autobiografia da cui potete scegliere i capitoli da leggere


I commenti dei compagni di allora sono benvenuti e, perché ne rimanga traccia, vi prego di metterli sotto l’articolo e non sulla grande cloaca di Facebook. Già, per effetto delle precedenti edizioni, ce ne sono un certo numero.

Questo è il breve commento con cui ho accompagnato il link su FB

C’eravamo tanto amati … e poi il “giocattolo” si è rotto, il mondo è cambiato e ciascuno di noi ha fatto le sue scelte.
Verso quelle persone con cui ad un certo punto si determinò una rottura conservo un grande senso di simpatia e negli anni tutte le spigolosità sono sparite e voglio bene a tutti loro. Qualcuno con orgoglio dice “volevamo cambiare il mondo, non ci siamo riusciti, ma il mondo non ha cambiato noi”. Detta così non la condivido perchè vivere vuol dire essere disposti a cambiare e ad accettare il cambiamento. La nostra vita, la vita di tutti è bella perché è caratterizzata dal mutamento.