1992-1999: di nuovo professore, ma allo Zucchi

III edizione luglio 2024

il liceo Zucchi che, a Monza, delimita uno dei quattro lati di piazza Trento – al centro si intravvede l’inresso con il cancello in ferro e la gradinata di accesso luogo di ritrovo pomeridiano degli studenti e punto di scambio delle versioni

Nei primi mesi del 92 incominciavo a trovare pesante il clima alla Informatica Sisdo; non mi piaceva molto il modo di rapportarsi al settore pubblico nella gestione delle commesse e così considerai esaurita la parentesi del lavoro nel privato, da cui avevo imparato un sacco di cose, e decisi che era ora di ritornare a scuola.

Sfruttai un vantaggio dello stato giuridico dei docenti di ruolo che consentiva, a chi si era dimesso, di chiedere la reimmissione in servizio, che poi avveniva a discrezione della amministrazione. Ma, con la laurea in fisica e il ruolo nella classe di concorso di Matematica e Fisica, ero certo che non avrei avuto problemi a rientrare. Per altro, avendo la partita IVA ho continuato per un paio d’anni a fare qualche lavoretto episodico con la SISDO su commesse che avevo sviluppato e seguito io.

allo Zucchi per caso

Nella indicazione delle sedi desiderate misi al primo posto Monza, dando per scontato che sarei ritornato al Frisi. Invece, proprio quell’anno, si era liberata una cattedra al liceo classico (l’amico e compagno di studi Carlo Rovelli era andato a fare il Preside) e così finii allo Zucchi: il mitico Zucchi.

il loggiato del Liceo Zucchi visto da sud-est verso nord-ovest

Nel passato ci ero entrato una sola volta per assistere all’esame orale di maturità di Peppo Meroni nell’estate del 1964 e ricordavo il grande loggiato affacciato sul cortile con i cedri del Libano. Gli orali della maturità si svolgevano all’aperto nel loggiato.

In questi giorni sono entrato al Liceone di Siena (Enea Piccolomini) per gli esami di mia nipote (che ha terminato il liceo delle scienze umane); anche lì edificio antico con gli scaloni e i piani da 7 metri di altezza. Il liceo classico si deve portare dietro, anche nell’edificio, questo carattere di antico.

i colleghi della F e il primo impatto

Nel mio curriculum di docente e di studente mancava il liceo classico; lo avevo sempre considerato un posto di snob fuori dal mondo, e ci andai pieno di curiosità. Venni messo nel corso F (quello in cui si era liberata la cattedra) ed ebbi come colleghi del triennio Fiumi (latino e greco), Bulega (Italiano), Gangemi (Storia e filosofia), Gualdoni (Arte), Del Re (scienze) e Pullè (educazione fisica). Nel ginnasio per lettere ho avuto due giovani marito e moglie (Crusco e Tornitore) e una collega di inglese molto esigente (Caridi).

Al classico la cattedra di matematica e fisica è verticale sull’intero corso di studi dalla IV ginnasio alla III liceo. Fisica inizia solo in seconda liceo e si fanno poche ore per classe. Il profilo orario è il seguente 2, 2, 3, 3+2,2+3. Per contrasto dimensionale basta osservare che in IV ginnasio il docente di lettere fa cattedra con una sola classe (italiano, storia, geografia, latino e greco); ma, nonostante le poche ore, quello di matematica e fisica è comunque un riferimento ed è l’elemento di continuità sull’intero percorso quinquennale.

Questa del docente di lettere del ginnasio con 18 ore in una stessa classe era, per certi aspetti, un vantaggio se la prof. (solitamente sono donne) era una persona attenta e capace; ma si potevano anche creare dinamiche distorsive sia nel rapporto docente-studente sia nella capacità di tenere distinte a e a sè stanti in sede di valutazione  5 discipline diverse. Nulla vietava di spezzare in due la cattedra (e in quel caso il docente avrebbe tenuto due classi con 9 ore) e nella classe ci sarebbero state due docenze di lettere ma la tradizione era quella. Con questa impostazione va tutto bene se, per via delle graduatorie, non ti arriva un docente incapace o fuori di testa. In quel caso per il Preside è un bel problema e questa cosa accadde in quegli anni allo Zucchi.

Per quanto riguarda l’ordine e la pulizia, tutto bene come al Frisi, ma nel caso dello Zucchi, per ragioni logistiche, il controllo su alunni e visitatori era più semplice. All’ora della entrata e della uscita veniva aperto il cancello in ferro di accesso al cortile e dal cortile si saliva al primo (e unico piano) attraverso i quattro scaloni posti ai quattro angoli. Nel resto della giornata si poteva salire solo passando dalla guardiola sulla destra dove una bidella provvedeva a segnalare gli arrivi via citofono. Di fianco alla guardiola si faceva il ricevimento dei genitori in un’aula abbastanza squallida e senza sala d’attesa (ma anche al Frisi era così).

il cortile interno del Liceo con vista sull’ingresso e i bellissimi cedri del Libano

Non c’era una palestra a norma per problemi di altezze e non la si poteva certamente realizzare in un edificio tutelato dalla Sovraintendeza; perciò le lezioni di Educazione Fisica si tenevano in aula o in cortile. Tra le diverse scuole in cui sono stato lo Zucchi è stata la prima in cui ho trovato colleghi di Educazione Fisica che giocassero un ruolo importante nei consigli di classe e, in particolare, in sede di scrutinio, fornendo importanti contributi sul rapporto corpo-mente. Insomma, ci aiutavano parecchio nel processo di valutazione.

L’aula magna era al primo piano sul lato sud insieme a qualche laboratorio. A nord, ovest ed est aule; ma a est c’erano anche la biblioteca e, all’angolo opposto, la segreteria, la presidenza e la sala professori con un arredamento ottocentesco e la immancabile enciclopedia Treccani. Al piano terra l’unica parte di pertinenza dello Zucchi era a sud mentre il resto era occupato dall’Ufficio centrale delle Poste e dalla Biblioteca Civica (con porte di passaggio ben chiuse).

Il clima interno, come si conviene a un liceo classico d’epoca (che in quegli anni festeggiò il 500° di fondazione con tanto di volume celebrativo), era austero. I professori erano per un 50% milanesi ma avevano la comodità del capolinea della linea celere da Milano sull’angolo della scuola.

Per quanto riguarda  la provenienza  degli alunni sussisteva la tradizione di iscriversi alla scuola che aveva fatto il papà e, magari, prima di lui il nonno. Dunque c’erano I figli dei professionisti (fossero avvocati o ingegneri), i figli degli industriali doc, i figli degli intellettuali. Accanto a loro, provenienti sia da Monza sia dal contado, alunni molto bravi alle medie che, per via delle doti dimostrate in particolare nell’area espressivo-linguistiche, venivano orientati al liceo clasico. Insomma non si trattava del liceo propedeutico alla iscrizione a lettere per perpetuare professori e professoresse di lettere, ma del liceo per la futura classe dirigente.

Enrica Galbiati

A fare la Preside allo Zucchi c’era Enrica Galbiati (1930-2012) di cui ero stato collega al Frisi (e da cui avevo ereditato la cura del laboratorio del III piano). Enrica Galbiati dal 1978 al 1997 ha segnato un’epoca nella gestione della scuola. I giornalisti, per assonanza con la Thachter, la chiamavano la preside di ferro. Tra noi c’era un rapporto di stima reciproca che aveva a che fare con due cose:

  • l’importanza della formazione scientifica nella formazione della personalità e nello sviluppo della intellegenza
  • una visione conservatrice di certi temi della vita, in particolare in tema di educazione: senso del dovere, rispetto delle regole, valore della fatica; nel suo caso quella visione era esasperata, nel mio temperata dagli interessi politico culturali di sinistra, ma comunque c’era sintonia.

la Preside Enrica Galbiati

Sono stato suo collaboratore per quattro anni (insieme a Marco Praga, Paolo Pilotto, Giulio Fassina) e, sfruttando le esperienze acquisite nel settore informatico, mi fece sovraintendere alla realizzazione dell’aula di informatica con rete harware audio-video che consentisse il duplice uso come laboratorio linguistico e come laboratorio di informatica, oltre che chiedere una mano importante per le problematiche di segreteria e di organizzazione del personale.

I tre collaboratori erano stati scelti con cura: Marco Praga (latino e greco) rappresentava la storia e la cultura del liceo di cui era stato alunno, Paolo PIlotto faceva parte dei giovani allevati dal cardinal Martini attivi nel rinnovamento del laicato cattolico e della DC, Giulio Fassina (sindaco democristiano di Giussano e vicepreside storico) si occupava della gestione ordinaria (assenze, sostituzioni, circolari, …) sgravandola dai compoiti più noiosi. Io facevo il doppio ruolo di espressione dell’area progressista e di esperto di organizzazione. Sapevo scrivere, masticavo bene la normativa e così finivo per essere l’incaricato della stesura dei documenti più corposi. In quegli anni le scuole dovettero dotarsi di regolamenti, di una carta dei servizi e del Piano Educativo di Istituto (il PEI antesignano del POF).

A proposito delle sue opinioni politiche Enrica Galbiati non poteva che essere democristiana; era una lettrice regolare de Il Giornale di Montanelli e aveva seguito Montanelli nella sua rottura con Berlusconi iniziata nel 94. Nei primi mesi del 96 ho assistito ad una telefonata in cui Enrichetta parlava con Peppino Fumagalli, il padrone della Candy, e gli spiegava che, assolutamente, era fondamentale votare per Prodi alle imminenti elezioni politiche. Aveva maturato posizioni antiberlusconiane (immagino che lo considerasse un parvenu e uno sporcaccione), ma più avanti, dopo la pensione andò a fare l’assessore alla istruzione nella sindacatura di centro-destra di Roberto Colombo. In quella occasione mi chiese anche il mio parere e fui franco nel dirle che non era il caso, non per via dello schieramento, ma perché, gli dissi, Enrica tu non hai il senso delle istituzioni rappresentative, non sarebbe il tuo mestiere. Credo che i fatti mi abbiano dato ragione.

La Presidenza era in un locale grande, con mobili antichi e, in una vetrinetta c’era qualche libro settecentesco ,poca roba rispetto a quello che avrei visto qualche anno doopo al liceo Beccaria di Milano dove feci il tirocinio nell’anno di nomina a Dirigente Scolastico. Alla Presidenza si accedeva o dal corridoio o dalla vicepresidenza, a sua volta collegata alla segreteria, con finestre che affacciavano su piazza Trento.

In quegli anni sono accadute tante cose ma ne voglio citare un paio che hanno avuto un certo peso sulla città. La prima, nel 93, trascinatasi nei due anni successivi fu di rilevanza penale e portò ad un processo in cui fu imputata Enrica Galbiati. Il processo si concluse con una condanna in primo grado e una assoluzione in appello (credo per remissione di querela).

il caso Frediani e l’occupazione

Era l’aprile del 93 e uno studente di V ginnasio, Lorenzo Frediani fu svillaneggiato da lei che lo aveva trovato stravaccato fuori dalla presidenza perché Lorenzo, come faceva spesso, era arrivato in ritardo e i ritardatari venivano fatti attendere davanti alla presidenza. Lorenzo era un mio alunno; era sempre un po’ fuori dalle righe mentre la Galbiati aveva una concezione dell’educazione che prevedeva di usare con gli studenti, soprattutto all’inizio del rapporto, una linea dura.

La bagarre si scatenò sulla accusa, sostenuta dalla famiglia, di avergli dato del giudeo (la Galbiati è razzista). Non ero presente al fatto ma, conoscendo Enrica e conoscendo Lorenzo, sono convinto che si trattò di una rabbuffata energica con Lorenzo che cercava di giustificarsi accampando qualche pretesto e lei che, probabilmente di fronte a giustificazioni poco credibili, per via del suo stile e della sua formazione culturale, gli diede dell’impustur ‘me Giuda, un modo di dire tipico della cultura popolare catto-brianzola e che ho sentito tante volte da bambino: bugiardo come fu Giuda nei confronti di Cristo.

Quell’impustur me Giuda si trasformò da parte della famiglia Frediani in una querela il cui elemento principe, dal punto di vista della pubblica opinione, fu quello di aver dato del giudeo al loro figlio. Non avevo dubbi sul fatto che Enrica avesse trasceso e andai a testimoniare a suo favore cercando di alleggerirne la posizione (e me ne fu riconoscente).

Ma aveva un avvocato proprio debole e anziano (l’ex sindaco Giovanni Centemero) mentre dall’altra parte c’era una pretora bella tosta e in primo grado venne condannata. Era una donna di spirito, ma quella condanna le pesava. Mi diceva, certo che finire condannata con una accusa di razzismo … e si metteva a raccontare delle persecuzioni razziali che ci furono anche allo Zucchi quando lei ci studiava e cosa si faceva per proteggere le compagne ebree. Poi la metteva sul ridere ribadendo quello che aveva dichiarato anche in udienza come avrei potuto dare del giudeo ad un ragazzo il cui fratello maggiore si chiama Adolfo (Adolfo Frediani era stato qualche anno prima uno dei leader del movimento allo Zucchi).

Nell’anno 94/95 ci fu l’occupazione del liceo e lei, invece di chiamare la polizia, disse che sarebbe rimasta in presidenza a tutelare la scuola e gli studenti. Non voleva assolutamente che la polizia entrasse a scuola e sosteneva che finchè a scuola c’era lei la situazione si poteva considerare legale. Si chiuse in Presidenza e noi collaboratori rimanemmo a scuola in vicepresidenza a dormire su qualche poltrona e sul lettino della infermeria.

La mattina dopo gli occupanti cercarono con un trucco di chiuderci fuori dalla scuola; la presenza della Preside e dei collaboratori, anziché vederla come una tutela neil loro confronti, la vivevano come un vulnus (che occupazione è se c’è dentro la Preside con i suoi collaboratori?). Ci chiesero di scendere al cancello per sovraintendere all’ingresso degli occupanti che avevano dormito a casa e allo scambio delle vettovaglie. In realtà avevano preparato un blitz che prevedeva di chiuderci fuori dalla scuola. Ci fecero uscire dal cancello accostato per controllare qualcosa e appena fuori tentarono di chiudere.

Ma non avevano fatto i conti con il fatto che, di certe cose, avevo una certa esperienza e l’operazione non ebbe successo, perché sfondai il picchetto con cui cercavano di tenerci fuori. In quei momenti sono importanti la rapidità e la decisione. Naturalmente ci fu anche qualche polemica della serie il professor Cereda ha usato violenza verso gli studenti, ma l’acccusa, ovviamente, si smontò da sè.

Il suicidio di due alunni

Il terzo episodio fu molto grave e mi ha segnato per diversi anni. Accadde la notte tra il 13 e il 14 maggio del 95: il  suicidio, con i gas di scarico dell’auto di due miei alunni: uno di II liceo (Samuele Fossorier) e uno di III liceo (Walter Caliendo). Si suicidarono un sabato notte dopo essere tornati, con un folto gruppo di zucchini, dalla sagra dell’asparago di Mezzago. Con la macchina di Walter accompagnarono a casa Matteo Pressato della III F, poi scelsero un luogo appartato,  sigillarono le portiere, fecero entrare da un finestrino un tubo di gomma collegato allo scarico della marmitta e poi si sedettero sul sedile posteriore in modo di essere certi di non poterne uscire.

Chi li ha visti dive che Walter era sereno mentre Samuele avrebbe tentato di uscire senza riuscirci. Quella domenica mattina mi chiamò al telefono la Galbiati allertata dalle famiglie. I cadaveri non erano stati ancora trovati, ma erano arrivate dichiarazioni inequivocabili da parte degli amici e mi fiondai a scuola dove rimasi per l’intera giornata.

Erano due persone molto diverse: Walter si dichiarava fascista (magrolino e chiuso) e Samuele era  guevarista con tanto di basco con la stella (gioviale ed esuberante). Sia Walter sia Samuele erano con me da tre anni e nessuno dei due brillava nelle mie discipline.

Walter lo trovavo strano, era taciturno e avevo l’impressione che ogni tanto si estraniasse dal mondo; l’avevo anche fatto presente in un paio di occasioni in Consiglio di Classe, mentre i docenti di area umanistico letteraria lo dichiaravano assolutamente normale e geniale. Samuele era l’opposto: estroverso, atletico (era stato un campioncino di lancio del martello),  impegnato nel movimento e, nella occupazione di qualche mese prima, aveva avuto un ruolo superiore a quello del semplice partecipante.

Nei giorni successivi fui sconvolto da ciò che, poco alla volta, saltò fuori:

bigliettini scritti da entrambi in cui si esplicitava il progetto suicida in un clima di totale smarrimento del senso di realtà come quello in cui Samuele scriveva e che non dicano che l’ho fatto perché non andavo bene a scuola perchè, cazzo, a costo di tornare indietro, faccio un casino. La morte vista come una avventura da cui si può andare e tornare

annotazioni di diario da parte di Walter in occasione del compleanno e risalenti a quasi un anno prima: “Giorno maledetto, chiunque lo abbia voluto, mi vendicherò senza perché e senza scrupoli. Non tocca a noi vivere, cosa ci sto a fare qui? Io me ne devo andare assolutamente. Non ce la faccio piu” (citazione pubblicata da Repubblica)

la scoperta che la discussione sul suicidio andava avanti da mesi (in II F e in III F). In questa discussione erano coinvolti alcuni degli studenti (prevalentemente di III) e alcuni adulti (sia genitori, sia docenti). Avevano sottovalutato la pericolosità della faccenda, o comunque avevano deciso di gestirsela in proprio, fidando nella propria capacità persuasiva e ritenendo inopportuno informare gli altri colleghi. In proposito ci fu una discussione piuttosto animata subito dopo i funerali a casa di una delle studentesse coinvolte in cui il coinvolgimento degli adulti lo sentii confermare dai diretti interessati

da qualche mese nella III c’era qualcosa che non andava; una compagna di classe, seria e diligente, aveva avuto un inatteso calo di rendimento e sembrava decisamente in crisi. A cose fatte saltò fuori che aveva avuto un flirt con Walter e che erano state fatte delle prove di suicidio (per impiccagione) mentre lei era stata costretta ad assistere ad alcuni di quei rituali; non solo sapeva ma era coinvolta direttamente

una contiguità stretta con due altri compagni di classe, che erano con loro anche quella sera, e che erano culturalmente e politicamente mille miglia lontani da Walter, l’uno rifondarolo e l’altro frikkettone. I quattro avevano recentemente fatto un viaggetto a Siena tornando innamorati del mondo delle contrade.

tra gli studenti legati al movimento se ne parlava come di una ipotesi concreta ed erano parecchi a sapere: “ah se Samuele non è tornato, vuol, dire che si sono ammazzati …” disse una ragazza, compagna di classe di Samuele, quando li stavamo cercando la domenica mattina.

Andai avanti, per giorni interi a piangere, mi uscirono tutte le lacrime che non avevo versato, un mese prima, per la morte di mio padre. Volevo capire come era andata, continuavo ad incazzarmi con quegli adulti che ritenevo responsabili.

Con alcune delle alunne della ex III F in occasione di una delle messe di ricordo

Ma la città e la Galbiati decisero che doveva calare il silenzio e il silenzio calò. Ci furono incontri con i familiari e si lavorò con l’aiuto di qualche psicologo sugli studenti della classe di Walter, che di lì a poco avrebbe avuto l’esame di maturità. Feci anche un esposto alla procura della repubblica per invitarli ad approfondire, ma mi fu detto che era tutto chiaro e che non c’erano zone d’ombra.

Con i genitori di Walter, che erano stati tenuti all’oscuro di tutto (!), dagli altri adulti che pensavano di gestire la cosa, e con un pezzo di quella classe siamo andati avanti per anni a ritrovarci in una chiesina fuori Brugherio per una messa aperta a chi voleva e io, non credente da una vita, ci andavo per rivedere quelle persone che intanto crescevano e si laureavano. Mi auguro che gli anni abbiano portato loro una pace senza rimozione.

L’anno dopo, non ho mai capito chi fu l’organizzatore della cosa, l’establishment interno allo Zucchi decise che io, e le persone con cui collaboravo eravamo poco affidabili perché avevamo deciso di mettere le cose in chiaro su quanto era successo e alle elezioni dei collaboratori e più tardi per il consiglio di istituto ci dissero che saremmo stati estromessi dalla lista unitaria (? unica) che veniva solitamente presentata. Feci di necessità virtù e ripetei allo Zucchi quanto mi era capitato di fare al Frisi anni prima: due liste, esplicitazione dei programmi e anche questa volta fu un netto successo.

Nel 94/95 stavo già slittando dal corso F al corso A (avevo già la IV  A e la I A). Chiesi, e lo ottenni, di passare completamente al corso A. Non me la sentivo di continuare a collaborare con quei colleghi che sapevano,  avevano sottovalutato e di fronte alla tragedia avevano semplicemente abbozzato.

gli amici della natura

Da parte mia, visto il contesto di cui ero venuto a conoscenza, da cui traspariva un totale distacco dal mondo reale, misi in piedi, con alcuni colleghi disponibili, una libera associazione che prevedeva uscite domenicali a contatto con la natura da effettuarsi con mezzi poveri e usando il trasporto pubblico.

La chiamammo  amici della natura dello Zucchi. La Galbiati, persona pratica, ci garantì la copertura assicurativa e non mise i bastoni tra le ruote.

Amici della natura durò in tutto 3 anni e le uscite organizzate sono state le seguenti: castagnata a Dazio in Valtellina (3 edizioni con il CAI di Villasanta), giornata sciistica a Courmayeur (fondo e discesa), gita sciistica a Santa Caterina Valfurva (fondo e discesa), 2 giorni naturalistico escursionistica in Val Malenco, gita al rifugio III alpe, escursione ciclistica agli aspetti inconsueti del Parco di Monza, gita al parco del Monte Barro, escursione alla Basilica di S. Pietro al Monte di Civate, escursione ciclistica al Parco Adda Nord e ai siti di archeologia industriale dell’Adda.

Ricordo ancora l’escursione al Monte Barro, iniziata con la scoperta che da Lecco a Galbiate, la domenica mattina, a differenza dei giorni feriali, non c’era il pulman e ce la dovemmo fare a piedi.

L’iniziativa più impegnativa fu quella in val Malenco con partenza il sabato all’uscita della scuola: treno per Sondrio, pullman per Chiesa e salita in funivia al lago Palù, discesa al lago e deposito degli zaini al rifugio Palù, per iniziare una  immediata ascensione al Bocchel del Torno (il passo a nord-est dove c’era ancora neve e ghiaccio e iniziava ad imbrunire). Rapida discesa, cena; uscita al buio più completo ad osservare la cometa hale bopp. Il giorno dopo escursione dal Palù all’imbocco della val Sissone (alpe Forbicina), dopo Chiareggio, pulmini da Chiareggio sino a Sondrio e tutti a casa con il treno.

da Galbiati a Meneghetti

Il pensionamento di Enrica Galbiati era nell’aria. Me ne resi conto nel 96/97 quando decise di allargare i cordoni della borsa. Negli anni, attraverso le politiche di bilancio che governava con mano ferma aveva accumulato un consistente avanzo di amministrazione che fu utilizato per la realizzazione un’aula multimediale con una poderosa componente hardware che stava sotto il pavimento rialzato.

Era l’epoca di Windows 95 e le reti governate dal sw erano agli inizi. Pertanto l’aula utilizzabile per informatica, laboratorio linguistico e applicazioni multimediali si basava pesantemente sull’hardware con una console avvenieristica che consentiva di controllare tutte le postazioni e, volendo, di strutturare la classe in gruppi. Il tutto era commercializzato da una delle aziende leader nel settore della editoria scolastica in partnership con IBM. Si pensava di poter finalmente avviare il corso di Piano Nazionale per l’Informatica ma, come negli anni precedenti le adesioni da parte della città furono deludenti. C’erano richieste, ma non bastavano mai a raggiungere il numero sufficiente a fare una classe.

Nell’anno precedente il liceo, con la collaborazione e l’impegno della valentissima docente di storia dell’arte Amalia De Biase aveva organizzato un viaggio di Istruzione in Grecia in cui a turno venne coinvolta l’intera scuola . Ci andai anche io ma mi andò male. La prima sera portai i ragazzi a gustare un po’ di cucina tipica greca e la mattina dopo mentre andavo su e giù per le scale dell’albergo a raccattare i ritardatari, scivolai su uno scalino che non aveva le srisce antiscivolo di gomma, volai all’indietro per finire con la schiena sullo spigolo del gradino. Ospedale e successivo riposo a letto in camera sino alla data di rientro.

Apparentemente finì tutto bene, ma la mia schiena già malmessa nelle lombari ebbe il colpo di grazia e nell’anno successivo ernia discale espulsa tra L5 e S1 con intervento in neurochirurgia.

Quando Enrica Galbiati andò in pensione nel 1997, dopo una breve parentesi di interregno, arrivò da Milano Mariagrazia Meneghetti, una bella signora che era tutto l’opposto: colta, elegante, laureata in lettere classiche, figlia di un ispettore e di una preside, molto milanese e, infatti, mi fu grata per averla introdotta ai misteri della monzesità. Il primo consiglio che le diedi fu: se vuoi conoscere Monza e comprendere le sue dinamiche devi leggere Il Cittadino tutte le settimane; la Galbiati non ne aveva bisogno perché lo storico direttore, forse proprietario, era suo fratello.

Con Mariagrazia è iniziata una fase di svecchiamento del liceo; per un anno ho avuto un incarico di supporto organizzativo alla presidenza, ho steso il regolamento di istituto definendo modalità di funzionamento della scuola, organi, diritti e doveri e nell’anno succesivo ho persino fatto il vicepreside con un semiesonero dall’insegnamento.

Per due anni consecutivi ho fatto anche il responsabile del servizio di prevenzione e protezione. Nel  vecchio edificio dello Zucchi i problemi erano tanti (vie di fuga, impianti elettrici assolutamente fuori norma, mancanza di un impianto antincendio, pericolosità del sottotetto con travi e capriate in legno infestati da anni dai piccioni con uno strato di guano di alcuni centimetri che ricopriva il pavimento).

Il quadro elettrico generale, che si trovava al piano terra nell’angolo nord-ovest era costituito da una enorme lastra di marmo su cui stavano i sezionatori a coltello e le vecchissime valvole di protezione a filo. Niente salvavita e in molte zone nemmeno presenza di interruttori magnetotermici. Per condire il tutto, il quadro era protetto da una griglia metallica che, in occasione di qualche lavoro era stata svitata e da allora giaceva appooggiata al quadro con il rischio di un corto circuito devastante.

Segnalai, segnalai, … e alla fine data l’inerzia degli uffici comunali, arrivò la ispezione dell’ufficio di II livello e il comune si beccò una multa con i fiocchi.

Con Meneghetti mi trovavo decisamente bene ma la sperimentazione PNI non partiva e così nel 98/99 feci domanda di trasferimento, destinazione Frisi.

gli studenti

Gli studenti, anzi le studentesse, visto che erano la maggioranza, le potevi dividere a metà:

  • quelle/i che si erano iscritti al classico perché lì si fa poca matematica e con quelli/e c’era poco da fare (pregiudizi e scarsa apertura mentale)
  • quelle/i che avevano scelto il classico per fare una esperienza di studio aperta alla riflessione, agli approfondimenti e alla cultura classica vista come madre del nostro sapere. In questa categoria c’erano poi i molto bravi e, quelli non li batteva nessuno quanto ad autonomia e capacità di approfondimento. Mi ritrovai a pensare a due amici e compagni del 68 che avevano fatto lo Zucchi, Lino Di Martino ordinario di Algebra e Mao Soardi ordinario di analisi.

Fu in quegli anni che iniziai a lavorare sul mio corso di fisica e a rendere disponibili i testi corretti e commentati dei compiti in classe. La interazione con gli alunni iniziava ad avvenire anche con uso della posta elettronica. I materiali li distribuivo su CD e anni dopo fu uno studente dello Zucchi ad offrirmi uno spazio di host in rete, Era Morris Barattini che tempo fa mi scrisse: “Ricordo l’ esperimento del foglio appoggiato sul libro in caduta che mi aveva totalmente spiazzato. Si divertiva un sacco quando insegnava, è una cosa bella. Forse scriveva troppe cose alla lavagna e spesso non la seguivo molto, ma non è colpa sua, è la matematica che è una palla mostruosa”.

la equazione di Eulero che raggruppa in una formula i numeri importanti della matematica e, i, pi greco e volendo anche 1 e 0

Eravamo al classico, poche ore di scienze dure ma alto livello. In terza, con l’accordo degli studenti, introdussi l’insegnamento dell’analisi matematica con un approccio più concettuale che tecnico e, nel ginnasio, lavorai in maniera molto alta sulla geometria razionale utilizzando un libro di testo del professor Conti che andava a fondo sulla indipendenza e completezza degli assiomi della geometria.

Poco peso agli aspetti tecnici o ripetitivi e lavoro sugli snodi del ragionamento matematico. Ma come si vede da questa immagine con la equazione di Eulero che richiama quattro numeri importanti della storia della matematica (e, i, 1, pi greco), magari solo per cenni, si apriva a cose avanzate. In questo caso si parlava, a fine corso e con un po’ di ironia, della importanza dei numeri complessi nella costruzione dell’edificio della matematica.

Molti di questi studenti li ho ancora come amici sulla pagina Facebook. Ciò che li accomuna è l’autonomia, la capacità di fare scelte coraggiose, di dare una svolta alla propria vita e, molti di loro, non sono più in Italia ma in Canada, in Inghilterra, in Spagna, altri fanno i docenti universitari, o scrivono, o inventano startup.

Come Andrea Rota che, nel 95, usando alcune caratteristiche di Windows 3.1, era riuscito a produrre la versione on line di Bartolomeo, il giornalino degli studenti. Alla fine del liceo andò a Milano per iscriversi a Fisica e tornò a casa iscritto a filosofia. Mentre faceva filosofia, mise su una startup di informatica e poi, andato in Inghilterra per il dottorato, si è fatto assumere dall’Università per curarne il sistema informativo. Adesso non so dove sia.

Mi scrisse Paola Villa che ora insegna letteratura italiana negli States:


Una cosa però mi ha sempre infastidito di noi "fighetti" di Piazza Trento Trieste: quella posa da Crociani di bassa lega, quell'attitudine a snobbare le materie scientifiche come vile "techne" che non ha nulla a che vedere con la "vera" cultura dei classici e dei "sommi poeti" e altre baggianate di questo tipo.

Ecco a me quest'atteggiamento ha sempre fatto girare i c…i, tanto per dirla da contessa:-). Poi in prima Liceo è arrivato Lei. Sempre un pò incazzoso, sempre in blue-jeans, con il suo intercalare dialettale  (fa balà l'ouch!) che faceva tremare le pareti del tempio della "Crusca" e con la ferma convinzione che il muro fra le "due culture" fosse da abbattere e subito!

Cereda è stato per me il Feynman italiano: mi ha insegnato che la matematica e la fisica non appiattiscono il mondo, non fanno a pezzi la poesia, come qualcuno sosteneva, ma ne danno una visione più completa e affascinante.  Ora vivo negli States dove insegno Italiano all'università e sto scrivendo una tesi di dottorato sul rapporto tra letteratura e fisica. Il mio idolo: Cicerone?? No, Niels Bohr!


Scrive Serena Psoroulas, una zucchina che ha fatto fisica e continua ad occuparsi di fisica:


Per me leggere le sue verifiche e seguire le sue lezioni nell'anno in cui fui sua alunna fu emozionante, perché mi mostrava un modo completamente diverso di fare matematica, che nessuno prima (e purtroppo neppure dopo, fino a che non arrivai a studiare analisi matematica) mi aveva mai mostrato. D'un tratto la matematica era interessante; le sue erano verifiche in cui era richiesto di pensare, non di eseguire istruzioni. Ho sempre odiato la matematica prima di conoscerla; dopo aver fatto un anno con lei, non avrei più potuto dire la stessa cosa...

Quello che avevo imparato da lei mi diede anche un po' sui nervi, diverse volte. Mi aveva mostrato come ciò che mi piaceva in altre materie (l'analisi come base per la comprensione del testo, sia in latino, greco o in italiano, per fare un esempio) era anche alla base della matematica – e che quindi, se non riuscivo a farla era colpa mia, non stavo analizzando appieno il problema. Non potevo più nascondermi dietro alla scusa non sono portata per questa materia. Gli errori di segno in un'equazione, erano solo il sintomo di quanto fossi stata pirla.

Passione per le cose che ti trascina a guardarle sempre con un occhio diverso, a rianalizzare, a non sederti mai – e l'inconsistenza delle scuse dietro cui ci si nasconde quando invece ci si siede – sono forse le cose che più ho imparato dalla mia esperienza, con lei e con altri. Come fa a sbattersi così alla sua età? era quello che molti noi studenti ci chiedevamo (aveva già passato i 50 quando la conobbi, un'età che per un 14enne è un chiaro sintomo di matusaggine). E c'era chi la stimava per questo suo atteggiamento.


Serena era l’amica del cuore di Ilaria Salis; già perché in quella IV ginnasio del 97/98 c’era anche lei. Quando suo malgrado è divenuta famosa mi sono detto, ma quel nome mi ricorda qualcosa, e quando venne fuori che era di Monza e aveva fatto lo Zucchi, feci due più due. Ho ritrovato i suoi voti, i giudizi del I e II quadrimestre dove si sottolinea la sua vivacità intellettuale e la necessità di controllarla e coinvolgerla. Il centro sociale Boccaccio è nato in quegli anni e, al di là della mi scarsa simpatia per i centri sociali che risale agli anni 70, non riuscivo e non riesco a capire come una parte delle teste fondanti potesse provenire dallo Zucchi.

In quell’anno approfittando dell’arrivo nel corso della professoressa Scrocco (lettere), moglie del Preside del Frisi Cicerone, donna molto colta e disponibile verso la scuola e gli studenti organizzammo un bellissimo viaggio di istruzione a Roma con un programma tutto gestito da lei (Roma monumenti principali, villa Adriana a Tivoli, necropoli etrusca a Tarquinia)

La mattina arrivavo in bicicletta da Villasanta e parcheggiavo la bici al parcheggio custodito di piazza Trento. Poi arrivavo ai gradini sempre ingombri di studenti del ginnasio che copiavano le frasi di latino: Buon giorno e sorridevo pensando che il modo migliore per far studiare la gente era essere esplicito nel rapporto, insegnando ad autodosarsi rispetto ai ritmi di apprendimento. Per questo non davo compiti a casa in maniera fiscale e, a volte, per questo subivo le rimostranze dei genitori.

La bici era la Bottecchia che avevo vinto con l’abbonamento a Rinascita, rosso bordeaux con un bel portapacchi nero su cui mettevo la cartella. Una mattina d’inverno, mentre percorrevo il Parco da Villasanta ed ero appena sbucato sul viale Cavriga provenendo dalla zona dei Mulini Asciutti, saranno state le 7:30, c’era poca luce, sentii il rumore di una frenata secca dietro di me. Ebbi la prontezza di spirito di pedalare più forte e così l’impatto fu meno violento. Volai in avanti di qualche metro rispetto alla bici e andò tutto bene. Quello in macchina mi aveva visto solo all’ultimo momento. Tra lui in frenata e io in accelerazione fui salvato dalla conservazione della quantità di moto. Ma non andò così bene qualche anno dopo mentre andavo al Frisi a fare gli scrutini.

i colleghi

Angelo Cucinotta (matematica e fisica) e Fernando Montrasio (detto Nando, latino e greco)

Nel novantanove duemila, dopo tre tentativi consecutivi di far partire la sperimentazione di informatica, falliti per insufficiente numero di richieste perché Monza è Monza e il classico è il classico, sono ritornato al Frisi.

I vecchi colleghi dello scientifico erano curiosi; si aspettavano che dicessi peste e corna dello Zucchi e invece li ho delusi (tra i due licei monzesi c’è sempre stata competizione nel primeggiare).

Dissi loro: se al Frisi, in media, uno studente incontra nella sua storia scolastica almeno tre docenti di quelli che lasciano il segno, allo Zucchi siamo a 3.5 e gli studenti, quando sono bravi, lo sono per davvero.

I colleghi erano dei veri esperti nelle loro discipline anche se sopravviveva qualche parruccone/a da giardino zoologico in particolare tra i docenti di latino e greco. Voglio ricordare i due della foto: Angelo Cucinotta (fisico underground reduce dalla Parigi Dakhar in moto) e Nando Montrasio (giovane docente di latino e greco, dalla grande cultura).

Ma poi Fiumi, Praga e Scrocco (Greco), Ragazzi, Bulega e Bregani (italiano), Montrasio e Del Re (scienze), Gualdoni e De Biase (arte), Castellani e Ferraro (storia e filosofia), Di Miele e Magni (matematica e fisica), Pullè e Turri (educazione fisica), poi qualche docente di lettere del ginnasio come Patrizia Marchesi o Paolo Pilotto che, nonostante insegnasse religione, è diventato una istituzione dello Zucchi già prima di darsi alla politica cittadina. Con tutto quel ben di Dio di intellettuali avevi la impressione di stare nel regno della cultura anche se ne percepivi aspetti di unilateralità.

La scuola è ora diretta da una cara amica di Villasanta, Rosalia Natalizi Baldi che ha mosso i primi passi da DS alla media di Villasanta, il cui figlio Tommaso intelligentissimo e multiforme è stato mio alunno al Frisi. Se dò uno sguardo allo staff ritrovo giovani docenti di allora ancora presenti come Anna Magni, Carmelo Valentini, Cristina Catalano, Daniela Bini (ex Frisi), Nando Montrasio, Giovanni Missaglia e Mara Gualdoni. Tutto ciò mi fa riflettere sul fatto che la identità e lo spirito di appartenenza siano un bene importante in ogni organizzazione e lo siano a maggior ragione in quelle educative. Spirito di appartenenza e capacità di rinnovarsi.

A proposito delle due culture che non si parlano voglio ricordare un episodio divertente accaduto durante un consiglio di classe. Non so per quale ragioni stessi parlando di linguaggi e delle loro diversità ed io pensando alla meccanica quantistica citai come linguaggio il formalismo hilbertiano. La MQ ha un suo strano linguaggio basato sugli operatori che operano su particolari vettori nel campo complesso in uno spazio a infinite dimensioni (lo spazio di Hilbert). Tutto ciò, gli oggetti e le regole con cui interagiscono, viene condensato parlando di formalismo hilbertiano.

Fui interrotto da una collega di latino e greco che mi disse: ma cos’è questa storia del formalismo hilbertiano, il forrmalismo è una corrente artistica. Appunto.

Era la la stessa persona che in un’altra occasione mi spiegò che il mio argomentare usava troppo la paratassi e troppo poco la ipotassi. Nella mia ignoranza le chiesi di spiegarmi cosa fossero e, dopo aver imparato due parole nuove, le dissi che il linguaggio diretto che procede per frasi brevi e accostate (la ipotassi) è quello che si usa nel giornalismo e nella comunicazione verbale. In quella scritta, di tipo saggistico, nelle sue diverse forme e ambiti, è normale usare una proposizione principale e una o più subordinate. Insomma, le dissi, a seconda dei contesti, sono un po’ paratattico e un po’ ipotattico.

capo Nord

Nei periodi di vacanza (invernale ed estiva) andavo in montagna in val Malenco e lì conobbi, diventandone amico, Francesco Ceratti, medico esperto in organizzazione sanitaria, classe 1947 e con la passione per il girovagare motociclistico.

Nel 95, al ritorno da un giro tra la Valtellina e l’Alto Adige, ero arrivato lungo su una curva secca e i freni a tamburo della mia Aermacchi 350 mi avevano tradito: blocco della ruota posteriore, scivolata e caduta. A parte due costole incrinate dal manubrio, niente di grave, ma conclusi che era ora di prendere una moto con i freni a disco.

Volevo una moto italiana e la scelta cadde sulla Guzzi Nevada 750; il fascino del bicilindrico. Francesco aveva una Yamaha Diversion 600 e decidemmo che per i 50 anni avremmmo festeggiato andando a capo Nord.

Era l’estate del 97. Spesi il benefit dovuto alle attività di collaborazione a scuola per acquistare un giubbotto Dainese serio (cordura con interno in goretex, protezioni alla schiena, gomiti, polsi e spalle) insieme alle tre borse rigide e ad una borsa da serbatoio. Iniziò un lavoro di preparazione sulle cose essenziali di manutenzione presso il concessionario Guzzi di Carate (avevo visto che in alcune zone della Norvegia il meccanico Guzzi più vicino sarebbe stato a 600 km e dunque bisognava saper fare l’essenziale in caso di bisogno).

E così partimmo per un viaggio di circa 9’000 km diluiti in tre settimane. E’ stata una grande avventura di cui ho steso un diario di viaggio che trovate qui insieme alla descrizione delle singole tappe e ai link agli album fotografici che ho messo nella mia pagina Facebook.

Siamo saliti dalla Svezia e Finlandia e tornati dalla Norvegia (con in mezzo Svizzera e Germania). Si stava in moto tutto il giorno ed è andato tutto bene. Delle tre borse rigide, quella di destra era piena di ferri e di pezzi di ricambio, ma non è servito praticamente nulla e la moto italiana, con il cardano, si è rivelata migliore della giapponese a catena.

Nel nord della Norvegia il mio socio è caduto da fermo e ha rotto il poggia piedi dal lato del cambio (e nelle moto se non hai il poggia piedi non puoi azionare il cambio). Gli ho montato uno dei due lato passeggero, un po’ più piccoli, ma ce la siamo cavata sino in Germania dove abbiamo fatto manutenzione alla Yamaha.

Pernottamenti prevalentemente nei bungalow della estesa rete di campeggi della Scandinavia; colazione super-ricca la mattina (uova, aringhe, yogurt, frutta, formaggio, salumi, …), breve sosta di rilassamento all’ora di pranzo con mele o banane, ricerca del campeggio nel tardo pomeriggio e cena in campeggio. Il tempo ci ha assistito e abbiamo avuto solo un paio di giornate d’acqua (l’attrezzatura ha retto).

Ovviamente la parte più suggestiva, oltre a NordKapp, è stata quella della parte alta della Norvegia a nord del circolo polare (visita a Tromso, la città di Amundsen e alle Lofoten, le isole di capitan Findus). In una delle tappe, a nord di Mö I Rana, abbiamo fatto 200 km senza incontrare nessuno e ad un certo punto sono rimasto a secco. Per fortuna eravamo a soli 50 km da Mo I Rana e il mio socio aveva ancora un po’ di benzina.

Nel ritorno (durato due settimane perché la Norvegia è molto più contorta e ricca di fiordi della Svezia) abbiamo fatto anche un po’ di turismo cittadino (Oslo, Copenhagen, Berlino) e arrivati a Monza abbiamo visto che lo Zucchi era ancora lì.


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1987-1992: il lavoro alla Informatica SISDO

Le vicende che mi portarono a lasciare la scuola per approdare alla SISDO le ho già raccontate alla fine del Capitolo 17, quello dedicato ai miei primi 10 anni al Frisi.

La SISDO ha ormai cessato la sua attività. Era una azienda milanese che si occupava di Informatica per mini-sistemi (la via di mezzo tra i main-frame e i PC) e i colori aziendali erano il verde e il nero, gli stessi che caratterizzavano l’arredamento della sede principale, dalle poltrone alle scrivanie.

Dalla esperienza alla SISDO ho imparato un sacco di cose che poi ho usato nella vita e riportato nella scuola. Un giorno Oskian (ormai era diventato cittadino italiano, si chiamava Campi, ma per me era sempre Oskian) mentre discutevamo animatamente su come risolvere un problema di Informatica mi disse: la vuoi piantare di fare il professore. Voi professori l’abitudine del so tutto io ve la portate appresso per tutta la vita.

Aveva ragione; l’oggetto della discussione era il malfunzionamento di un apparato complesso e non si capiva neanche bene se fosse un problema hardware o software. Io volevo venirne a capo facendo l’analisi della situazione e lui mi spiazzò incominciando a staccare un filo alla volta, finché, per esclusione, capimmo qual era il problema. Poi mi disse: queste cose le ho imparate dalla teoria dei sistemi ed io imparai la lezione. La teoria dei sistemi, non sempre insegnata in maniera adeguata, è comunque una delle discipline di indirizzo nella istruzione tecnico-tecnologica.

come era strutturata la SISDO

La società, nel periodo di massimo sviluppo, aveva una ventina di dipendenti e altrettanti collaboratori che lavoravano a domicilio facendo del data entry. Le sedi erano tre: in viale Bianca Maria 18 (centralino, direzione, amministrazione e commerciale), in piazza Tricolore (sviluppo software e data center), in viale Monza (attività di service).

Ci si occupava di data entry, sofware gestionale per le aziende, banche e software per la pubblica amministrazione, con tentativi abbozzati di occuparsi di cartografia, di reti tecnologiche e di sistemi intelligenti (Oskian era appassionato di intelligenza artificiale).

Si lavorava in Cobol e in C e si usavano, come database, DB4 sui PC e Informix, ADABAS e Oracle sui mini sistemi.

a che stadio era l’Informatica

L’informatica si trovava nella fase di passaggio tra l’era dei main frame e quella dei mini, messi in rete tra loro a creare reti geografiche. Stava iniziando anche l’era delle reti di PC, ma si era ancora ad uno stadio embrionale. Windows era nato da poco, si era alla 2.0 e dunque, per dirne una, i programmi di videoscrittura (WordStar o XYWrite) richiedevano, per avere dei font decenti da usare nella corrispondenza commerciale, di fare l’upload dei caratteri nella memoria della stampante (se era una laser) mentre in quelle ad aghi si lavorava con sequenze di caratteri di controllo (le cosiddette sequenze di escape) che interagivano con l’hardware della stampante.

Per un certo periodo lavorammo per l’editoria digitando testi di libri in XYWrite. Questo editor, molto veloce e parco nell’uso delle risorse, aveva il vantaggio di lavorare in modalità testo, con i comandi espressi attraverso apposite sequenze distinte dal testo vero e proprio attraverso dei separatori come avviene con l’HTLM (Hyper Text Markup Language); i nostri markup erano «». Questo consentiva di scrivere i driver per le stampanti in  maniera abbastanza semplice ed era quello che facevano gli editori per pilotare le macchine di fotocomposizione. I file di testo risultavano indipendenti dai sistemi operativi e trasportabili con facilità.

Office non esisteva. C’erano i primi fogli elettronici (il Lotus 123) con l’idea avvenieristica di simulare i fogli di contabilità dei ragionieri ma incorporando le formule. Il foglio elettronico consente di copiarle in vari punti del foglio senza perdere i riferimenti alle celle da utilizzare, grazie al concetto di indirizzo relativo. Permette non solo di fare calcoli complicati e ripetitivi ma anche di impostare le simulazioni della evoluzione di un dato contesto al mutare dei parametri. Consente infine, dati i risultati finali che si vogliono ottenete di lavorare sui parametri di ingresso per ottenere il risultato desiderato.

Il database relazionale per PC era il DB3 (poi divenuto DB4) della Ashton Tate; esistevano anche dei compilatori che consentivano di trasformare le applicazioni scritte nel linguaggio di programmazione di dB4 in eseguibili che non avevano bisogno di appoggiarsi sulle licenze della Ashton Tate. Il principe di tali compilatori si chiamava Clipper. Oggi tutte quelle aziende sono sparite, distrutte dal predominio Microsoft e dall’avvento di Windows con la piattaforma di Office Automation Office divenuta uno standard: Word per il trattamento testi, Excel per i fogli elettronici, Access per i database, Outlook per la posta elettronica e l’agenda, Power Point per le presentazioni, Publisher per la editoria elettronica.

In proposito ricordo che poco prima che io lasciassi la SISDO uscì Windows 3.1 che finalmente garantiva il multitasking, la possibilità di fare reti di PC senza grandi complicazioni e aveva introdotto i True Type Font. I caratteri facevano parte del sistema operativo, erano caratteri proporzionali (cioè le dimensioni delle lettere finalmente erano diverse per migliorare la leggibilità e infine la loro dimensione (il corpo) e i loro attributi erano tutti gestiti via sofware (ingrandendosi non sgranavano ede era banale passare dal normale al corsivo al neretto.

partita IVA con rapporto esclusivo

Quando arrivai alla Sisdo Oskian era rientrato da Roma da qualche anno lasciando la vicesegreteria del PDUP, aveva fatto qualche esperienza di società di informatica  e formazione manageriale con altri e poi si era messo in proprio. Si era iscritto al PCI ed era responsabile regionale per la Ricerca e per la Università e questo incarico gli aveva aperto possibilità di business nel mondo delle cooperative e nella CGIL. Di formazione era un fisico, era sto tra i primi laureati di Degli Antoni e tornava ai vecchi amori.

Dopo un anno di apprendistato, in cui continuano ad insegnare mi propose la scelta tra assunzione come dipendente o la partita IVA, con collaborazione pressoché esclusiva. Per ragioni di convenienza personale optai per la seconda ipotesi. Lavoravo molto; partivo da casa verso le 7:15 e ritornavo dopo 12 ore. Guadagnavo più del doppio rispetto a scuola e in più, ope legis, avevo diritto ad una pensioncina di circa un milione al mese. Ma ben presto incomiciai a riflettere sul fatto che quello non era il mio progetto di vita, dei soldi non mi è mai importato un gran che; avevo avuto voglia di staccare dalla scuola per vedere il mondo del privato, lo stavo vedendo e sperimentando ma per me si trattava comunque di una parentesi.

Un giorno mi resi conto che la mattina, alla stazione di Arcore, oltre che vedere sempre le stesse facce, incominciavo a mettermi sempre nello stesso punto del marciapiede. Sul lavoro mi pesavano anche le pause pranzo nei bar di piazza Tricolore con gli impiegati del terziario avanzato che mangiavano un panino in piedi continuando a parlare di lavoro o di clienti.

In azienda c’erano per metà laureati (quasi tutti in matematica) e per metà diplomati e, proposto da me, venne a dirigere il lavoro di data entry un amico villasantese momentaneamente disoccupato: Franco Ornaghi.

Per due anni di seguito facemmo anche quei corsi finanziati da Regione Lombardia su fondi CEE per giovani disoccupati e ad assunzone garantita. Dal punto di vista del bilancio, nonostante qualche economia di scala perché docenti e direzione del corso erano interni all’azienda, si faticava a finire in pareggio, ma era un modo per selezionare del personale senza sobbarcarsi le fasi di training, perché il training faceva parte del corso e così c’era modo di individuare le persone più valide. In quegli anni ci fu qualche scandalo per corsi regolarmente fatturati e inesistenti, nei giri loschi di Regione Lombardia, ma non fu il nostro caso. Semmail il problema era il complesso meccanismo di rendicontazione in base alla normativa CEE e per quello bisognava affidarsi apersonale specializzato che lo faceva di mestiere.

le cose che ho imparato

SISDO è l’acronimo di Sistemi Informativi, Sistemi Decisionali, Organizzazione: un programma strategico bellissimo che aveva dentro si sè l’idea che Oskian aveva dell’Informatica, in particolare per quanto riguarda i sistemi decisionali (inizialmente SISDO stava per Sistemi informativi, Sviluppo dell’Organizzazione). Questa faccenda della organizzazione ritorna sempre tra di noi (dai tempi della Organizzazione Comunista Avanguardia Operaia). Organizzazione e supporto alle decisioni il primo passo verso l’intelligenza artificiale.

E’ stata una esperienza utile sul piano professionale nel senso ampio del termine. Ho appreso questioni di informatica che non conoscevo quali l’utilizzo dei database relazionali e la organizzazione a blocchi di sistemi complessi. Nascevano le reti e la Ethernet, divenuta uno standard dal punto di vista hardware e del protocollo di comunicazione, l’ha inventata la Digital sul suo sistema operativo proprietario, il VMS (Virtual Memory System).

Digital era l’azienda con cui operavamo per l’hardware. Erano loro ad aver inventato l’informatica distribuita e la SISDO l’aveva sposata nel momento in cui realizzò il sistema informativo per la CGIL Lombardia con minisistemi in ogni capoluogo di provincia e messi in rete tra loro.. Più avanti saremmo passati dal VMS allo Unix con la Honeywell Bull e l’IBM.

informatica sanitaria

Per un certo periodo mi sono occupato di progettazione della architettura di sistemi medio grandi per l’area sanitaria. Bisognava essere aggiornati sulla evoluzione delle tecnologie, saper ascoltare le esigenze dei clienti e saperle alzare di livello, nel senso di costruire una risposta harware e software partendo dall’output richiesto, cioè da quello che voleva ottenere il cliente.

I modem erano lenti e costosi e per garantire più postazioni si usavano dei concentratori detti multiplexer. Ero arrivato da poco alla SISDO quando, per svariati milioni di lire, fu acquistato un hard disk da 10 megabyte (!!!). Per le grandi masse di dati si usavano ancora i nastri magnetici a lettura sequenziale che avevo conosciuto nei tardi anni 60. Oggi i Terabyte, un milione di volte più capienti, si comperano al supermercato per qualche decina di euro e lo stesso vale per le pennette USB.

La attività di data entry riguardava una grande commessa di Regione Lombardia nell’ambito delle procedure di controllo della spesa sanitaria e la SISDO, come altre società del settore, lo svolgeva relativamente ad alcune delle province. Arrivavano grandi sacchi pieni di ricette che le USL ricevevano dalle farmacie. La registrazione dei dati della ricetta veniva fatta manualmente con degli M24 Olivetti attraverso programmi sviluppati all’interno con un primo controllo on line dei dati controllabili (codice medico, codice del farmaco, …).

Gli M24, e più tardi dei PC della Sanyo, lavoravano con 2 dischetti magnetici (i floppy disk) del diametro di  5 pollici e un quarto. Sul primo disco c’erano il sistema operativo, il programma per la registrazione e gli archivi dei farmaci per il controllo di correttezza della digitazione. Sull’alltro dischetto venivano registrati i dati della ricetta (il data entry). La RAM era ancora a 256 KB.

Alla fine della registrazione tutti quei dischetti venivano dati in pasto al Microvax (o al PDP, il suo predecessore) e controllati su archivi più grandi per finire poi nei file definitivi dove si facevano i controlli di congruità e la correzione degli errori di acquisizione. Il prodotto finito, su nastro, finiva in Regione. La grande idea che consentiva di essere competitivi era stata quella del data-entry su PC che consentiva, in qualche caso, addirittura il lavoro a domicilio e comunque non richiedeva grandi investimenti in infrastrutture. eravamo proprio alla preistoria; oggi non si digita più nulla a mano; funziona tutto con lettori di codice a barre in farmacia e con le ricette elettroniche dove sono già presenti in formato digitale tutti i dati necessari (codice prodotto, quantità, codice medico prescrivente, codice assistito).

schema a blocchi della architettura classica (Roberto Savino)

Oltre che di architetture di rete mi sono occupato lungamente della progettazione di software gestionale in ambito sanitario: dalla contabilità finanziaria, al personale, agli stipendi, alla informatizzazione di singoli servizi (area sociale, consultori familiari, CUP, laboratorio di analisi, farmacia ospedaliera…). Scrivevo le specifiche e seguivo la realizzazione del software anche se, alcuni prototipi, li ho creati direttamente.

Da allora il mondo è cambiato per due fattori altrettanto importanti:

  • la disponibilità di hardware molto più potenti, la nascita di Internet e la disponibilità delle reti in cloud che hanno eliminato gran parte dei problemi di conservazione e trasferimento dati con cui avevamo a che fare
  • la crescita di una cultura dei diritti che ha obbligato le amministrazioni ospedaliere e i manager della sanità a mettere al centro del processo il cittadino-utente (non mi piace la parola paziente) sia rispetto alla facilità di accesso ai servizi, sia rispetto alla gestione dei dati (basta pensare al fascicolo sanitario elettronico).

In quegli anni inziavano a comparire anche i primi sistemi di registrazione vocale digitale che aprivano la strada alla gestione automatizzata della cartella clinica, mentre per i laboratori di analisi era già applicato l’interfacciamento della strumentazione che trasmetteva i risultati delle analisi attraverso la porta seriale RS232.

Schema a blocchi della archietttura innovativa con il cittadino e le reti in cloud (Roberto Savini)

Se guardo a quei problemi con gli occhi di oggi e vedo che nella gestione delle cartelle cliniche non si è fatto ancora quasi nulla, mi viene da confermare un concetto che ci era chiaro anche allora. Nella gestione dei flussi informativi, il collo di bottiglia non è mai di tipo tecnico, ma riguarda le persone e la organizzazione del processo. Me ne resi conto quando, per alcuni grandi clienti mi capitò di occuparmi di formazione sulla Office Automation. I programmi di allora facevano già molto di più di quanto non venisse richiesto ed erano assolutamente sottoutilizzati dal personale.

Oggi, ogni volta che accedo ad un ambulatorio per una visita specialistica resto stupito del cattivo uso che i medici fanno del PC. Spesso, anche nei grandi ospedali, ci sono segmenti non in rete e ci sono banche dati costantemente disallineate. C’è ancora un sacco di informazione di anamnesi o di terapia che viene digitata a mano (anziché essere disponibile e condivisa on line) con grandi perdite di tempo e rischio molto alto di errore. Così il 60% del tempo della visita è dedicato alla produzione semimanuale del referto (che alla fine non viene riletto con attenzione e contiene spesso errori materiali di registrazione).

Quello della progettazione era un lavoro interessante dal punto di vista concettuale perché bisognava riempire una scatola nera (l’architettura del software) a partire dai dati di input e di output (determinati dalla normativa e dalla organizzazione del cliente) e inoltre si trattava di ottimizzare lo stesso input per evitare ridondanze, ottimizzare le risorse e semplificare i protocolli di raccolta dei dati. Alla fine definite le caratteristiche funzionali del software si disegnava la archiettura hardware (numero e potenza dei mini, tipologia di rete, numero e tipologia delle stazioni di lavoro).

Ho imparato l’importanza della organizzazione e che una organizzazione deve avere a cuore il benessere dei suoi collaboratori ma, contemporaneamente, deve riuscire a funzionare in maniera indipendente dagli stessi. Ciò significa dedicare del tempo e delle risorse adeguate alla documentazione di quanto si fa, perchè le persone passano ma, se la documentazione rimane, l’organizzazione continua a funzionare.

Questo aspetto era pressoché sconosciuto nella scuola con la figura del professore monade, padrone della classe, dopo la chiusura della porta. In tanti anni di scuola ho sperimentato la difficoltà a far accettare un  minimo di standardizzazione per quanto riguarda i contenuti dell’insegnamento, gli obiettivi in uscita e gli strumenti di valutazione nell’ambito di una medesima istituzione scolastica. Me ne resi conto pesantemente, anni dopo, quando passai a fare il Dirigente Scolastico e cercai di introdurre qualche elemento di teoria della organizzazione. Ci sarà modo di riprendere l’argomento.

le cose che non ho imparato perché non le condivido

Nel rapporto con i clienti bisogna saper barare o meglio bisogna saperli tranquillizzare. Il settore dei servizi informatici, salvo che non si abbia a disposizione una nicchia di mercato in condizione di monopolio, è un settore a rapido sviluppo e client oriented.

Il cliente vuole per domani ciò che non esiste e tu devi rassicurarlo facendogli credere che quello che vuole esiste già e domani sarà visibile e presto utilizzabile.

Tu lo sai che con realismo, cioè non oggi ma domani, la cosa si potrà fare, ma l’altro vuole sentirsi dire che è già pronta. Non devi contare una balla, devi fare quello che il catechismo della chiesa cattolica chiamava peccato per omissione e la Chiesa lo colloca tra i peccati veniali.

Questo è un modo di lavorare che ho sempre fatto fatica a praticare mentre è quello che fanno di mestiere i funzionari commerciali, che non mi sono mai piaciuti perché si tratta di esperti in promesse al vento . Superficiali sino al midollo, usano le parole per sentito dire in maniera indipendente dal significato. Una volta uno dei nostri commerciali, a cui avevo consegnato un software già funzionante, mi chiese “sì, ma quando lo implementiamo“. Diceva implementare, ma non sapeva cosa significasse.

Il settore dei servizi informatici, e il terziario avanzato in genere, erano in grande espansione e di conseguenza era molto alta la mobilità del personale; la gente, giustamente puntava a fare carriera e a fare nuove esperienze professionali. Dunque c’era costantemente il problema di come tenere i migliori e disfarsi dei peggiori senza interventi autoritativi. Si usavano gli incentivi di natura economica e quelli bravi sapevano come fare per ottenere aumenti di stipendio; si andava a presentare le dimissioni e poi si trattava. Ma Oskian, in questo campo, conosceva le astuzie e i mercanteggiamenti di quel mondo medio orientale da cui proveniva.

Comunque alcune dimissioni di persone vicine o che avevo personalmente portato in azienda mi hanno ferito anche perché, per via dei maledetti ruoli che ricoprivo, la gente mi vedeva come una emanazione del capo e dunque mi teneva all’oscuro. In quegli anni a Milano esplose l’AIDS tra gli eroinomani e, nel giro di alcuni mesi, morirono due dei nostri fattorini. Dapprima un po’ di assenteismo, poi il tenere nascosta la malattia raccontando le balle più colossali, il dimagrimento, e alla fine la morte.

le cose che non hanno funzionato

Quando sono andato alla SISDO pensavo di riaprire con Oskian un rapporto che si era interrotto anni prima ma, per dirla con il linguaggio un po’ crudo del marxismo, i rapporti economici e quelli di produzione trasformano e condizionano i rapporti tra le persone: se sei un imprenditore sei orientato al profitto, perché è il profitto che ti consente di fare qualsiasi altra cosa incluso lo sviluppo delle risorse umane o il benessere aziendale.

Oskian era diventato un imprenditore ed io ero rimasto il figlio di mio padre, quello che non aveva saputo gestire la sua azienda. Le dinamiche erano quelle: sul piano personale ero disposto a dare anche l’anima per la SISDO purché non mi si chiedesse di dire o di fare cose che si scontravano con i miei principi dell’etica pubblica.

I resti di un antico villaggio Anasazi

Lui era molto generoso e, nel 91, in occasione del perfezionarsi di una grande commessa per la quale avevo dato una grossa mano, mi offrì un viaggio chiavi in mano negli Stati Uniti per me e per Bruna.

Lo barattai con l’equivalente in danaro e me lo organizzai alla CLUP (l’agenzia di viaggi nata dal movimento del Politecnico) in maniera di portarci anche nostra figlia Daniela: voli, alberghi e rent a car, prenotati dal’Italia e, appena possibile, fuori dalle città usando i motel.

Siamo stati via due settimane, prima New York e poi San Francisco e gli stati dell’ovest: California, New Mexico, Utah, Arizona; i parchi naturali, i deserti, il gran Canyon, la valle della Morte, la Monument Valley, la foresta pietrificata, l’America quasi disabitata, le riserve Navajo e Hopi, gli Anasazi. Sul ritorno abbiamo anche fatto tappa a Vienna.

La scelta di andarmene dalla SISDO fu innescata da una tipica questione in cui mi veniva chiesto di ragionare da imprenditore mentre io ero un dipendente. C’era un ritardo nella realizzazione di una commessa e il ritardo dipendeva da questioni nostre, ma era conveniente far vedere che il ritardo fosse  dovuto a difficoltà organizzative del cliente. Dopo l’ennesima discussione con Oskian non me la sono sentita di contare balle e ho presentato di getto le dimissioni scritte con questa frase di accompagnamento: preferisco cambiare lavoro puttosto che incrinare il rapporto con te.

In trasparenza intravvedevo anche i rapporti di sovrapposizione tra economia e politica che emersero ai tempi di mani pulite. Ho personalmente gestito la fornitura e l’avviamento del programma di gestione di farmacia al Pio Albergo Trivulzio (quello di Mario Chiesa) ma di tangenti nemmeno l’ombra. C’era la spartizione delle commesse pubbliche in ambito regionale con il coinvolgimento di pezzi del gruppo dirigente del PCI milanese e della Lega delle Cooperative (e la SISDO operava dentro la Lega). Alla Lega c’era un vecchio amico dei primi tempi del movimento di Matematica, Sergio Soave presidente regionale, potentissimo e rimasto pesantemente coinvolto dalle inchieste di Di Pietro.

Condividevo le scelte politiche dei miglioristi milanesi da Vicky Festa, a Piero Borghini, a Corbani, a Cervetti ma vedevo anche la presenza di una zona grigia. Così non solo me ne andai dalla SISDO, ma evitai anche di aderire al PDS dove si era scatenata una pesante lotta di potere spacciata per rinnovamento. I duri e puri dalle mani pulite, guidati da Barbara Pollastrini, non mi convincevano proprio, anzi non mi convincono mai sia perché non sono puri, sia perché non sono flessibili.


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1977-1991: con il PCI fino allo scioglimento

III edizione – giugno 2024

la prima pagina di Rinascita che annuncia gli articoli sul Compromesso Storico

Come ho raccontato nel capitolo 12 il mio rapporto con il partito comunista viene da lontano ed inizia nel 1966 quando ero un cattolico inquieto che guardava a sinistra.

Ero uscito dalla Federazione giovanile socialista insieme a quei lombardiani di sinistra che formarono il Movimento Socialista Autonomo (MAS) guidato da Tullia Carettoni e mi guardavo intorno.

E fu guardandomi intorno che incominciai a leggere Rinascita, il settimanale politico-culturale del PCI. Prima la comperavo in edicola e poi, per ragioni di convenienza economica mi ci abbonai. Sono diventato prima di sinistra e poi marxista e non viceversa come mi capitò di vedere in molti estremisti del 68/70 che, proprio per quello, più che compagni, diventavano esperti in ipse dixit, magari citando Stalin, e quello era il massimo.

Rinascita è stato lo strumento che mi ha fatto scoprire la sinistra italiana e che mi ha fatto da scuola-quadri. Non la leggevo tutta (c’era troppa roba) e mi lasciavo guidare dai titoli e dalle aree disciplinari prediligendo quelle più strettamente storico-politiche.

Quando mi abbonai a Rinascita vivevo ancora in famiglia e oltre a Rinascita leggevo Politica, il settimanale della corrente della sinistra Dc La Base, l’Astrolabio (diretto da Parri) e Settegiorni un settimanale della sinistra cattolica diretto da Ruggero Orfei e su cui scriveva quella che sarebbe poi divenuta l’intellighentia laico-socialista, da Bassanini a Girardet, da Covatta a padre Turoldo. Ma Rinascita rimaneva la mia dispensa settimanale per la maturazione politica.

Critica Marxista -aperta a riflessioni a tutto campo – da leggere e studiare

Il PCI mi formava, ma non lo votavo, anche perché non ero maggiorenne e non votavo. Transitai per il PSIUP, per il quale ho votato nel 68, e poi sono iniziati gli anni della sinistra rivoluzionaria. Mi ricordo che i tre articoli di Berlinguer sul compromesso storico (Riflessioni sui fatti del Cile) dell’ottobre 1973 li lessi e li apprezzai prima dell’apertura della querelle sul tema scatenata dal terzo articolo che metteva i piedi nel piatto della situazione italiana parlando per la prima volta del compromesso storico.

Negli ultimi anni della militanza rivoluzionaria si aggiunse lo studio di Critica Marxista; su di essa apprezzavo i contributi di Gerardo Chiaromone e Paolo Bufalini. Il PCI era un luogo strano di elaborazione politica; le svolte le faceva il segretario, ma poi alcuni dirigenti si incaricavano dell’inquadramento teorico (sicuramente i due che ho citato, oltre a Giuseppe Chiarante, Paolo Spriano, Adalberto Minucci e Luciano Gruppi). Ho sempre letto pochissimo l’Unità perché, ironia della sorte, non mi piacciono i quotidiani militanti (inclusi la Repubblica e il Fatto quotidiano).

L’adesione al PCI

i riferimenti politico-culturali

Quando, alla fine del 1976, dopo una riflessione durata qualche mese, di fronte allo sgretolarsi delle organizzazioni della sinistra rivoluzionaria, decisi di non seguire la minoranza di AO che si apprestava ad unirsi alla maggioranza del PDUP, lo feci perché consideravo finita un’epoca e la fine era stata indipendente dalle nostre soggettività, si trattava di una fine oggettiva giudicata in chiave storica. Il periodo della grande ubriacatura era finito.

i 5 volumi dello Spriano nella edizione Einaudi che ho letto e studiato

Avevo ormai digerito i 5 volumi di Paolo Spriano sulla storia del PCI (incluso il dopoguerra) e continuai per qualche mese il lavoro di approfondimento della storia del PCI dal 45 agli anni 70. Dopo aver fatto i conti con le riflessioni di Gramsci sul partito, sul concetto di egemonia e sulla cultura, passai a Togliatti, sia attraverso i suoi scritti, sia attraverso la lettura di saggi  a lui dedicati come quello di Giuseppe Vacca.

Quando nei primi anni 2000 ho ripreso in mano la mia copia delle Note sul Machiavelli di Gramsci e le ho trovate tutte annotate a matita con commenti e riflessioni sulla storia della sinistra rivoluzionaria e sulle sue inadeguatezze (l’intellettuale collettivo, i gruppi dirigenti, l’egemonia, il rapporto tra governanti e governati, i brani famosi sulle casematte e sul ruolo della chiesa cattolica).

non basta pungolare da sinistra

La nostra botta politica era venuta con le elezioni del 76; da esse era emerso in maniera inequivocabile che il problema non era quello di fare la contestazione da sinistra al PCI ma nemmeno quello di pensare di poter fare le mosche cocchiere (cioè la parte sinistra dello schieramento riformatore che avanza idee, critiche e suggestioni nello stile del Manifesto-PDUP).

Non vedevo spazi per altre cose; mi era chiaro allora e mi è chiaro anche oggi, quando dentro e fuori il PD, vedo rinascere continuamente altre mosche che ronzano, svolazzano per un po’ e poi si estinguono dandosi nomi nuovi in cui si declinano parole come sinistra, libertà, uguaglianza, nuovo, comunismo, rifondazione, ecologia.

Le masse popolari di cui ci eravamo riempiti la bocca erano più concrete di noi e quando c’era da votare sceglievano chi desse loro delle garanzie. Semmai il problema era quello di cosa fare per conquistare ad una prospettiva di sinistra, o almeno progressista, la maggioranza del paese, il ventre molle dell’elettorato italiano che pensa spontaneamente a destra e molto spesso ci mette la croce sopra. Me ne sono reso conto trasferendomi in provincia di Siena dove sono in atto significativi spostamenti a destra da parte di fette di elettorato popolare che in passato votava a sinistra, ma lo faceva per pure questioni di interesse mentre conservava una concezione del mondo e della vita di tipo reazionario sui temi legati alla socialità, ai diritti, al diverso.

Tra la passione per l’insegnamento, lo studio della scienza e le conclusioni sulle mosche cocchiere, avevo deciso di rinunciare alla proposta di rimettermi a fare il giornalista per aprire una grande redazione milanese del Manifesto. A rendermi indisponibile verso il gruppo del Manifesto pesò anche il netto dissenso nel giudizio da dare sullo sviluppo scientifico, delle ricerche nella fisica delle alte energie e sul nucleare. La linea la dava Marcello Cini e io non condividevo quasi nulla di quello che scriveva ma non avevo nessuna voglia di mettermi a discuterne.

Il distacco dai compagni che erano andati a lavorare al Manifesto, e in particolare dal mio prediletto Gigi Sullo, fu particolarmente doloroso e con Gigi ci fu uno scambio di lettere che però non attenuarono il dolore reciproco.

nel PCI dal basso

Così nel febbraio del 77 feci domanda di iscrizione al PCI, alla sezione Triante di Monza (quella vicina al liceo dove insegnavo). Meraviglia delle meraviglie, per via dei miei trascorsi, mi fecero scrivere una biografia politica e motivare per iscritto la richiesta di iscrizione, anche se, chi mi presentava (il professor Gianfranco Petrillo) mi conosceva benissimo. Data la mia formazione leninista la cosa non mi dispiacque (era un segno di serietà), ma poi mi lasciarono interdetto due cose.

Ci misero più di due mesi a decidere: la domanda andò in federazione a Milano nelle mani della CCC (commissione centrale di controllo) e non so dire se passò anche da Roma, probabilmente sì, visto il tempo che ci misero. Ho ritrovato la descrizione di quel mondo leggendo i gialli scritti da un dirigente di allora, Vicky Festa, che descrive il mondo della federazione di Milano e che ha come protagonista proprio il presidente della CCC.

Casi simili al mio, ex dirigenti rivoluzionari che non scelsero di entrare dalla base ma contrattarono l’ingresso con i vertici, furono trattati diversamente (con celerità e con tutti gli onori) e questa disparità di trattamento mi diede decisamente fastidio.

Dopo di allora, in occasione delle elezioni, ho visto molti casi di effetto meteora: ingressi in pompa magna e successivi mutamenti di schieramento: è successo nel PCI, nel PDS, nei DS e continua con il PD.

Anni dopo venne fuori un terzo elemento che vissi con viva soddisfazione: chi mi aveva esaminato venne coinvolto pesantemente dallo scandalo di mani pulite (filone IPAB), per la serie descritta dal proverbio brianzolo secondo cui quel puseè san al ga la rogna (quello più sano ha la rogna).

la autonomia e il terrorismo

Pochi giorni dopo gli scontri alla Sapienza culminati nella contestazione a Luciano Lama, alla sezione di Triante, discutemmo della situazione politica in evoluzione ed espressi una forte preoccupazione per quanto stava accadendo e di cui avevo, in piccolo, la percezione anche al liceo. Se continua così, ne vedremo delle belle, dissi.

Mi sembrava che la situazione si stesse incarognendo. La crisi delle formazioni della sinistra rivoluzionaria avveniva in contemporanea alla crescita di un movimento (quello del 77) in cui dominavano slogan infantili, la violenza e la linea del tutto e subìto. I compagni di DP facevano dei sottili distingiuo ma ne erano sommersi e lo erano per le stesse ragioni su cui non era stata fatta chiarezza nei giorni della rottura di AO: la democrazia senza se senza ma, le istituzioni democratiche senza se e senza ma.

Poi ci fu il rapimento Moro e mi fece male, molto male, vedere i miei ex compagni di Democrazia Proletaria sostenere che non bisognava stare in maniera ferma dalla parte dello stato democratico: nè con lo stato nè con le BR. Mi ricordavano i socialisti che nel 1915 coniarono lo slogan nè aderire nè sabotare, ma questa volta in peggio.

Sulla questione della trattativa per il sequestro Moro ero razionalmente d’accordo con la linea della fermezza, ma anche seriamente disorientato per quello che si stava facendo o non  facendo e soprattutto mi davano fastidio le posizioni che passavano sulla testa e sul corpo di Moro paventando addirittura che scrivesse sotto l’effetto delle droghe.

La linea berlingueriana attenta alle problematiche della austerità e della moralità la condividevo, ma mi rendevo conto di quanto fosse necessario uno sblocco della situazione politica e della insufficienza della linea della solidarietà nazionale. Si stava rischiando di sprecare, e fu così, il grande consenso delle elezioni del 76 che richiedeva un cambiamento di rotta nella direzione dell’Italia. Penso che le cose, se non fosse stato rapito Aldo Moro sarebbero andate diversamente.

impegno politico a Monza e nel mio paesello

Il mio modo di far politica, in quegli anni, cambiò in maniera radicale; basta politica diretta e invece azione di supporto ad ogni attività di tipo educativo e culturale che facesse crescere la razionalità e mantenni questo spirito per tutta la prima metà degli anni 80.

Il PCI monzese era storicamente una succursale della Federazione di Milano in cui venivano mandati a fare da segretario cittadino e segretario di zona funzionari milanesi che, quando incominciavano a capirci qualcosa, venivano spostati ad altro incarico. In occasione di un congresso di zona diedi una mano all’amico Giuseppe Meroni (incaricato di preparare il documento sulla cultura) a stendere un documento in cui, per cultura, si intendeva cultura politica e dunque si parlava di Brianza e delle sue storiche differenze da Milano, della necessità di costituire una federazione Monzese e di scegliere la strada della costruzione di una provincia della Brianza separata da Milano. Per le culture politiche di allora fu uno scandalo e non finì bene. Il documento di Meroni venne cassato e ne ebbe una conseguenza negativa il suo posizionamento nel partito.

Ad un certo punto mi sembrò opportuno spostare la mia iscrizione da Monza a Villasanta per dare una mano nel paese in cui vivevo ed ero nato e mi dedicai al giornale locale Progresso e Partecipazione poi trasformatosi ne Il Punto. Il giornale era stato inventato da Giuseppe Meroni e, con il mio arrivo a Villasanta, era naturale che me ne occupassi per via dei trascorsi giuornalistici. Volevamo che non fosse un organo di propaganda politica ma uno strumento di informazione locale orientato in senso progressista che raccontasse il paese e le sue trasformazioni e per questo erano importanti la necessità di uscire con regolarità e la scelta drastica di non fare il solito bollettino parrocchiale.

E’ stata una esperienza interessante perché per ogni numero si facevano tre o quattro riunioni di redazione; si faceva un po’ di pratica giornalistica vera prendendo spunto dalla necessità di parlare di Villasanta; gli articoli più importanti venivano discussi prima e dopo. C’erano Franco Radaelli (Bollo), Ernesto Ornaghi, Gabriella Delfino, Claudio Zana, Franco Ornaghi, Pino Locati. Ho lasciato la direzione quando sono stato eletto consigliere comunale per il “PCI lista aperta” perché ritenevo che ci fosse incompatibilità tra dirigere un giornale aperto ed essere consigliere comunale espressione di una parte.

dalla I alla II repubblica, dal PCI al PDS a … ???

la terza via e l’eurocomunismo

Il progetto eurocomunista di Berlinguer si arenò per mancanza di coraggio verso le questioni di collocazione internazionale e per mancanza di interlocutori e, fallito quello, sarebbe stato necessario fare i conti non solo con la democrazia occidentale, ma anche con il tema di un progetto di progresso e riforma sociale dentro il quadro capitalistico. Erano finite le disquisizioni sulla via italiana al socialismo, inventate per far coesistere la fede nell’URSS con l’essere il più grande partito comunista dell’Occidente, e si trattava di parlare di socialdemocrazia e di ripensare la storia del movimento operaio del primo novecento.

Non affronto la riflessione sul progetto di rinnovamento-competizione a sinistra da parte del Psi iniziato da Craxi per costruire l’autonomia socialista e dotarla di gambe per sopravvivere. Sul piano culturale, quel proigetto, era molto avanzato. Berlinguer morì nel 1984 e la necessità di smarcarsi preventivamente dal mondo comunista che affondava avrebbe richiesto di sanare preventivamente la rottura iniziata a Livorno nel 1921.

Invece il PCI, alle prese con la necessità di costruire un nuovo gruppo dirigente, rimase immobile e tale ritardo significò aprire le ostilità tra i partiti della sinistra e farsi sommergere impotenti dalla caduta del muro e dalla fine della Unione Sovietica. Il crollo dei regimi dell’est e poi dell’Unione Sovietica segnarono la fine del comunismo inteso come esperienza storica ed è inutile rivoltare la frittata dicendo sì, però l’ideale rimane. Secondo me il PCI si mosse in ritardo e l’antagonismo concorrenziale con il PSI fece il resto.

e poi venne giù il castello comunista

Nel momento del crollo del comunismo, alla casa del Popolo di Villasanta, si fece una bella serata di discussione. Comparvero persone che non si vedevano da una vita; parlarono persone che non parlavano mai. Erano disperate per la fine di un progetto a cui avevano dato tutto.

Volli essere ottimista mettendola sul fatto che la fine della competizione anche militare tra quei due mondi avrebbe messo in campo nuove risorse ed energie per l’umanità. Tutto quello che si spendeva in armamenti sarebbe andato in aiuti ed investimenti all’interno e per il terzo mondo. Ci credevo davvero, ma non è andata esattamente così su scala mondiale perché, come si è visto, Gorbaciov, molto popolare in Occidente, non lo era altrettanto in patria.

La Russia ha dapprima incassato il crollo dell’Unione Sovietica e poi ha ricominciato una politica sui confini occidentali che sogna la ricostituzione del vecchio impero zarista, poi staliniano-brezneviano e ora putiniano. Non è rimasto nulla di quello in cui avevo sperato: l’uomo nuovo educato alla razionalità scientifica e alla materialità della vita.

Non solo non è scomparsa la religione ortodossa che, come dice il nome, è in perenne ritardo culturale rispetto alla Chiesa romana, anzi la Chiesa ortodossa è diventata una delle stampelle importanti nel sistema di potere putiniano sempre pronta a giustificare le peggiori efferatezze.

La Russia si è rivelata un paese in perenne ritardo sui processi di rinnovamento sociale, tecnologico e culturale, sempre alle prese con le tematiche delle nazionalità, con i problemi del Caucaso che, ai vecchi tempi erano stati risolti con il tallone di ferro, mentre ora esplodono a macchia di leopardo.

E’ rimasto in piedi un paese che campa sulla enorme estensione del territorio e sulla ricchezza di materie prime con un sistema di gestione del potere basato sulla alleanza tra i nuovi capitalisti che hanno fatto i soldi all’ombra di Putin e il colosso militare che influenza la economia e fa da collante ideologico (il mito della grande Russia e della grande guerra patriottica).

in Italia dopo l’89

Intanto in Italia invece di puntare ad unico partito progressista in cui si incontrassero la moralità e l’organizzazione del PCI con l’innovazione del PSI si giocò la carta della reciproca distruzione e così ci ritrovammo Di Pietro e Berlusconi, poi Grillo e Salvini e infine Giorgia Meloni. Come diceva Nenni, troverai sempre uno più puro di te che prima o poi ti epura.

Non ho aderito alle diverse forme di organizzazione assunte dagli eredi del Pci essenzialmente perché ne ho visto un insufficiente coraggio nel rinnovarsi e incapacità di affrontare il superamento della storia del comunismo (PDS prima e DS poi). Nei primi anni 90 ci fu anche un brutto incidente politico mentre ero capogruppo in Consiglio Comunale. Lavorai per un anno in accordo con il gruppo, per dar vita ad un unico gruppo consiliare riformista che unisse gli 8 del PCI-lista aperta e i 6 del PSI per spezzare gli equilibri politici villasantesi (1 repubblicano, 1 socialdemocratico e 14 democristiani). All’ultimo momento la maggioranza del gruppo PCI cambiò idea. Credo che ci sia stato un intervento dall’alto e fu la rottura.

La II repubblica non ha rinnovato nulla e riprodotto la corruzione. Ho sperato nel partito democratico prima maniera, poi vista la deriva vecchio stile ho creduto nella speranza di rinnovare l’Italia ponendo mano alla II parte della costituzione. Ma pare che in Italia i riformisti, si tratti di istituzioni o di politiche sociali non godono di buona stampa e io osservo il tutto con amarezza e delusione.

Ci sarebbe molto da dire e da scrivere ma questo capitolo riguarda il periodo dal 77 al 91. Cisarà tempo e modo, più avanti di gettare uno sguardo sull’oggi. Come ha scritto Armando Pioltelli, che non è più tra noi, a commento della II edizione “Oggi è peggio di ieri votano chi promette, e vincono gli ubbidienti e non i capaci. E’ per questo che abbiamo una classe politica molto scarsa. Ho conosciuto giganti con la quinta elementare mentre oggi non vedo più giganti ma il loro opposto”.


La pagina con l’indice della mia autobiografia da cui potete scegliere i capitoli da leggere


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1977-1987: il Frisi, la scienza e la sua filosofia

III edizione – giugno 2024

Il mio primo ingresso al Liceo Scientifico Frisi di Monza fu alla fine di gennaio del 1977, nell’ultimo giorno utile per essere pagato d’estate. Visti i ritardi nelle nomine per i nuovi incarichi di insegnamento, avevo deciso di incominciare a muovermi autonomamente alla ricerca almeno di una supplenza.

Dopo aver lasciato il quotidiano ero a casa a non far nulla da oltre tre mesi perché il provveditorato di Milano ritardava le nomine. Le fece poi a maggio rendendole valide, per il 76/77, solo dal punto di vista giuridico. Telefonavi, andavi in Provveditorato e ti sentivi preso in giro: domani, dopodomani, non sappiamo, …A inizio ottobre avevo rifiutato una proposta di supplenza annuale al Liceo Scientifico di Melzo giuntami da una compagna di università che faceva la Preside incaricata e chi mi sapeva in attesa di impiego. Avevo rifiutato nella illusione di una imminente chiamata ufficiale perché quando inizio un lavoro mi piace finirlo.

Pace, la Battistina e Santanbrogio

In quei mesi, da brianzolo doc, mi sentii molto a disagio nel rimanere a casa non far nulla e mi resi conto di come la condizione di disoccupato corrompesse l’anima; di come il lavoro, con le sue scadenze, i suoi ritmi e i suoi doveri, fosse importante nell’equilibrio psico-fisico di una persona. Forse questa è una delle ragioni per cui, quando vedo in televisione i nostalgici del reddito di cittadinanza sognare di vivere nel limbo per tutta la vita mi vengono le convulsuioni.

Al Frisi fui ricevuto dal professor Pace nell’atrio davanti alla segreteria dove stava il tavolo di comando della Battistina (la capobidella). Pace faceva il vicepreside, ma non voleva sentir parlare di esoneri dall’insegnamento. Lo faceva e basta, come servizio alla comunità. C’era l’intervallo e mi fece impressione una cosa cui non ero abituato dopo l’esperienza di qualche anno prima all’ITIS di Sesto. Suonò la campana di fine intervallo e vidi gli studenti che, da soli, risalivano le rampe di scale e rientravano nelle classi. Per me era una cosa incredibile.

Due parole sulla Battistina. Credo che, dal punto di vista normativo e di inquadramento il capo-bidello non esistesse, ma si trattava di una funzione importante per il Frisi. Chiunque entrasse, dopo essere passato al controllo del custode Santanbrogio, saliva al primo piano e veniva accolto dalla efficientissima Battistina: fogli volanti, telefonate interne e tutto girava come un meccanismo ben oliato.

Alla sua sinistra c’era l’atrio del primo piano, di fronte la sala professori e, alla sua destra, la segreteria, la vicepresidenza e la presidenza. E già che parliamo di bidelli non si può tacere del custode. Era il padrone della scuola fuori dagli orari canonici, voce roca e potente, conosceva uno per uno tutti gli studenti e abitava in un mini appartamento di fronte alla guardiola del centralino, insieme ad una numerosa famiglia.

Curava la bellezza degli spazi esterni, i fiori e la sicurezza notturna con un paio di canilupo che presidiavano il territorio negli orari di chiusura. Erano due personaggi amati e rispettati da tutti: studenti, professori e restante personale. Se si vuole che una scuola sia in ordine è un bene prevedere un custode che ci abiti e che la senta come casa sua.

il Frisi del Preside Tedesco

Il Preside Tedesco in una delle espressioni esortative e dialogiche che lo contraddistinguevano

Dopo essere stato vagliato da Pace ebbi modo di conoscere il preside, il professor Alfonso Tedesco, un signore dai capelli grigi e dal viso rosso, distinto e pacato, professore di Italiano e Latino.

Tedesco era imparentato con la nobil famiglia dei Galbiati. Aveva sposato Felicetta, preside di scuola media, sorella maggiore di Enrica Galbiati, che allora insegnava lì nel corso B matematica e fisica. Era di origini emiliane, ma stava a Monza da una vita e, prima di fare il Preside, aveva insegnato allo Zucchi Italiano e Latino. Tedesco, con la collaborazione di Carlina Mariani, dirigeva l’UCIM (unione cattolica italiana insegnanti medi).

L’establishment reazionario monzese considerava Tedesco un debole perchè era di idee cattolico democratiche e dialogava con gli studenti. Alla distanza il suo ruolo è stato riconosciuto e l’aula magna del Frisi, grazie ad un comitato di cui ho fatto parte anche io, è stata intitolata al suo nome.

Nel primo incontro mi spiegò che dovevo sostituire la professoressa Lina Saini (che era alla quarta o quinta gravidanza), nel triennio del corso C e dunque avrei avuto Pace come collega oltre alla professoressa Canzi-Amirante di lettere. Non avevo mai visto un liceo dall’interno ma, negli anni di università, avevo dato lezioni private a tanti studenti del Frisi e dunque sapevo quasi tutto sul programma tradizionale di matematica che svolgevano: i problemi con discussione secondo il metodo di Tartinville, le disequazioni, il debordante programma di trigonometria e poi, ovviamente, l’analisi matematica.

in classe

Edo Scioscia durante la autogestione del 78

Senza che altri si offendano, ricorderò di quel primo anno quattro studenti: Maria Scognamiglio di terza, una ciellina underground della serie spiriti liberi, Camozzi, leader  del gruppo promotore (insieme ad Alberto Zangrillo, il futuro medico di Berlusconi, oggi primario al San Raffaele).

Il gruppo promotore raggruppava gli studenti di destra (filo Giornale di Montanelli). Poi c’erano in quarta Edo Scioscia leader incontrastato della assemblea, militante del MLS che, uscito dal Frisi avrebbe messo in piedi il Libraccio, e in quinta Adriano Poletti che più tardi averebbe fatto lungamente il sindaco di Agrate Brianza (e che è morto nel 2023).

Nonostante fossi un supplente diedi qualche taglio personale al programma di matematica e fui anche fortunato. Da anni il principale quesito dello scritto di matematica proponeva con una certa regolarità lo studio di funzione formata da una combinazione lineare di seni e coseni. Erano paginate di conti se si usavano metodi i tradizionali per via delle numerose disequazioni trigonometriche da risolvere.

Ma da fisico sapevo (per via della teoria delle onde armoniche) che una combinazione lineare di seni e coseni corrisponde sempre ad una sinusoide traslata. Feci loro la dimostrazione di quel teorema e insegnai a fare lo studio di funzione in un quarto d’ora (senza usare le derivate) invece che in due ore di conti. Alla maturità uscì proprio quello e non si corse il rischio di fraintendimenti perché gli studenti mi avevano voluto come membro interno. Fu un successone per quelli della C.

collegio docenti e gestione del Liceo

immagini di una assemblea durante la autogestione del 78

Ero supplente ma, per via dei trascorsi, non ero di quelli che si nascondono nel sottoscala, e dunque già al secondo Collegio iniziai ad intervenire.

Il Collegio del Frisi era formato da una agguerrita minoranza di docenti difensori della scuola tradizionale (Moretti, Derla, Spelta, Galbiati, Riva, …), da una maggioranza che noi docenti progressisti definivamo la palude e che amava il quieto vivere (il progresso senza avventure di memoria democristiana), da una minoranza di docenti di sinistra, di varia estrazione che si caratterizzavano per la ricerca delle innovazioni e per il dialogo con gli studenti (Russo, Longo, Cedrazzi, Meroni, Colonnetti, Tedesco, Stefanelli…).

Negli anni successivi la nostra pattuglia si rafforzò con l’arrivo di due colleghe di filosofia, colte e vivaci, provenienti dallo Zucchi (Fabbri e dell’Aquila) e della professoressa Mariagrazia Zanaboni (la Monaco, si diceva allora) di lettere.

Il Preside Tedesco, da buon democristiano, si appoggiava sul centro prendendo a prestito qualche idea della sinistra e puntando a smuovere il pachiderma, ma con giudizio.

articolo del Cittadino in ricordo del professor Tedesco

Dopo la fine dell’anno scolastico, ottenni ope legis la stabilizzazione e, poiché ero abilitato, l’incarico a tempo indeterminato mi  aprì immediatamente la strada all’ingresso in ruolo. Ero un prof engagé e dunque, l’anno successivo fui eletto collaboratore del Preside, consigliere di istituto e consigliere di distretto cose che mi impegnarono per un po’ di anni.

Nel 77/78 l’elezione dei collaboratori fu un vero successo. In passato la palude ci offriva, bontà sua, un posto nel listone unico, e a volte nemmeno quello. Proponemmo una lista contrapposta con tanto di programma e l’elezione ci premiò. Sfidammo la palude ad esplicitare il loro programma, ma non andarono oltre la sottolineatura dello spirito di servizio. Non arrivammo primi, ma comunque finì 2 a 2 tra lo sconcerto dei professori più conservatori. La stessa operazione la feci, anno dopo, appena arrivato allo Zucchi (liste separate, programma, esplicitazione del dissenso, …).

In quell’anno ci fu una specie di autogestione concordata, cioè con partecipazione libera dei docenti ad attività di approfondimento miste (autogestite o coordinate da docenti). Tedesco usò a piene mani me e Fiammetta Cedrazzi come ambasciatori del punto di vista degli adulti (fare le cose per bene, organizzarsi, garantire la democrazia, …).

Tra i docenti ci fu una netta spaccatura all’interno della maggioranza anche con qualche momento di tensione e si determinarono numerosi chiarimenti all’interno della palude tra chi partecipò e chi si schierò con la minoranza più conservatrice che aveva adottato la linea del boicottaggio.

intervento durante un collettivo – al mio fianco Edo Scioscia e sullo sfondo Colonnetti (Filosofia) e Claudio Fontana un alunno futuro docente di filosofia

L’autogestione funzionò bene grazie all’impegno di alcuni quadri del Movimento Studentesco che si impegnarono perché restasse il segno. Il clima politico tra gli studenti era variegato: MLS (dominante), FGCI, autonomia operaia, CL, destra (gruppo promotore). Non era ovvio che le cose andassero bene, ma riuscimmo a tenere insieme la maggioranza della scuola nonostante gli strepiti della parte più retriva del corpo docente.

Erano gli anni del sequestro Moro e anche sul fronte studentesco, come nel resto del paese, emergevano spinte centrifughe verso il mondo della autonomia, contiguo al terrorismo. Vista la mia storia precedente mi sentivo un po’ responsabile e dunque l’impegno per la democrazia e la difesa senza se e senza ma delle istituzione democratiche fu esplicito e con un grande coinvolgimento anche emotivo.

una revisione culturale profonda

In quegli anni si discuteva ancora del carattere gentiliano della nostra scuola e della necessità di superare la cosiddetta cultura retorico umanistica di derivazione crociano-gentiliana per puntare ad una scuola in cui ci fosse un mix tra la tecnologia (di cui si vedeva l’inizio di una grande fase espansiva) e il cosiddetto asse storico-critico-scientifico. Erano anni in cui, con riferimento alla scuola, non ci si limitava a discutere di modalità di gestione o di organizzazione ordinamentale, ma ci si appassionava e si entrava nel merito di modelli culturali di insegnamento. Tutte cose che ora sonoo scomparse e al loro posto c’è solo la autonomia malriuscita.

Non tanto per non essere da meno, ma perché ci credevo, iniziai un complesso e profondo lavoro di trasformazione delle mie convinzioni di fondo mettendo al centro dei miei studi tre cose.

lo studio critico delle scienze dure

Mi impegnai nel rivedere e ristudiare la scienza e in particolare la logica, la matematica e la fisica con approfondimenti di tipo universitario su questioni di base su cui non avevo riflettuto a sufficienza negli anni di università. Per poter insegnare bene e ad un certo livello bisognava che avessi le idee molto chiare sui fondamenti.

Per la fisica utilizzavo, per me e per gli studenti più vivaci intellettualmente, L’indagine del mondo fisico di Giuliano Toraldo di Francia (1916-2011), di cui trovate qui la recensione. Si tratta di un testo nato dalle lezioni tenute da Toraldo ad una scuola di specializzazione per filosofi interessati alla scienza presso l’Università di Firenze. Il testo percorre tutta la fisica con un occhio sempre attento alla storia e alle implicazioni conoscitive delle leggi ed è stato il modello a cui mi sono ispirato nello scrivere il mio corso di Fisica.

Nell’insegnare la matematica, sin dalla terza, tenevo presente che il punto di arrivo era l’analisi matematica e dunque c’era una attenzione agli aspetti di natura concettuale e ad una visione in cui la matematica, anche negli esercizi, fosse vista come una cosa dinamica.

la storia della scienza

Non ci può eessere comprensione dei fondamenti della scienza senza conoscere il contesto in cui sono nate e si sono sviluppate le teorie; dunque storia della scienza nei suoi aspetti sia descrittivi sia metodologici appoggiandomi, come riferimento, ai 7 volumi della storia del pensiero filosofico e scientifico di Ludovico Geymonat, ma conducendo poi approfondimenti di tipo monografico su questioni che mi stavano a cuore o che nascevano dalla esperienza di insegnamento (la storia della termodinamica, la evoluzione dello status dei tre principi della dinamica, la storia e il significato del concetto di campo, la nascita e la evoluzione del concetto di energia, …).

In quegli anni, oltre al geymonattone citato era disponibile, da Feltrinelli una bella collana di testi di storia della fisica che presentava in traduzione il meglio della produzione anglosassone (ne trovate un sunto in coda a questo capitolo).

la filosofia della scienza

Al di là della passione emersa negli ultimi anni di università, mi resi conto che ero profondamente ignorante su questioni fondamentali della cultura europea del 900 e in particolare sulla grande rivoluzione dell’emopirismo e del neo-empirismo (detto anche neopositivismo o empirismo logico).

Mi buttai a capofitto nello studio dei principali pensatori leggendone direttamente le opere e senza fidarmi di sunti o manuali: Moritz Schlick, Philip Frank, Hans Reichenbach, Rudolph Carnap, Friedrich Waissman, sir Karl Raymond Popper, Imre Lakatos, Paul Feyerabend, Orman Quine. Girando per librerie e bancarelle mi sono fatto una biblioteca invidiabile delle loro opere; alcuni testi di Reichenbach, in inglese (uno di calcolo delle probabilità e uno sulla freccia del tempo) li ho acquistati nel 91 a New York durante un viaggio negli USA.

Qualche studente della mia quinta M del 77/78 si ricorda, con sconcerto, l’utilizzo di temi su questioni di carattere metodologico per le valutazioni di fisica a partire da una frase criptica di Max Planck, Ludwig Boltzmann o Werner Heisenberg sulle quali veniva richiesto di sviluppare il tema. Naturalmente si trattava di problematiche che erano state sviscerate a lezione. Qualcosa del tipo “anche nella scienza, come nella religione, non si è beati senza la fede; la fede in una realtà esterna a noi” e via di questo passo.

Questo lavoro di riflessione e contatto sui classici è proseguito negli anni, sempre leggendo (per la scienza e per la riflessione metodologica), le opere originali. Mi dedicai a Boltzmann, Maxwell, Planck, Einstein, Heisenberg, Bohr, Poincarè. Anche in questo caso, oltre ai classici della UTET (Maxwell, Ampere, Newton, Laplace, Helmholtz, Kelvin), sulle bancarelle riuscii a recuperare le vecchie edizioni blù della Boringhieri e le precedenti della Einaudi scientifica (1945-1950). I classici della UTET li acquistai a condizioni molto favorevoli da Fiammetta Cedrazzi che, in uno dei suoi traslochi, aveva deciso di disfarsene.

Come scrisse Lakatos e amava ripetere Geymonat “la filosofia della scienza senza la storia della scienza è vuota, la storia della scienza senza la filosofia della scienza è cieca”. Aggiungo che entrambe servono a dare un senso e a comprendere i fondamenti della scienza, senza i quali non c’è conoscenza ma solo nozionismo.

Mi furono di stimolo anche la Enciclopedia Einaudi pubblicata proprio in quegli anni e un libro Einstein scienziato e filosofo facente parte di una collana (Scienziati e filosofi viventi, a cura di Schlipp) di cui in Italiano sono stati pubblicati solo i libri dedicati ad Einstein e Carnap.

I testi di questa collana iniziano tutti con un saggio di taglio autobiografico-scientifico-culturale scritto dall’interessato e, su di esso intervengono i più grandi scienziati e filosofi della scienza dell’epoca.

Alla fine l’interessato chiude rispondendo alle suggestioni e ai rilievi dei suoi critici. Quello su Einstein è un vero capolavoro e, per fortuna, è stato ristampato da Boringhieri.

Un discorso a parte riguarda la collana di Filosofia della Scienza della Feltrinelli curata da Ludovico Geymonat che avevo conosciuto nel 1969 in occasione dell’esame di filosofia della scienza (Ernest Nagel, la struttura della scienza – problemi di logica nella spiegazione scientifica). Di Nagel è disponibile (presso Boringhieri) anche un bel libriccino dedicato al teorema di Gödel, il teorema dedicato alla indecidibilità delle proposizioni rimanendo all’interno di una medesima teoria (si può dimostrare che la matematica sia esente da contraddizioni?).

Ricominciai da quel malloppo di 650 pagine senza più l’ansia di doverci fare sopra l’esame e mi misi alla ricerca degli altri volumi della collana (ne ho una ventina e ne trovate l’elenco alla fine del capitolo). Al Frisi con gli studenti più bravi lavorammo su un testo di Enrico Bellone I modelli e la concezione del mondo nella fisica moderna da Laplace a Bohr e sulla Filosofia dello spazio e del tempo di Hans Reichenbach tutto dedicato alle implicazioni della teoria della relatività nella teoria della conoscenza.

Lo studio critico della scienza mi ha abbastanza trasformato facendomi rivedere e approfondire questioni come la verità, la razionalità, il fallibilismo; ho abbandonato definitivamente l’idea del socialismo scientifico e del marxismo salvandone solo la capacità di leggere e interpretare la storia.

Se ripenso a quegli anni mi viene da sorridere al pensiero che i professori più rozzi e le famiglie monzesi più retrive mi considerassero un pericoloso rivoluzionario comunista. Mi nutrivo della cultura europea e statunitense più avanzata e cercavo di farla apprezzare agli studenti, ma in tutto il mondo il maccartismo è duro a morire e poi, per certa gente, la cultura è una cosa che va presa solo in piccole dosi perché potrebbe fare male.

qualche ricordo frisino

i rientri pomeridiani

Carletto Pozzoli e Dario Giove da ragazzi prima di diventare dei fisici con una bella carriera alle spalle

Fuori della scuola, si fece a casa mia anche un piccolo seminario con tre studenti (Dario Giove, Carletto Pozzoli, Elisabetta Galbiati) che, usciti dal Frisi si iscrissero a Fisica. Leggevamo e discutevamo insieme le Lectures on Physics di Feynman e io cercavo di trasmettere loro il modo giusto di studiare all’università, quello che a me non avevano insegnato.

Per fortuna nella scuola non c’erano tutte quelle forme di sindacalizzazione al ribasso che sono emerse negli anni successivi, quando andai a lavorare nel privato. Così se si faceva qualche ora in più nel pomeriggio la si faceva gratis fermandosi per un panino e una partita a Tressette al circolino di via Sempione.

Di pomeriggio facevo due attività; un po’ di laboratorio di Fisica, nel laboratorio del III piano, con esperienze avanzate ma di tipo dimostrativo e la discussione critica di saggi sulla scienza utilizzando la disponibilità della biblioteca che, sull’argomento, era ben fornita. Queste attività erano aperte anche ad alunni di altre classi. Disporre di una pompa a vuoto, di rocchetti di Rumkhorf, di tubi a vuoto permette di fare cose molto belle e suggestive sia dul fronte dei raggi  X e catodici, sia su quello della termodinamica come far bollire acqua a temperatura ambiente, osservare che mentre bolle si raffredda, …

Nei primi anni, nel corso M, ricevevo in III gli studenti che avevano fatto il biennio alla succursale di Villasanta e che venivano da tutta la zona a nord di Monza sino a Casatenovo. Mi piacevano quelle classi di brianzoli doc spartani, concreti e anche bravi. Cosa del tutto eccezionale, eravano in ben 5 docenti maschi:  Meroni, Colonnetti, Cereda facevano la triade e poi c’erano anche Fontana (educ) e Bevilacqua (inglese) che, dopo le dimissioni di Pace, era diventato vicepreside.

La 5M era nell’aula di fronte alla Presidenza (dove ora c’è la segreteria amministrativa) e il povero Tedesco si prese anche qualche scherzone goliardico da parte dei più sciamannati (leggi Fiorenzuoli): per esempio un ordine di pasticcini fatto passare come ordine della Presidenza regolarmente consegnati e rimasti da pagare.

Poi sono passato nel corso L e, nel giro di qualche anno, ho incominciato a sentirmi sottoutilizzato. Tedesco era andato in pensione e la gestione successiva, un po’ sciatta e improntata alla pura amministrazione dell’esistente, non mi entusiasmava.

il nemico del Papa

dal sito de Il Cittadino di Monza e Brianza

Nel 1983 sono salito agli onori del pulpito di Villasanta, anche se l’ho saputo solo qualche anno dopo. Il 21 maggio ci fu la visita di papa Woytila all’autodromo di Monza. I presidi delle scuole monzesi decisero che le lezioni si sarebbero svolte regolarmente pur consentendo una sorta di via libera alle assenze studentesche.

In una classe avevo programmato da tempo un compito in classe e non lo rinviai pur chiarendo che chi l’avesse saltato, come facevo solitamente, non avrebbe avuto problemi, salvo rifare il compito. Era la stessa linea che usavo per le assenze politiche, sei libero di scioperare o andare in manifestazione ma poi il compito lo rifai.

A distanza di anni mi è stato riferito che don Bruno Perego, coadiutore del Parroco all’oratorio maschile di Villasanta e organizzatore dei ciellini al Frisi, fece, dal pulpito, in occasione di una messa domenicale, una filippica contro di me: pensate …  un professore, dirò di più … un nostro concittadino, ha impedito che … Sembra che un bel po’ di persone abbiano pensato a Meroni, più noto di me in paese. Mah, robe da chiodi.

Mentre per fisica rinviavo ai classici che ho citato, e solo episodicamente mi avvalevo di miei appunti, per matematica (geometria analitica, goniometria, elementi generali di analisi) avevo messo a punto delle dispense abbastanza complete e che ho ancora, rigorosamente scritte a mano e che venivano fotocopiate usufruendo del monte fotocopie di cui ogni classe disponeva. Lo stesso valeva per la correzione dei compiti in classe (gli antenati di quello che trovate ora sul sito).

gli esami di maturità

La prima parte dell’estate la si passava facendo gli esami di maturità o da membro interno o da commissario esterno. Quell’esame era una cosa utile per la formazione degli studenti e per la cultura dei docenti che avevano l’occasione di andare in giro per l’Italia e farsi una esperienza diretta sul funzionamento della nostra scuola (conoscenza di colleghi con storie e culture diverse, scambio di esperienze).

Per questa ragione non mi sono mai tirato in dietro; ho fatto più volte il membro interno e sono stato da esterno a Milano, Bergamo e Roma. Un anno avemmo come presidente un preside di scuola media, il professor Bertè, il padre di Loredana Bertè e di Mia Martini, poco generoso nei giudizi su quelle figlie che per lui erano delle scapestrate di cui si vergognava.

In quegli anni la prova scritta di matematica aveva un testo con proposta di 4 quesiti e veniva richiesto di affrontarne almeno due. Un problema di geometria analitica orientato all’analisi, due problemi di analisi sullo studio di funzioni e una domanda di teoria. La domanda di teoria era il salvagente dei somari che piazzavano il libro di testo da copiare in tutti i nascondigli possibili dei servizi igienici.

Nel 78 la domanda di teoria riguardava il teorema sulla “continuità delle funzioni derivabili“. Se una funzione ammette in ogni suo punto retta tangente, non può fare salti o avere spigoli. Ma lo studente che aveva letto frettolosamente lo Zwirner nei servizi igienici ci mise del suo, scambiò l’ipotesi con la tesi e scrisse “se una funzione è continua allora è derivabile” e passò a metà classe l’enunciato sbagliato con la dimostrazione (copiata) giusta.

Per capire l’errore basta pensare che se una funzione fa un angolo è continua ma lì non ammette retta tangente. E’ un controesempio semplice. Ero stato nominato commissario esterno  dopo lo svolgimento della prova e dunque non avevo assistito al fattaccio, ma scripta manent e mi ritrovai a dover valutare compiti scritti fotocopia l’uno dell’altro con un doppio errore: errore nell’enunciato del teorema richiesto, errore logico nel presentare una dimostrazione che non dimostrava quanto dichiarato ma il teorema inverso. Non fui tenero con quella classe di un liceo milanese.

l’informatica

Passavano gli anni (1986) e sentivo il bisogno di fare qualcosa di diverso; avevo iniziato ad introdurre a scuola l’Informatica (c’erano l’ MSDOS e i primi Pc) e l’occasione mi fu data dal reincontro con Oskian che non sentivo più dai primi mesi del 77.

Ci rivedemmo in occasione di una vicenda, per lui,  molto spiacevole e per me incredibile. Dopo che ce n’eravamo andati da AO lui era rimasto formalmene proprietario della Grafica Effeti dove si stampava il Quotidiano dei Lavoratori. Lo era diventato in quanto segretario politico.

Alla Grafica, che stampava il QdL per conto di Democrazia Proletaria ci fu un incidente sul lavoro in cui un tipografo ci rimise la mano. C’erano, al di là della vertenza in sede civile, anche aspetti di natura penale che ricaddero su di lui. Era tra lo sconcertato e l’incazzato perchè il gruppo dirigente di DP che gestiva la tipografia aveva deciso di fare il pesce in barile.

Lui era alla ricerca di qualcuno disposto a testimoniare che, al di là dell’aspetto formale sulla proprietà, dalla primavera del 77 non c’entrava più nulla con la Grafica Effeti. In quel periodo era a Roma e faceva il vicesegretario del Pdup. Non so come riuscì a mettersi in contattocon me e così ci si rivide e testimoniai su quegli aspetti. Tutti gli altri erano spariti e i responsabili tacevano per convenienza.

Aveva una società che stava passando dalla attività di consulenza a quella propriamente informatica (la SISDO) e mi propose di lavorare con lui. Se ne parla ampiamente nel prossimo capitolo. Eravamo a metà degli anni 80 e incominciai, un paio di pomeriggi alla settimana, ad andare a MIlano, in viale Bianca Maria, pagato sostanzialmente per studiare (un po’ di informatica e un po’ di marketing).

Nel corso dell’86 incominciò ad introdurmi più a fondo nell’azienda che, allora, si occupava di Informatica gestionale su piattaforme PDP-VAX della Digital. Avevo compiuto i 40 anni e mi dissi che quello era l’ultimo momento per mollare tutto e cambiare. Fu così che, alla fine dell’anno scolastico 86/87 diedi le dimissioni dalla scuola, per la seconda volta, ed iniziai a lavorare nel privato. Ma quella non è stata l’ultima volta in cui ho cambiato tutto.


Fiammetta Cedrazzi (1941-2019) – per finire con un ricordo

A maggio 2019 è venuta a mancare un pilastro nella mia storia di docente al Frisi; era andata in pensione nei primi anni duemila.

Fiammetta è stata una protagonista di una fase irripetibile della mia vita e della vita del Frisi e parlo degli anni dal 1977 alla metà degli anni 80. In quel momento nel nostro liceo c’erano una serie di persone diverse per carattere per sensibilità politica e per modelli culturali di riferimento, ma si respirava in questa scuola il sapore della cultura vera, la passione nei confronti dei giovani, il senso di cosa volesse dire essere un docente.

Era finita l’epoca iniziata nel 68 e continuata in tono sempre minore e sempre con maggiore settarismo fino alla metà degli anni 70. Ne incominciava una nuova in cui si confrontavano il desiderio di cambiamento nella democrazia con le pulsioni violente dell’Autonomia e del nascente terrorismo. Quello era il contesto di contorno in cui si sviluppava il nostro desiderio di fare scuola per trasmettere una visione critica della cultura e della vita. Ma è sbagliato dire trasmettere, si deve dire costruire insieme.

Mi univa a Fiammetta la passione per le scienze dure e al di là di esse ciascuno di noi proseguiva per la sua strada, io più verso la filosofia e la storia, lei più verso la letteratura e l’arte incluse la musica e il balletto. Così quelli furono anni di studio approfondito, molto più approfondito di quello degli anni universitari, che pure non erano stati uno scherzo. Di certo né lei né io facevamo parte di quella tipologia di professori che entra in classe e dice Aprite il libro a pagina 147. Oppure Brambilla vieni alla lavagna e fai questo esercizio.

Mi ha sempre colpito il fatto che desse del lei agli studenti e addirittura, come è giusto dal punto di vista grammaticale del loro quando si passava al plurale. Mi sembrava un po’ un vezzo e mi chiedevo sempre come ci si sentisse ad essere dall’altra parte. Io mi sarei sentito a disagio perché già respiri un dislivello culturale ed esperienziale immenso e in più ti viene detto di stare al tuo posto.

Prima di tutto veniva la scuola con le sue regole, il senso del dovere, la sua serietà. Poi veniva tutto il resto, ma tutto il resto era filtrato attraverso la metodica del rigore e dell’esercizio critico della ragione: perché si fa così? Cosa c’è sotto? Quali sono i gradi di libertà? Si può operare diversamente? Cosa succede ad una teoria assiomatica se cambio un postulato? Qual è la dinamica della conoscenza scientifica? Alcuni elementi del carattere di Fiammetta venivano dal fatto che da bambina era cresciuta dentro il carcere minorile Beccaria di cui il padre era il direttore.

In quegli anni 70 e 80 non era vietato parlare d’altro, ma quel parlare d’altro doveva avere un senso e noi docenti di matematica e fisica eravamo in maggiore difficoltà rispetto ad altri docenti (come quelli di lettere) sempre presi dalla necessità di affrontare la miriade di questioni legate all’essere docenti di scienze dure in un liceo scientifico nato come figlio di un Dio minore del liceo classico, mentre la società che non cambiava i suoi ordinamenti ci richiedeva di essere protagonisti e di costruire dei profili di uscita con giovani colti e critici, maturi, ma anche tanto preparati sul versante scientifico in termini di competenze.

Tutto questo ci rendeva un po’ marziani per via della necessità di non perdere mai tempo e contemporaneamente, quando guardavamo negli occhi i nostri studenti e le nostre studentesse, capivamo che avevano voglia e bisogno di parlare anche di altre cose e allora usavamo i ritagli di tempo o i pomeriggi, tanto in quegli anni non si usavano ancora certi orridi neologismi come attività aggiuntive funzionali o non funzionali all’insegnamento. Si restava a scuola perché era opportuno farlo.

Mi spiace che il concorso che istituì la figura del dirigente scolastico non sia venuto fuori in quegli anni, ma solo nel 2004, perché Fiammetta sarebbe stata un’ottima dirigente, anzi una dirigente eccezionale, capace di stare sui tre denti della forchetta su cui dovevamo riuscire a stare in equilibrio: la organizzazione della scuola, la leadership educativa e la innovazione.

Invece in quegli anni la scuola italiana era ancora la scuola delle circolari del ministero con scritto si trasmette per opportuna conoscenza e norma, del preside come prolungamento finale di una organizzazione centrale che partiva da Roma e così Fiammetta non fu ritenuta degna, dai colleghi, nemmeno di fare la vicepreside anche se, era del tutto evidente, che sarebbe stata una grande vicepreside, naturalmente per occuparsi della direzione di marcia della scuola e non della sostituzione dei colleghi assenti con le supplenze brevi o della firma dei permessi di entrata in ritardo. Così al più potevamo aspirare a fare i consiglieri del principe, tenuti in panchina e consultati di nascosto (e lo abbiamo fatto).

Sul piano umano e personale era una persona molto riservata e, d’altra parte, lo sono anch’io, tanto è vero che ormai mi chiamano nonno orso. Quindi non me la sento di avanzare critiche sulla sua riservatezza che l’ha indotta ad una sorta di chiusura a riccio. Mi spiace tantissimo come si sia svolta la fase finale della sua vita, molto marcata dalla solitudine e dalla chiusura in se stessi e io penso di essere stato un po’ vigliacco a non farmi vivo e ad obbedire alla sua richiesta di non voler vedere nessuno intorno. D’altra parte confesso che il cancro mi mette sempre a disagio nel rapportarmi con chi ne viene colpito. La mia struttura razionale si ribella e se la unisco alla mancanza di un credo nell’aldilà misuro un senso di impotenza e di rabbia.


La pagina con l’indice della mia autobiografia da cui potete scegliere i capitoli da leggere


I commenti che aggiungono ricordi o correggono imprecisioni sono benvenuti. Si accede ai commenti scendendo al di sotto dell’articolo. Li si scorre e si arriva  ad un apposito editor


Appendice: la collana giallo ocra della Feltrinelli


Feltrinelli – la collana di Filosofia della scienza curata da Geymonat

Willard Van Orman Quine, Manuale di logica | Ettore Casari, Lineamenti di logica matematica | Ludovico Geymonat, Filosofia e filosofia della scienza | Carl G. Hempel, La formazione dei concetti e delle teorie nella scienza empirica | Evert W. Beth, I fondamenti logici della matematica | Ettore Casari, Questioni di filosofia della matematica |
Maria Luisa dalla Chiara Scabia, Modelli sintattici e semantici delle teorie elementari | Emil Ungerer, Fondamenti teorici delle scienze biologiche | M.E. Omelyanovskij, V.A. Fock e altri, L’interpretazione della meccanica quantistica. Fisica e filosofia in URSS | Enrico Bellone, I modelli e la concezione del mondo nella fisica moderna. Da Laplace a Bohr | Imre Lakatos e Alan Musgrave (a cura di), Critica e crescita della conoscenza | Hans Reichenbach, Filosofia dello spazio e del tempo | Ludovico Geymonat, Scienza e realismo | Pietro Redondi, Epistemologia e storia della scienza | Imre Lakatos, Dimostrazioni e confutazioni. La logica della scoperta matematica | Mary B. Hesse, Modelli e analogie nella scienza |

e quella di bianco e viola di Storia della scienza curata da Paolo Rossi

Marie Boas, Il Rinascimento scientifico 1450/1630 | Alistair C. Crombie, Da S. Agostino a Galileo. Storia della scienza dal V al XVII secolo | E. J. Dijksterhuis, Il meccanicismo e l’immagine del mondo. Dai Presocratici a Newton | J. L. E. Dreyer, Storia dell’astronomia da Talete a Keplero | Yehuda Elkana, La scoperta della conservazione dell’energia | John C. Greene, La morte di Adamo. L’evoluzionismo e la sua influenza sul pensiero occidentale | A. Rupert Hall, Da Galileo a Newton (1630/1720) – La Rivoluzione scientifica 1500/1800. La formazione dell’atteggiamento scientifico moderno | Mary B. Hesse, Forze e campi. Il concetto di azione a distanza nella storia della fisica | Max Jammer, Storia del concetto di forza. Studio sulle fondazioni della dinamica | Max Jammer, Storia del concetto di massa nella fisica classica e moderna | Morris Kline, La matematica nella cultura occidentale | Alexandre Koyré, Dal mondo chiuso all’universo infinito | Paolo Rossi, I filosofi e le macchine 1400/1700 | Philip P. Wiener, Aaron Noland , Le radici del pensiero scientifico |


 




1974-1976: la parabola di AO

III edizione giugno 2024

c’eravamo tanto amati

Il periodo che mi vide operare dentro il gruppo dirigente di una organizzazione della sinistra rivoluzionaria è il più difficile da raccontare perché, da allora, sono cambiato molto ed è stata la riflessione su quella esperienza a determinare la radicalità del mio cambiamento: non più rivoluzionario, non più comunista, non più fiducioso (come una volta) nella possibilità che le cose si possano cambiare attraverso l’impegno nella lotta politica.

Penso che siano necessari impegni di altro genere sul fronte educativo e della testimonianza e che comunque il pedale su cui spingere non sia quello della lotta di classe.

Perché se è vero che le classi sociali esistono e influenzano il procedere della storia, non è vero che esista una classe destinata a svolgere un ruolo palingenetico (il proletariato industriale) ed è discutibile, alla luce dei mutamenti sopravvenuti nel modo di produrre e di consumare nella parte finale del XX secolo e nei primi decenni del XXI, che in estensione e consapevolezza si possa continuare a parlarne come di una classe sociale.

Mi sono ritrovato ad essere più attento ai cambiamenti che vengono da lontano, che procedono lentamente e che determinano le scelte importanti nella vita nelle persone, come quelli che si determinano nella scuola. Cosa farò da grande? Qual è il mio stile di vita? Cosa penso  dei rapporti tra le persone? Per cosa vale la pena di impegnarsi?

Nel giro di pochi mesi, dall’estate del 76 ai primi mesi del 77 ho vissuto  una trasformazione molecolare molto profonda che non ha riguardato solo la politica e non principalmente la politica. Ho cambiato stile e modo di vita; sono molto più solitario e disincantato di un tempo, ho bisogno del rapporto fisico con la naturalità (dai boschi, ai fiumi, alla autoproduzione agricola; sono sempre una persona appassionata e disposta a giocarsi per le cose per cui vale la pena di vivere. Sono disincanto nei confronti di tutti i miti, ma dico sì agli ideali.

Marciavamo con l’anima in spalla nelle tenebre lassù
ma la lotta per la nostra libertà il cammino ci illuminerà.
Non sapevo qual era il tuo nome, neanche il mio potevo dir
il tuo nome di battaglia era Pinìn e io ero Sandokan.
Eravam tutti pronti a morire ma della morte noi mai parlavam,
parlavamo del futuro, se il destino ci allontana
il ricordo di quei giorni sempre uniti ci terrà.
Mi ricordo che poi venne l’alba, e poi qualche cosa di colpo cambiò,
il domani era venuto e la notte era passata,
c’era il sole su nel cielo sorto nella libertà.

Sono i versi della canzone di Armando Trovajoli che fa da tormentone a c’eravamo tanto amati di Ettore Scola (la trovate su Youtube). Il film me lo sono rivisto e mi ha dato la forza per terminare il pezzo della autobiografia più difficile da scrivere (insieme a quello sulla storia di mio padre), quello del c’eravamo tanto amati.

Chi siamo stati:  Gianni, Antonio o Nicola? Il marpione, il proletario dalla fede indistruttibile o l’intellettuale sognatore, o forse tutti e tre insieme? Sentiamo cosa dicono:


– Gianni: Certo che la nostra generazione ha fatto proprio schifo.
– Nicola: Piuttosto che inseguire un’improbabile felicità è meglio preparare qualche piacevole ricordo per il futuro.
– Antonio: Quando si rischia la vita con qualcuno ci rimani sempre attaccato come se il pericolo non fosse passato mai.
– Nicola: Credevamo di cambiare il mondo invece il mondo ha cambiato a noi.
– Antonio: 306 seggi [della DC], e chi se lo poteva immaginare?
Gianni: Ti devo dire una cosa.
– Antonio: E che me vòi di’, lo so! Abbiamo sottovalutato un sacco di fattori che hanno concorso a mettercelo nel chiccherone: i soldi americani, la paura di Stalin, i preti, le monache, le madonne piangenti, la paura dell’inferno…
Gianni: Io e Luciana ci vogliamo bene. È questo che ti volevo dire.
– Antonio: Ci vogliamo bene… in… che senso?
Gianni: Ci amiamo

le cose positive che abbiamo fatto o che abbiamo contribuito a fare

Il giudizio positivo che dò su quel periodo non riguarda la sola Avanguardia Operaia, ma tutti i movimenti e le organizzazioni che, dal 68 al 75, riuscirono a determinare innovazioni e trasformazioni sul piano del costume, un riassestamento dei rapporti sociali a favore dei meno agiati, mutamenti nella legislazione e nelle istituzioni, cambiamenti nella Chiesa Cattolica e un generale spostamento a sinistra nel paese. Pensate a Pio XII e confrontatelo con Papa Francesco per farvi un’idea di come è cambiato il mondo.

Penso alla fine dell’autoritarismo che governava le piccole e grandi istituzioni (dalla famiglia all’esercito), al contratto dei metalmeccanici del 69 cui seguirono, in rapida successione, quelli delle altre categorie, alla affermazione dei diritti nelle fabbriche e nelle scuole, alle trasformazioni nella magistratura, alla abolizione dei manicomi, alla trasformazione delle carceri, alla democratizzazione nell’esercito e nei corpi di polizia, alla crisi del sindacalismo autonomo a favore di quello confederale, alla forte spinta verso l’unità sindacale, alla tutela della donna.  Tutte queste trasformazioni sono state opera nostra anche se, ovviamente, non solo nostra. E dunque le affermo con l’orgoglio se non del protagonosta, almeno del comprimario.

Tutto è iniziato da un processo generale e generazionale che ha riguardato l’intero mondo occidentale e i paesi dell’est; poi c’è stata una particolarità italiana dentro la quale abbiamo operato noi che, dopo il 68, facemmo la scelta di andare nei gruppi.

I senzaMao e la lotta rivoluzionaria per le riforme

Il libro che Silverio Corvisieri ha scritto sul finire del 1976 quando ha lasciato Avanguardia Operaia da sinistra per poi approdare, come molti di noi, al PCI – io almeno me ne sono andato dalla parte giusta che era quella della difesa delle istituzioni democratiche

Ho provato a rileggere alcuni dei documenti di allora e mi riesce difficile farlo perché rimango sùbito colpito sfavorevolmente dalla astrattezza di certe problematiche, del volersi ad ogni costo ritagliare un ruolo che in realtà non avevamo.

Ho riletto con attenzione I senzaMao del mio direttore al Quotidiano dei Lavoratori, Silverio Corvisieri, soffermandomi in particolare sul suo intervento al IV congresso di Avanguardia Operaia, quello della trasformazione di AO in un partito, anche se allora era vietato chiamarlo così.

Silverio ha il pregio della brillantezza giornalistica anche quando tratta di cose pesanti come le disquisizioni intorno al centralismo democratico, al rapporto tra il partito e le masse, alla definizione di proletariato nel contesto dell’Italia degli anni 70. Ma non mi ci ritrovo per niente sul piano razionale; allora non mi ci ritrovavo senza capire bene il perché; avevo l’impressione che ci fossero delle forzature.

Il titolo, I senzaMao, deriva dal fatto che in quell’anno (il 1976) dopo la botta delle elezioni politiche (a giugno) ci fu la morte di Mao (a settembre) ad accrescere il disorientamento. Il vento dell’est aveva smesso di soffiare e noi, presto, saremmo stati in balia di quei matti della autonomia e dei terroristi conseguenti.

Per converso Silverio mi ha fatto tornare alla mente il tema della lotta rivoluzionaria per le riforme, una definizione di comodo che avevamo inventato per spiegare che eravamo per la rivoluzione socialista ma che, nel contesto dato, non era pensabile ragionare in termini di insurrezione.

Avevamo il doppio problema di smarcarci dagli spontaneisti del tutto e subito e, contemporaneamente, dire che non ci piacevano, perché troppo istituzionali e codiste, le posizioni di quelli del giro del Manifesto-PDUP, i togliattiani di sinistra impegnati nel tentare di spostare a sinistra il partito comunista.

Mi pare emblematico che si tratti di una questione che non interessa più a nessuno, a differenza dell’ottenimento di risultati di trasformazione degli assetti istituzionali. Anche io rimasi affascinato dalla idea di fare la rivoluzione attraverso le riforme leggendo nell’estate del 68 un libro di Andreè Gorz, il socialismo difficile. Gorz era il vicedirettore di Les Temps Modernes, la rivista di Sartre. Ne ho parlato nel capitolo dedicato al 68 e ci ritorno sopra volentieri.

Quella di Gorz era la corrente dei riformisti rivoluzionari. I riformisti rivoluzionari rifiutavano l’esperienza del socialismo reale e vedevano in un movimento di massa in grado di imporre riforme strutturali il nuovo modo di arrivare al socialismo nei paesi dell’Occidente. In Italia, il maggiore esponente di questa linea di pensiero era Bruno Trentin (insieme a Lelio Basso) e si trattava di una delle tante correnti di pensiero di matrice luxembourghiana che giravano per l’Europa.

Quel libro lo discussi passo dopo passo con Oskian e Claudia Sorlini che ne criticavano la insufficienza in nome del leninismo e, alla fine di quelle discussioni, decisi di entrare in AO: vi trovai belle persone, alcune con una storia antica dentro il PCI, altre emergenti come Oskian o Randazzo, tutte decise a rifondare il comunismo passando da Lenin ma senza fare sconti all’URSS.

la crisi nel gruppo dirigente

La seconda fase del mio impegno in AO, a partire dal 73, con una serie progressiva di promozioni e crescenti assunzioni di responsabilità fu caratterizzato da due elementi:

  • bisognava crescere e rafforzarci perché, se i tempi della rivoluzione non dipendevano da noi, dipendeva da noi il fatto di arrivarci avendo risolto il problema della guida del processo rivoluzionario. Far emergere il partito attraverso un processo di scomposizioni e ricomposizioni nel quale AO, pur non essendo l’embrione di tale partito, doveva giocare un ruolo principale
  • stavamo trasformandoci da gruppo semilocale, a Organizzazione Nazionale, a un simil-partito e ciò comportava un rafforzamento dell’impegno, il non farsi troppe domande, stringere i denti e puntare ad allargarci; accettare di essere inviati in giro per l’Italia a gettare il seme, cedere i propri beni materiali alla organizzazione, rinunciare alla professione post laurea nel caso dei quadri del movimento di scienze.

E’ questa la ragione per la quale, comportandomi come uno stronzo, lasciai passare senza muovere un dito un episodio come la radiazione/espulsione di Maurizio Bertasi, Flavio Crippa e Pietro Spotti (rei di lesa maestà per aver osato mettere in discussione le decisioni del segretario politico e della supersegretria che lo contornava). Alla stessa stregua considerai accettabile la non spiegazione circa l’auto-allontanamento dal giornale di Silverio Corvisieri. Il fondatore del giornale se ne andava, non salutava nemmeno la redazione; c’era qualche problema ma non era il caso di parlarne: passo fermo e sguardo in avanti verso il sol dell’avvenire.

Dopo la pubblicazione della prima versione di questa autobiografia ho ricevuto numerose testimonianze relative al Comitato Centrale della espulsione-radiazione cui non partecipai perchè c’era da confezonare il Quotidiano. Non fui presente al Comitato Centrale ma lo fui alla riunione precedente della segretria estesa ai membri del C.C. milanesi. Ho letto il verbale che ne fece Umberto Tartari. I tre che espongono i loro dati; Oskian e Vinci che li contestano e noi tutti zitti.

Molti compagni che presenziarono al successivo Comitato Centrale descrivono un clima pesante, il non trovarsi d’accordo ma avere paura di parlare, per finire con le richieste di autocritica a quei pochi che osarono dire qualcosa.

Non c’era tempo, bisognava fare e così si finiva per non fare domande e nemmeno farsele. Per esempio dalla lettura dei senzaMao vedo che nella decisione di Silverio di lasciare il giornale e tornare a Roma c’erano sia elementi di logoramento personale, sia l’emergere di preoccupazioni politiche per il processo che ci stava facendo avvicinare al PDUP e allontanare da Lotta Continua. Probabilmente il pezzo su Gioia di Vivere e Lotta di Classe fu il suo modo di lanciare un sasso.

Apparentemente tutto filava liscio ma il fuoco covava sotto la cenere e un pomeriggio, in una riunione di segreteria nazionale, Luigi Vinci richiese a freddo le dimissioni del segretario nazionale Aurelio Campi accusandolo di gestione padronale del partito. Non ricordo se fosse la fine del 75 o l’inizio del 76 ma il fatto è di poco successivo all’allontanamento di Silverio dal Quotidiano. Era l’inizio di una storia durata all’incirca un anno in cui i due principali contendenti alternarono bordate, punture di spillo e giravolte strumentali.

Ho vissuto l’attacco ad Oskian come una autentica pugnalata tirata a freddo. In realtà c’era parecchio malessere nei confronti di Oskian per il suo decisionismo che molto spesso si trasformava in autoritarismo e a ciò si sommava il timore che stesse progettando una fusione-confluenza con la componente comunista (non psiuppina) del Pdup.

Mi sono poi reso conto, dalle successive dinamiche in Ufficio Politico, che si trattava di un atto preparato con cura da Luigi Vinci (che controllava l’apparato e l’organizzazione), in accordo con molti segretari regionali. Così Avanguardia Operaia, in un momento in cui sarebbe servito il massimo di iniziativa politica e di unità interna, sia prima, sia dopo le elezioni del 76, fu invece vittima di una crisi al vertice tenuta lungamente segreta, ma che non le fece certamente bene.

In quei mesi mi resi conto frequentando i gruppi dirigenti di AO e del PDUP di quanto pesassero le miserie personali nel determinare le scelte politiche e quello fu il primo disvelamento del fatto che non basta credere nel comunismo e appellarsi ad esso per essere all’altezza del compito.

Con il IV congresso dell’ottobre 74 Avanguardia Operaia fece uno sforzo per guardare lontano, stare dentro i movimenti sociali ma, contemporaneamente, cercare di costruire una analisi della società italiana che facesse i conti con le caratteristiche dei due blocchi sociali che riscuotevano il consenso della gran massa degli italiani: il blocco intorno alla DC e quello intorno al Partito Comunista.

Ma una parte del gruppo dirigente storico guardò a quel tentativo con sospetto, come una forma di liquidazionismo. Se devo fare un paragone un po’ forte, ma che aiuta a capire, nel momento in cui avevamo bisogno di Gramsci AO si rifugiò nelle braccia di Bordiga travestito da Lenin.

Il Comitato Centrale, con oltre 100 compagni, tutti con una storia di militanza importante, tutti dotati di esperienza politica, faticava a capire, anche perchè le divergenze reali non venivano palesate, se ne discuteva nei corridoi, in parte in Ufficio politico, ma mai in maniera esplicita. Vinci e Campi un giorno si davano ragione, ma appena temevano che dietro l’unità ci fosse lo zampino del diavolo, rovesciavano il tavolo.

Fu così, nella incapacità di capire cosa era era successo con il risultato delle elezioni di giugno (straordinario balzo in avanti del PCI, tenuta della DC, misero risultato della sinistra rivoluzionaria) che si produsse lo sgretolamento, dapprima lento e poi clamoroso delle tre organizzazioni principali della sinistra rivoluzionaria; AO, LC e il PDUP seguite subito dopo dal MLS.

Nessuna di esse era riuscita ad essere una alternativa a quei blocchi di consenso politico ed ora crollavano stritolate da un lato dal PCI e dall’altro lato dai movimenti della autonomia e dal terrorismo.

la mia reazione

Disgustato da come si svolse la discussione intrecciata tra il risultato deludente delle elezioni politiche e la prospettiva di unire o meno Avanguardia Operaia e il Pdup, decisi di andarmene e nei primi giorni di luglio 76 preparai anche un poderoso documento politico di dimissioni dalla organizzazione a cui avevo dato tanto.

La manchette che apriva il lungo articolo in tre puntate in cui decisi che era ora di finirla con le chiacchiere da convento di clausura

Da qualche mese avevo iniziato a studiare le parti di teoria politica dei Quaderni dal carcere di Gramsci (in particolare le Note sul Macchiavelli) e mi rendevo conto che c’era un vuoto da colmare tra le intuizioni di Gramsci sulla democrazia, sul socialismo, sulla politica, sul blocco storico, sul ruolo della chiesa cattolica, sulla lotta culturale per la egemonia e il nostro appello al leninismo.

Il leninismo si era inverato in una realtà profondamente diversa da quella italiana e per di più, o forse per quello, aveva avuto una deriva fallimentare in cui il giacobinismo della prima ora si era ben presto trasfornato in autoritarismo e poi in una forma di totalitarismo burocratico in grado di garantire solo la propria sopravvivenza (com qualche milione di vittime).

Nel mese di luglio (mentre ero in ferie dal giornale) mi incontrai con Oskian e Claudia Sorlini per informarli della mia decisione di andarmene da una organizzazione che non aveva il coraggio di discutere a viso aperto. Oskian, che in quel momento non era più segretario politico, ma coordinatore di una segreteria collegiale che aveva il compito di preparare le tesi per il V congresso, mi convinse a rimanere promettendomi che si sarebbe aperta la battaglia politica e non quella personale.

Misi da parte il documento di dimissioni (che è rimasto chissa dove in una agenda e si è perso con lei) e nei primi giorni di agosto pubblicai in tre puntate, sul quotidiano, un lungo articolo dedicato alle prospettive che ci stavano di fronte e a quella che secondo me poteva essere la strada per uscirne. Lo trovate qui “perché ho votato contro al Comitato Centrale“.

Di questioni politiche ce ne sono dentro molte e ciò che mi ha colpito è l’insistenza sulla necessità di una riflessione teorico politica di grande respiro, insieme a problematiche di tipo minore che, con gli occhi di oggi, mi fanno sorridere.

A settembre, al rientro dalle ferie dei dirigenti, mi aspettavo una discussione politica (e come si vede dalla D di dibattito nella manchette, pensavo di farlo sul giornale); invece fui processato in Ufficio Politico per aver infranto il Centralismo Democratico e mi venne messo al fianco, in funzione di controllo, Vittorio Borelli, trasferito da Verona e del tutto digiuno di giornalismo.

In redazione non la prendemmo bene, anche perché, come si vede dalla lettura del testo, si trattava di un contributo politico del tutto legittimo nell’ambito della discussione su come arrivare al V congresso di AO.

Le congiure di palazzo e le manovre di corridoio continuavano da entrambe le parti. Non me la sentii di continuare con l’ottimismo della volontà e ai prmi di ottobre decisi che era meglio andarmene e tornare al lavoro minuto, ma importante, di docente. Rimisi il naso in redazione una volta sola quando ci fu lo scontro a fuoco (di cui ho parlato nel pezzo dedicato agli anni del QdL) in cui morirono Walter Alasia e due funzionari di polizia.

un cambiamento profondo

L’esplosione del terrorismo e la violenza dei movimenti della autonomia mi convinsero della necessità di seguire altre strade e lavorare più in profondità. Non abbandonai la passione politica, ma abbandonai l’idea della politica al primo posto, quella del rivoluzionario di professione che sarebbe meglio chiamare uomo ad una dimensione.

Non fu una decisione immediata, ma progressiva. Ricordo che, nei primi mesi del 77, alla assemblea in cui la destra di AO decise di andarsene e aderire al PDUP partecipai, ma mi sentivo ormai un osservatore esterno e non un protagonista. Non ricordo nulla dell’incontro residenziale che si tenne a Rocca di Papa; alcuni amici che proseguirono in quel percorso mi dicono che feci un intervento importante ma non mi è rimasto nemmeno il ricordo. Mi ritrovavo con tante persone a cui volevo bene ma che stavano per intraprendere un ennesimo tentativo volontaristico.

La parabola di AO si era visibilmente chiusa anche se la maggioranza ottenne risultati tra il 70 e l’80%; altri tentarono di fare DP e in quel periodo mi resi conto della drammaticità della situazione.

Il terrorismo cresceva, faceva le rapine, gli autonomi erano alla ricerca dello scontro per lo scontro, la popolarità delle BR nel brodo di coltura della autonomia operaia cresceva, iniziavano gli omicidi e i miei ex compagni continuavano a fare i distinguo come nello slogan infelice nè con lo stato nè con le BR, come se lo stato democratico, le BR e prima Linea, si potessero mettere sullo stesso piano.

Tutti quei tentativi, per quanto generosi, che avevano caratterizzato la mia vita nella prima metà degli anni 70, per quanto animati da persone appassionate, sul piano della soggettività, finirono nel nulla. Non fu così, come ho detto all’inizio, per le trasformazioni che si determinarono nella società e negli assetti istituzionali. L’Italia era cambiata in meglio e noi avevamo fatto la nostra parte.

In questi anni, molti di quei compagni che hanno fatto parte di quel gruppo dirigente sono venuti a mancare e li voglio ricordare, al di là dei dissensi e della diversità di percorso: Marco Pezzi di Faenza, il primo a morire; Attilio Mangano, Umberto Tartari, Severino Cesari, Franco Calamida, Vittorio Rieser, Massimo Gorla, Pietro Spotti, per restare a quelli che conoscevo direttamente.


La pagina con l’indice della mia autobiografia da cui potete scegliere i capitoli da leggere


I commenti dei compagni di allora sono benvenuti e, perché ne rimanga traccia, vi prego di metterli sotto l’articolo e non sulla grande cloaca di Facebook. Già, per effetto delle precedenti edizioni, ce ne sono un certo numero.

Questo è il breve commento con cui ho accompagnato il link su FB

C’eravamo tanto amati … e poi il “giocattolo” si è rotto, il mondo è cambiato e ciascuno di noi ha fatto le sue scelte.
Verso quelle persone con cui ad un certo punto si determinò una rottura conservo un grande senso di simpatia e negli anni tutte le spigolosità sono sparite e voglio bene a tutti loro. Qualcuno con orgoglio dice “volevamo cambiare il mondo, non ci siamo riusciti, ma il mondo non ha cambiato noi”. Detta così non la condivido perchè vivere vuol dire essere disposti a cambiare e ad accettare il cambiamento. La nostra vita, la vita di tutti è bella perché è caratterizzata dal mutamento.



1974-1976: QdL – la grande avventura

III edizione giugno 2024

La prima pagina del n. 1; editoriale di Silverio Corvisieri con la immancabile “verità rivoluzionaria”, la lotta dura e gli studenti – sotto ho incollato una gustosa vignetta di Alfredo Chiappori sulla inconcludenza di Ugo La Malfa, considerato il Grillo Parlante della politica italiana, ripresa da pag. 4

Avanguardia Operaia voleva decollare a livello nazionale e per raggiungere l’obiettivo serviva un quotidiano. Non conosco gli aspetti organizzativi e di pianificazione e mi auguro che, prima o poi, qualcuno li espliciti: i finanziamenti, la struttura, la selezione dei redattori, l’acquisto della grafica Effeti, la organizzazione della distribuzione, la amministrazione.

Oskian mi chiamò e mi disse che avevano pensato a me come caposervizio interni. Così, dopo alterne vicende, qualche permesso e qualche malattia, che mi consentirono di essere della partita sin dall’inizio, mi licenziai dallo scuola nell’anno in cui stavo per passare di ruolo. Bruna non era proprio entusiasta, ma almeno avevamo la sicurezza del suo posto di assistente sociale in Ospedale. Era una avventura, lo sapevamo; ma in quegli anni siamo vissuti tutti di scelte di vita e di avventure.

A partire dal 2023, grazie al lavoro prezioso di Furio Petrossi, e ai soldi raccolti tramite sottoscrizioni, esiste un sito in cui si trovano le annate del quotidiano oltre ai numeri della rivista teorica. Ho dato anche una mano a preparare, per alcuni mesi, i percorsi di lettura, ma soprattutto ho sfogliato quelle pagine e sono riemersi ricordi che giacevano sopiti quando scrissi la prima versione di questo articolo. Dunque, nella terza edizione si trovano tante cose nuove e persone che avevo dimenticato.

una proposta dopo l’amaro distacco dalla Fisica

Avevo già fatto la scelta di non rimanere in Univesità perché sarei stato più utile altrove. Durante il servizio militare, il mio posto di tecnico universitario di II categoria, avventizio, in prova, su fondi CNR sino ad esaurimento dei fondi, era stato trasformato, ope legis, in un posto di ruolo e, poiché mi ero laureato sarebbe diventato di I categoria e dunque avrei potuto iniziare la carriera universitaria dal di dentro.

Le cattedre erano due operanti in un unico gruppo di ricerca: quella del professor Occhialini (fisica dello spazio) e quella della moglie Connie Dilworth (radioattività), la stessa dove operava Gianni degli Antoni che si apprestava a far decollare l’Informatica e che era partito dalla elettronica, strumento indispensabile per la costruzione dei rivelatori che venivano messi nei palloni sonda e poi nei satelliti.

Il professor Occhialini mi chiamò e mi chiese cosa volevo fare. Risposi così: la fisica mi piace, ma la politica mi piace di più ed intendo essere onesto con lei; credo che finirei per trascurare la fisica. Diedi le dimissioni e ci lasciammo da buoni amici. Con tutto lo studio che ci misi dopo, vi renderete conto che mi è rimasto un po’ di rammarico per quella scelta. Basta guardare il mio corso di fisica che sta a questo stesso indirizzo: lì dentro ci sono io, la parte più vera e più profonda di me, quella che cerca la verità e non si stanca di esercitare il pensiero critico.

l’avventura ha inizio

Ma mi piace cambiare, sono un inquieto, ogni 5-10 anni devo fare altro, e fu così che andai al Quotidiano dopo soli tre anni di insegnamento. E’ stata una esperienza bellissima e molto logorante sul piano esistenziale. Infatti, alla fine di essa, ho deciso che era più gratificante parlare a 20 studenti guardandoli in faccia, invece di scrivere editoriali per ventimila compagni da cui ero lontano e che finivano per essere una specie di realtà virtuale.

Il 25 novembre 1974, un lunedì, iniziò l’avventura; il primo numero andò in edicola il 26. Per essere precisi ci avevamo lavorato per tutta la settimana precedente producendo due o tre numeri zero di cui l’ultimo arrivò sino alla tipografia.

Avevamo uno dei primissimi impianti di fotocomposizione. gli articoli, battuti a macchina, venivano ribattuti da delle tastieriste e si produceva un nastro perforato, un computer lo leggeva e produceva le strisciate (stampe su carta lucida) sia degli articoli sia dei titoli. Si applicavano le strisciate su un foglio già diviso nelle 8 colonne facendo l’assemblaggio delle pagine. Il compositore, con un redattore a turno, seguiva il menabò preparato dai grafici e, lavorando con le forbici per eliminare le eccedenze, produceva la pagina; da essa seguivano la pellicola e infine le lastre di alluminio per la roto-offset.

Una delle regole del giornalismo, che in un quotidiano è fondamentale è quella delle 5 W: Who, What, When, Where, Why (chi, cosa, quando, dove, perché). E per noi era fondamentale oltre che per dare una buona comunicazione perché se c’era da tagliare in tipografia, il redattore tagliava la fine, sicuro che non ci sarebbe stato nulla che non si potesse eliminare.

Silverio in una foto di allora

Il Direttore era Silverio Corvisieri, originario di Ponza ma trapiantato a Roma. Silverio nella redazione originaria era l’unico giornalista professionista. Dopo aver lavorato all’Unità, aveva poi diretto (insieme a Lucio Colletti) uno dei giornali rivoluzionari del 68, la Sinistra, diventato famoso per un numero in cui si insegnava a costruire la bottiglia molotov.

Corvisieri, tra i padri fondatori di AO, era sempre con un piede dentro e uno fuori, era appassionato di storia del movimento operaio e in particolare delle sue sfumature di sinistra e negli anni ha scritto diversi libri. Venne convinto a venire a Milano; si trovò casa per lui e la famiglia e fu lui ad insegnarci i primi rudimenti del giornalismo.

L’idea che avevamo in testa tutti era quella di tentare di fare un giornale completo e non un secondo giornale tutto politico; il formato era tabloid grande, 8 pagine di 8 colonne, due delle quali (cultura, spettacolo e inchieste) erano prefabbricate e coordinate da Severino Cesari, Silvano Piccardi, Attilio Mangano e Umberto Tartari. La stessa cosa avveniva per le pagine monotematiche legate al lavoro di massa (fabbriche, scuola, sociale) e in quel caso se ne occupavano i responsabili delle commissioni nazionali. Le pagine prefabbricate consentivano alla tipografia di lavorare anche di mattina, lasciando al pomeriggio sera la composizione di quelle fresche.

le pagine prefabbricate (cultura, inchieste e spettacolo)

Severino, di gran lunga il più colto tra noi, fu quelllo che se ne occupò con maggiore continuità. Veniva da Perugia ed aveva sempre un’aria malaticcia, un po’ di tosse e un bel sorriso.

Quando nel 1981 andai a fare gli esami di maturità a Roma fui ospite per quasi un mese nella sua casa di Roma condivisa con Gigi Sullo (entrambi lavoravano ormai al Manifesto dopo la rottura nella nostra redazione).

Attilio, con la scusa che insegnava nei corsi serali, poteva fornirci gratis la sua presenza, veniva in redazione alle 14 e ci restava sino alle 20 dopo che i redattori, verso le 17:30 se ne andavano. Ha dato un contributo molto importante e se ne trova traccia nel libro “la generazione che ha perso” in cui Fabrizio Billi dedica un saggio proprio al suo lavoro di cultura politica nelle pagine del quotidiano.

Attilio, appassionato come Silverio di storia del movumento operaio, interveniva su tutte le tematiche riguardanti il comunismo e sfornava recensioni a raffica. Nella intervista per la storia di AO ricorda scherzosamente che, per questa ragione, lo si consuderava il Suslov di Avanguardia Operaia.

Umberto, già laureato in Fisica e ricercatore nel gruppo di Fisica dei plasmi, si è occupato di tutta la prima fase facendo anche il caporedattore prima di tornare, dopo i primi mesi, a fare ricerca universitaria. La sua presenza in redazione era del tutto naturale visto che, sin fal 68, era stato lui ad occuparsi del lavoro di organizzazione della rivista teorica e credo anche dei quaderni. Se sfogliate il quotidiano vedrete che scrive raramente e, quando lo fa, è per dare elementi di orientamento su problematiche di politica o cultura generale su cui non c’era ancora una posizione definita.

Silvano Piccardi in scena con Ottavia Piccolo, un’altra amica e sostenitrice del QdL

Se si sfogliano le pagine culturali del 74 e del 75 balza all’occhio la presenza costante di Silvano Piccardi, attore teatrale, regista, doppiatore, esponente di punta dei Circoli la Comune che, sul QdL, interviene quasi ogni giorno con una recensione, vuoi di cinema, vuoi di presentazione di eventi o compagnie teatrali.

Silvano che aveva mosso i primi passi nel teatro sin da bambino era già famoso e senza spocchia faceva il suo lavoro di recensore. Era un onore e un piacere averlo tra noi anche perché era molto simpatico.

Sempre nella prima fase, nella stanza a destra dopo il centralino e prima dell’ufficio del direttore, c’è stata la presenza di Peppino d’Alfonso, uno dei compagni di chimica della prima generazione e che era stato la colonna portante, anzi di più, del quindicinale divenuto poi settimanale. Ce lo racconta direttamente lui nell’articolo dedicato al ricordo di Michele Randazzo. Eravamo un bel gruppo di parvenu e dunque all’inizio la presenza di una struttura forte di coordinamento dei redattori era indispensabile. Anche Peppino, come Umberto, dopo qualche mese se ne è tornato all’Università.

La produzione dei pezzi che davano vita alle pagine culturali veniva compiuta da una rete di collaboratori nazionali e l’assemblaggio aveva luogo nella stanza 1 (la stessa dove stavano Peppino e Umberto). Secondo me quel lavoro era eccessivamente elitario, da sinistra culturale (o forse io ero un po’ troppo provincial-brianzolo) e, quando la direzione operativa passò nelle mie mani, il giornale incominciò a parlare di televisione, anche in prima pagina, grazie alla collaborazione di un compagno (Sergio Lentati) che, di mestiere, produceva i Caroselli e si firmava Baal.

Leonardo Coen e Sartana

Per il resto la struttura era quella tradizionale di un quotidiano; redazione organizzata in servizi con tre redattori per ogni area: interni, economia e sindacato, cronaca-costume,  esteri oltre ad un giornalista un po’ underground rispetto al nostro essere prima militanti rivoluzionari e poi giornalisti: Leonardo Coen.

Leo lavorava fuori dalla struttura fissa del giornale e un po’ lo invidiavamo perché poteva fare l’inviato. Non facendo parte di AO si poteva permettere di fare il pierino di turno prescindendo dalle regole ferre della organizzazione. Così potè occuparsi di sport e di costume, oltre che insistere perché il giornale non si piegasse troppo alle esigenze della politica. La sua presenza era stata uno dei paletti posti da Silverio nei confronti della segreteria, nell’ambito della sua autonomia di direttore.

Si firmava Leos Valentin e nel numero 1 propone un servizio da Palermo dal titolo Fustigare carusi è lecito: a parlarne, invece, si va dentro, a proposito di bizzarre sentenze della magistratura siciliana. Nel primo mese è presente con un articolo al giorno su tematiche di cronaca e costume.

L’altro acquisto di Silverio era il figlio di Gianni Brera, Carlo (1946-1994), un po’ anarchico, che scriveva dei corsivi dissacranti firmandosi Sartana. Leo ci lasciò quando Scalfari fondò la Repubblica e ci è rimasto, come inviato speciale, per tutta la vita professionale sino alla pensione, mentre Carlo Brera ha continuato con noi anche dopo che Silverio ha lasciato il quotidiano.

sartana 28 novembre 1974

via Bonghi 4 – planimetria e apparati tecnici

La planimetria l’ho preparata fidandomi della memoria e vedo che, per esempio, ho dimenticato i bagni che ci stavano di sicuro.

Il desiderio di avere un quotidiano era cresciuto più veloce delle gambe e così, per almeno un anno, abbiamo fatto un quotidiano senza avere le telescriventi ma le agenzie le andavano a prendere i nostri baldi fattorini Nicola (Nicolosi) e Gigi (Gerosa) che, per tutta la mattina e nel primo pomeriggio, in tram o in motorino, facevano la spola tra via Bonghi (a metà di corso san Gottardo) e il palazzo della stampa in piazza Cavour a prendere le copie dell’Ansa e della Adnkronos.

Ho sempre pensato che quella di non acquistare la telescrivente fosse una scelta demenziale della serie tanto dobbiamo fare la rivoluzione. Poi, per fortuna, il papà di Franco Calamida, Leonida, che era stato compagno di lotta antifascista di Adriano Olivetti, riuscì a procurare gratis le telescriventi e ci sembrò di rinascere. Sicuramente rinacque Nicola che incominciò a fare una vita più normale, mentre Gigi collaborò con i grafici per poi passare in redazione agli esteri.

Olivetti Lettera 22, una per ogni redattore

A proposito di Olivetti, quella nella foto era la nostra compagna inseparabile. Gli articoli si scrivevano su fogli di carta formato A4  (simile a quella da ciclostile)  con un riquadro bordeaux  da 65 battute per 30 righe e nella parte alta le informazioni di riconoscimento del pezzo (per la tipografia).

Era la cartella standard del QdL che faceva da unità di misura per ogni operazione. La mia Olivetti, a differenza di altri redattori che se la sono tenuta in conto stipendi non pagati, è rimasta in redazione quando me ne sono andato intorno a novembre del 76. Tanto, dal 72 possedevo una Adler che aveva come caratteristica di avere caratteri più grandi. Ci ho scritto i due saggi per politica comunista oltre che le recensioni per il quotidiano che preparavo da casa.

i personaggi e i luoghi della redazione

Stanza 1 – di tutto un po’

Umberto Tartari a fisica in occasione del 40° del movimento di Scienze

Umberto Tartari (caporedattore) c’era all’inizio ma poi, per ragioni di carriera universitaria, è tornato a fare il fisico dei plasmi. Così, dopo la sua partenza e per un breve periodo, ho dovuto fare sia il caposervizio interni sia il caporedattore: quello che rivede gli articoli, fa i titoli, dà i consigli e prende le decisioni se c’è da cambiare il menabò.

Umberto aveva svolto un ruolo chiave, sin dall’inizio, nelle pubblicazioni di AO, nella rivista teorica e nel settimanale. Non ho mai capito come mai non fosse stato coinvolto più a fondo; probabilmente aveva deciso di tenere il piede in Università e occuparsi di fisica cosa che ha effettivamente fatto.

Come ho già detto, in questo locale abbastanza grande si facevano le pagine prefabbricate e lo si usava anche per ricevere le persone di passaggio data la sua vicinanza all’ingresso. Ad un certo punto ci si spostò Mario Gamba per seguire la terza pagina mentre il suo posto agli esteri fu preso da Gigi Gerosa.

Stanza 2 – il direttore

ci stava Silverio e, dopo la sua autodimissione improvvisa, che non ci è stata mai spiegata, ma che aveva a che fare con una diversa sensibilità politica e con differenze di linea rispetto all’approccio leninista canonico, mi ci sono trasferito io. Facevo il vicedirettore insieme a Massimo Gorla, mentre, formalmente il direttore era il segretario politico Aurelio Campi.

Massimo arrivava tardi la mattina a giornale già impostato, aveva tante cose da fare, spesso non c’era per via dei contatti con l’estero, e dunque non riusciva a stare dentro la finestra temporale degli impegni connessi alla fabbricazione di un quotidiano, anche perché, a pranzo, ci dava dentro e quindi la digestione risultava lunga. La definizione, che gli hanno appioppato dopo la morte, di gentiluomo comunista gli calza a pennello.

Mario Pucci a casa mia nel 2016; abitiamo entrambi in Toscana, lui a Firenze e io nella Maremma senese. Mario al quotidiano seguiva la politica milanese e la pagina regionale lombarda.

Sembra incredibile ma le dimissioni di Corvisieri nel dicembre del 75 arrivarono come un fulmine a ciel sereno, non ci furono spiegate e lui non le motivò con la sua redazione. Nel suo libro del novembre 76, I senzaMao, ne parla diffusamente e si capisce che dietro c’erano una frattura caratteriale e politica con il gruppo dirigente di AO di origini milanesi.

La sua interpretazione è che i contrasti fossero profondi e che lui sbagliò, in più di una occasione, a non esplicitarli. Fatto sta che, da un giorno all’altro, mi ritrovai a dirigere il quotidiano.

C’erano una scrivania, il telefono azzurro (quello con i tasti per i trasferimenti di chiamata), una poltrona e delle sedie su cui si appoggiavano a turno i sederi di tutti i redattori, per un consiglio o per scambiare una opinione. Ci entrava continuamente la segretaria di redazione (Carla) per gli appuntamenti, mentre le redazioni locali (Roma, Venezia, Torino e Napoli) si facevano vive telefonicamente.

E’ stato da allora che ho iniziato ad odiare il telefono e non mi sono più riconciliato, come ben sa chi mi chiama e, spesso, se sto facendo altro, mi trova un po’ sgarbato. Di certo mi piaccioni di più le e-mail,  le leggi con calma quando decidi tu e non quando ti parte il beep. Utilizzo anche Whatsapp, dopo una telefonata, per brevi messaggi a lettura immediata o per trasmettere documenti, dopo che ho concordato la cosa. Odio nella maniera più totale i messaggi vocali che sono la negazione della comunicazione bidirezionale.

Tra le 14 e le 15:30 mi ero ritagliato il tempo per scrivere i pezzi (per gli interni o gli editoriali) e regolarmente, in piena concentrazione mentale, squillava il telefono che ti obbligava a resettare il cervello; finivi la telefonata, davi le disposizioni conseguenti, ti riconcentravi e lui suonava un’altra volta.

Stanza 3 – segreteria di redazione

Carla al centralino di via Bonghi

Carla Rampi era le segretaria di redazione e coordinava il lavoro delle compagne che si occupavano della sbobinatura dei pezzi delle redazioni locali (tefefonata, registrazione, ascolto in cuffia e comandi a pedale per battere a macchina).

Le telefonate, a volte diventavano troppo lunghe con i corrisponedenti logorroici e il centralino aveva la disposizione, dopo un certo tempo, di interrompere causa chiamata urgente in arrivo.

Ad un certo punto è comparso anche una specie di scanner-fax puzzolente e rumoroso che, se non ricordo male, veniva usato dalle redazioni di Roma e Torino. Una parte degli articoli (Napoli e Venezia) venivano anche prelevati dai fattorini direttamente ai treni in stazione Centrale nella modalità fuori-sacco. Poi c’erano quelli che scrivevano a mano (come Campi e Calamida) e allora c’era anche il problema della interpretazione dello scritto.

Carla è arrivata al QdL sin dalla fase preparatoria, studiava biologia, e mi racconta che, all’inizio al tempo dei numeri zero, la situazione era di grande casino. Conferma che, secondo lei, era stata fatta una accelerazione eccessiva per uscire. Per fortuna, ad un certo punto, prima del numero 1, comparve Felice Chilanti (partigiano, giornalista e scrittore che nel 74 aveva 60 anni) a dare una mano sul come si fa un giornale partendo da zero. La sua collaborazione fu preziosa.

Aveva un rapporto molto stretto con Silverio e ogni tanto in pausa pranzo andava a casa sua a dare una mano alla figlia nel fare i compiti. Mi ha raccontato di una volta in cui si aspettava un editoriale di Campi che non arrivava; era già passata l’ora di chiusura e Silverio le aveva dato un editoriale di ricambio; se non arriva pubblica questo. Campi era in ritardo, ci fu un braccio di ferro, qualche minaccia, ma alla fine la ebbe vinta lei perché i tempi di chiusura non aspettano nemmeno il segretario politico.

Sempre sul piano dei ricordi dà il palmares della simpatia a Vittorio Rieser e Massimo Gorla e quello della serietà organizzaiva e disponibilità ad Umberto Tartari.

Marco Orilia e Carla Rampi festeggiano il 25 aprile del 2024 con una risottata antifascista

Era lei ad occuparsi della organizzazione della giornata, degli apparati tecnici, dei rapporti con le redazioni e con la tipografia. Il suo era un ruolo fondamentale per fare materialmente il quotidiano. A partire da una certa data, si aggiunse al suo fianco Michela Maffezzoni che poi si sarebbe sposata con Cippone (Luigi Cipriani) e che ora ne cura la Fondazione.

Carla si è sposata con Marco Orilia, un compagno del movimento di Biologia che al quotidiano ha seguito la diffusione e poi è passato a Repubblica a seguire la produzione degli inserti e delle pubblicazioni speciali. Una coppia del QdL che è rimasta insieme e che vive nel biellese continuando a testimoniare i valori rimasti in piedi.

Stanza 4 – centralino e reception

Era il cuore pulsante per le chiamate in ingresso (gestiva anche la amministrazione che stava al piano di sotto). Si entrava da un portoncino in legno visibile nella foto con Carla e sul davanti c’erano un paio di poltrone per i visitatori in attesa.

Stanza 5 – fotografi, grafici, sala riunioni

Adiacente alla parete del centralino c’era l’archivio fotografico mentre la camera oscura e le attrezzature stavano al piano di sotto di fianco alla amministrazione. I nostri due fotografi Nereo Pederzolli ed Emilio Tremolada erano bravissimi e li ricordo con affetto, in particolare Nereo Pederzolli, gioviale e sorridente che ha poi fatto il giornalista televisivo per la Rai regionale trentina e che nell’estate del 76, in occasione del terremoto in Friuli, ha fatto l’inviato speciale.

Nel sito del quotidiano è disponibile un link che vi consente di accedere all’archivio fotografico del giornale donato al sistema bibliotecario parmense nel quale, purtroppo, mancano foto interne al giornale (i luoghi, le persone, …)

Una buona parte del locale era occupato dai tavoloni su cui i grafici (Saverio Falcone e Tille Bortolotti) preparavano i menabò in scala 1:1 dopo la riunione di redazione e passavano poi ad assegnare, in righe, le dimensioni dei pezzi e le colonne dei titoli.

Era la sala grande, con sulla parete a sud anche un cenno di biblioteca e lì, la mattina verso le 10:30, facevamo la riunione a cui partecipavano obbligatoriamente i capiservizio, ma che era aperta a tutti i redattori. Ovviamente presiedeva il direttore che, come i capiservizio e Carla, aveva già letto il pacco dei quotidiani, visto le Ansa della notte e parlato con le redazioni locali.

Si faceva una rapida valutazione del giornale del giorno prima (con i buchi legati al fatto che chiudevamo in redazione alle 17:30 e in tipografia alle 19) e poi si ragionava sul da farsi. In riunione il direttore avanzava delle proposte per la prima pagina con particolare attenzione ad apertura, spalla ed editoriale e, in questa fase si ascoltavano i pareri e le proposte dei capiservizio con scelte eventuali di cambiamento. Carla ricorda che Silverio aveva un chiodo fisso: dovete essere rossi ed esperti. Rossi perchè siamo così, ma esperti perché le notizie vanno sempre controllate almeno un paio di volte.

A questo punto la palla passava ai grafici mentre la riunione proseguiva e si dava una presentazione di massima di tutte le pagine di ogni settore. Alla fine Tille e Saverio ricevevano dei foglietti riepilogativi e passavano alla preparazione dei menabò di ogni pagina mentre nelle stanze di redazione si iniziava a lavorare.

Come Viviamo – Tille Bortolotti, Isabella Cherubini, Ida Farè

Tille, sposata con Ettore Mazzotti, era una persona molto gentile, affascinante, femminista e ben presto insieme ad altre compagne della redazione mise in piedi una rubrica di costume ad orientamento femminista.

Saverio, moro, simpatico e con un bel barbone, dopo il quotidiano ha fatto tutt’altro. E’ diventato uno psicanalista di scuola Junghiana.

Stanza 6: costume, giovani, scuola, pagina Lombardia

Qui operava la parte un po’ frikkettona della redazione grazie alla presenza di due compagne poco propense all’inquadramento: Ida Farè (1938-2018) e Giovanna Pajetta che essendo l’ultimogenita di Giancarlo Pajetta era, caratterialmente, l’esatto contrario del padre.

QdL 5/12/74 il primo articolo di Ida

Ida ci educava al punto di vista delle donne, non capivi mai dove volesse andare a parare, ma alla fine ti rendevi conto che aveva ragione. Oltre a metterci la testa e il cuore, ci ha messo anche tanto del suo, privandosi di numerosi appartamenti di proprietà per fare il giornale. Se sfogliate il giornale dall’inizio incontrate i suoi articoli quasi in ogni numero (cronaca politica, femminismo, cronaca sociale, editoriali e commenti).

I suoi articoli erano spesso corredati da vignette fumetto che esprimevano il dramma della condizione femminile. Leggetevi il ricordo che ne fece Lorenzo Baldi nell’estate del 2018 in occasione della sua morte in per Ida.

Giovanna era il nostro agente nella nuova frontiera del proletariato giovanile e di tutto ciò che non rientrava propriamente nel punto di vista di una organizzazione leninista in termini di costume, sesso, omosessualità, droga, proletariato giovanile. Le aperture del QdL e della commissione cultura diretta da Vincenzo Vita non furono indolori nel gruppo dirigente leninista dentro AO come testimonia lo stesso Vincenzo Vita in “volevamo cambiare il mondo“. Silverio li copriva; aveva una maggiore apertura verso le tematiche emergenti ma comunque entro i canoni del socialismo come si vede da questo titolo per il festival del proletariato giovanile.

Nella stanza numero 6, nel tempo ci hanno lavorato, in periodi diversi, anche Roy De Gioia, Giovanni Lanzone, Emilio Genovesi e Piervito Antoniazzi, visto che la scuola non aveva un suo luogo fisico.

La scuola era costantemente presente nelle pagine del quotidiano sia per gli eventi milanesi e delle altre città, sia perché il quotidiano faceva da luogo di elaborazione e trasmissione della evoluzione di linea politica. Piervito, che lavorava anche agli interni, ad un certo punto si trasferì alla redazione della radio Canale 96.

Scorrendo le annate del 75 e del 76 si ha l’impressione di una passione generosa e della difficoltà ad elaborare una linea che non fosse quella del contro. Esemblare la posizione di opposizione ai decreti delegati in nome della democrazia diretta. Una linea che funzionò nella fase aslta delle lotte e fu destinata, sul piano strategico, alla sconfitta. D’altra parte quello era il nostro DNA.

un giovane Piervito Antoniazzi al tavolo di lavoro

C’erano poi Lorenzo Baldi e Mario Pucci che, dopo le vittoriose elezioni milanesi del 75, seguivano l’attività della nuova giunta di sinistra a Milano e il lavoro del nostro gruppo consiliare con Emilio Molinari. Fu uno di loro ad innescare, involontariamente, l’incidente diplomatico e sindacale che determinò una visita del servizio d’ordine per difendere l’onore offeso dei nostri dirigenti proletari e poi la dimissione della quasi totalità della redazione in risposta ad una richiesta di licenziamento.

Ne ha scritto su Pensieri in libertà il Lorenzo Baldi in da Avanguardia Operaia al Quotidiano dei Lavoratori.

Stanza 7: Economia e sindacato (lotte proletarie)

Grazia Longoni in una foto recente

All’economia e sindacato c’erano Grazia Longoni (detta Lella), che aveva già lavorato al settimanale, Liliana Belletti (1953-2023) e Carlo Parietti (1950-2022), un torinese neoacquisto con la passione per l’economia.

Carlo, dopo una parentesi al PDUP, è passato all’ufficio stampa della CGIL e quindi alla direzione del sindacato europeo dei quadri. Lella è divenuta professionista nel 77 ed ha proseguito per 40 anni la attività giornalistica.

Liliana, sempre sorridente, dopo il QdL, è passata alla scuola e con Grazia ha lavorato alla casa delle donne di Milano mettendosi in luce per battaglie legate al riconoscimento delle coppie lesbo che la riguardavano direttamente.

C’è poi un quarto redattore che ha lungamente lavorato sui temi della economia, in particolare di quella internazionale e che prima di andarsene a metà del 76 era passato agli esteri facendo lunghi reportage dalla rivoluzione portoghese: Alessandro Fugnoli. Alessandro. filosofo di formazione, se ne andò perché non reggeva più gli stipendi bassi e a singhiozzo e in questi anni è diventato uno dei maître à penser sui temi della economia internazionale e della gestione dei fondi.

Se andate al febbraio 75, troverete 4 pezzi suoi piuttosto significativi e, in qualche misura, estranei ad articoli da quotidiano della sinistra rivoluzionaria perché le sue erano analisi documentate in cui c’era poco spazio per la ideologia e per il pistolotto sulla lotta di classe.

4 articoli di Alessandro tra le pagine di economia e quelle di esteri nel febbraio 1975

Nella stanza 7 si lavorava su due livelli: il rapporto quotidiano con la commissione fabbriche ed il movimento dei CUB. Era inevitabile che ci fossero la supervisione di Cippone e i contributi di Franco Calamida e di Vittorio Rieser. Sin dall’inizio ci fu il tentativo di introdurre le problematiche della economia dentro il quadro della lotta di classe. I due ambiti, per ovvie ragioni, comunicavano poco tra di loro ed equivalevano a due servizi distinti con pagine diverse (la 4 e la 5) che ogni tanto si sovrapponevano.

Nella pagina economia e sindacato si affacciavano anche i diversi responsabili delle lotte sociali, da Cippino a Sandro Barzaghi a Claudia Sorlini che, pur non lavorando in redazione, in particolare nel 75 e nel 76 erano costantemente presenti sulle pagine del giornale (occupazione delle case, autoriduzione delle bollette, mercatini rossi, …).

Lella e Liliana, per ovvie ragioni legate al cosiddetto lavoro di massa di AO in giri per l’Italia dedicavano una parte consistente del loro lavoro al rapporto con le redazioni locali in particolare Torino, Napoli, Venezia-Verona.

Stanza 8: servizio interni

Ettore Mazzotti ad un convegno di politica economica sulle prospettive Italia-Cina

Il mio lavoro al quotidiano è incominciato qui insieme ad Ettore Mazzotti (1948), Franco Vernice (1952-2019) e Pierluigi Sullo (1951) e dunque mi scuserete se li ricordo uno per uno.

Ettore, marito di Tille, proveniva dal settimanale, aveva operato alla controinchiesta che portò al pamphlet La Strage di Stato e ora dirige diverse iniziative editoriali nel gruppo di Milano Finanza.

Come tutti quelli che hanno cambiato radicalmente strada, nella sua biografia non c’è traccia del passato ed ho faticato a trovare in rete sue immagini o qualche notizia di carattere biografico. Ha sempre la stessa faccia.

Franco Vernice

Franco Vernice, dopo la esperienza al QdL in cui aveva maturato tutti i piccoli segreti del lavoro sulla giudiziaria (passava tutte le mattine in tribunale e il pool dei cronisti faceva gruppo), dopo la crisi del dicembre 76, è passato alla Repubblica facendo l’inviato e continuando ad occuparsi di giudiziaria.

Per il tribunale di Milano, dalla strage di piazza Fontana in poi, di roba ne è passata tanta. Il gruppo dei cronisti giudiziari era una realtà ben organizzata; ci si divideva il lavoro e poi si condividevano le informazioni.

Frank Cimini

Muoveva i primi passi giornalistici, con interessi per la giudiziaria anche Frank Cimini che però, in quel periodo lavorarava ancora nelle ferrovie. Dopo il QdL ha lungamente lavorato per Il Mattino di Napoli e mi chiedevo come potessero sopportarlo (establishment versus anarchia).

Negli anni è diventato il riferimento nazionale per le problematiche di cronaca giudiziaria con posizioni che oscillano tra il garantismo di matrice radicale e un sottofondo anarchico-libertario che lo mette costantemente contro le istituzioni.

Ci sentiamo a colpi di like sui social network e leggo sempre con interesse i suoi articoli su tematiche garantiste e i post che iniziano sempre e costantemente con la sua parola d’ordine buongiorno stocazzo.

Gigi Sullo era il mio prediletto. Come racconta nella biografia-intervista rilasciata per la preparazione alla storia di AO, ha avuto una infanzia complicata e sofferta, di cui si parlava anche allora (la morte del papà poliziotto quando lui era giovane), Treviglio, la Statale, il rapporto controverso con Edo Ronchi (che avevo anche io) e che determinò il suo invio al quotidiano. Non ricordavo che, nel 75, Silverio lo inviòa Roma ad organizzare la nascente redazione romana.

Gigi Sullo a fine anni 80 al Manifesto

Io e lui ci occupavamo di politica interna con all’inizio una certa gerarchia anche nella collocazione dei pezzi: editoriali al direttore, commenti e articoli di prima pagina io e tutto il resto lui. Gigi era acuto e scriveva molto bene. mi piacevano la intelligenza e la cultura e a cui, nel momento in cui decisi di iscrivermi al PCI, sentii il bisogno di scrivere una lettera per spiegare le mie ragioni (lui era ormai a Roma al Manifesto).

Politicamente le nostre strade si sono divise; si orientò verso tematiche di tipo mondialista e i relativi movimenti che finirono per farlo divenire eterodosso anche rispetto al Manifesto,  in cui aveva svolto incarichi di direzione, mentre io, ormai fuori dal giornalismo e dalla politica attiva mi orientavo alle scienze dure, alla razionalità scientifica e alle problematiche di funzionamento della scuola.

Oltre che di politica in senso stretto, mi occupavo di questione cattolica e questione democristiana in senso ampio. In proposito, dopo aver guardato un po’ di numeri della raccolta 75 e 76 ho trovato conferma di una cosa che temevo: ero analitico nel cogliere differenze e specificità, ma poi, in ossequio alla linea secondo cui il Moloch democristiano, era il nemico principale, nostro e del movimento operaio finivo per applicare la tesi secondo cui sono tutti uguali: Moro è un po’ diverso, ma in fondo in fondo è come Fanfani e tutti e due difendono gli interessi del grande capitale.

Il servizio interni si occupava anche di rivedere e mettere in pagina tutte le questioni legate al movimento di democratizzazione delle forze armate sia sul versante dei soldati di leva sia su quello, moilto importante cui facemmo da cassa di risonanza, dei sottufficiali, in particolare dell’aeronautica.

Gli articoli, per ovvie ragioni di sicurezza, erano firmati in maniera generica (i soldati della caserma …) e da due compagni, il responsabile della commissione problemi dello stato Alberto Madricardo, che si firmava Piero Bonetti e un compagno di Pinerolo Franco Milanesi che seguiva il nord ovest. Alberto, nelle interviste fatte come lavoro preparatorio al libro sulla storia di AO, racconta di un divertente qui pro quo con la redazione che ne smascherò l’alias. Qualcuno pensò che Bonetti era il nome vero e Madricardo l’alias e così ad un certo punto un suo articolo comparve con i suoi dati veri. Gli articoli che riguardano l’esercito sono tra i 15 e i 20 al mese (lotte, processi, lettere, comunicati, servizi, …).

Stanza 9: servizio esteri

Quello degli esteri era un servizio speciale per diversi motivi: i redattori in senso stretto erano solo due, ma dietro di loro stava Massimo Gorla con la sua fitta rete di contatti in tutto il mondo, rete costruita negli anni in cui stava nel segretariato internazionale dell IV internazionale con sede a Parigi.

Astrit Dakli esperto di esteri ha lavorato 30 anni al manifesto facendo il corrispondente da Mosca negli anni speciali dell’URSS; Mario Gamba addetto agli esteri ma grande esperto di musica

Così, mentre Astrit Dakli (1948-2016) e Mario Gamba facevano il lavoro sporco dello star dietro agli avvenimenti della politica estera mondiale (Germania, Medio Oriente, Indocina, Spagna, …) documentandosi e producendo servizi, contemporaneamente alla stanza degli esteri arrrivavano con continuità corrispondenze ed inchieste prodotte sul posto.

Miguel Angel Garcia (1939-2023)  era certamente il più prolifico sulla America Latina e in particolare sulla Argentina, sua terra d’origine che aveva lasciato per l’Italia nel 1973 dopo una notevole esperienza politica con forze di orientamento socialista di sinistra. La sua presenza nelle pagine del quotidiano delle origini è imponente.

Un altro corrispondente, questa volta nel senso proprio del termine, è quello dalla Francia, Dominique Ferrero che cerca di seguire gli avvenimenti del suo paese e ne dà conto agli italiani. Ci sono corrispondenti da altri paesi (Inghilterra, Germania, Grecia, …) ma si tratta di collaborazioni meno sistematiche, solitamente siglate. I reportage dalla Spagna, e in particolare da Barcellona, sono sempre frutto di un mix di professionalità; le notizie arrivavano scritte o via telefono dai compagni di Bandera Roja e venivano poi trasformate in articoli in redazione.

Burchett a colloquio con Ho Chi Minh

A partire dal 75 e poi nel 76 prendono spazio le vicende portoghesi (con una serie di belle corrispondenze di Alessandro Fugnoli e un’altra di Chantal Personè, la moglie di Renzo Rossellini) e quelle indocinesi in cui si mescolano pubblicazioni di comunicati e documenti originali con i servizi speciali di Wilfred Burchett (1911-1983) un giornalista australiano che visse per un certo periodo con i vietcong e anche qualche reportage frutto di viaggi in Cina.

Ad un certo punto Mario si spostò verso le problematiche culturali e musicali (la sua passione) e il suo posto in redazione venne preso da Gigi Gerosa, già fattorino.

Stanza 10: Segreteria Nazionale

la segreteria nazionale si era riservata una stanza distinta dalla sede di via Vetere e, in questa stanza facevamo anche piccole riunioni di vario genere quando c’era bisogno di ragionare con calma. Ci giravano a turno, Rieser, Calamida, Vinci, Oskian-Campi, Sorlini, Vita, Lanzone.

le redazioni locali

Quando a fine 1976 diedi l’esame orale di giornalismo una delle domande che mi  fecero riguardava le fonti e il controllo delle fonti e io risposi che il nostro era un giornale un po’ diverso dalla stampa borghese, le nostre fonti erano i movimenti e i compagni che ci stavano dentro non solo come giornalisti.  Intendevo riferirmi ai corrispondenti e alle redazioni locali.

Le redazioni vere e proprie (cioè in cui operava più di una persona e con continuità) erano: Napoli, Roma, Torino e Venezia. Dagli altri capoluoghi di regione operavano dei corrispondenti che si facevano vivi in maniera random.

Se sfogliate le annate vedrete che alcune redazioni pubblicano sino a 4 o 5 pezzi al giorno oltre ai servizi speciali (pagine a tema).

A Napoli c’erano Guido Piccoli a coordinare il lavoro di AO e alcuni compagni che muovevano i primi passi. Nel 75 ci sono articoli dei due fratelli Ruotolo, Francesco e Guido e ad un certo punto compare R. di Francesco; penso fosse lo pseudonimo anagrammato di Francesco Ruotolo; era una macchina da guerra in termini di produzione, uno o due pezzi tutti i giorni dalla cronaca locale alla politica nazionale e si spostava anche come inviato a Roma e al Sud.

Ma da Napoli scriveva anche con grande continuità Giacomo Fiore. I temi erano il degrado della città, la politica amministrativa verso le giunte rosse, il movimento dei disoccupati organizzati, le politiche per il mezzogiorno.

A Roma c’era una vera e propria redazione con  sede  propria presso la casa di produzione di Renzo Rossellini, la Gaumont. C’erano due Paole (Ottaviani e Sacerdoti), Livia Sansone e altri di cui non ricordo il nome.La redazione romana lavorava su Roma, sulla politica nazionale dando una mano agli interni, sulle lotte sociali e sul sindacale (Livia era l’alter ego di Carlo Parietti a Milano).

Gianni Boscolo in una immagine da giornalista impegnato sul fronte ambientale

A Torino la redazione era coordinata da Gianni Boscolo (1946-2024), recentemente scomparso, che nella vita ha fatto il giornalista impegnato sul fronte naturalistico e ambientale. La redazione era composta da 3 o 4 persone e seguiva oltre a tutte le problematiche del gruppo Fiat le vicende della città dal punto di vista sociale.

La redazione di Venezia lavorava più a singhiozzo e lo stesso vale per quella veronese; nel resto d’Italia, non avevamo persone a tempo pieno ed erano i singoli compagni a farsi vivi con  la redazione per raccontare quel che succedeva di importante.

La giornata

La mattinata, dopo la riunione di redazione, si concludeva impostando i pezzi; in ogni stanza si svolgevano delle mini riunioni, mentre alcuni privilegiati (della cronaca, degli interni e del sindacale) potevano andare in giro per la città a fare i cronisti e li li ho sempre invidiati.

Si staccava dall’una alle due e mezza: panino nella latteria di sotto, oppure pranzo al ristorante con cui ci eravamo convenzionati. Il titolare era abruzzese  e facevano la pasta alla chitarra. Ricordo un dolce, la goccia d’oro, che la proprietaria del ristorante, che era veneta, chiamava coglioncini degli angeli perché sull’esterno di un mezzo cilindro con meringa e creme varie erano depositati tanti piccoli bigné.

Si pranzasse in Latteria o al Ristorante, era d’obbligo la partita a carte: scopone, tressette o briscola a chiamata e poi si tornava su a scrivere sino alle 17:30. Quando sono venuto via dal Quotidiano, ero ingrassato di quasi 10 chili: vita sregolata e sedentarietà.

Non c’era teletrasmissione e quindi i pezzi andavano in tipografia (a ponte Sesto di Rozzano) con i fattorini e alle 17:30, a turno ci andava anche un redattore che rimaneva sino alla partenza della rotativa.

Quando facevo il direttore gli articoli della prima pagina venivano rivisti da me mentre i capiservizio curavano quelli delle pagine interne. Alle 18:30 il giornale era definitivamente chiuso per consentire ai corrieri (compagni alla guida di Fiat Ducato e Ford  Transit) di andare a Roma, Torino, Venezia e Napoli, tutte le notti, con ogni tempo.

Questo della chiusura anticipata è sempre stato un limite nella capacità del Quotidiano di essere un quotidiano vero. Era normale, rispetto alla stampa nazionale, toppare le aperture e tornare sopra a certi avvenimenti con un giorno di ritardo. Sarebbe servita la teletrasmissione e una doppia tipografia, come fece il Manifesto con la apertura di una tipografia a Milano aggiuntiva rispetto a quella di Roma.

qualche momento speciali

gioia di vivere e lotta di classe

A settembre del 1975 Silverio decide di scoperchiare il pentolone del personale che è politico. Titolo del suo articolo Gioia di vivere e lotta di classe, leggetelo Lo fa nel suo stile in parte fortemente innovativo e contemporaneamente con la necessità di metterci una buona dose di leninismo, che non guasta mai. Nel suo libello I senzamao pubblicato nell’autunno del 76 quando ormai aveva rotto con AO e DP, ma stava in Parlamento, aggiungerà anche una serie di elementi di natura autobiografica che lo avevano messo in crisi (il femminismo, il rapporto con la moglie, …).

la pagina 1 e la 6 di quel giorno

Nella immagine si vede che l’apertura del giornale la fa Alessandro Fugnoli sul Portogallo ma, in taglio basso. c’è il suo editoriale che occuperà poi tutta la sesta pagina accompagnato da due citazioni che faranno epoca:

  • grigia è la teoria e verde l’albero della vita” chi l’ha detto. Marcuse? – No Vladimiro Ilic Lenin
  • L’energia rivoluzionaria è inesauribile soltanto se è basata sulla coscienza di classe e se tiene conto della soggettività

Non basta in un box in alto a destra c’è una poesia di Majakowskj: La mania delle riunioni.

Mi viene in mente un passaggio del suo applauditissimo intervento al IV congresso, intervento che aveva lasciato un po’ freddino il resto del gruppo dirigente: Non sarà possibile la vittoria della rivoluzione socialista fino a quando milioni e milioni di donne, al noto intervistatore della Tv che chiede che cos vogliono in cambio del fustino di detersivo, non risponderanno che vogliono un mitra.

Silverio era così, spumeggiante e un po’ vanitoso; amava indorare le sue svolte politiche con una bella spruzzata di teoria. In questo caso era visibilmente a disagio rispetto alla esperienza milanese (un romano che non si integrava) e alla fine se ne tornò a Roma non prima di essersi scontrato in segreteria nazionale con Vinci e Campi (lo racconta con tutti i dettagli in I senza Mao). Al giornale non ne sapevamo nulla, ma all’improvviso tra la fine del del 75 e l’inizio del 76, mi ritrovai a dirigere il giornale.

la morte di Giannino Zibecchi

Giannino Zibecchi morto, a terra con la testa fracassata da un blindato salito sul marciapiede

Il 17 aprile del 75 Ettore Mazzotti e Franco Vernice rientrarono in redazione sconvolti con in mano i documenti di Giannino Zibecchi la cui testa era stata appena schiacciata da un blindato dei carabinieri nel corso degli incidenti successivi al tentativo di assalto alla sede fascista di via Mancini; erano emozionati e spaventati. La manifestazione era stata indetta per protestare contro l’assassinio, per mano fascista di Claudio Varalli.

La sede di via Mancini era stata data alle fiamme e ad un certo punto partì, in corso XXII marzo il carosello delle Jeep dei carabinieri scatenati alla ricerca del morto.

Ettore Mazzotti che era presente ne fa una cronaca dettagliatissima che vi invito a leggere, con Giannino che si arrampica su un palo e quando salta gù viene prima investito e poi gli ripassano sopra. Pochi giorni dopo la sinistra rivoluzionaria celebrò il 25 aprile con una grandiosa manifestazione cui parteciparono, in divisa, centinaia di soldati democratici. Alla manifestazione del 25 aprile mia moglie Bruna correva sventolando una grande bandiera rossa e intanto dentro di lei cresceva Daniela che sarebbe nata a fine dicembre

Nel corso del 75 a Milano ci furono manifestazioni poderose, anche per festeggiare la vittoria dei Vietnamiti e la presa di Saigon; ci furono le occupazioni delle case promosse dall’Unione Inquilini, le autoriduzioni, il movimento dei soldati, le lotte di fabbrica contro le ristritturazioni e per i contratti aziendali, il tentativo di costruire l’unità sindacale dal basso.

Ci presentammo alle elezioni amministrative in diverse regioni con la sigla Democrazia Proletaria, utilizzata per la prima volta e con un curioso simbolo, quello della falce e tenaglia. il risultato fu lusinghiero. Furono le elezioni della grande avanzata comunista che portò alla formazione di giunte di sinstra in gran parte d’Italia.

A maggio ci fu il festival del proletariato giovanile a Parco Lambro con Giovanna Pajetta inviata e partecipante; la situazione si ripetè l’anno succesivo mentre esplodeva il movimento delle donne e noi avevamo la fortuna di avere Ida Farè in redazione che ci spiazzava con le sue considerazioni fuori dagli schemi

Per la redazione i mesi di luglio e di agosto del 75 e del 76 furono momenti di grande crescita nella solidarietà reciproca. Si facevano le ferie scaglionate e chi restava in servizio nel mese di agosto faceva vita comune, anche la sera, andando per trani; ricordo le serate alla bocciofila Martesana lungo il viale Monza; tiravamo tardi perché ci piaceva stare insieme.

Tra il 75 e il 76 ci siamo messi a fare i bambini: io e Bruna, Ettore Mazzotti e Tille Bortolotti, Grazia Longoni e Giorgio Gorli, Vanghelis Oskian e Claudia Sorlini. Ida, sempre all’Avanguardia, aveva iniziato prima, anche con Massimo Gorla.

Verso la fine

Non più puttane, non più gonne, finalmente siamo donne

Nel corso del 1976 ci furono delle rotture all’interno del gruppo dirigente, e ne tratterò le capitolo dedicato alla parabola di AO.

Quelle rotture ebbero un riflesso all’interno della redazione, considerata di destra e fatta oggetto di richieste di licenziamento, messa sotto tutela e persino di due visite da parte del servizio d’ordine.

Ma torniamo a giugno del 76, eravamo tutti molto stressati e cercavamo di capire perché, con tutto quel po’ po’ di movimenti, alla fine le masse votarono PCI.  Le prime pagine di quei quattro giorni, quello delle elezioni e i successivi sono indicative.

Le aperture di sabato, domenica, martedì e mercoledì – da mercoledì ci si rende conto che qualcosa, per noi, non ha funzionato

Sabato e domenica 19 e 20 giugno c’è l’invito a votare DP e al governo delle sinistre; martedì prosegue l’avanzata a sinistra come nel 75, mercoledì si sottolinea che i voti a sinistra sono 3 milioni in più di quelli alla Dc.

Per noi fu una una mazzata, prendemmo qualche deputato, ma il risultato fu un quarto di quanto ci aspettavamo sulla base delle lotte sociali e dei risultati ottenuti. Andarono in parlamento Castellina, Gorla, Mimmo Pinto e Corvisieri (entrato per la rinuncia di Vittorio Foa).  Le masse popolari ci ringraziavano delle case, delle autoriduzioni, delle battaglie di democrazia, ma in cabina votarono PCI. Come vedete dalla immagine sul giornale di mercoledì c’è un inizio di riflessione da parte di Vittorio Rieser: indicazioni per un bilancio critico.

Invece di ragionare si scelse la strada del rafforzamento del volontarismo. Credo che una riflessione, da parte di quelli che sono rimasti a gestire poi una lenta agonia, andrebbe fatta.

Butto lì qualche ipotesi sulla vita stentata del Quotidiano dei Lavoratori. All’inizio fu un eccesso di volontarismo; bisognava prendere quel treno anche se non si era ancora raggiunta una massa critica. Si pensò, da buoni comunisti rivoluzionari, che il fatto di avere a disposizione risorse umane illimitate consentisse di fare qualsiasi cosa. Pensate alla mancanza della teletrasmissione sostituita dai furgoni, alla mancanza delle telescriventi perché tanto il nostro è un giornale diverso, al quasi immediato ritardo nel pagamento dei compagni della redazione, della tipografia e della distribuzione che stringevano i denti e continuavano a lavorare.

la espulsione di Bertasi, Crippa e Spotti

Nel corso del 75 avvenne quella che reputo una grande ingiustizia, da parte del gruppo dirigente alto, la supersegreteria (Oskian, Vinci, Gorla). Furono espulsi con ignominia due compagni che avevano curato il finanziamento e l’amministrazione e che avevano osato mettere in discussione talune scelte: erano Flavio Crippa e Pietro Spotti (1951-2024), due cari amici di vecchissima data, due persone pulite e serie che avevano osato chiedere dei chiarimenti ed osservare che una parte del danaro ricavato da compagni che si erano venduti le case, era stato speso malamente.

Con loro venne radiato Maurizio Bertasi. Grazie all’archivio messo a disposizione da Luigi Vinci presso la fondazione Marco Pezzi sono disponibili i documenti che consentono di risalire ai contenuti della vicenda: lettera alla segreteria di Crippa, Spotti e Bertasi, verbale (steso da Umberto Tartari) di una riunione tra i i tre e la segreteria allargata ai membri del C.C. Manca purtroppo il verbale della riunione di Comitato Centrale che approvò le espulsioni.

I loro rilievi riguardavano la scelta di essere partiti troppo presto, la mancanza di una programmazione, questioni riguardanti la diffusione e gli approvvigionamenti della carta e soprattutto una errata valutazione del valore e delle prospettive della tipografia.

I tre tennero duro nei loro rilievi e furono passati per le armi in senso metaforico; carogne, traditori, controrivoluzionari. Nella miglior tradizione della storia del comunismo siamo tutti rimasti a disagio, ma zitti. Approfitto per scusarmi con loro in maniera pubblica; avevo la massima fiducia in Oskian-Campi e mi fidavo della sua versione e ho avallato, pur non partecipando direttamente, quella decisione.

Chi li accusava, dopo neanche un anno, si è trovato a farsi i processi reciproci come se, certe cose, non fossero già avvenute in quella rivoluzione a cui ci appellavamo tutti con nostalgia vantando il nostro antistalinismo. Gli antistalinisti si comportarono da stalinisti e quel modo di passare sui corpi e sulle anime dei compagni, mi fa ancora male.

Mi piacerebbe che chi ne fu coinvolto direttamente, su entrambi i fronti, esponesse la sua verità. La decisione venne presa in un Comitato Centrale in cui non ero presente, ma dopo la pubblicazione della prima versione di questo capitolo, si è almeno aperta una discussione (ne trovate ampia traccia nei commenti sotto l’articolo).

la scelta di andarmene

Me ne andai dal Quotidiano a novembre del 76 dopo che, nel mese di agosto, avevo osato raccontare sul giornale come era andata la discussione nel Comitato Centrale seguito alla sconfitta elettorale. Fu un articolo in tre puntate (lo trovate qui Perché ho votato contro al Comitato Centrale). Era dedicato:

  • al racconto di quel C.C.
  • ai problemi di strategia per la sinistra rivoluzionaria
  • alla questione relativa alla costruzione del Partito (con chi e per fare cosa), con le annesse e connesse divisioni tra le organizzazioni rivoluzionarie e dentro i gruppi dirigenti

Al rientro dalle ferie venni processato in Ufficio Politico per delitto di lesa maestà e mi venne paracadutato in affiancamento un dirigente di provata fede Vittorio Borelli (di Verona) che non sapeva nemmeno cosa fosse un giornale. Fu una coesistenza impossibile durata all’incirca un mese. Nello stesso periodo esplose anche il caso Corvisieri (dimissionario da Avanguardia Operaia con lettera su Lotta Continua) e per il quale venne richiesta la radiazione.

Quando me ne andai, ero logorato sul piano fisico ed esistenziale, deciso a cambiare vita. Tornai in redazione una sola volta, il 16 dicembre del 76. Mi ero alzato alle 4:30 per rispettare gli orari di mia figlia di 11 mesi che si addormentava presto e si svegliava prestissimo.

Ero in cucina e ascoltai alla radio la notizia della sparatoria avvenuta nella notte che portò alla morte di Walter Alasia e di due funzionari di polizia; uno era il padre di un nostro compagno, l’altro un esponente dei movimenti di democratizzazione del corpo. Walter lo avevo conosciuto bene all’ITIS di Sesto (dove insegnavo) quando stava passando da Gioventù Aclista a Lotta Continua (nel 1973).

Era la prova provata che le BR non erano un gruppo di provocatori ma una parte del nostro album di famiglia (come aveva scritto la Rossanda). Ritornai in via Bonghi e scrissi  un editoriale per ragionare su questi aspetti. E’ l’unico numero del QdL che ho conservato, ma ora è tutto disponibile e lo potete leggere qui.

crisi nella redazione

Di lì a poco la crisi precipitò. Non venivano pagati gli stipendi e ci furono richieste di licenziamento politico. Prima, come racconta Gigi Sullo nelle interviste fatte in preparazione della storia di AO, ci fu la irruzione in redazione del servizio d’ordine con gli impermeabili lunghi e le chiavi Hazet. Ormai la crisi si avvitava su sestessa ed era sfuggita di mano.

Nel corso di una delle riunioni che tenemmo per decidere il da farsi, mi fu chiesto di mettere in piedi una rivista di orientamento politico culturale. Ci riunivamo a casa di Ida e c’era l’80% della redazione centrale e dei collaboratori che gravitavano su Milano. Non me la sentii di mettermi alla testa perché quel mondo in cui avevo creduto. Lo trovavo ormai tremendamente distante da me e la vicenda di Walter aveva contribuito a farmi decidere..

Alla fine, quando fu confermata la richiesta di licenziamento di Lorenzo Baldi, si dimise quasi l’intera redazione. Tutta la vicenda la trovate raccontata nei nuneri di fine dicembre 1976 del QdL con tantoi di comunicati e coinferenze stampa.

Nel corso del 77 quando ripresi a studiare la fisica, la matematica, la storia e la filosfia della scienza, ripensai  molte volte alla nostra esperienza dal 68 in poi. Mi resi conto che non aveva avuto senso scrivere di tutto, dalla politica interna, alla questione palestinese, alle trame nere, pretendendo di avere la verità in tasca.

Fu per questo che la pausa di riflessione che mi ero preso e che, nella idea iniziale, prevedeva di tornare al Manifesto per mettere in piedi una grande redazione milanese, non si realizzò mai. Meglio lavorare con i giovani in formazione, farli appassionare al senso critico e studiare.

Sentivo il bisogno di cambiare vita e di cambiare mestiere mentre si faceva strada l’idea che il problema non fosse lo scontro tra destra e la sinistra dentro AO, ma che la prospettiva rivoluzionaria che avevamo sognato era, appunto, un sogno e che ci servisse il pessimismo della ragione perché di ottimismo della volontà ne avevamo messo fin troppo.


La pagina con l’indice della mia autobiografia da cui potete scegliere i capitoli da leggere


 




1972-1974: AO Monza e Brianza e vacanze

III edizione – giugno 2024

1973 con Paolo Di Paola ad una manifestazione a Milano in piazza Duomo insieme alla sezione di Monza

Quando sono partito per il militare a ottobre del 1970, Avanguardia Operaia era un gruppuscolo milanese che stava mettendo in piedi i CUB in alcune grandi fabbriche (Borletti, Pirelli, ATM, SIP, Candy, Philips, Sit Siemens, Carlo Erba).

Grazie all’azione egemonica di Vanghelis Oskian, si era annesso gran parte del gruppo dirigente del movimento studentesco di Scienze (Fisica, Matematica, Biologia, Geologia e Chimica) e stava facendo la stessa cosa all’ITIS Molinari.

Alla facoltà di Scienze si era appena effettuata la divisione della cellula in due e c’erano state tre occupazioni (68, 69 e 70). Sono partito per il CAR a Palermo in maniera abbastanza improvvisa perché, per evitare inutili attese connesse alla burocrazia dei rinvii, avevo richiesto di essere sottoposto a nuova visita (essendo stato dichiarato C3, cioè abile ma non del tutto). Mi hanno dichiarato idoneo e così, nel giro di neanche due mesi ho fatto i bagagli.

Durante il servizio militare ho avuto rapporti solo sporadici con AO anche se, a Palermo, c’erano quelli del centro Karl Marx di Mario Mineo (che poi avrebbero aderito al Manifesto) e a Treviso avevo avuto qualche contatto con i nostri compagni di Venezia.

Quando sono tornato, ho trovato una realtà in grande espansione. Il movimento dei CUB era cresciuto in qualità ed estensione, AO era presente in maniera importante in tutte le facoltà universitarie, si era sviluppato un importante movimento tra gli insegnanti e la presenza tra gli studenti medi milanesi, partita dal Molinari e dal VII ITIS, era diventata enorme, mentre nostri compagni avevano dato vita al comitato d’agitazione dei Lavoratori Studenti.

Preso atto che l’Università era terminata, che avevo rinunciato a rimanerci a fare ricerca per via della politica al primo posto che mi avrebbe inevitabilmente portato a trascurare la Fisica, che non mi andava il lavoro nel privato, feci la scelta di insegnare.

Poiché la nomina l’avevo avuta per l’ITIS di Sesto, a livello milanese si decise che sarei andato a farmi le ossa alla neonata sezione di Monza.

lavoro di massa nelle fabbriche

Una premessa: sono passati un po’ di anni e se dimenticherò di richiamare il ruolo di qualcuno, me ne scuso in anticipo. La sede, in via XX settembre, era ricavata, da un negozio con una sola luce e un retrobottega (due locali: il negozio per le riunioni e il retro a fare da magazzino per bandiere e manifesti, sala ciclostile). Dopo di noi ci è entrato un parrucchiere da uomo. Sull’angolo con via Magenta, c’era una osteriaccia gestita da dei cremonesi che facevano trattoria a pranzo e degli ottimi panini al salame. Il riscaldamento era con stufe a Kerosene e il combustibile arrivava dalla generosità di mamma Biassoni legna e carbone (con due figli nel MLS e una figlia in AO).

Quando arrivai la sezione era una specie di colonia per rivoluzionari di professione inviati da Milano (Michelino Crosti, Bobo uomo di organizzazione, Antonio Molinari che seguiva la Philips, Giorgio Calsamiglia che seguiva gli studenti).

la Philips e le altre fabbriche

Un caso un po’ particolare era quello della Philips che aveva la sede direzionale a Milano, dove c’erano Antonio Molinari, Renato Di Palermo e Stefano Fiorani, un centro ricerca a Monza all’imbocco della Valassina dove lavorava Franco Calamida e poi la grande fabbrica (vecchia e nuova) a Monza in fondo a via Borgazzi con migliaia di lavoratrici.

Così i milanesi della Philips facevano anche i pendolari su Monza dove i nostri due riferimenti operai erano Piero e Willy; Willy era biondo e con i capelli lunghi ed era il leader delle assemblee.

All’inizio l’intervento politico era unitario con quelli di Lotta Continua e ricordo di aver visto nella nostra sede della riunioni in cui era presente Mauro Rostagno. Paradossalmente, in una fabbrica piena di donne, i militanti rivoluzionari erano tutti uomini. Ma non era così per il PCI; oltre ad alcuni capi storici maschi, la persona di riferimento nelle assemblee era Adriana Colzani.

Naturalmente, oltre ai milanesi, c’erano i local, di solito leader nelle loro realtà: alla Candy, Franco Cogliati e Marino Capurso, alla Philips si è già detto di Piero e Willy, alla Singer Roberto Contardi, un gruppo alla Manuli con Giovanni Taddeo, un gruppo nelle aziende chimiche del cesanese, un altro gruppo alla Telettra di Vimercate, un gruppo alla Autobianchi di Desio. Non ricordo se il lavoro tra gli alimentaristi con Arturo Ferron sia iniziato allora.

Le fabbriche, in AO, erano una priorità, ma c’erano anche realtà importanti e interessanti tra gli studenti (al diurno e al serale).

i lavoratori studenti

Il movimento dei lavoratori studenti era in grande fermento e i due istituti tecnici serali erano in grande sviluppo; da 5 a 10 sezioni per anno di corso. Gli studenti lavoratori non erano, come è avvenuto in seguito, i drop out del diurno; erano lavoratori veri alla ricerca di un titolo che ne migliorasse l’inquadramento professionale.

Valeria (2019) e Armando (2023) ci hanno lasciato dopo una vita comune iniziata negli anni 70. Armando dopo AO, è stato in DP, nel PCI, in Rifondazione e infine nel PD sempre occupando ruoli di rilievo e applicando il suo chiodo fisso “uniti si vince” al punto di farne il suo pseudonimo.

All’Hensemberger c’era Armando Pioltelli (scomparso nel febbraio 2023) che di giorno faceva il CUB Pirelli e la sera il leader studentesco. Per l’Hensemberger bastavano lui e l’Angelo Maggioni (che mi insegnò ad andare in montagna partendo dal Resegone) a smuovere tutta la baracca.

Al Mosè Bianchi c’erano due professoresse, Silvana Biassoni che insegnava lettere e Joan Muggia, la compagna di Massimo Gorla, che insegnava inglese. E poi Carletto Varisco che lavorava nella più grossa azienda tessile di Monza, la Fossati e Lamperti, Joe Garancini di Arcore, ma dipendente dell’Autobianchi di Desio, Taddeo della Manuli, Massimo Beggio, Rossana che in seguito si sarebbe data molto da fare con il movimento delle donne.

Le rivendicazioni dei lavoratori studenti erano di tipo sindacale in senso stretto, connesse alla difficoltà a reggere il doppio impegno lavorativo e di studio e per noi di AO erano anche l’occasione per entrare in contatto con masse di lavoratori. Qualcosa di analogo stava avvenendo anche a Milano ed era già avvenuto a Fisica con la istituzione dei corsi serali.

le scuole medie superiori diurne

La situazione tra gli studenti del diurno per noi era più difficile, perché quello che, poco rispettosamente, chiamavamo gruppo Capanna, e che d’ora in poi chiamerò MLS (anche se nel tempo ci sono stati cambiamenti di nome), si era mosso con un anno di anticipo e aveva una struttura organizzata quasi in ogni scuola con al vertice Ezio Rovida, un monzese che conoscevo dai tempi del cineforum di GS quando lui frequentava lo Zucchi.

Ezio aveva incarichi di responsabilità nel movimento milanese e, contemporaneamente seguiva il movimento della sua città. Con il MLS i rapporti, per via di vicende milanesi, viaggiavano tra il concorrenziale e l’antagonistico e ci fu anche un quasi scontro nel 1973 come strascico di incidenti avvenuti in piazza Fontana a Milano tra i rispettivi servizi d’ordine.

Mosé Bianchi ed Hensemberger

Eravamo nettamente egemoni al Mosè Bianchi dove Paolo Di Paola governava assemblee e movimento. Intorno a lui c’era una nutrita schiera di compagni e compagne Pippo, Marco, Dario, Davide … Anna, Marcella.

Paolo era il leader delle masse e Marco quello della organizzazione.

All’Hensemberger la situazione stava evolvendo a nostro favore perché il CUB aveva un seguito notevole grazie all’azione di Giuseppe Dozio (informatica) e Danilo Porcellini (elettrotecnica). All’Hens le riunioni si facevano a scuola e il CUB aveva una sua sede aperta anche agli esterni.

le altre scuole

Poi c’erano singole realtà, ma di peso inferiore, sia allo Zucchi, con Nanda, Maddalena, Michela, Paolo e Luca, sia al magistrale con Valeria (che poi avrebbe sposato Armando Pioltelli).

Carlo Vittone (scomparso giovane nel 2013)

La nostra presenza al Frisi, dove l’MLS era più che dominante, si sbloccò quando Carlo Vittone, Roberta e Gianni Conte uscirono da quella organizzazione per aderire ad AO. Carlo, oltre che una testa di primissimo livello (dopo il Liceo vinse il concorso e divenne normalista a Pisa) era anche un leader naturale e dunque, nel giro di pochi mesi, acquistammo un certo peso anche all’interno del Frisi.

E’ stato una figura importante della politica monzese, assessore al Parco, eletto tra i verdi, editore di storia locale, si è spento prematuramente qualche anno fa.

A 17 anni era uscito di casa e viveva in una catapecchia con Roberta (fecero una figlia in quinta liceo), studiava quello che gli piaceva e ricordo di avergli fatto leggere Potere politico e classi sociali, un testo teorico sui rapporti tra sfera politica, sfera ideologica e sfera economica, di un allievo di Althusser, Nicos Poulantzas, quando aveva 18 anni.

dalla sezione alla federazione Brianza

Intanto, vuoi per i lavoratori studente, vuoi per simpatia, vuoi per il pendolarismo scolastico, la presenza di AO sul territorio della Brianza si allargava con la apertura di nuove sedi, in proprio o compartecipate con collettivi e movimenti di paese.

  • ad ovest: Desio, Seregno, Cesano, Muggiò con una presenza sia territoriale, sia nelle fabbriche, sia nelle scuole
  • a nordest: Merate, Cernusco Lombardone, Vimercate con la Telettra, Agrate con la SGS, Bellusco, Busnago, Villasanta con la Delchi, Concorezzo, Arcore, Brugherio. Il gruppo di Cernusco era particolarmente attivo e, tra le altre cose, mise in piedi Radio Montevecchia.

A 25 anni nel settembre del 71, il giorno del matrimonio

Si formavano nuove cellule, punti di intervento nelle scuole come a Desio, Seregno e Cesano, comitati di paese. Questi erano una mia fissazione; la necessità di un radicamento territoriale dove si vive e non  solo dove si studia o lavora.

Il prestigio e l’appeal di Avanguardia Operaia crescevano, anche come effetto della uscita del settimanale, per il quale la organizzazione si era data una politica che giudico intelligente.

Ogni militante versava settimanalmente la sua quota di finanziamento che restava in parte in loco (per la sede, la carta, la vernice, …) e in parte andava al centro. In compenso il settimanale (che costava 100 lire) ci veniva fornito gratuitamente e, il ricavato della vendita militante, restava alla sezione. Ci impegnammo a fondo; vendevamo tra le 800 e le 1000 copie del settimanale e ben presto, con il ricavato, fummo in grado di assumere Paolo di Paola come funzionario.

la nuova sede

Era un bel passo in avanti; voleva dire sgravare i compagni da una serie di incombenze organizzative e lasciarli concentrati sul lavoro politico. Il passo successivo avvenne tra la fine del 73 e l’inizio del 74 e fu il trasferimento nella nuova sede di via Volturno all’angolo con via Magenta (la via degli Artigianelli).

La sede e il suo arredamento furono recuperati da Pietro Spotti, un ragioniere di Cesano che lavorava a Monza presso una concessionaria di moto di proprietà dei Fossati della Star. Piötr era l’organizzazione fatta persona; pragmatico e abile, non solo mise in piedi la sezione del nord ovest, ma mi diede una mano notevolissima nel tenere in ordine i conti della neonata federazione di Monza e della Brianza, oltre che ad ampliarne l’ambito di intervento.

La nuova sede era al primo piano di un edificio che ospitava ancora, al piano terra, una fabbrica di confezioni, mentre al primo piano, dove c’era stato un cappellificio, entrammo noi: terrazzino, servizi igienici, due locali a destra, due a sinistra, un soppalco sopra i locali che andava benissimo come deposito, e poi un grande salone da 400 posti che Pietro arredò recuperando gratis le poltroncine in velluto rosso del teatro Villoresi, che dovevano essere sostituite.

Il funzionamento della sede richiedeva la presenza praticamente costante di qualche compagno/a e una grossa mano venne da Elena Ferrari (la moglie di Renato Di Palermo), biologa e insegnante, che si occupava un po’ di tutto e coordinava le persone.

Inaugurammo la sede con un concerto di Ivan della Mea e il salone era pieno zeppo. Eravamo dei veri brianzoli: braccino corto e passi commisurati alle possibilità. Dunque gli acquisti, dalla carta ai ciclostili nuovi, al fotoincisore, si facevano se c’erano i soldi; se non c’erano i soldi, prima si facevano le sottoscrizioni, e solo dopo si procedeva all’acquisto.

Contabilità in ordine e bollette pagate con regolarità; d’altra parte questo aspetto in Brianza è un must; o rispetti le regole o sei fuori. La sede non c’è più, se andate su Google View street vedrete che anche lì, come per via Vetere a Milano, ci sono palazzine condominiali.

Prima che abbandonassi Monza per andare al quotidiano facemmo anche un congresso di Federazione della Brianza incentrato sulle specificità del nostro territorio e sulla costruzione del partito su scala nazionale.

Ma non c’erano solo riunioni e volantini. La sera, al Mosè Bianchi il bar era una occasione di socializzazione e nel periodo 72/74 orgnizzammo anche un ultimo dell’anno in Alta Val Brembana in una cascina abbandonata in cui il problema principale fu quello di resistere al freddo di montagna in un ambiente che veniva riscaldato con camini e stufe a legna per la prima volta dopo anni. Eravamo un centinaio e, in un’altra occasione, ma in minor numero andammo all’Aprica in una struttura tipo colonia, per le vacanze sulla neve.

nel gruppo dirigente di AO

l’insegnamento all’ITIS di Sesto

Il lavoro, quello di docente, non mi impegnava più di tanto. All’ITIS di Sesto eri un ottimo insegnante se riuscivi a tenere in classe gli studenti perché Lotta Continua, che organizzava il Movimento, manteneva la scuola in uno stato di perenne agitazione con la collusione di un Preside che poi, grazie ad una vertenza incardinata dalla sezione sindacale CGIL, riuscimmo a cacciare perché concedeva tutto pur di farsi gli affari suoi.

All’ITIS la sezione sindacale della CGIL Scuola raggruppava la grande maggioranza dei docenti e in quegli anni partecipai anche al congresso sestese; rappresentavo la mozione della sinistra e mi trovai davanti come alter ego per la maggioranza, Giovanni Bianchi che allora era segretario provinciale delle ACLI, una persona in gamba.

Nel 1973 si tennero i corsi abilitanti speciali e l’ITIS di Sesto fu sede di quelli per Fisica (con sottoclasse matematica). In sede d’esame ebbi qualche frizione con il commissario di Fisica (un docente della statale che avevo già conosciuto da studente, e che mi conosceva), su problematiche riguardanti l’entropia, nessun problema per matematica. Così, a partire dal 74/75, entrai nella sfera dei garantiti (gli abilitati). La cosa mi sarebbe stata utile nel 76/77 quando, dopo il lavoro al QdL, decisi di rientrare a scuola.

Il movimento degli studenti aveva ottenuta la promozione garantita e l’obiettivo più avanzato contro la selezione meritocratica era quello del voto minimo uguale per tutti. Potete capire, viste le mie opinioni a favore del merito, cosa ne pensassi. Gli studenti li tenevo in classe, riuscivo anche ad insegnare loro un po’ di fisica e dunque ero considerato un buon insegnante.

Un ricordo che ho di quel periodo riguarda l’assassinio di Calabresi. C’era grande disorientamento quando arrivò la notizia; pensammo ad una provocazione di Stato e io mi beccai del cagasotto da uno dei responsabili di Sesto di LC. Così, quando a distanza di anni saltò fuori la autoaccusa di Leonardo Marino che chiamava in causa Bompressi, Pietrostefani e Sofri non mi meravigliai più di tanto. D’altra parte Lotta Continua di Sesto, o almeno una sua componente, alimentò anche organizzazioni terroristiche successive.

gli impegni centrali in AO

Intanto ero sempre più assorbito dagli impegni negli organismi dirigenti nazionali. Seguivo tre commissioni nazionali e, per due di esse (questione cattolica e lavoro politico nelle forze armate), ero responsabile; l’altra era la commissione scuola.

Fui cooptato nel comitato centrale già alla fine del 72 e, nello stesso anno fui incaricato di redigere, per la rivista teorica della organizzazione (Avanguardia Operaia divenuta poi Politica Comunista), due saggi: uno sul lavoro politico nelle forze armate e l’altro su questione cattolica e questione democristana. Li potete trovare qui.

il saggio sul lavoro politico nelle forze armate

Il primo saggio era un misto di dati esperienziali e di approfondimenti teorici ripresi direttamente dagli articoli di Lenin che si trovano nelle opere complete. Avevo comperato i 45 volumi delle edizioni MIR Moscow, in francese, perchè erano rilegate e costavano solo 800 lire al volume contro il più del doppio di quelle degli Editori Riuniti. Negli articoli di Lenin, ovviamente assenti nelle varie edizioni delle Opere Scelte a cura degli Editori Riuniti, si trattava di questioni connesse al lavoro illegale, alla sua liceità e al modo di praticarlo.

Nel mio saggio, dopo i dati esperienziali e i riferimenti teorici, seguivano proposte di organizzazione e alla fine, in perfetto stile settario, invece di lavorare con Proletari in Divisa (i PiD messi in piedi da Lotta Continua) ci inventammo i CPA (comitati proletari antimilitaristi).

Ho riletto quel saggio nel 2020 e l’unica parte che salvo è quella non ideologica che descrive il funzionamento della macchina militare come strumento di condizionamento ideologico e di controllo delle masse giovanili. Nello stile di AO c’era anche tutta una parte di tipo documentario sul codice penale, sul regolamento di disciplina militare, sulle dichiarazioni reazionarie degli alti vertici militarii, sui rapporti tra esercito e ceto politico.

A partire dal 72/73 il sistema profondamente autoritario delle caserme, teso alla distruzione della personalità per garantirsi l’obbedienza cieca, entrò profondamente in crisi, perché nelle caserme entravano i giovani del dopo 68 che non tolleravano le regole insensate, l’autoritarismo forsennato e il nonnismo.

Ci furono lotte aspre, punizioni, repressione, ma anche vittorie. Inoltre, per effetto di quel lavoro, e della abitudine tipicamente leninista alla organizzazione e alla sicurezza, venimmo in possesso di materiale recuperato direttamente dai compagni che lavoravano nelle furerie o ai comandi di reggimento.

A chi si chiede se nel 73/74 ci siano stati o no tentativi para-golpisti, dico che la risposta è sì, ci furono. E’ un peccato che l’archivio riservato di AO sia scomparso ai tempi delle indagini  sull’omicidio Ramelli. Quello che venne rinvenuto dalla magistratura, a giudicare da quello che sono riuscito a capire leggendo le informazioni in rete, è probabilmente una parte di quel che c’era e potrebbe essere materiale interessante per gli storici.

il saggio sulla questione cattolica

La preparazione del lavoro sulla questione cattolica è stata per me l’occasione per imparare a scrivere sul serio: tecnica, capacità di documentazione, capacità di collegamento, capacità di sintesi, capacità di guardare avanti.

La proposta di occuparmi di questione cattolica venne direttamente da Aurelio Campi (che allora non si chiamava ancora così) con cui avevo lungamente fraternizzato negli ultimi due anni di Fisica.

Pranzavamo insieme, mi consigliava le letture, e poi, con Claudia, si facevano almeno un’ora di chiacchiere a ruota libera. Lì venivano fuori i miei trascorsi, la mia sensibilità, il non essere credente ma l’esserlo stato (e in maniera intensa), la conoscenza dell’humus della Brianza bianca.

Ne uscì un saggio di oltre 100 cartelle, pubblicato in due puntate, in cui si trattava di DC, di questione cattolica, di movimenti post conciliari, delle comunità di base e di cristiani per il socialismo.

Avanguardia Operaia stava diventando una organizzazione nazionale e da quelle due realtà cominciavano ad arrivare intellettuali che sceglievano AO. E’ così che è nata la commissione sui rapporti con il mondo cattolico; ricordo Rocco Cerrato di Bologna e Domenico Iervolino di Napoli. Quel lavoro è poi proseguito ai tempi di DP ma io ormai avevo scelto altri ambiti di impegno.

Nel 1974 ci fu anche il vittorioso referendum sul divorzio contro la accoppiata Fanfani-Almirante, cui AO partecipò in maniera combattiva con iniziative pubbliche, campagne di stampa ed alcuni manifesti curati dal vignettista Alfredo Chiappòri, nostro militante a Lecco . Il mio impegno con Cristiani per il Socialismo e con i Cattolici democratici di Pedrazzi e Gorrieri si accrebbe.

Mi ricordo, dopo la vittoria al referendum sul divorzio, la riunione nazionale dei cattolici che si erano impegnati per il no, un convegno di due giorni a Roma con il disorientamento di quelli che avevano esitato, come Piero Bassetti o altri esponenti della sinistra DC. C’erano Pierre Carniti e Bruno Trentin raggianti, e tanto esponenti di Cristiani per il Socialismo e delle Comunità di base.

segretario regionale

Intanto a Monza e Brianza eravamo arrivati a oltre 400 militanti e avevamo costituito la federazione sganciandoci da Milano perché, come insegna la storia, tra Monza e Milano non è mai corso buon sangue sin dai tempi della regina Teodolinda (diversità di mentalità e di senso della vita).

Sottolineo, a chi non ha vissuto quei momenti, che dire 400 militanti (tanti eravamo in Brianza) era molto di più che dire 400 iscritti. I militanti erano, a tutti gli effetti, dei rivoluzionari di professione che mettevano la politica e l’organizzazione al primo posto nelle loro scelte di vita.

AO si diede una doppia struttura regionale: la federazione di Milano con i suoi organismi e la Lombardia che raggruppava le sezioni e le federazioni delle altre province che, in ordine di peso numerico erano: Brianza, Saronno-Varese, Bergamo, Lecco-Sondrio, Brescia, Piacenza, Como, Cremona, Pavia.

Mantova, dove avevamo poca presenza fu raggruppata a Verona. Per ragioni rappresentative e dimensionali fui nominato segretario regionale. Monza, in quel momento era la federazione più grossa che avevamo a livello nazionale dopo Milano; così entrai a far parte, con gli altri segretari regionali, e con il gruppo dirigente milanese storico, dell’Ufficio Politico di Avanguardia Operaia.

Il direttivo regionale si riuniva una volta la settimana in via Vetere a Milano e, dopo che a novembre del 74 fui risucchiato dal Quotidiano dei Lavoratori, il mio posto fu preso, a Monza da Pietro Spotti, e nel regionale da Edo Ronchi di Bergamo (il futuro ministro dell’ambiente). Edo, più che uomo di governo, era uomo di lotta, ed è paradossale che proprio lui sia finito a fare il ministro.

Luigi Pinto sorridente e, nella immagine superiore, ferito a morte

la strage di Brescia

Era maggio e ci fu la strage di Brescia in cui rimasero uccisi, tra gli altri, due nostri militanti Giulietta Banzi e Luigi Pinto. Dal giorno successivo alla strage, sino al giorno dei funerali, feci la spola tra Monza e Brescia con la Aermacchi 350 che, nel frattempo, mi ero comperato dopo aver venduto una Fiat 500 che avevo appena acquistato. La sede era poco più di un buco lungo un viale della circonvallazione interna.

I funerali furono una cosa grandiosa. Organizzammo un treno speciale da porta Garibaldi; eravamo migliaia e, quando entrammo in piazza con il nostro striscione fu un boato di applausi e di slogan di incitamento.

Sulla figura di Pinto ho trovato questa bella e commovente ricostruzione che ne fece il Corriere nella edizione di Brescia: Luigi, l’insegnante giunto dalla Puglia che sognava di cambiare il mondo. Serve a capire chi eravamo e come eravamo: «Io non mi lamento. Il lavoro è una cosa seria, va fatta bene, con serietà». Diceva così, Luigi, al fratello Lorenzo.

La compagna più conosciuta era Giulietta Banzi : Giulietta, la rossa, la pasionaria che stava dalla parte dei ragazzi. Come scrissero i suoi studenti: “Strage di piazza Loggia: Giulietta Banzi, la prof che voleva cambiare il mondo
Sappiamo bene quali fossero l’intelligenza e la generosità della compagna Banzi, che abbiamo avuto a fianco in tutte le nostre lotte. […] Ha dedicato la sua vita al servizio degli umiliati e degli offesi, sacrificando senza risparmio le sue forze e il suo tempo in un impegno politico vissuto a parte intera. Viveva per la causa di chi è vittima”.

Riflettevo su questo aspetto della volontà di cambiare il mondo: fretta, passione e serietà. Eravamo fatti così. Se volete saperne di più, in occasione cinquantenario della strage ho cercato di fare il punto.

il IV congresso di AO

Sempre nel 1974 ci fu un altro evento epocale nella storia di AO, un evento del quale sono stato tra i protagonisti. Parlo del IV congresso che fu il primo a tenersi a Roma con delegati delle diverse federazioni che ormai coprivano tutta l’Italia.

Fu il primo con delle tesi congressuali vere e fu il primo in cui AO (che da allora si chiamò Organizzazione Comunista Avanguardia Operaia O.C.A.O.), cercò di dare un vero respiro nazionale alla propria azione politica uscendo dallo schema semplificato della lotta di classe, la fabbrica, la ristrutturazione, l’autoritarismo e così via.

Confrontandomi e ragionando con Aurelio ho scritto in buona misura la parte più politica di quelle tesi e mi sono sentito impegnato davvero nel processo di costruzione di una cosa nuova per la sinistra italiana. Aurelio Campi fu eletto segretario nazionale e i nuovi organismi dirigenti furono eletti in quel congresso.

Al fianco di Aurelio c’erano Luigi Vinci che seguiva la organizzazione sul piano nazionale, oltre che svolgere il ruolo di custode della ortodossia e Massimo Gorla che curava i rapporti internazionali. Nel 1975 ci demmo una struttura di segreteria Nazionale in cui entrarono, accanto ai tre citati che continuarono a formare una specie di super-segreteria, Claudia Sorlini (che seguiva il sociale), Franco Calamida (fabbriche), Francesco Forcolini (organizzazione), Giovanni Lanzone (scuola), Vincenzo Vita (cultura e circoli La Comune) e io (QdL). Ma della segreteria e del suo funzionamento si tratterà in un altro capitolo.

le vacanze, non solo politica

Gli anni a Monza furono anche gli anni delle vacanze in campeggio che vi racconto partendo dalla fine.

1974 Jugoslavia

Nel 1974 feci una splendida vacanza in Jugoslavia prima nella zona della penisola di Makarska, e poi verso Dubrovnik.

Da Trieste in poi siamo scesi lungo la costa senza una meta precisa. Abbiamo passato Fiume, Zara e Sebenico con ancora ben visibili gli elementi della civiltà dalmato-veneziana. Lo stesso si poteva dire per Dubrovnik (l’antica Ragusa). Le città della Dalmazia le abbiamo visitate sul ritorno.

Eravamo in due coppie, io e Bruna, Mariarosa Mariani e Gabriele Grimoldi (che lavorava alla Delchi). Ci vedevamo spesso la domenica perché loro si erano fatti una bella casa con terreno nelle campagne di Missagliola e così progettammo la vacanza estiva con una bella tenda con due camere, cucina e veranda neo acquisto da Bertoni. Le loro strade nel tempo si sono divise.

La Jugoslavia allora era abbastanza sgombra dal turismo di massa e alla portata di due categorie di clienti, la sinistra militante e i padroni degli yacht di lusso, ma tra le due categorie non c’era un grande scambio comunicativo.

Il paese di Tito ci apparve come un paese molto povero e con una economia di sussistenza. Compravamo il pesce e la carne in un villaggio lungo la costa abbastanza lontano dal campeggio per via delle strade non proprio dirette. La carne veniva tagliata al momento dai quarti appesi ai ganci, il pesce si prendeva direttamente dai pescatori e ci si intendeva a gesti. Per quasi tutta la vacanza la verdura fu costituita da peperoni gialli delle dimensioni di una piccola mela che costavano l’equivalente di 40 lire al chilo.

La frutta (fichi, pesche e albicocche) si coglieva direttamente dagli alberi del campeggio (ricavato in un frutteto). Unico problema era quello del rinfrescamento dell’acqua; vedemmo per la prima volta uno di quei grandi frigoriferi da esterno a loculi. Di giorno tra sole battente e aperture degli sportelli i loculi erano praticamente a temperatura ambiente e bisognava ricordarsi di riempire il proprio loculo la sera per ottenere un minimo di raffreddamento.

Le strade erano molto disagevoli e pericolose, compresa la litoranea. Ogni tanto a bordo strada si vedeva qualche motociclista a cui era andata male. Gli Jugoslavi avevano quasi tutti macchine Fiat ma, rispetto a noi, non c’erano i gommisti e neanche le pompe dell’aria compressa ai distributori. Le gomme se le riparavano da soli e poi le gonfiavano con le pompe a stantuffo di quelle che da noi si usavano per le bici.

A Dubrovnik ci siamo commossi vedendo un impianto di condizionamento della Delchi di Villasanta. Prima di tornare in Italia abbiamo comunque fatto l’esperienza dei Ćevapčići (salsicce molto pepate) e dei Ražnjići (polpettine di carne) oltre che del caffè turco preparato al momento per ebollizione nei caratteristici pentolini monodose di ottone stagnato.

1973 Sicilia

La vacanza del 73 fu nella seconda metà di agosto perché nella prima parte del mese io rimasi a presidiare la federazione di  Milano. Tutti erano in ferie ma come ogni anno si tenne la manifestazione per i morti di piazzale Loreto.

Era l’anno del colera e andammo in Sicilia, a Forza d’Agrò nella casa prestata da una infermiera originaria di lì e amica di Bruna. Forza d’Agrò si trova a metà collina tra Messina e Taormina. Il viaggio, memori della esperienza dell’anno precedente di cui si tratterà tra breve, fu fatto in due tappe con sosta a Frosinone in una piazzuola dell’autostrada per dormire un po’.

il castello normanno di Forza d’Agrò

A Forza d’Agrò visitammo l’antico castello normanno adibito a cimitero con le tombe sostanzialmente a secco per la difficoltà nello scavare. Ogni tanto si vedevano tibie e teschi tra le pietre delle tombe. A parte le condizioni precarie che sono aumentate, si trova ancora in quello stato

In Sicilia i bar disinfettavano tutto passando i bicchieri con grandi fette di limone; sui tetti delle case di Forza d’Agrò c’erano fichi e pomodori messi ad essiccare. Per via del colera non si trovava pesce fresco e ci nutrimmo di pesce surgelato.

Al mare andavamo appena sotto il paese ma visitammo Taormina, le gole dell’Alcantara, l’Etna e le valle laterali con i segni delle colate laviche, i monti Peloritani che mi colpirono per la grande differenza di vegetazione sui due versanti. Per non farmi mancare nulla mi si infettò un molare cariato e così ebbi modo di sperimentare i dentisti isolani andando per qualche giorno a Letojanni.

1972 Calabria

Nell’estate del 72 vacanza, sempre in campeggio, ma questa volta a Isola Capo Rizzuto, per la precisione a Le Castella (il rudere che si vede in Brancaleone alle Crociate). La nostra 127 verse oliva era praticamente nuova e commettemmo l’imprudenza di fare una tirata unica da Monza.

la nostra 127 con cui siamo andati anche in Sicilia e in Jugoslavia

Verso mezzanotte, nel tratto tra Lauria e Lagonegro, guidava Bruna, che mi aveva dato il cambio da poco, e io dormivo dopo aver abbassato lo schienale lato passeggero.

Mi sono svegliato di soprassalto con la macchina che saltellava, si inclinava e infine si fermava. Anche Bruna si era addormentata con in mano il volante. La macchina aveva proseguito diritto, piegando lentamente a destra, e dopo aver superato la banchina eravamo finiti dentro un cuneo di delimitazione stradale tra la banchina e una parete di cemento armato.

Per fortuna chi ci seguiva aveva visto la scena, si è fermato, ha preso atto che, a parte lo choc, eravamo sani e salvi, ma dentro un fosso e con la ruota anteriore destra che era esplosa. E’ ripartito dichiarando che avrebbe chiamato i soccorsi appena giunto a Lauria.

In effetti, dopo un paio d’ore è arrivato un carro attrezzi da Lagonegro, il meccanico ha visto che la situazione era sanabile, ha agganciato la 127 con noi dentro e ci ha trainato sino a Lagonegro. Una volta arrivato, vista l’ora, non ci ha proposto nulla, ci ha lasciati semisospesi davanti alla officina (così si evitava che scappassimo) e se ne è andato a casa a dormire dopo averci detto che ci si rivedeva la mattina dopo. Così è stato e, pur se con un giorno di ritardo, anche quella vacanza è incominciata.

Dal punto di vista gastronomico i ricordi principali riguardano il capocollo stagionato con il peperoncino e legato con frammenti di canne di bambù per tenerlo diritto; anche la ‘nduja e la pancetta, ma il capocollo era impagabile

Le Castella oggi

Allora a Le Castella non c’era quasi nulla oltre al campeggio e ad un cenno di paesino. La visione che se ne ha oggi da Google Earth, tra porto e insediamenti è impressionante.

Il campeggio era nel vallone di una fiumara e tempo fa, in un servizio del telegiornale, ho visto che è stato mezzo spazzato via da una alluvione dopo un potente acquazzone (erano passati 40 anni da quando c’ero stato io ed era tutto come prima).

Approfittammo della vacanza per visitare un po’ di Calabria e in particolare la zona della Sila. Strade piene di curve che non finivano mai. All’improvviso boschi di abeti, non sembrava di essere all’estremo sud e per la strada era pieno di ragazzi con panieri di vimini che ti offrivano i porcini a 1’000 lire al chilo.

Altri tempi


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1970-1971: il servizio militare

III edizione – giugno 2024

la caserm Cadorin sede del 33° artiglieria a Treviso dove sono stato per 11 mesi

Laureato a metà luglio, cartolina precetto a fine settembre. Alla visita ero stato dichirato C3 (la soglia verso il C4 che ti garantiva l’esonero) e ho chiesto io un nuovo responso; il responso è arrivato molto in fretta: abile arruolato con tanto di cartolina precetto e così, almeno, ho evitato i mesi di parcheggio in attesa della chiamata.

Sono partito da Milano centrale con il treno direttissimo per Palermo tra le 16 e le 17; destinazione CAR (centro Addestramento Reclute) presso il 46° reggimento fanteria REGGIO, caserma Scianna. Era uno dei primi giorni di ottobre del 1970.

Sino ad allora Il punto più a sud d’Italia dove ero stato era Roma e dentro di me pensavo che l’Italia finisse subito dopo Napoli. Invece, non solo la costa tirrenica salernitana e poi la Calabria non finiscono mai, ma quando sei arrivato a villa San Giovanni, e credi di essere alla fine del percorso, ti manca il binario unico Messina Palermo. Per farla breve sono arrivato a Palermo alle due del pomeriggio dopo 21 ore di treno.

Sui binari c’erano ad attenderci dei graduati che scrutavano i giovani in arrivo; se avevi in mano una borsa e magari la cartolina precetto eri finito. Tu, spina, vieni qui. Mettiti lì, che quando ci siete tutti vi portiamo in caserma. Primo impattto con le buone maniere dell’Esercito Italiano.

CAR 46° reggimento Fanteria Reggio – Palermo

il primo impatto

Quando siamo stati in numero sufficiente, ci hanno fatti salire sul cassone di un CM (che sta per camion medio, contrapposto a Camion Leggero e Camion Pesante). Iniziavano le sigle incomprensibili (CM, CP, CL, 48 ore, 36 ore, 5+2, CPR, CPS, 165, RAL, ….) e gli ordini sempre urlati: scendere, sbrigarsi, aspettare.

Il viaggio in camion era obbligatorio perché la caserma Scianna stava in fondo a Corso Calatafimi, fuori Palermo sulla strada per Monreale. Dalle due del pomeriggio, rigorosamente senza mangiare, siamo riusciti ad arrivare in camerata alle 21, esausti, sfiancati, depressi e anche un po’ impauriti.

recluta a Palermo

Prima ci hanno registrato in un grande stanzone dove venivi chiamato e alcuni soldati seduti dietro lunghi tavoli ti interrogavano per compilare una scheda piena di dati che, teoricamente, erano già in possesso dell’esercito. Poi ci hanno fatto spogliare degli abiti civili e portato al magazzino per il vestiario: zaino da viaggio, divisa estiva, divisa invernale, basco, bustina, passamontagna, tre camice, mutande tattiche, calzettoni, maglie da sotto, scarpe, scarponcini, anfibi, materasso, cuscino, federe, lenzuola, coperte, fazzoletti,  sapone, spazzole, lucido, grasso, gavetta, dentifricio, posate…

Svelti, svelti, correre, … Sembravano divertirsi a farti aspettare per poi invitarti a correre. Alla fine, a Dio piacendo, con quel carico di roba pesantissimo e voluminoso, ce l’abbiamo fatta e siamo arrivati in camerata. Ho messo a posto quel che potevo e mi sono buttato sul letto a castello che mi avevano dato. Mi veniva da piangere e mi chiedevo: ma dove sono finito? Intanto, sino a mezzanotte hanno continuato ad arrivare altri disgraziati come me. Tra grida e rumori, alla fine, mi sono addormentato.

i primi giorni

Nei primi giorni si imparano le regole, ti rasano i capelli (ma con le mance e la contrattazione si ottiene che non eccedano con la sfumatura alta), si adattano alla belle e meglio le divise, ti danno il fucile. A me capitò l’Enfield, un fucile inglese della I guerra mondiale che usavano i cecchini, pesantissimo. E al CAR il fucile te lo porti con te nella maggior parte delle marce. C’erano anche il 91/38, Garand (il più diffuso) e il FAL (fucile automatico leggero).

Si apprendono le tecniche di realizzazione del cubo in modo che passi indenne dalle ispezioni. Il cubo era una fissa che corrispondeva, in realtà, ad esigenze di igiene e pulizia, in primo luogo l’arieggiamento: disfare completamente il letto, piegare con cura lenzuola e coperte, ripiegare il materasso, coprire il tutto sganciando il telo (spesso non c’erano le reti). Inoltre, così, la camerata risultava in ordine e facile da pulire con spazzoloni, stracci e segatura.

Durante il giorno si fanno le prime amicizie e poi si marcia, si marcia, si marcia.

quando non si marcia

E quando non si marcia ci si siede nel cortile di terra battuta a sentire un semianalfabeta che ti spiega come funziona la bomba d’assalto SRCM (la quantità di tritolo, le due sicure, come la si lancia). Mezz’ora per esporre due concetti da 5 minuti, ma guai se sintetizzi. Lo stesso valeva per le operazioni di manutenzione, montaggio e smontaggio del fucile.

Il caporal maggiore istruttore, che era il nostro riferimento diretto, poi si offendeva. Anni dopo mi sono trovato a riflettere sulle tecniche di spersonalizzazione leggendo i libri di Primo Levi e mi è subito venuta in mente, con le dovute differenze di intensità, la vita di caserma. L’unica differenza è che non avevi un numero, anzi, quando ti si rivolgeva un superiore, dovevi scandire ad alta voce: recluta Claudio Cereda, 46° reggimento fanteria, III compagnia, IV plotone, comandi!

In caserma, fuori addestramento, ci sono i lavori appartenenti alla pedagogia del lavoro inutile. Li devi fare, visibilmente non servono a nulla, ma abituano ad obbedir tacendo. Era autunno e i lunghi viali della caserma Scianna erano fiancheggiati da alberi che perdevano le foglie. Armati di scope e di palette si partiva da una parte e si puliva. Quando eri arrivato alla fine ti giravi e vedevi che il viale era di nuovo pieno di foglie. Chissenefrega, tanto eravamo in duemila e qualche cosa dovevano pur farci fare.

il poligono

Siamo andati due volte al poligono tra Partinico e Montelepre; una volta a sparare da sdraiati e una volta a tirare la bomba d’assalto SRCM, imparando a lanciarla in avanti e non, come si vede nei film americani, (da dietro) perché in quel caso, quasi sempre, si fa un lancio a campanile e la bomba ti arriva in testa.

La SRCM, durante il fascismo detta Ballila, era ancora in uso: 30 o 40 g di tritolo, due sicure, una a linguetta e la seconda fatta da quel coperchietto di alluminio che salta via in volo. Fa un gran botto e poco danno. La si lancia in avanti di una ventina di metri correndo perché il suo raggio d’azione è sui 10 metri. E’ la bomba con cui i fascisti uccisero il 12 aprile del 73 l’agente Marino (il giovedì nero di Milano).

socializzazione

Noia e fatica; i primi giorni eravamo spaventati dalle regole assurde per poter andare in libera uscita: i capelli a posto, i fogli di carta igienica nella tasca destra dei pantaloni, il pettine, il tenente che, per un niente, decideva che eravamo tutti consgnati.

Imparai a riconoscere i comportamenti di tre tipologie regionali:

  • i toscani quasi tutti della FGCI, tendenzialmente ribelli, un se ne po’ più, facciamo una manifestazione di protesta …
  • i bolognesi della FGCI, solari e positivi, socmel non si può continuare così, sì, ma quando andiamo a balare
  • i napoletani che mentre eravamo in fila, in attesa di accedere al refettorio, ne facevano di ogni per aggirare la coda ed erano odiati da tutto il resto d’Italia, da nord a sud. Non era il vantaggio che li interessava, ma il fatto di fotterti. Taggio fatto fesso. E ci ridevano sopra. C’erano siciliani, pugliesi, calabresi, ma anche gli altri meridionali non sopportavano i napoletani.

Ricordi positivi dalla trattoria Carlo V vicino a piazza Maqueda. Un postaccio dove facevano una pasta con pomodoro e pinoli buonissima e delle braciole di maiale con il giro di grasso bianco che ho rivisto nella cinta senese, pane con il sesamo, che ho provato per la prima volta; il vino bianco era spillato al momento, dalla botte messa tra le due sale da pranzo. Una volta ho anche visitato il famoso mercato della Vuccirìa, condizioni igieniche incredibili soprattutto sul versante della carne e del pesce e tante urla di chi doveva proporre la propria merce.

sradicamento

In quei giorni scrivevo molte lettere e, mettendo in ordine le carte, dopo la morte della mamma, ne ho ritrovate alcune. Ero proprio disperato; in una, rivolta a papà, esternavo la mia rabbia per quella struttura oppressiva e distruttiva della personalità e lui mi rispondeva, lui che era stato fascista, e un po’ lo era ancora, di portare pazienza, che le cose si sarebbero sistemate e mi invitava a cercare l’aspetto positivo delle cose.

a telefonare lontano dai centri della SIP

La comunicazione avveniva o per lettera o per telefono; ma la teleselezione entrò in vigore ufficialmente sono dal 1 novembre 1970 e fu un processo graduale. Per tutto il servizio militare continuai ad utilizzare i centri della SIP diffusi in tutta Italia in cui si andava per telefonare.

Si prenotava la chiamata e si attendeva il proprio turno per andare in cabina. Tre minuti e prima della scadenza si inseriva la signorina e ti chiedeva “raddoppia?”. I centri erano frequentati, per la metà da militari di leva e per il resto si trattava, in genere, di migranti. Nel 71 iniziarono a comparire i telefoni a gettone, più diffusi ma più scomodi perche con la destra tenevi la cornetta e con la sinistra, a pugno, i gettoni di scorta.

Grazie alle aderenze in università sono riuscito ad avere una licenza (5+2) con la scusa che la mia presenza serviva perché risultavo membro di una commissione d’esame, così ho scampato la andata al poligono a sparare e, in tutto il militare, non ho mai sparato un colpo.

Inoltre Bruna, la mia futura moglie venne a Palermo per il giuramento. Era ospite di una compagna della nobiltà decaduta palermitana (i prìncipi Lanza) e ricordo la sorpresa nello scoprire che a Palermo gli ascensori funzionavano a moneta (10 lire). La sera, per quei 3 o 4 giorni, mi riaccompagnava sino in caserma al termine della libera uscita e poi tornava in centro con l’autobus, sorvegliata da un autista gentiluomo che spostava la fermata in modo che, al buio, non dovesse fare tratti a piedi da sola. La guardavano strana, una giovane donna con i capelli corti e il tailleur pantalone in giro da sola di sera …

Un giorno mentre eravamo in adunata è arrivata dal comando la richiesta di un laureato in fisica. Per la paura che mi offrissero qualche posto privilegiato che mi costringesse a rimanere per 15 mesi a Palermo o peggio a Trapani, dove la voce popolare diceva che ci si faceva la barba con l’acqua minerale, mi sono fatto piccolo piccolo e sono stato zitto.

Alla fine dei 40 giorni, ci hanno chiamato in un camerone simile a quello che ci accolse all’arrivo e ci hanno dato la destinazione e l’incarico: Ospedale Militare di Bologna e corso di aiutante di Sanità. Si andava verso nord. Alla fine dei 40 giorni, per via delle marce, delle corse e del pranzo non ideale ero dimagrito e in perfetta forma.

la tradotta e l’Ospedale Militare di Bologna

la tradotta con i vecchi vagoni di III classe

Ci hanno portato al nord con la tradotta, un treno con i vecchi vagoni di terza classe, quelli con la porta ogni quattro posti a sedere, il corridoio in mezzo e i sedili di legno.

La tradotta dava la precedenza anche ai treni merci e si fermava regolarmente per lo sgancio dei vagoni delle diverse destinazioni. Ci vollero trentasei ore per fare Palermo Bologna, ma c’era gente che doveva andare sino al confine orientale: Udine, Tolmezzo, Gorizia.

Ho incominciato a chiedermi come mai, con una laurea in fisica ad indirizzo elettronico, non fossi finito nelle trasmissioni e la risposta che mi sono dato è la stessa in base alla quale ero finito a Palermo per il CAR: le schedature funzionavano, anzi forse era l’unica cosa che funzionasse in quel mare di inefficienza. L’aiutante di sanità è un privilegiato, ma in compenso non fa vita di camerata e non sta con i soldati.; un modo elegante di isolare i sovversivi, o presunti tali.

Come il CAR, anche il corso all’Ospedale di Bologna avrebbe dovuto durare 40 giorni, la durata ci fu, ma il corso no. Eravamo in una quarantina, quasi tutti laureati, e la prima cosa che hanno fattofu quella di nominare un capocorso perché, anche tra pari, la gerarchia è importante (era uno studente di ingegneria di Roma).

Per qualche giorno ci portarono in una specie di teatro interno all’Ospedale dove venivamo abbandonati a noi stessi e poi smisero di fare anche quello e noi si girava liberamente per l’ospedale. Il corso non c’è stato, l’esame finale neanche, ma alla fine ci hanno assegnato la destinazione e ci hanno dato il diplomino di Aiutante di Sanità. E lì ho incominciato a capire come era andata per davvero la campagna di Russia del 1942.

Io, per altro, mi sono fatto anche una settimana di ricovero per una bella tonsillite bilaterale e ho rischiato l’intervento chirurgico. Tra ricovero in ospedale e problemi connessi al clima oppressivo, in tutto quel periodo sarò uscito per Bologna tre o quattro volte. Una volta sono andato in centro a vedere le Torri e ho fatto un salto alla libreria Feltrinelli, uno dei posti che ci erano stati indicati come pericolosi; un altro posto interdetto era via Lame, credo per ragioni di puttane e malavita.

Da Bologna a Rimini

Era dicembre inoltrato, e a fine non-corso, ci furono date le destinazioni e il biglietto ferroviario: trasferimento individuale in treno, con il pesantissimo zainone-valigia con tutta la dotazione individuale, dal vestiario agli anfibi. La mia destinazione era Rimini, 121° artiglieria contraerea leggera, caserma Giulio Cesare, abbastanza in  centro.

IL complesso della caserma Giulio Cesare di Rimini

In caserma c’era un freddo atroce che costringeva a dormire con il passamontagna. L’infermeria aveva una sua piccola camerata per i ricoveri e noi aiutanti di sanità, se non c’erano esigenze particolari, dormivamo lì visto che c’era una stufa a legna in coccio.

Sono stato riconoscente per tutta la vita al segretario del movimento giovanile DC di Ravenna, che non ho mai conosciuto. Era raccomandato ed ottenne il trasferimento da Treviso a Rimini. Così, dopo neanche un mese, io venni preso e mandato a Treviso al suo posto.

epidemia di menengite cerebro spinale

A Rimini c’era un colonnello comandante allucinante che aveva introdotto una serie di norme, a suo dire antilavativi, che determinarono la morte di un soldato: si chiamava Bruno Raffaelli ed era di Viareggio.

Il colonnello Carmelo Alongi aveva stabilito che se un soldato marcava visita e otteneva il provvedimento medico legale di servizio, ricevesse una serie di benefit ulteriori che gli facessero ricordare che non bisogna barare: esclusione dalla libera uscita per quella giornata, esclusione dai permessi di 48 ore per  tre mesi, esclusione dalle licenze per 5 mesi.

Il regolamento di disciplina militare prevedeva, di suo, una gerarchia di provvedimenti medico legali: il ricovero, il riposo in branda, la esenzione dai servizi, il servizio e, infine il servizio punibile.

Di fronte ai finti malesseri, perché uno ci provava sempre e comunque, o alle lievissime patologie si dava servizio perché il servizio punibile avrebbe potuto far scattare un procedimento per simulazione. Quindi il servizio punibile non si dava mai e il colonnello aveva trasformato il servizio in tela faccio vedere io.

Bruno Raffaelli, quel giorno di inizio gennaio, compiva 21 anni ed attendeva i suoi genitori per festeggiare l’avvenimento. La mattina al risveglio non si sentiva bene e probabilmente aveva già la febbre, ma per non incappare nelle regole del colonnello, non se la sentì di marcare visita. Il tenente medico fece le sue visite tradizionali e poi se ne andò (visto che era domenica).

I compagni di Bruno ce lo portarono in infermeria in stato di sem-incoscienza, con la febbre alta, rigidità nucale e vomito a spruzzo. Il riflesso di Babinsky, che si fa strisciando un ago sulla pianta del piede, ed osservando come si muove il pollice, era già positivo. C’erano tutti i sintomi di una meningite cerebro spinale in fase avanzata. Ce la dovemmo cavare da noi sentendo il medico per telefono e, mentre lo attendevamo, chiamammo l’ambulanza che arrivò insieme al medico. Fu ricoverato all’ospedale di Rimini tra le 11 e le 11:30 e alle 14 era già morto.

In caserma, nel giro di pochi giorni, nonostante l’isolamento e la profilassi di massa con i sulfamidici (la sulfametossipiridazina, me lo ricordo ancora) si ebbero altri 7 casi, seri di infezione manifesta, ma con prognosi fausta e 60 tamponi oro-faringei positivi. Una epidemia con i fiocchi.

Nei giorni successivi, in libera uscita, mi misi alla ricerca dei compagni di Lotta Continua per fare qualcosa, denunciare, rompere il silenzio, fare casino. Quando finalmente li trovai arrivò, del tutto inatteso, il mio trasferimento. Non so cosa avrei combinato. Capite perché devo ringraziare quel giovane democristiano? Mi ha quasi sicuramente salvato dal finire a Gaeta o a Peschiera (i due carceri militari). Nello scrivere questa parte ho cercato di documentarmi con la stampa dell’epoca e non ho trovato nulla salvo la conferma di quella morte.

Insomma, nè Bologna, nè Rimini me le sono viste o gustate. Ho solo il ricordo di un aiutante di sanità anziano che, in puro stile amarcord-vitelloni, si vantava di grandi avventure con le donne di Rimini e di avere il problema di erezioni prolungate; lo guardavamo con invidia.

Da Rimini a Treviso

Nuovo viaggio in treno da solo e con il gigantesco zaino da viaggio con dentro tutto, ma questa volta fu un passaggio dalle stalle alle stelle: per Treviso e la sua gente, per i compagni di infermeria, per gli ufficiali medici. Sono stati 11 mesi gradevoli in cui ho imparato un po’ di cose sull’ Italia, ho imparato le tecniche essenziali di primo soccorso e ho avuto anche tempo di studiare Gramsci.

A Treviso, quando sono arrivato, ho trovato tutti i riti del nonnismo, una forma di cameratismo semiviolento che le autorità militari tolleravano perché consentiva di mantenere la disciplina creando divisione tra i soldati. C’erano ancora i nonni e le spine, le canzonacce, la comunione con un pezzo di pane o una patatina intinta nello sperma, i gavettoni, la stecca in cui si incidevano i giorni di servizio sino a quello del congedo. Ma il fenomeno si andava restringendo.

La caserma Cadorin, era un po’ fuori Treviso, sulla strada feltrina, ma ad una distanza accettabile dalle mura.

Per altro, di lì a qualche mese mi arrivò la 500 che avevo comperato a rate nel 67 e che, in mia assenza, stava usando Bruna la mia compagna (anzi la mia fidanzata, come si diceva allora), sposata poi a settembre.

L’infermeria era in una palazzina a sé stante a destra dell’ingresso e abbastanza vicina al muro (cosa di cui approfittava qualche collega per entrate e uscite fuori ordinanza).

Al piano terra c’erano le sale visite e d’attesa, i servizi igienici e un deposito per il magazzino medicinali e per i disinfettanti. Al piano superiore le camere di ricovero, una cucina e anche una cameretta per l’aiutante di sanità in turno notturno con letto vero, armadietti vari e persino il telefono. Ovviamente la palazzina era collegata al riscaldamento centrale del comando.

La cameretta (in fondo a sinistra), invece che all’aiutante in turno notturno, veniva riservata all’aiutante più anziano e gli altri dormivano nelle stanze dei ricoveri se c’era posto, oppure in camerata (eravamo comunque aggregati alla compagnia comando dove stavano quelli che lavoravano negli uffici del reggimento).

il 33° artiglieria Folgore

Obici da 155 mm

La caserma Cadorin, comando di reggimento del 33° artiglieria (divisione Folgore), ospitava 3 battaglioni, due di obici da 105 e 155 mm e una di carri semoventi, anche quelli dotati di obice. Poi c’era un distaccamento a Gradisca d’Isonzo anch’esso con carri semoventi.

Il reggimento era comandato dal colonnello Danese, una persona ammodo e raffinata, già addetto militare a Lisbona, e che poi avrebbe fatto carriera, sino a terminare come generale di Corpo d’Armata (era il fratello della moglie di Andreotti … e si sapeva).

In un paio di occasioni abbiamo fatto delle esercitazioni serie (sparando con gli obici) nelle zone del Friuli oltre Cordenons  (greto del Meduna Cellina) e una volta verso il Tagliamento. In quelle esercitazioni di artiglieria non si capisce molto cosa accada, lo sanno gli ufficiali. Eravamo accantonati in edifici dismessi e in una delle due uscite, galeotto il Cabernet sfuso, mi beccai l’unica sbornia pesante di vino della mia vita. Ricordo che non riuscivo a stare in piedi ritto e però, se mi sdraiavo incominciava a girare tutto il mondo. Era una sbornia di quelle in cui conservi ancora un minimo di coscienza, prima del coma etilico, il che è peggio.

Un’altra volta abbiamo accompagnato i corpi di polizia al poligono e per tutto il viaggio ho ammirato la pistola mitragliatrice M12 abbandonata sul sedile accanto a me: un gioiellino di meccanica. Al poligono, tra mitra e pistole, i poliziotti sparavano davvero.

La vita in infermeria

Sveglia alle 6:30, abluzioni, prima colazione preparata da noi e poi pulizie con strofinaccio, disinfettanti vari (tanto cloruro di calcio) e poi iniziava la fase delle visite. Noi si dava una mano ai due ufficiali medici, si facevano le terapie e il disbrigo delle pratiche d’ufficio..

Mi hanno sempre affascinato le medicine dello Stabilimento Chimico Farmaceutico Militare di Firenze di cui avevamo un bel deposito (oltre agli armadi della sala visite) e che andavamo, una volta al mese, a prelevare, con la Campagnola, all’Ospedale Militare di Padova. Ho visto che ora l’istituto è stato incaricato di produrre la Cannabis ad uso terapeutico.

Avevamo un po’ di tutto: antibiotici iniettabili (pennicillina e streptomicina), tetraciclina in capsule, sulfamdici, antisettici, antireumatici, antidolorifici, spasmolitici, sedativi come il Valium e il Talofen, complessi vitaminici ed epatoprotettori, pomate, tra cui tanto Foille, essenziale in artiglieria (ustioni dei serventi al pezzo), garze e bende a non finire, il palloncino Ambu, attrezzi vari di immobilizzazione, vaccini e, in un armadio protetto, la morfina che non abbiamo mai usato.

Poi c’erano due cose ad uso esclusivo della infermeria: il brandy e soprattutto l’elisir di china che avevamo in bottiglioni da due litri. Ho visto sul sito che lo fanno ancora e lo vendono (“Pregiato liquore ottenuto per estrazione a freddo da corteccia di china e scorza di arancio amaro invecchiato almeno un anno in botti di rovere secondo la storica ricetta presente nella Farmacopea Militare del 1877“). Era proprio pregiato, e per quello lo tenevamo per noi.

Il lavoro con quelli che marcavano visita era molto di routine e ci voleva un attimo a distinguere i malati, dai furbi a cui, comunque, si dava servizio e non servizio punibile. I casi meno gravi ricevevano il riposo in branda e quelli più seri venivano ricoverati.

Ogni tanto capitavano i casi gravi: traumi ed incidenti connessi al lavoro sugli obici (in un caso ci fu la amputazione della mano) e crisi psicomotorie di poveri cristi del sud che ogni tanto schizzavano e magari si aiutavano (con qualche sostanza) per essere mandati all’ospedale militare in psichiatria e da lì in convalescenza o magari in congedo.

Si mormorava di strani intrugli e di metodi per scatenare un brusco rialzo della temperatura; qualcuno praticava forme di autolesionismo. Spesso le crisi di agitazione psicomotoria si sovrapponevano a quelle di grande male epilettico e si interveniva in tre o quattro per sedare il paziente (tra Talofen, Valium, barbiturici, straccio in bocca per evitare che si masticassero la lingua, cinghie di contenimento).

Il lavoro per le terapie prevedeva le iniezioni, i lavaggi auricolari per la estrazione dei tappi di cerume, i cambi di medicazione, le misurazioni di pressione e temperatura.

il rito dell puntura con il vaccino tri e pentavalente

Quando arriva un nuovo contingente c’era il rito della vaccinazione (antitetanica, antivaiolosa, antidifterica).

La antivaiolosa sul braccio e l’altra nel muscolo vicino a un capezzolo. Si disinfettava con batuffoli di cotone impregnati di tintura di iodio e dopo un po’ di quel lavoro, anche se si tenevano le finestre aperte, tutti i locali erano inondati dai vapori della tintura e dal puzzo dei corpi sudati.

Mi ricordo di una vaccinazione antivaiolosa in cui il medico, che lo faceva per la prima volta, ci dette dentro un po’ troppo in profondità con i graffi nel muscolo del braccio. Ci trovammo con un paio di compagnie a letto con febbre alta, qualche caso di encefalite e delle croste e cicatrici di quelle che poi si vedono per sempre.

Ho conosciuto 4 ufficiali medici e se si esclude il primo, tal Straface di Reggio Calabria, che non valeva nulla e quindi si dava un sacco di arie, con gli altri tre (uno di Vittorio Veneto, uno di Este e l’altro di Mestre) sono stato benissimo e, il dr Vincenzo Guariento, quello di Este, sono anche andato a trovarlo anni dopo. Il rapporto era di assoluta parità e lo stesso valeva per gli altri aiutanti di sanità con cui si faceva vita comune (uno di Cremona, uno di Roma, uno di Pistoia e uno di Treviso).

Durante quei mesi mi sono fatto altre tonsilliti e una notte ebbi un violento attacco d’asma. Mi svegliai che non riuscivo più a respirare. Per fortuna ero in infermeria e avevamo la teofillina. Comunque fu l’occasione per smettere di fumare, per sempre.

I fratelli soldato

Nei primi mesi del 71, di noi 5 fratelli eravamo a militare in tre. Fabio, il terzo, era partito con il primo 50 ed era a Gorizia, Sandro, il maggiore con il secondo 50 era ad Udine e io con il terzo 50 a Treviso. Era stata appena abolita la norma che esentava dal servizio il terzo fratello delle famiglie numerose e in quel caso sarebbe toccato a me visto che Fabio, non avendo fatto l’Università, era partito per primo. Così, alla fine, il militare lo abbiamo fatto tutti e cinque.

Sandro, dopo essere stato a Palmanova, era arrivato a Udine alla famosa caserma Spaccamela e lì, lui che aveva sempre fatto poca politica, aveva incominciato a lavorare con quelli di Proletari in Divisa (volantinaggi, sciopero del rancio, …).

C’erano degli infiltrati, li beccarono tutti, qualcuno finì a Peschiera, qualcuno in CPR (camera di punizione di rigore), tutti vennero trasferiti e sparpagliati e Sandro fu mandato a Gradisca di Isonzo al distaccamento del 33° artiglieria.

Andai dal colonnello Danese a vedere se, nell’ambito dei trasferimenti interni, si poteva farlo venire a Treviso; fu molto cortese, persino elogiativo verso di me e il mio curriculum di studi, mi promise che lo avrebbe fatto. Io non avevo detto nulla sulle ragioni del trasferimento di Sandro, ma poi, evidentemente arrivarono le note informative e Sandro restò a Gradisca per gli ultimi mesi del suo servizio.

A Treviso: comandi !?

A Treviso la gente voleva bene ai soldati e c’era tanta gentilezza a partire dal fatto che quando chiedevi qualcosa iniziavano a risponderti dicendo “comandi?“.  A pranzo facevamo da noi con la cucina della infermeria e con materie prime che arrivavano direttamente dagli addetti alle cucine, ma tutte le sere andavamo a cena in una trattoria a ridosso di piazza dei Signori, nel vecchio centro attraversato da canali che finiscono nel Sile. La trattoressa, che aveva un figlio a militare, ci trattava tutti come figli suoi. Si beveva il Raboso del Piave e fuori pasto si andava ad ombre con il Prosecco in caraffa.

Treviso a ridosso del centro storico tra canali e osterie

Nel Veneto si dice ombre, andare ad ombre, richiamando una tradizione veneziana degli ambulanti, con il carrettino per la mescita del Prosecco, che si spostavano in piazza San Marco seguendo l’ombra del campanile. E Bruno, l’autante di Sanità di Treviso, ci portava ad ombre (prosecco, acciughe, soppressa e uova sode), in tutte le osterie sino alla Colonna, dove si beveva il Clintòn, una variante del fragolino, nella scodella di maiolica bianca.

Con gli ufficiali medici mi è capitato di andare (in borghese) a prendere l’aperitivo al bar Borsa, quello reso famoso dal film Signore e signori: tramezzini di tutti i tipi, prosecco in caraffa e anche il Karkadé che ho conosciuto in quella occasione.

Negli ultimi mesi del servizio ho acquisito il diritto alla cameretta dell’aiutante anziano e me la sono arredata. Di pomeriggio e il sabato e domenica davo anche qualche lezione privata a domicilio di matematica e di fisica e, con i proventi, ho comperato un po’ di libri alla agenzia Einaudi. Faceva impressione entrare in un locale della caserma e trovare Il capitale monopolistico di Baran e Sweezy, I quaderni dal carcere di Gramsci e le Teorie sul plusvalore di Marx.

matrimonio e congedo

Nel corso dell’estate si liberò, a Villasanta, un appartamento di proprietà della zia Giovanna (Giuanina dal Cereda) in piazza Camperio e Bruna, che non ne poteva più di stare in famiglia, prese la palla al balzo; una occasione così non si può perdere.

Qualche mese prima, nel corso di una licenza eravamo stati a vedere una casa nei pressi della stazione del metrò di Villa San Giovanni perché il nostro progetto di vita prevedeva di vivere su Milano. Non se ne fece nulla e così la mia vita, sino al trasferimento in Toscana, è poi rimasta centrata su Villasanta.

Si è occupata lei di tutto e, nel mese di settembre mi sono sposato. Ci fu qualcosa di comico perché per sposarsi bisognava essere autorizzati dal comndo e così mi toccò fare domanda. L’autorizzazione mi fu concessa ma, nella domanda, dovetti precisare che mi volevo sposare anche se Bruna non era incinta (la cosa era sconvolgente per i militari, evidentemente abituati al matrimonio riparatore). Ricordo che la domanda di autorizzazione si chiudeva con “in fede, subordinatamente“. Mi vergognavo ma era obbligatorio.

Non avevo ancora usufruito della licenza ordinaria di 10 giorni e me ne spettava un’altra di 5 giorni per una donazione di sangue; le sommarono e così non mi diedero la licenza matrimoniale; generosi sino alla fine.

Il fazzoletto giallo del 33° artiglieria; il mio ce l’ho ancora; negli anni 70 ci avevo fatto sopra una grande falce e martello rossa e lo usavo alle manifestazioni

Tornai a casa il 23 dicembre con il congedo illimitato e, dopo le vacanze di Natale presi servizio all’ITIS di Sesto San Giovanni: docente di fisica, cattedra di 15 ore di cui 6 di laboratorio.

Avevo tutto il tempo di dedicarmi alla costruzione di AO a Monza, ma negli anni successivi tra i sogni ricorrenti, espressione di paure ed angosce, è entrato a far parte anche quello del richiamo in servizio.

Da allora nell’esercito è cambiato quasi tutto. Sono finite certe angherie; dapprima hanno avuto il permesso di girare in borghese fuori dal servizio senza avere più l’ossessione della ronda o il salutare mettendosi sugli attenti se passava un ufficiale, si è ammorbidito il regolamento di disciplina e, alla fine, è stato abolita la coscrizione obbligatoria.

Se guardo ai ragazzi di adesso credo che sia sbagliato non aver mantenuto una forma di servizio alla comunità da farsi lontano da casa: fa bene alla autonomia, fa bene alla formazione della personalità e fa bene alla comunità. Il servizio civile su base volontaria e, spesso, a due passi da casa, non è la stessa cosa.


La pagina con l’indice della mia autobiografia da cui potete scegliere i capitoli da leggere e vedere una sintesi di ciascuno


 




1965-1970: volevamo cambiare il mondo

III edizione – giugno 2024

Alla fine del 65 ho iniziato l’Università e, contemporaneamente, ho interrotto i rapporti con la Fgsi, pur avendo ripreso la tessera del 66 funzionale a ingrossare le fila del neonato Movimento Socialista Autonomo (poi confluito nella Sinistra Indipendente).

Non mi convincevano la prospettata unificazione con i socialdemocratici e la impronta poco coraggiosa che aveva preso il centro sinistra. C’era poi aperta la ferita della guerra con il Vietnam. In quegli anni la politica ed i suoi riferimenti erano ancora un elemento di contorno rispetto ai mille altri interessi: più che militare ci si documentava.

prima del 68

Il mio riferimento politico culturale, piano piano, divenne il PCI, un rapporto mediato dalla lettura sistematica di Rinascita che, per almeno 7 anni, sarebbe stato il mio strumento di riflessione e crescita politica.

le riviste

Non ebbi mai rapporti diretti con il partito nè a Villasanta nè a Monza e mi limitai a farmi recapitare, all’indirizzo di Federico Ripamonti, il capo storico del PCI di Villasanta, ma anche amico di papà, l’abbonamento al settimanale.

Passavo da casa sua a ritirarlo la domenica mattina. Era la applicazione delle tecniche non conflittuali da adottare in famiglia; noltre l’abbonamento per gli studenti era davvero conveniente in termini di costo. Un anno vinsi pure una bici Bottecchia sport rossa che utilizzai poi per parecchio tempo e alla fine l’ho regalata ad un immigrato che ne aveva bisogno.

Tramite la versione on line sono finalmente riuscito a recuperare una breve lettera, che ricordavo di avere mandato, e che con titolo Checchè ne dica Ottaviani venne pubblicata; è nel numero 30 del 23 luglio del 66. ll cardinale Alfredo Ottaviani, prefetto del Sant’Uffizio, che amava autodefinirsi il carabiniere dell’Ortodossia, era il nemico giurato di ogni rinnovamento all’interno del mondo cattolico.

A Monza ci si vedeva e si dialogava intorno alla Biblioteca Civica e, per un certo periodo, insieme a Maurizio Antonietti, che ne prospettava il rinnovamento e lo spostamento in senso progressista, aderii e mi diedi da fare per la FUCI (la federazione degli universitari cattolici) mentre a Milano avevo aderito alla Intesa Universitaria (la associazione dei cattolici progressisti).

alcune delle riviste e dei periodici che hanno segnato la mia evoluzione politica: cattolici del dissenso, sinistra socialista, PCI

Tra il 66 e il 67 ci fu un fiorire di riviste e settimanali facenti capo al mondo cattolico progressista: Questitalia del veneziano Vladimiro Dorigo democristiano, ma molto di sinistra, Testimonianze del gruppo fiorentino raccolto intorno a padre Ernesto Balducci, Settegiorni un settimanale sponsorizzato da Carlo Donat Cattin e diretto da Ruggero Orfei e Piero Pratesi. Il mio spostamento a sinistra andava di pari passo ad una sofferta battaglia per il rinnovamento della religione e per aperture culturali tra mondo cattolico e movimento operaio; iniziai a leggere anche l’Astrolabio diretto da Ferruccio Parri e Problemi del socialismo di Lelio Basso (uno dei padri costituenti, socialista di sinistra, poi psiuppino che pensava ad una sinistra non comunista di tipo luxemburghiano).

gli angeli del fango

Nel novembre 1966, in occasione della alluvione di Firenze, partimmo in un buon gruppo per partecipare al progetto di estrazione dalla fanghiglia dei libri della Biblioteca Nazionale. Organizzavano Ugi e Intesa di Matematica e Fisica e fu così che incominciammo a conoscerci e a fare gruppo.

Mi ricordo una loggia, tipo quello di piazza Signoria (ma più piccola), e noi pieni di fango (un fango liquido tra l’ocra e il verdastro) che ci riposiamo un po’. Il fango era dovunque e ce n’era tantissimo nei sotterranei della Biblioteca Nazionale. Sento il sapore di un panino con il pane senza sale con il salame toscano, quello con il grasso non macinato e inserito a pezzi grandi, che vedevo per la prima volta.

Forse abbiamo fatto più scena che sostanza; ogni tanto ci penso. Ma siamo andati subito e ci era chiaro che bisognava andare.

hanno fatto un deserto …

il manifesto di convocazione, con il teschio, la bandiera americana e la citazione di Tacito

Passò qualche mese e l’UGI raccolse un appello internazionale, mi pare  partito dagli studenti americani, per manifestare a fianco del Vietnam.

Hanno fatto un deserto e lo hanno chiamato pace, diceva una frase di Tacito stampata su una bandiera americana con il teschio. E’ stata la mia prima manifestazione.

Ci sono andato in pulman con Flavio Crippa e i suoi amici della Fgci di Lecco; tanti giovani, tante bandiere vietnamite, un po’ di bandiere rosse. Non mi piaceva la guerra del Vietnam; ma quelli come me ci tenevano a sottolineare che non eravamo antiamericani, eravamo contro quello che gli americani stavano facendo. C’era stato in Grecia il golpe dei colonnelli e il clima si stava surriscaldando.

Dopo quello di Lelio Basso, che rappresentava il tribunale Russel, ci fu il tentato comizio di Giorgio La Pira sindaco di Firenze. Per me, allora, La Pira era un un mito, come lo erano padre Balducci, don Milani o la comunità dell’Isolotto; erano l’esempio che si poteva essere cattolici ed essere in prima linea nella lotta contro l’ingiustizia.

Quella sera ebbi il primo incontro con quelle che avremmo poi chiamato le contraddizioni in seno al popolo. La Pira aveva appena iniziato a parlare con il suo stile profetico che lo portava a fare il Sindaco delle città della pace, a viaggiare tra Mosca e Washington per fare l’ambasciatore dei diritti del Vietnam. Dopo poche parole fu subito subissato dai fischi dei marxisti leninisti. E poi, a manifestazione finita, ci fu lo scontro con la polizia accuratamente ricercato da alcuni. Che paura; città sconosciuta; botti dei lacrimogeni; cercammo di arrivare al pullman; ma perché i fischi, ma perché gli scontri? Non eravamo venuti per la pace?

convegno dell’Intesa a Castelveccana

Estate 1967 Castelveccana: convegno estivo dell’Intesa in un convento di suore sul Lago Maggiore. Si discute della imminente lotta alla Cattolica contro l’aumento delle tasse. Ci sono anche due dei tre che più tardi saranno espulsi, Pero e Spada (ma non c’è Capanna). L’Intesa per noi giovani cattolici impegnati a sinistra è lo sbocco naturale: progressismo, incontro con la sinistra laica dell’Ugi.

C’è anche il segretario nazionale Pierluigi Covatta, che ha 3 o 4 anni più di noi, è cresciuto nelle file del movimento giovanile democristiano e ha guidato l’organizzazione all’incontro con i comunisti. Brillante, ironico; ricordo un piccolo aneddoto sulla ignoranza nel mondo democristiano. Era ad una riunione di deputati DC e fu presentato come presidente nazionale dell’UNURI (l’organismo nazionale delle rappresentante studentesche). Venne avvicinato da un deputato che gli fece i complimenti: lei così giovane e già così esperto di cavalli. Il deputato aveva confuso l’UNURI con l’UNIRE (unione nazionale per l’incremento delle razze equine).

Ha diretto MondoOperaio, la rivista teorica del PSI dopo aver fatto il maitre a penser del PSI nel primo progetto riformista di Craxi.  Covatta è morto nel 2021.

il terzo mondo

Acccanto a Rinascita la mia formazione politica sta avvenendo con la lettura di libri di taglio terzomondista (non si diceva ancora antimperialista). Il giorno precedente quello dei miei 21 anni, che allora era la maggiore età, arrivò la notizia della morte di Che Guevara. Era il 7 ottobre 1967.

il cadavere di Che Guevara mostrato in pubblico dai suoi assassini.

Quelle foto di Che Guevara massacrato di botte prima di essere riempito di pallottole lasciarono il segno. Sembrava il Cristo morto del Mantegna e quella foto avrebbe inciso nelle coscienze di molti giovani.

Il mondialismo era quello che ci sentivamo dentro. Non dicevamo lotta all’imperialismo o internazionalismo proletario; mondialismo mi pare più attinente alle pulsioni della mia generazione. Era qualcosa che aveva a che fare con una sorta di senso di colpa del ricco Occidente nei confronti del resto del mondo.

Gli anni ‘60 sono stati gli anni del disfacimento degli ex imperi coloniali, della conquista dell’indipendenza da parte di molti stati di Asia e Africa, mentre in America Latina si guardava all’esempio di Cuba, alla Trilaterale, al movimento dei non allineati. Non ci sorreggevano grandi analisi su ciò che accadeva o sulle nuovi classi dirigenti di quei paesi, ci bastava l’idea che forse qualcosa stesse cambiando e che si potesse andare verso un ordine internazionale più giusto.

Si navigava a vista, accanto a qualche libro di Pierre Jalée come “il saccheggio del terzo mondo”, che ci introduceva ai problemi del mercato mondiale e a quello delle materie prime, ricordo un articolo di Rinascita in cui, per la prima volta, scoprii che, invece di parlare di primo, secondo e terzo mondo, meglio sarebbe stato parlare di paesi sottosviluppati e paesi sottosviluppanti, con le ovvie conseguenze del caso in termini di responsabilità.

il 1968, la prima occupazione, le mie prime elezioni

antefatto

I movimenti hanno sempre una causa immediata di tipo casuale e, nel caso di fisica, tutto partì dalla reazione esagerata del direttore di istituto, professor Caldirola ad un problema banale: una assemblea non terminata nell’orario previsto. La presiedeva Roberto Biorcio, più vecchio di noi di un paio d’anni. Biorcio era il presidente del parlamentino studentesco di tutta la Statale.

Il professor Caldirola non voleva che l’assemblea continuasse nella sua ora e non mi ricordo proprio perché la volessimo fare. Biorcio lo incalzava e si muoveva secondo i moduli della non violenza; me lo ricordo a braccia alzate che resiste davanti alla lavagna mentre Caldirola tenta di buttarlo fuori.

Alla fine, per poter continuare, ci prestò l’aula il professor Loinger, fisico teorico, uno dei decani di Fisica. Tanta voglia di fare qualcosa, ma cosa? Si dice che l’appetito vien mangiando. Iniziò un lungo dibattito durato giorni; si fece strada, pian piano, l’idea di occupare l’Università (come stava accadendo in giro per l’Italia).

una ciliegia tira l’altra …

assemblea generale di scienze in aula A – si riconoscono tra gli altri Giorgio De Michelis, Sergio Bianchini, Bruno Manelli e Daniele Marini – dietro di lui il mitico Robuschi, detto Robuschiele per il tono profetico dei suoi intrventi (Ezechiele)

Si trattava di una assemblea vera; noi con tanta voglia di essere; gli altri, i nostri compagni di corso, perplessi e incuriositi; alcuni ci accusarono di essere pagati dai comunisti con le semplificazioni che la destra qualunquista ha sempre avuto e che aveva anche allora. Ma si discuteva, tutti avevano diritto di parola e si replicava cercando di convincere

Si andava affermando la democrazia assembleare; alla fine venne il momento di decidere sul da farsi; ci fu una votazione per appello nominale di coloro che nei giorni precedenti, libretto alla mano, si erano iscritti al voto; una votazione durata ore ed ore.

Le aule B e C furono collegate via audio con l’aula A (grazie ai prodigi di Flavio Crippa, fin da allora eccezionale addetto alla logistica). Si veniva chiamati e ci si dichiarava favorevoli o contrari; quando il numero dei favorevoli raggiunse il quorum, a chiamata ancora in corso, scoppiò un applauso liberatorio; quel quorum significava OCCUPAZIONE.

Era il 28 febbraio 1968 e il documento per la occupazione diceva tra l’altro:


Nella lezione, il professore impartisce nozioni che gli studenti sono tenuti ad apprendere con lo studio individuale. I contenuti dell’insegnamento sono proposti in forma frammentaria senza che sia mai richiesta una sintesi a livello di critica della scienza e una chiarificazione dei nessi tra attività universitarie, professioni, sviluppo sociale ed economico.

Durante l’esame il professore controlla, in modo spesso arbitrario, l’apprendimento nozionistico. L’imposizione di questo sterile nozionismo porta lo studente a uno studio mnemonico che limita o impedisce lo sviluppo critico e la maturazione della sua personalità.

Una volta laureato, lo studente si troverà di fronte a una società che non conosce e che non sa criticare, nella quale dovrà inserirsi per vivere diventando inconsciamente lo strumento che garantisce la stabilità di questo ordine sociale. Questa situazione della didattica si perpetua grazie alle condizioni di totale passività degli studenti, assuefatti ormai ai metodi autoritari presenti a tutti i livelli scolastici. Si presenta quindi l’importanza dell’obiettivo della contestazione dell’autoritarismo accademico mediante l’introduzione del dibattito a tutti i livelli delle attività universitarie e della affermazione delle esigenze di cui gli studenti sono portatori.


in aula A durante la assermblea di occupazione

Su Pensieri in Libertà c’è una pagina di documentazione con la mozione integrale, il regolamento di assemblea, il regolamento per la affissione dei manifesti, …

Eravamo in una facoltà scientifica e dunque, ci siamo dettidobbiamo essere seri:  a dormire i ragazzi da una parte le ragazze da un’altra. Bisogna rimettere bene in ordine tutto la mattina. Ciascuno contrattò con la famiglia il diritto di dormire nella facoltà occupata: fortunati quelli con la famiglia di sinistra che non avevano problemi.

Il movimento raggruppava tutti i corsi di laurea di scienze, con la eccezione di chimica, che confluirà nel 68/69.

la contestazione

Abbiamo scoperto che il mondo dei formalismi, delle persone per bene, non ci stava più bene che, per noi, volevamo decidere noi. Volevamo dare un taglio alle cose più assurde, in una parola volevamo la democrazia diretta. Quando ce la siamo presa, ci siamo accorti quasi subito di essere finiti in un mondo magico da cui non volevamo più uscire, perché dentro quel mondo non valevano più le regole assurde dell’altro mondo.

Poiché non si poteva vivere solo in assemblea, abbiamo incominciato ad inventare altre forme di organizzazione: strutture decentrate come le commissioni a tema, i gruppi di lavoro, i gruppi di intervento; obiettivi di lotta contro la selezione e contro la scuola di classe, che avevano come strumento primario quello di controllare i ritmi di insegnamento in modo che non andassero in contrasto con quelli di apprendimento.

un po’ di colore

Una foto mostra le ragazze che fanno le pulizie la mattina perché noi di scienze della prima ora siamo molto moralisti e ci teniamo a smentire quello che dicono certi giornali sulla università trasformata in un bordello. Deve essere tutto in ordine; peccato che a pulire siano le ragazze.

sullo sfondo Alberto Bertoni

Come siamo diversi: Basilio (Rizzo) è un mito: non è battezzato ed è di famiglia comunista, ma gioca alle carte come gli altri, anzi di più, a briscola con suo nonno.

Ci sono i cattolici compresi quelli che tra breve daranno vita a Comunione e Liberazione sulle ceneri della implosione di Gioventù studentesca, i cattolici di sinistra già toccati da Fuci e Intesa, gli studenti di sinistra, quelli di sinistra ma che forse sono ancora più a sinistra, quelli dello Psiup, gli anarchici, gli hippies, i situazionisti, qualche operaista in gestazione.

I bidelli di fisica sono con noi (quante partite a tressette e al due con Gino e Giancarlo).

la organizzazione

Si mette in piedi il Comitato di Agitazione nella ex sala della facoltà (di fronte alla biblioteca) dove si facevano le sedute di laurea e dove un tavolo gigantesco ci permetterà di fare riunioni ordinate. Il Comitato di Agitazione è una sorta di ufficio di direzione che serve a dare continuità al lavoro.

Incominciamo a fare i tatse bao (i giornali murali ripresi dalla rivoluzione culturale cinese) usando i fondi delle bobine di carta da quotidiano procurati da Flavio. I nostri tatse bao hanno il titolo rigorosamente a pennello con vernice ad acqua di colore rosso e sono inconfondibili nella storia del movimento milanese. I titoli dei gruppi in cui si articola l’assemblea li vedete nella foto: didattica di massa, ricerca di massa, preparazione all’insegnamento, scuola – società – ristrutturazione, diritto allo studio, sbocchi professionali.

non chiedetemi perché quel giorno fossi in giacca e cravatta – non mi ricordo

Poi il grande lavoro su Lettera ad una professoressa che viene ristampata in migliaia di copie e che leggeremo e discuteremo pagina per pagina nei gruppi di studio. Me la sono riletta un paio d’anni fa e direi che c’era del buono e del meno buono (si veda l’articolo rileggendo Lettera ad una professoressa).

L’occupazione è finita. Non ricordo cosa abbiamo ottenuto perché i ricordi si sovrappongono tra le mie tre occupazioni (68,69 e 70).

Ci fu un tentativo di controllo dei ritmi di insegnamento e di quelli di apprendimento (una esigenza giusta con un obiettivo improponibile e irrealizzabile se assunto senza mediazioni) e comunque dopo quella occupazione e la successiva portammo a casa: i semestri, i corsi serali, le dispense oltre ad alcun piccole liberalizzazioni sui piani di studio.

le elezioni della primavera 1968 e lo PSIUP

In quella primavera si tennero le elezioni politiche e io votavo per la prima volta (solo alla Camera). Politicamente mi stavo avvicinando allo PSIUP che avevo iniziato a frequentare in quel di Monza con due amici (Mao Soardi e Lino Di Martino) che poi fecero i professori a Matematica.

Votai PSIUP e in quei mesi lessi e rilessi un  libro per me importante “Il socialismo difficile” di Andrè Gorz condirettore (con Sartre) di Les Temps Modernes. Si incominciava a cercare una nuova teoria; eravamo curiosi di marxismo; si trattava di un’opera a più mani cui avevano collaborato esponenti del movimento operaio italiano come Foa, Garavini e Trentin. Si esponeva un modello di lotta per il socialismo che passava attraverso profonde riforme di struttura e ci si respirava aria di libertà. Erano i cosiddetti riformisti rivoluzionari, una definizione che trovavo consona alle mie idee.

Nel corso dell’estate 1968 accaddero due eventi importanti per la mia evoluzione politica: la invasione della Cecoslovacchia da parte dei carri armati sovietici e il convegno del movimento di scienze a Fontanella presso l’abbazia di padre Turoldo.

Mi ero iscritto allo Psiup da meno di 15 giorni e mi ritrovai immediatamente alla opposizione vista la presa di posizione ambigua di quel partito sui carri armati russi a Praga. Così, fatta eccezione per il lavoro politico a Monza in occasione della lotta della Candy con la fondazione del CUB, il mio frapporto con lo PSIUP finì prima ancora di incominciare.

A Monza la  sede dello PSIUP era in via Anita Garibaldi, sulla destra del Tribunale ed era annessa ad un circolo socialista in riva al Lambro (oggi ci sono solo condomini signorili). Più che per far politica andavamo ad ascoltare i racconti dell’avvocato Giovanbattista Stucchi, uno dei comandanti del CLN Alta Italia, uno di quelli che si vedono sfilare con Longo e Mattei nella famosa foto della liberazione di Milano (rappresentava le brigate Matteotti).

Estate 1968 convegno del movimento a Fontanella

Fontanella è una frazione di Sotto il Monte, il paese di Giovanni XXIII e a Fontanella padre David Maria Turoldo (intellettuale, poeta, predicatore, organizzatore) aveva messo in piedi intorno ad una abbazia medioevale un centro studi dei Servi di Maria l’ordine religioso di cui faceva parte.

A Fontanella abbiamo fatto il convegno residenziale estivo del movimento. Pochi giorni di nuovo insieme (eravamo una cinquantina) per discutere cosa fare nel 68/69. Abbiamo lavorato e a me è rimasto in mente la pace di quel posto. Turoldo ci lasciò discutere per giorni senza mai interferire e poi prese la parola l’ultimo giorno; riprese qualche elemento della sua ricca storia personale che copriva tutto il dopoguerra e ci rivolse un invito esplicito a non farci strumentalizzare. Ricordo ancora la replica irata di Sergio Bianchini che si stava avvicinando ai marxisti leninisti.

A Fontanella ho anche conosciuto Oskian (Aurelio Campi) che nel primo anno di movimento si era mosso nell’ombra (anche perché allora era un greco-armeno apolide) e che durante il convegno esercitò una netta leadership conquistando alla neonata Avanguardia Operaia una buona fetta del gruppo dirigente.

Con lui ebbi modo di approfondire le cose che avevo appreso dal libro di Gorz. Era leninista e me le smontò una per una, ma senza strafare. Era iniziato il mio percorso verso Avanguardia Operaia. Paradossalmente, quando nel 1975, da segretario generale di Avanguardia Operaia si trovo a dover definire la nostra strategia di medio periodo, egli parlò di lotta rivoluzionaria per le riforme.  Gorz aveva ragione?

la religione e il cristianesimo

La rottura con la religione è stata graduale e, come detto, è avvenuta prima con la Chiesa e poi con Dio. Il mio processo di contestazione-rinnovamento è iniziato all’inizio degli anni ‘60 con l’adesione a Gioventù Studentesca: ricerca di rapporti umani autentici e rapporto con il Divino mediato da una comunità: il contrario del formalismo e della disumanità della Chiesa brianzola di paese fatta di riti, organizzazione e mancanza di discussione.

Da GS me ne sono andato quando l’integralismo è diventato dominante e gli spazi per un nuovo umanesimo sono diventati solo quelli interni al cattolicesimo. Lasciata GS, non ho lasciato il cattolicesimo (che ormai preferivo chiamare cristianesimo): attenzione al rinnovamento post conciliare, lettura delle riviste del rinnovamento, frequentazione di sacerdoti e comunità eterodosse, delusione per la figura di Papa Montini sul piano umano (troppo pastina) e sul piano intellettuale e teologico con i passi indietro rispetto a Papa Giovanni il Papa Buono.

abbazia di Sant’Egidio a Fontanella nei pressi di Sotto il Monte

E’ stata una trasformazione lenta che ha avuto il suo strappo decisivo proprio a cavallo del ‘68-‘69, quando mi presi alcuni giorni di riflessione presso la comunità di Padre Turoldo. Lì ho trovato gente molto in gamba disposta a concepire percorsi personali e un po’ eretici dentro la Chiesa (teologi puri, teologi della liberazione).

Oltre a padre Turoldo, fuori classifica sul piano della personalità e della esperienza umana, ebbi modo di conoscere alcuni altri Servi di Maria (intellettuali a tutto tondo e anche frati latino-americani con simpatie per la rivoluzione). In Uruguay era il tempo dei Tupamaros. Scrissi anche un saggio per la loro rivista trimestrale (Servitium). Ma c’erano di mezzo le assurdità del mondo cattolico con i suoi riti, la sua etica reazionaria, il principio di autorità; avevo 22 anni e avevo incominciato a fare sesso con Bruna.

Da Turoldo e dai suoi teologi venni invitato a considerarmi una pecorella con diritto alla autonomia di pensiero, ma dopo alcuni dolorosi ripensamenti, decisi che la cosa non aveva senso e finì così, naturalmente in maniera graduale, prima il mio rapporto con la religione e poi quello con la trascendenza.

intermezzo lavorativo

Come campavo, visto che nel ’65, con i miei avevo preso l’impegno di cavarmela da solo? Nei primi due anni ero molto preso dallo studio e così mi limitai a qualche lezione privata e a partire dal 67 le mie entrate diventarono più regolari:

Docente nelle scuole serali di tipo professionale; ho insegnato sia ad Arcore, sia a Macherio per tre anni; si trattava di fornire rudimenti di matematica in corsi che venivano organizzati in accordo con i comuni entro strutture scolastiche.

Lezioni private; qualche cosa tra Villasanta e Monza, con preferenza a lavori di tipo continuativo (assistenza per l’intero anno scolastico a figli di famiglie facoltose) e poi a Milano; sempre per alunni di liceo.

Ho anche lasciato un credito di almeno centomila lire di allora ad una famiglia di corso Magenta. Palazzo signorile, famiglia con maggiordomo in livrea; capofamiglia un primario dell’ospedale di Vimercate. Il rampollo faceva il Gonzaga (uno dei licei privati prestigiosi di Milano).

Venivo ricevuto dal maggiordomo che mi faceva accomodare e aggiungeva “un momento che le chiamo il signorino“; la cosa mi metteva molto a disagio. Aggiungo che in un paio di occasioni mi fu detto “mi spiace, il signorino non c’è e si è dimenticato di avvertirla“. Da Città Studi, per andare in corso Magenta ci mettevo almeno tre quarti d’ora e la cosa del signorino, che avrei preso a calci nel culo, mi seccava. Al terzo episodio non mi hanno più visto nè sentito. Una questione di dignità e la scelta di non richiedere quanto mi spettava fu un punto di orgoglio.

Redazione di testi per le enciclopedie: la De Agostini, o altri editori, si rivolgevano ad un docente universitario di grido per la redazione di quelle enciclopedie a dispense e liui subappaltava. Non si guadagnava molto ma in compenso non c’erano tempi morti e problemi di viaggio.

Beppo Occhialini

Tecnico universitario: dal 1969 al luglio 70 ho lavorato come tecnico universitario part time (in prova e su fondi CNR) presso il gruppo di Fisica dello Spazio del professor Occhialini. Non si guadagnava molto ma ci pagavo le tasse, i trasporti, la mensa e la cambiale di 23’600 lire mensili per l’acquisto della 500 comperata a inizio ’68 firmando 29 cambiali.

Quel posto di lavoro mi avrebbe poi aperto la strada per la carriera universitaria. Mentre ero a militare il posto fu trasformato in quello di tecnico di ruolo, ed essendomi nel frattempo laureato sarei diventato automaticamente ricercatore universitario di ruolo. Quando tornai da militare il professor Occhialini che mi stimava, stima reciproca, mi chiamò per sapere che intenzioni avevo. Mi guardò negli occhi ed io risposi: la fisica mi piace, ma la politica viene prima. E così rinunciai alla carriera universitaria prima di cominciare.

il 1969 e l’impegno in AO

Lo scopo di questo capitolo è quello di parlare della mia evoluzione politica e dunque vedremo come sono cambiate le mie idee con la adesione al comunismo rivoluzionario e quello che facevo in politica.

il rapporto con Oskian (Aurelio Campi)

Come ho già detto era iniziato un rapporto stretto e continuativo con Oskian del quale mi colpivano favorevolmente la chiarezza, la molteplicità di interessi e la grande cultura.

Quasi tutti i giorni mangiavamo o alla casa dello studente o all’altra mensa di via Venezian e poi si passava a casa sua e di Claudia Sorlini, la sua compagna, per le chiacchiere a ruota libera, ed è da queste chiacchiere che è maturata la adesione al progetto di AO.

Percepivo quanto il lavoro da fare fosse molto, difficile e da svolgere con pazienza. Costruzione del consenso attraverso il dialogo e tanto lavoro politico anche minuto. Su una parete c’erano i 45 volumi delle opere di Lenin ed è a Lenin che Oskian faceva continuamente riferimento come esempio da tenere presente nel lavoro politico. Leggeva regolarmente Le Monde e il settimanale filopadronale “Mondo Economico”. Claudia interveniva ad attenuare certe spigolosità con un po’ di saggio pragmatismo bresciano e femminile.

la prima cellula di AO

Metà del mio tempo lo dedicavo allo studio della storia, della economia politica e a quello dei classici. Quelli li studiavo bene cercando di approfondire il contesto, perché una delle prime cose che mi capitò di fare fu il lavoro di docente in gruppi di studio di formazione politica (a quei tempi, sui giornali, ci chiamavano i professorini di AO).

C’era da mettere in piedi la cellula di AO di fisica, di cui fui il primo segretario (era la prima delle Università, poi Scienze, poi Città Studi dopo il coinvolgimento di Ingegneria, Agraria e Medicina). Tra lavoro politico, lavoro materiale come dipendente universitario part time e pendolarismo, quello fu un anno in cui, scientemente, combinai piuttosto poco in termini di crediti universitari. Avevo finito il III anno in pari con gli esami e nel corso del IV anno non ne diedi nemmeno uno dopo aver rinunciato a dare Elettronica applicata che pure avevo studiato con impegno.

Il rapporto con Avanguardia Operaia nel corso del 1969 passò attraverso la partecipazione ad assemblee di orientamento che si tenevano la domenica mattina alla sede di via Bacchiglione o il sabato pomeriggio in quella di via Giason del Maino.

com’era la AO che incontrai

i primi numeri della rivista mensile di AO

La nascente Avanguardia Operaia, oltre che per il lavoro nei confronti delle grandi fabbriche attraverso i Cub, lavoro in cui non ero direttamente coinvolto, si caratterizzava per la formazione di militanti ideologicamente e politicamente formati su alcuni capisaldi:

  • una tiepida adesione ai processi in atto in Cina, ma senza strafare
  • un riferimento al fallimento della rivoluzione d’ottobre, tradita dallo stalinismo prima e dalla burocrazia poi, ma di cui si salvava l’impianto leninista (con gli annessi e connessi della presa del potere e della dittatura del proletariato)
  • una posizione di appoggio ai movimenti di liberazione in tutto il mondo che strizzava l’occhio ai trascorsi trotskisti di alcuni esponenti del gruppo dirigente. Massimo Gorla (che era stato nella segreteria della IV internazionale) con numerosi di quei movimenti intrattenevano rapporti sistematici anche se con una selezione degli interlocutori eccessivamente viziata da criteri di tipo ideologico. Si veda per esempio l’appoggio al Fronte Democratico Popolare di Liberazione della Palestina, che era DOC dal punto di vista ideologico, ma contava molto poco rispetto ad Al Fatah
  • una visione del processo rivoluzionario in Italia come processo di lungo periodo e la sottolineatura che ci trovavamo nella fase di creazione delle condizioni per la formazione del partito rivoluzionario di tipo leninista (avanguardia del proletariato); di più non si diceva e non si poteva dire, ma era una bella demarcazione da gruppi e partitini che si autoproclavano partito rivoluzionario
  • un giudizio nei confronti del Movimento operaio organizzato e in particolare del Partito Comunista come di partito che aveva tradito, dopo la parentesi gramsciana, la lotta per il socialismo; su questo punto c’erano grande intransigenza e contrapposizione aperta. Nel numero uno di Avanguardia Operaia il PCI è definito essere l’ala sinistra della borghesia  (una sciocchezza che non ho mai digerito). In realtà trovavo che il giudizio sull’impianto teorico del PCI fosse parecchio schematico ma non me la sentivo di affrontare la questione, anche per denolezze teoriche e storiche mie.
  • nei confronti delle altre forze della sinistra rivoluzionaria i giudizi le collocavano nei diversi compartimenti del panorama arlecchino della sinistra rivoluzionaria: spontaneisti, economicisti, stalinisti, filo revisionisti, …Questo modo di procedere era tipico di tutte le organizzazioni allora presenti e si caratterizzava per un alto livello di concorrenza competizione

In sintesi: difesa del leninismo con critica della degenerazione staliniana, lotta per il socialismo senza la pretesa di essere i migliori del mondo, rottura molto netta con PCI e sindacati, sulle questioni centrali del processo rivoluzionario in Italia … si vedrà.

la formazione politico-ideologica

Avanguardia operaia sin dal 1969 prestò grande attenzione alla formazione politica ideologica dei suoi militanti e quindi, da subito, realizzò una rivista bimestrale, poi divenuta mensile, in cui si alternavano saggi di orientamento storico-politico, relazioni relative al lavoro di massa e informative sui rapporti con gli altri gruppi in giro per l’Italia

i classici in un estratto della mia biblioteca

Per quanto mi riguarda continuavo ad utilizzare la lettura attenta di Rinascita come strumento di orientamento relativo alle problematiche del nostro paese, visto che trovavo eccessivamente schematici e deduttivi gli editoriali della rivista.

Alla attenzione alla politica quotidiana affiancavo uno studio sistematico del leninismo, in particolare con le opere che consideravamo fondamentali per la sua comprensione e assimilazione:

  • stato e rivoluzione per le questioni di orientamento generale sul comunismo
  • che fare? sulle problematiche del partito rivoluzionario e della sua costruzione
  • l’imperialismo fase suprema del capitalismo per l’analisi del panorama mondiale
  • l’estremismo malattia infantile del comunismo per comprendere la storia del bolscevismo
  • la rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky sulle problematiche di demarcazione tra socialisti e comunisti

Prima di affrontare Lenin avevo studiato il Trattato di Economia marxista di Ernest Mandel, un’opera in due volumi che costituisce una ottima introduzione non solo alle problematiche della economia politica ma anche al materialismo storico.

Leggiucchiavo qualcosa di Trotsky, che mi piaceva dal punto di vista stilistico e comunicativo, mentre nella prima fase, con la eccezione del Manifesto del Partito Comunista e della concezione materialistica della storia non lessi nulla di Marx, rinviando ad altri momenti la lettura del primo libro del capitale.

idealismo e materialismo

A proposito della concezione materialista della storia (un estratto della Ideologia Tedesca) ho un ricordo kafkiano di un gruppo di studio alla cellula di Fisica sul tema classe in sè e classe per sè. Questioni che rinviavano all’idealismo hegeliano, argomento che mi era del tutto sconosciuto e a cui cercavamo di sopperire leggendo le note del curatore.

Con il senno di poi mi viene da dire, a proposito dell’impegno editoriale degli Editori Riuniti nella diffusione delle opere di Marx e di Lenin, quanto fossero masochisti questi esponenti dell’ala sinistra della borghesia. Confesso, per quanto riguarda gli odiati revisionisti, di essermi sempre rifatto alle fonti dirette leggendo La storia del PCI  di Paolo Spriano che nel 69 era giunta al secondo dei cinque volumi (che continuai poi a leggere negli anni successivi).

Paolo Spriano per me era un mito dopo che mi capitò di leggere un suo corsivo su Rinascita in cui si ironizzava sul giornalismo alla Panorama proposto dal fondatore Lamberto Sechi che con la scusa dei fatti separati dalle opinioni sfornava articoli facili da leggere ma di una superficialità assoluta e simili a chiacchiere da cortile. Spriano sosteneva, in contrapposizione, che sognava un settimanale in cui gli articoli iniziassero dicendo io la penso così e seguivano le argomentazioni.

cosa è mancato al movimento? Le mie colpe

Con l’inizio dell’anno accademico 69/70 ho preso atto che avevo trascorso un intero anno senza dare esami e che bisognava rimediare. Ho continuato il lavoro part-time alla cattedra di Fisica dello Spazio, ma mi sono impegnato per finire l’Università. In pochi mesi recuperai il tempo perduto: 4 esami e tesi di laurea e così alla fine di luglio del 70 mi ritrovai ad essere dottore in fisica e pronto per andare a militare.

Quello che sono ora non è certamente ciò che ero allora, ma nei diversi incontri fatti per il 40° e il 50° del nostro movimento di Scienze mi sono interrogato sul se e quanto avremmo potuto lavorare diversamente, se e quanto la mancanza di una battaglia di natura culturale fosse stata responsabilità nostra.

In quegli anni utilizzammo una impostazione vertenziale con obiettivi strutturati che riguardavano essenzialmente il diritto allo studio, il miglioramento delle condizioni materiali per gli studenti, il diritto di organizzazione politico culturale, la attivazione dei corsi pomeridiani e serali per i lavoratori studenti, la proposta dei semestri e il controllo sui ritmi di insegnamento e di apprendimento. I corsi serali nei primi anni ebbero un grande successo e consentirono a molti tecnici delle aziende milanesi di laurearsi.

Nella scelta degli obiettivi c’era un limite genetico, legato alla scelta di non mischiarci con il dibattito politico ideologico, come si faceva alle facoltà umanistiche. Con il linguaggio di allora parlerei di un vizio di economicismo. Non volevamo aprire la discussione sulla cultura scientifica, sul neopositivismo, sul materialismo dialettico, sul ruolo della ricerca scientifica e al più ci limitavamo ad affermare il carattere non neutrale  della scienza, ma in realtà non ne sapevamo molto.

Eravamo pieni buona volontà, desiderosi di fare meglio, ma anche estremamente ignoranti (nel senso etimologico del termine) e dunque, mentre altrove si tentavano i contro-corsi, noi ci dedicammo a far funzionare meglio (sul piano dei risultati) la macchina universitaria. D’altra parte, con poche eccezioni, non ci aiutarono i docenti, a loro volta piuttosto impreparati e sconcertati nel sentirsi rivolgere domande sui fondamenti o sul senso di ciò che ci proponevano: studenti critici, desiderosi di capire, interessati a fare domande e, dall’altra parte, docenti sconcertati che al più rigiravano la domanda, ma non sapevano cosa rispondere.

Nell’estate del 1969, anziché occuparsi di queste cose il Comitato di Agitazione sfornò un documento, pubblicato con evidenza su uno dei primi numeri di Avanguardia Operaia, in cui il tema principale al termine del secondo anno di movimento sembrava essere la discussione metodologica sul rapporto tra movimento di massa e organizzazioni politiche e sul fatto che il rapporto con la classe operaia dovesse passare attraverso la mediazione della organizzazione rivoluzionaria. Lo potete leggere qui l’ideologia prende il sopravvento (estate 1969) ma vi anticipo che è parecchio noioso.

Mancando la riflessione sulla scienza il movimento moriva per asfissia su obiettivi giusti ma limitati e su cui non si poteva pretendere di campare per anni. Non a caso nell’anno 70/71 (mentre ero a militare) ci fu una grande lotta seguita da una grande sconfitta, perché il movimento, mancando di una strategia propositiva si infilò, senza capacità di mediazione, nel cul de sac del controllo totale dei tempi di insegnamento e apprendimento. Non seppe mediare e non portò a casa nulla.

Mi interrogo spesso sulle mie responsabilità, ma alla fine mi assolvo. Ero un emerito ignorante; per fare la riflessione critica sulla scienza serviva un bagaglio culturale che non avevo e che avrei acquisito solo più tardi.


Questo articolo va letto insieme a 1965-1970 L’Università e la scienza che riguarda lo stesso periodo ma è riferito in senso stretto agli studi universitari.

La pagina con l’indice della mia autobiografia da cui potete scegliere i capitoli da leggere e vedere una sintesi di ciascuno


 


 




1965-1970: l’Università e la scienza

III edizione – giugno 2024

fisica via celoria

L’istituto di fisica di Via Celoria con i due ingressi, a sinistra la didattica e a destra la ricerca. Al centro le finestre della biblioteca e sulla sinistra l’area didattica con le aule. Sullo sfondo l’Istituto tumori.

Gli anni di università si possono vedere da due punti di vista: la crescita culturale con la acquisizione di competenze importanti in ambito scientifico e l’immersione in un ambiente nuovo e stimolante coronato dal 1968. Ho deciso, per non fare confusione, di mantenereseparati i due ambiti e qui tratterò del primo: l’Università degli Studi di Milano e il dipartimento di Fisica.

Mi ero iscritto a Fisica perché c’era qualcosa che mi affascinava nella scienza e mi piaceva anche l’idea di occuparmene in maniera professionale (galeotti furono l’Hensemberger e il professor Oggioni, quello che mi apriva il giornale davanti al naso, e a cui diedi fuoco quando facevo la quarta).

L’Università era un ambiente totalmente nuovo:

  • Milano, raggiunta ogni mattina con il treno da Villasanta (con cambio a Monza) o da Arcore e poi a piedi dalla Centrale sino a Città Studi per non pagare il biglietto del tram (un bel risparmio), anche se, in quegli anni, camminare per Milano voleva dire arrivare in Università con la faccia nera per il particolato degli impianti di riscaldamento a nafta pesante
  • Le aule universitarie con 400 persone diverse tra loro nel modo di vestire e di parlare. I liceali diversi dai periti, i milanesi diversi da quelli della provincia

A preoccuparmi non erano nè la fisica in senso stretto, nè le applicazioni della analisi matematica alla fisica; era la astrazione matematica a mandarmi in crisi. Non ci ero abituato.

il primo anno

l’Istituto di matematica in via Saldini

Incontravo per la prima volta ragionamenti raffinati, in particolare nelle dimostrazioni di analisi, quelle di tipo epsilon-delta, in cui si prendeva un intorno di qua, si fissava un elemento di là e poi alla fine, come per miracolo, veniva tutto.

I teoremi di analisi li studiavo, li ristudiavo e ogni volta mi sembravano tutti uguali. Sapevo che lo scoglio era quello e che  dovevo farcela. Nessuno mi aveva addestrato all’esprit de finesse dell’analisi matematica. Il professor Bellia, in IV all’Hensemberger, ci dettò la definizione metrica di limite. Poi aggiunse: imparatela a memoria che tanto non la capireste. E adesso impariamo a calcolare i limiti. Quello fu il mio primo incontro con l’analisi; imparai anche i rudimenti del calcolo integrale e come lo si potesse applicare alla elettrotecnica, ma l’analisi mi era apparsa un utile strumento più che una scienza con un suo status.

Le lezioni di analisi I e II e di geometria del I anno, e anche quelle di Meccanica Razionale del II, erano in comune con gli studenti di matematica, mentre ci separavamo per fare Fisica e Chimica. Quelli di matematica al posto di Chimica studiavano algebra astratta, una cosa che non c’entrava nulla con l’algebra che avevo conosciuto alle scuole superiori e che per me era una assoluta novità.

Giovanni Ricci

Il professor Giovanni Ricci α Firenze 1904 Ω Milano 1973 a Milano sin dal 1936

Si entrava in Istituto si superava il cortile con la fontana dei pesci rossi e si entrava nel corridoio dell’aula A. A sinistra c’era l’accesso alla biblioteca e all’area di ricerca. Tutte le sacrosante mattine in 400 ci beccavamo la lezione del professor Giovanni Ricci in aula A all’istituto di via Saldini.

L’aula veniva oscurata e lui incominciava a scrivere sulla lavagna luminosa con una matita a cera bordeaux con la stessa scrittura, rotonda e regolare, che c’era nel suo libro (un libro tutto scritto a mano). Scriveva e commentava con la sua voce profonda, la stessa di suo fratello Renzo, attore di teatro, e ci dava del lei e del loro. Era inutile prendere appunti, meglio annotare direttamente sul testo. Gli appunti si prendevano alle esercitazioni del pomeriggio.

Sul Ricci giravano gli aneddoti più strani come quello secondo cui, se uno era andato male all’esame, non ti metteva riprovato sul libretto ma ti dava epsilon trentesimi; in analisi epsilon, da sempre è il sinonimo di “preso un numero positivo piccolo a piacere“. Chissa se era vero? Ricci aveva un’aria seria e severa da uomo dell’800.

Per rassicurarmi, guardavo Flavio Crippa che tutte le mattine si metteva pochi posti a sinistra di dove stava il Ricci, con la sua bella barba alla Karl Marx, la cartella di pelle nera e l’Unità aperta sul banco come a dire, il mondo sta cambiando. Flavio veniva da Garlate, nei pressi di Lecco e mi insegnò molte cose della vita: si dilettava di archeologia, di archeologia industriale, aveva preso il brevetto di pilota d’aereo, smanettava con l’elettronica e nel 68, con il suo motoscafo ha portato me e Bruna da Garlate sino al lago di Mezzola (verso Chiavenna) risalendo tutto il lago di Como e un pezzo del fiume Mera (e ritorno).

Torniamo al Ricci: mi ricordo le prime dimostrazioni con l’utilizzo del postulato di induzione matematica (se una proprietà è vera in un caso e, supposta vera nel caso ennesimo, la si dimostra vera per n+1, allora è vera sempre): eleganza, ma anche la sensazione di aver succhiato una caramella al gusto di sabbia. Così si dimostra la verità di una proposizione, ma come la si scopre? Dimostrazioni costruttive, dimostrazioni per assurdo, dimostrazioni per induzione. Parole per me nuove come dicotomia o come postulato. Ma perché si postula se è già chiaro?

Nel pomeriggio, alle esercitazioni, mi trovavo meglio: dimostrazione di convergenza delle serie più assurde, studio di famiglie di funzioni che richiedevano l’uso continuo di disequazioni da risolvere anche solo in maniera approssimata alla ricerca di cuspidi, punti angolosi, discontinuità.

metà anni 60 sessione di laurea Matematica

metà anni 60 sessione di laurea Matematica (analisi, algebra, analisi, geometria)

Carlo Felice Manara

Quando finiva il Ricci incominciava il Manara: Carlo Felice, cattolico fervente e padre di una miriade di figlie, alcune delle quali studiavano con noi. Nel 74 sarebbe stato uno degli animatori del comitato referendario contro la legge sul divorzio.

Era ordinario di Geometria e, proprio in quell’anno, aveva rivoluzionata il suo corso: basta geometria proiettiva (roba da ingegneri ed architetti), basta geometria analitica nel piano e nello spazio (rinviate alle esercitazioni), si facevano geometria algebrica e geometria vettoriale negli spazi a n dimensioni, in maniera del tutto sganciata da ogni riferimento alla realtà o alla visualizzazione delle cose e io, un po’ ingenuamente, mi dicevo: ma geometria non vuol dire misura  della terra?

Per il nuovo corso Il Manara aveva anche pubblicato un libro dalla editrice Viscontea, ma il libro, giunto in ritardo a corso già iniziato, era pieno di errori redazionali e tipografici, così, quando non capivi un passaggio non sapevi mai se eri un po’ duro, o non capivi perché c’era un errore. Bastava che fosse saltato un neretto e il simbolo di vettore diventava quello di una componente. Anche qui la sofferenza superava il piacere.

Il professor Manara, a differenza di Ricci, stava in cattedra davanti alle lavagne a scorrimento; era alto e parlava sempre con gli occhi socchiusi e l’aria ispirata per cui non si capiva mai dove stesse guardando. Per fortuna le esercitazioni tenute dal professor Melzi e dalla professoressa D’Aprile, da noi chiamata familiarmente Margherita, erano più chiare e ci consentivano, attraverso domande, di ricevere qualche chiarimento sulle lezioni della mattina.

Analisi e geometria le studiavo con un compagno di Monza, compagno nei due sensi della parola perché poi avremmo aderito insieme allo PSIUP, il Mao (Maurizio) Soardi. Mao aveva fatto lo Zucchi, non aveva mai fatto esercizi di analisi in vita sua, ma aveva l’abitudine alla astrazione. Lui prese 30 e lode, l’anno dopo passò da fisica a matematica e, a meno di 30 anni, diventò ordinario di Analisi.

via Celoria

aula A di Fisica in via Celoria

Finiti i corsi a matematica, finalmente, si andava in via Celoria. All’angolo di via Saldini si prendeva a destra la via Mangiagalli e si passava davanti all’Istituto di anatomia sino all’obitorio, sull’angolo di piazzale Gorini. Si girava ancora a sinistra in via Ponzio e si costeggiavano gli edifici bassi in mattoni degli istituti di agraria e di veterinaria, si passava il Cremlino (l’istituto zooprofilattico, chiamato così per la presenza di alcune guglie) e finalmente si arrivava al  semaforo di via Celoria. Da una parte il Besta, l’istituto neurologico, e dall’altra Fisica.

Era un edificio moderno, corridoi e servizi igienici pulitissimi, un grande atrio con al centro una enorme camera a bolle dei primi anni 50 con cui furono effettuati importanti esperimenti di fisica delle particelle. Dopo tutta quella serie di edifici austeri e un po’ ottocenteschi qui si respirava una atmosfera meno formale. Sul lato di via Ponzio c’era l’ingresso carraio con il giardino, il ciclotrone, il capannino dove stavano i fisici delle particelle e il bar.

Ugo Facchini

occupazione 1971 – il professor Facchini, munito di seghetto tenta di riaprire l’area di ricerca occupata

In aula A ci attendeva il professor Facchini che teneva il corso di Fisica 1. Ugo Facchini era un personaggio un po’ underground, lavorava con il CISE  e si occupava di problematiche energetiche legate al solare. Dopo la defaillance di Caldirola (letteralmente impazzito di fronte al 68), lo sostituì nelle funzioni di direttore dell’Istituto di Fisica.

Il suo corso era diviso in tre parti:

  • una di meccanica newtonina e di relatività ristretta che usava come base un testo dello stesso Facchini,
  • una parte di termodinamica, da cui imparammo molto poco, perché fu trattata malamente a lezione mentre il testo, sarà anche stato di Fermi, ma non andavaassolutamente bene per degli analfabeti quali eravamo,
  • e infine una parte di meccanica dei fluidi dove si utilizzava un vecchio libro di Giovanni Polvani.

A onore di Facchini devo dire che, con il suo stile un po’ trasandato che puntava a sottolineare l’essenziale delle leggi trascurando le complicazioni matematiche, è riuscito a farci comprendere bene le cose essenziali della meccanica che poi avremmo ripreso alla grande nel corso di Meccanica Razionale.

fisichetta

Ma con la fisica non era finita, perché i fisici avevano anche un corso biennale Esperimentazioni di fisica  detto più familiarmente, fisichetta. A fisichetta si facevano due cose: alcune sedute di laboratorio (ricordo quelle di termodinamica con i calorimetri e la misura dei calori specifici e quelle sulla caduta dei gravi nei fluidi in regime turbolento e/o viscoso) e poi problemi di fisica in preparazione dello scritto che si sarebbe però fatto alla fine del II anno.

Tentarono di insegnarci, senza molti risultati a causa della inadeguatezza del docente, le cose essenziali di teoria degli errori, comunque fu lì che sentii parlare per la prima volta di varianza, di distribuzione gaussiana e di legge dei tre sigma.

bublioteca e sala studenti

Nel pomeriggio, quando non c’erano impegni di lezione, si stava in biblioteca a studiare. La biblioteca era nel corridoio che unisce l’area didattica a quella di ricerca, di fronte alla sala del Consiglio di Dipartimento, che poi avremmo trasformato nella sede del Comitato di Agitazione.

C’erano due bibliotecarie, una anziana secca e vecchio stiile e l’altra più in carne e sorridente. Più che studiare ci si confrontava tra compagni sulle cose meno chiare e si risistemavano gli appunti presi a lezione. Se però ci si voleva rilassare sul serio si scendeva di un piano e, di fianco al bar, si andava in aula studenti, il regno del bridge e della briscola a chiamata.

Lì stazionava un gruppo di fuoricorso storici, capeggiati da Augusto Naj dell’AGI, l’associazione studentesca di matrice liberale, che ci passavano l’intera giornata . Erano le stesse persone che cercavano, con scarsi esiti, di rinverdire le tradizioni su anziani, matricole e fagioli. Un giorno quelli di ingegneria beccarono anche Gigliola Cinquetti, matricola di architettura, e la fecero salire su un albero a cantare non ho l’età.

gli esami

Per un pinella della Brianza, che non aveva fatto il liceo tutto sommato andò  bene: Analisi 1 a giugno con 24, Fisica 1 e geometria a ottobre con 26 e 23, chimica a febbraio con 21 (il voto più basso della mia carriera di studente).

Per l’esame di chimica mi ero preparato abbastanza a fondo, ma dopo qualche domanda, mi misero davanti una reazione di ossidoriduzione da bilanciare. Mi misi all’opera e quando finii tutto soddisfatto per aver bilanciato le molecole coinvolte, il professore mi disse: lei ha sbagliato, questa reazione non può avvenire per via dei potenziali di ossidoriduzione dei reagenti. Da incazzarsi.

Ero orgogliosissimo di quel 24 in analisi. A giugno su 400 tra fisici e matematici passammo in una quarantina e l’esame di analisi 1 era quello cruciale; se lo passavi eri considerato un iniziato.

L’esame si svolgeva in quattro atti:

  • lo scritto di 6 ore con esercizi vari e come piatto forte lo studio di una famiglia di funzioni i cui andamenti erano almeno di 3 o 4 tipi diversi al variare del parametro,
  • il pre-orale, che era un altro scritto, subito prima del colloquio, su semplici, ma numerosi esercizi relativi all’intero programma,
  • e poi, in sequenza i due orali: sul primo volume con gli assistenti e sul secondo volume con il Ricci. Il giorno dell’orale incominciavi nel primo pomeriggio e finivi la sera tardi.

il secondo anno

Non avevo ancora tirato il fiato per gli esami di ottobre e l’anno già ricominciava con tre corsi annuali di quelli belli tosti: Analisi 2, Fisica 2 e Meccanica Razionale (oltre alla solita fisichetta). C’era anche un colloquio in due lingue straniere a scelta, ma quello fu una passeggiata (Francese e Inglese). Ormai si studiava prevalentemente su libri in quelle due lingue: quelli americani e quelli russi delle edizioni MIR (tradotti in francese).

meccanica razionale

Il corso del biennio che mi è piaciuto di più, che ho seguito senza perdere nè una lezione nè una esercitazione, è stato quello di Meccanica Razionale. Prima di iscrivermi a Fisica non sapevo nemmeno che questa disciplina, figlia dell’Illuminismo, esistesse. Il suo studio mi ha aperto la mente, dai fondamenti della meccanica sino alla meccanica analitica di Lagrange ed Hamilton, che fanno da premessa alla Fisica Teorica.

I primi dieci minuti di lezione il professor Udeschini li passava a disegnare un sistema di N punti materiali con relative interazioni su cui avrebbe poi impostato la trattazione lagrangiana o hamiltoniana. Nelle esercitazioni il professor Barazzetti si dedicava alla impostazione e trattazione di problemi pieni di oggetti interconnessi (fili, sbarre, corpi rigidi estesi, carrucole, …).

Il professor Barazzetti fu esemplare nel trattare configurazioni meccaniche via via più complesse e, nella seconda parte del corso, invece di analizzarli attraverso le leggi fondamentali della meccanica, imparammo a trattarli anche con le lagrangiane.

Avevo una serie di quaderni degli appunti ordinatissimi. Dopo tanto impegno e tanto studio (compresi i due volumi del Finzi e anche la Mecanique di Landau) presi solo 24, mentre un mio  compagno, che non aveva seguito il corso e che si preparò solo sui miei appunti (per altro mai restituiti), prese 30 nella sessione successiva. Da allora ho iniziato a non prendere troppo sul serio i risultati di un esame universitario.

analisi 2

Il corso di Analsi 2 era tenuto dalla professoressa Fulvia Skof, allieva di Ricci (poi entrata in ruolo a Torino); fu quel corso a rischiare di mandarmi in tilt durante la preparazione all’esame sostenuto a fine luglio del 67. Le esercitazioni le faceva il professor Paganoni; algida la Skof e cicciotto il Paganoni. Andavo a dormire a tarda notte e continuavo a vedere serie di funzioni di cui dovevo stabilire la convergenza e se essa fosse uniforme o meno. La convergenza uniforme l’ho finalmente compresa, sul piano della ragion d’essere, anni dopo, studiando questioni di storia della analisi matematica. Non mi preoccupavano invece le parti più concrete come gli integrali e le equazioni differenziali.

Era un programma mastodontico, senza un libro di testo, in cui ciò che doveva costituire l’oggetto principale del corso per dei fisici in formazione e cioè, funzioni a due variabili, calcolo integrale, integrali generalizzati, funzioni nel campo complesso, equazioni differenziali, era dato quasi per scontato e si lavorava prevalentemente sugli approfondimenti e sulle sottigliezze.

Avevo l’impressione che ai matematici non interessasse mai come andassero le cose nella maggioranza dei casi. Li vedevo appassionati all’eccezione, al pelo nell’uovo e io non riuscivo ad abituarmici. Mi dicevo, ma non potrebbe assegnare questi corsi di analisi a dei fisici ? Quelli almeno sanno che cosa ci serve.

il testo della Schaum’s utilizzato per applicare l’analisi matematica al calcolo vettoriale

Mi spiego con un esempio, dopo essere impazzito sul tema della convergenza uniforme (o non uniforme) delle serie di funzioni, mi sono trovato a non aver mai studiato gli sviluppi in serie di Fourier (utili per la MQ) o le trasformate di Laplace. Queste le ho studiate da solo e applicate nel corso di elettronica per lo studio dei fenomeni transitori nello reti circuitali.

Alla fine andò tutto bene, presi 27 e potei dedicarmi all’amata fisica; ma di ciò che di analisi serviva al corso di fisica non mi avevano insegnato niente e dovetti occuparmene da solo, sia per Fisica 2, sia per Istituzioni di Fisica Teorica del III anno. In proposito mi fu di aiuto un manuale della Schaumm Vector Analisys.

fisica 2

Proprio nel 66/67 il professor Piero Caldirola, il decano dei fisici teorici del nord Italia, lasciò la cattedra di Istituzioni di fisica teorica per passare a Fisica 2.

Caldirola era un po’ troppo chiaccherone e asistematico per tenere un corso istituzionale; in più se ne occupava per la prima volta. Per fortuna c’erano due giovani assistenti che supportavano le lezioni, il professor Marcello Fontanesi, futuro rettore della Bicocca e il professor Elio Sindoni, esperto di fisica dei plasmi.

Il programma era enorme, tutto l’elettromagnetismo sino alle equazioni di Maxwell, inclusa la generazione delle onde elettromagnetiche e poi, la teoria delle onde elastiche, l’ottica geometrica e quella ondulatoria.

Matteo Giani il giorno del suo matrimonio insieme a Luca Basanisi e in primo piano il mio regalo di nozze – la mia copia dei 3 volumi delle Lectures on Physics di Ricky Feynman

Per di più non esisteva un testo. Ma erano da poco disponibili le Lectures on Physics di Feynman; le comperai un volume alla volta (dal libraio Agostino Quattri che vendeva libri a casa sua, a fianco di via Saldini) e preparai la parte di elettromagnetismo sul secondo volume e quella di ottica sul primo. La mia formazione di base da perito elettrotecnico fece il resto rispetto a tutte le problematiche di tipo elettrico e arrivò il primo trenta.

Il Feynman mi aprì la mente e il cuore, mi insegnò a non farmi spaventare dalla matematica ma ad usarla in maniera euristica, ad applicare l’adagio di Feynman “se funziona, va bene“. Da allora, quando ho voglia di imparare qualcosa di nuovo, apro i capitoli finali del II e III volume e mi diverto imparando cose che non conosco trattate in modo assolutamente originale (e sono passati ormai più di 50 anni).

Superati i 70 anni di età ho compiuto un atto d’amore o un sacrilegio, a seconda dei punti di vista. Il mio primo ex alunno fisico (Matteo Giani) che si è sposato ha ricevuto in dono i miei tre volumi del Feynman e qui vedete la foto della consegna ideale del testimone.

il secondo biennio

Avevo vinto la sfida; niente richieste di soldi a casa; automantenimento e strada aperta per fare il fisico; ma era l’autunno del 67 e, come è noto, molte cose bollivano in pentola. Ma ne parlerò in un altro capitolo, meglio tenere separate la crescita culturale-scientifica da quella culturale-politica.

Nel III e IV anno capitalizzai gli sforzi che avevo fatto per inserirmi; mi sentivo finalmente a mio agio, a casa mia. Scelsi l’indirizzo applicativo elettronico-cibernetico. Avevo capito che le cose importanti stavano nei libri e che non era indispensabile rincorrere gli appunti. Imparai anche a leggere i libri scientifici acquisendo la capacità di non perdermi dietro ai dettagli.

Così incominciarono a fioccare i voti alti.

esami del III anno

Istituzioni di Fisica teorica: la bestia nera che molti studenti ripetevano più volte. Appoggiandosi sulle conoscenze di meccanica analitica e sugli esperimenti cruciali del primo 900 sul dualismo ondulatorio corpuscolare per la radiazione e per la materia si introduceva la Meccanica Quantistica secondo la modalità De Broglie Schrodinger e poi si lavorava sulla assiomatica. Causa interruzioni per la occupazione arrivammo sino al momento angolare quantizzato. Teoria con il professor Prosperi appena rientrato dagli Usa ed esercitazioni con un gruppo di assistenti e ricercatori molto validi: Lanz, Ramella, Gallone, Cattaneo. scritto e orale 30,

metodi matematici per la fisica: un corso di analisi superiore fatto da fisici per i fisici sulla teoria degli spazi vettoriali e quella degli operatori. Il corso era tenuto da Renzo Cirelli (un ex prete anarchico) con la collaborazione, per le esercitazioni dello stesso gruppo di Teorica. scritto e orale 30 e lode,

struttura della materia : rudimenti di fisica atomica e nucleare con il professor Tagliaferri il responsabile del gruppo di ricerca del Ciclotrone. Non ho seguito il corso che risultava abbastanza noioso e ho lavorato direttamente sui testi di Leighton e sul Finkelburg. Solo orale 27,

Il professor Giovanni Degli Antoni (detto Gianni) elettronico, informatico, inventore del corso di scienza della informazione – mente geniale Piacenza 1935 – Segrate 2016

Elettronica generale: corso tenuto dal professor Degli Antoni che in quell’anno ha lasciato Cibernetica e Teoria dell’Informazione. Degli Antoni già responsabile del gruppo di elettronica di Fisica dello Spazio (Occhialini) stava iniziando a mettere in piedi un gruppo di persone interessate all’Informatica. Testo nuovo, americano, il Millman Halkias oltre a tutta la parte circuitale e sulle trasformate di Laplace.

Durante questo corso è nato il mio rapporto di amicizia con Degli Antoni. Stava illustrando alcuni processi di conduzione nei semiconduttori drogati con passaggio di elettroni dalla banda di valenza a quella di conduzione. Alzai la manina per dire che la spiegazione non sembrava convincente. Degli Antoni sorrise e disse che quella era la spiegazione data da Fermi. Risposta: non ho chiesto di chi sia quella spiegazione; ho detto che non mi pare convincente e spiegai perché. Voto 30,

Laboratorio di elettronica facemmo eperimenti di base di tipo circuitale e poi progettai e realizzai un alimentatore stabilizzato. Voto 30

esami del IV anno

Cibernetica e teoria della Informazione fatto eccezionalmente con Degli Antoni sulle sue dispense senza seguire alcun corso. Imparai un sacco di cose sull’algebra della logica, sulla teoria dell’informazione, sul calcolo delle probabilità, sulla teoria degli automi. Voto 30,

Macchine calcolatrici: era un corso tenuto da uno dei docenti del gruppo di Fisica dello spazio su cose di cui mi occupavo in chiave lavorativa. C’era un po’ della nascente informatica (conoscevo il Fortran e anche un po’ di basic). Voto 30,

Laboratorio di cibernetica: non ricordo i dettaglima con il mio gruppo (tra cui Alberto Bertoni) e sotto la guida di Degli Antoni realizzammo un aggeggio elettronico che utilizzava potenziometri di precisione e costruimmo un modello di macchina che impara. Si incominciava a ragionare di intelligenza artificiale. Voto 30,

Radioattività: L’esame di radioattività non l’ho mai fatto. Durante il quarto anno (68/69) io e un paio di amici politicamente impegnati ci rivolgemmo al professor Ludovico Geymonat per esternargli il nostro desiderio di sostenere l’esame di filosofia della Scienza.

Detto, fatto; concordammo il programma d”esame e coinvolgemmo, in accordo tra le parti, la professoressa Connie Dilworth, moglie di Beppo Occhialini, presso cui lavoravo a part-time. Lei insegnava radioattività e così Geymonat venne nascosto dietro radioattività.

L’esame fu una cosa molto seria per due ragioni: perché ci tenevamo a fare bella figura con il professore, perché lui ci diede un programma di studio di tutto rispetto (il voluminoso testo di Ernst Nagel “Le strutture della scienza” e quattro gruppi di scritti legati alla teoria della conoscenza nel materialismo dialettico rispettivamente di Lenin, Stalin,Trotcky e Mao.

Esame alla presenza di Ludovico Geymonat, Corrado Mangione e Felice Mondella. I maestri della epistemologia in Italia e tra loro il padre fondatore. Ricordo di essere rimasto impressionato dallo studio del Nagel, un testo molto dotto che mi lasciava sempre la impressione che su certe questioni fosse vera una certa tesi, ma anche la sua contraria. Ricordo che ne parlai con Geymonat durante il colloquio. Il Nagel l’ho riletto e ristudiato anni dopo quando ormai ero ferratissimo sul neo-positivismo ed ebbi modo di apprezzarlo più di quanto non feci nel 69. Voto: 27

l’interazione con i docenti

Il 1968, dal punto di vista culturale, fu un anno di svolta. Noi del III anno eravamo sufficientemente navigati per esternare il desiderio di capire attraverso la discussione. Eravamo anche sufficientemente ignoranti per non potercela fare da soli. Così l’incontro scontro con i docenti ci fu, ma non fu all’altezza delle aspettative di ambo le parti.

Mi riferisco al corso di Istituzioni di Fisica Teorica, quello che porta gli studenti di fisica nel mondo nuovo e inesplorato della meccanica quantistica. Noi ponevamo, male, le nostre domande e dall’altra parte ci rispondevano in maniera dogmatica. Ho preso 30 ma ho conservato molti dubbi e ho continuato a studiarla, anche ora che ho superato i 70.

Eccezione il professor Gianni degli Antoni che poi avrebbe creato il corso di laurea in scienza dell’Informazione e siamo diventati amici. Con lui ho fatto gli esami di elettronica e di cibernetica e mi ha fatto da relatore di tesi. Si dialogava molto perché lui era una persona curiosa. L’unico docente che abbia cercato di capirci e lo voglio ringraziare, come fece lui verso di noi alla cerimonia in cui andò in pensione, qualche anno fa.

la laurea con una tesi di logica a infiniti valori (poco fisica)

Mi sono laureato a luglio del quinto anno con una tesi di informatica teorica sulla logica a infiniti valori (i fuzzy set). Relatore Gianni degli Antoni, correlatore Piero Mussio. Piero Mussio era un collaboratore di Degli Antoni, molto simpatico, schierato apertamente a sinistra e con un padre simpaticissimo aderente al Partito Comunista Internazionalista (quello di Bordiga).

Nell’ultimo anno e mezzo, ho anche lavorato di pomeriggio, come perito, per il gruppo di ricerca di fisica dello spazio (facevo programmi in Fortran) che venivano utilizzati per la elaborazione dati di eventi di interazione con i raggi cosmici negli strati alti della atmosfera. Erano gli studi classici del professor Occhialini, mancato premio Nobel alla fine degli anni 40, si dice per ragioni politiche (nel mondo della scienza era considerato un comunista).

Per quanto riguarda la tesi ci fu qualche problema da parte dell’establishment dei fisici che, giustamente osservavano che quella non era roba da fisici, ma da qualche parte doveva pur nascere informatica e caso volle che il primo a muoversi fosse stato un fisico: Gianni degli Antoni.

Alberto Bertoni 1946-2014 il mio compagno di tesi che da studente era uno dei più bravi del nostro anno

La tesi era un lavoro di coppia (altro scandalo!) con Alberto Bertoni, uno di quelli con cui avevo preparato l’esame di Filosofia della Scienza.

Alberto veniva da Barlassina e mi stupiva sempre: Claudio, oggi sul treno mi è venuto in mente che potremmo presentare questo teorema, e giù enunciato e dimostrazione. Mi lasciava di  stucco per la creatività e la capacità di astrazione.

La nostra tesi non poteva essere compilativa perché sull’argomento, in quel momento esisteva un solo articolo in letteratura (quello di Zadeh, fondatore della teoria) e dunque bisognava creare e lui creava. Io, come diceva Gianni degli Antoni, corredavo con preziose idee di tipo applicativo.

Alberto è morto qualche anno fa dopo aver fatto il professore a Informatica e il direttore di dipartimento. Aveva la media leggermente più alta della mia e gli diedero la lode. Io ho preso 109/110; d’altra parte non avevo preso neanche un 29 ….

Tutto il nostro gruppo degli immatricolati nel 65/66 è finito a lavorare con Degli Antoni (Majocchi, Polillo, Lanzarone, De Michelis). Voglio ricordare un compagno che nel biennio faceva coppia fissa con Alberto, Giampiero Banfi (detto John) di Saronno. Si occupava di Fisica dei Plasmi, ha fatto il professore a Pavia e anche lui è morto giovane (nel 2002). Due fisici valenti con trascorsi importanti nel movimento e che decisero di continuare con la fisica. Io no: avevo in mente altre cose


La pagina con l’indice della mia autobiografia da cui potete scegliere i capitoli da leggere