Ilaria Salis, le case occupate e la destra becera

Ilaria Salis non mi è particolarmente simpatica perché fa scelte che non condivido. Pensa che antifascismo significhi menare i nazisti e che occupare case possa garantire il diritto a un’abitazione.

Però difendo la Salis quando viene trattata in modo indegno dalla pseudo-giustizia di Orban. Inoltre difendo il suo diritto alla libertà in quanto rappresentante di migliaia di elettori che condividono le sue posizioni.

Adesso vedo giornali e politici reazionari che vogliono che lei paghi 90.000 euro di affitto all’ALER perché un giorno di 10 anni fa è stata trovata all’interno di una casa occupata (ipotesi: 9.000 euro di mancato affitto all’anno). La richiesta di questi reazionari ha una sua logica che però loro stessi tradiscono non chiedendo la stessa pena pecuniaria per le decine di migliaia di occupanti abusivi di altrettante case popolari (ma questi reazionari sono gli stessi che parlavano sempre di “fumus persecutionis“?).

Di fronte a questa richiesta (che è arrivata persino dal Consiglio Regionale della Lombardia) la Salis e il partito per cui è stata eletta rispondono nel modo peggiore: rivendicano il diritto a lottare per la casa. E’ esattamente la risposta che desideravano i reazionari che la accusano. Ora possono scatenare un “dibattito” per dividere gli onesti (di destra) che pagano l’affitto e i disonesti (di sinistra) che non lo pagano.

Se io fossi un reazionario ringrazierei Fratoianni e C. per avere fatto quello che desideravo con ansia.
Se invece questi politici di sinistra avessero un minimo di intelligenza politica sceglierebbero un’altra strada.

Io al loro posto direi: “Cari accusatori, se un giorno di 10 anni fa la Salis è stata identificata in una casa occupata e poi nessuno si è mai più curato di vedere se l’occupazione continuava, significa che l’ALER ha abbandonato per 10 anni una casa che spettava a famiglie di lavoratori che ne avevano diritto. Questa è una grave colpa dell’ALER, non certamente della signora Salis che agli atti risulta essere stata in quella casa un solo giorno, quello dell’identificazione. Dato che non esiste alcuna documentazione che provi l’occupazione per altre giornate, occorre chiederle l’affitto di un solo giorno, senza però gli interessi maturati in 10 anni in quanto tale affitto non è mai stato chiesto prima (altra colpa dell’ALER)

Questa sarebbe la linea di difesa di qualunque garantista, in quanto nessun cittadino può essere accusato di colpe non dimostrate. Questa difesa sarebbe molto più politica della rivendicazione del “diritto a lottare per la casa“. Sarebbe molto più politica perché userebbe le armi dell’accusatore (paladino del garantismo) per accusare l’accusatore di mancanza di garantismo.

In generale credo che nei conflitti non si debba usare la propria logica, utile solo a ingigantire il conflitto, ma la logica dell’avversario per ritorcergli contro le sue stesse ragioni. Sarò un po’ vecchio stampo, ma per me questa si chiama Politica.




Carlo Parietti – un carissimo compagno – di Vincenzo Vita

Si è spento, con crudele anticipo del destino, Carlo Parietti. Sabato un carissimo compagno, che ha fatto parte del collettivo de il manifesto nella seconda metà degli anni settanta, è stato tradito da un corpo da tempo affaticato.

Carlo nacque nel Monferrato (e un po’ sabaudo è sempre rimasto) nel 1950, per arrivare a Milano quando nacque il Quotidiano dei lavoratori, la testata dell’organizzazione della nuova sinistra Avanguardia Operaia (Ao). Per poi trasferirsi a Roma, quando la minoranza della stessa Ao si unì alla maggioranza del Partito di unità proletaria per dare vita al nuovo Pdup per il comunismo. E così iniziò una breve ma intensa partecipazione alla redazione de il manifesto, periodo fondamentale ricordato con nostalgia all’indomani della scomparsa di Rossana Rossanda. Seguì la presenza nella segreteria nazionale dello stesso Pdup diretto da Lucio Magri, come responsabile della commissione operaia. Sulla scorta di quella esperienza iniziò la lunga attività nella Cgil, di cui fu componente dal 1982 del comitato esecutivo.

Fu segretario della federazione della ricerca nel 1984, responsabile dell’ufficio stampa dal 1989 al 1994, presidente della casa editrice – Ediesse- della confederazione dal 1994 al 1997. Infine, ricoprì il ruolo di responsabile dell’agenzia europea dei quadri (Eurocadres), attività svolta con passione e creatività, diventando il riferimento della discussione su categorie di lavoro cui storicamente non si era prestata la dovuta attenzione. A quell’elaborazione contribuì il rapporto stretto e significativo intrattenuto con Bruno Trentin, come ha raccontato in queste ore con stima e affetto Andrea Ranieri.

Una vita politica e sindacale varia e complessa ha segnato i tratti costitutivi della personalità di Carlo Parietti: un intreccio bello e originale tra un’ispirazione comunista mai abbandonata e la capacità di tradurne i valori in pratica quotidiana fatta anche di piccoli passi e di senso di responsabilità. Negli interventi e nei numerosi contributi Carlo non era mai banale. Studiava, si preparava, pensava a lungo, prima di redigere testi avvolti in una scrittura precisa e felice. Insomma, era sempre rimasto un rivoluzionario come in gioventù, capace però di sorvegliare passioni e scelte. Un riformista vero e tranquillo, tanto flessibile nelle forme quanto coerente nella coscienza e nei valori.

Sono state le attitudini forti a suscitare un coro di messaggi, di mail, di post (la moda del tempo, che amava anche Carlo visto che scorrendo la pagina Facebook si ricava un romanzo) densi di parole sincere di stima e di affetto. Purtroppo, la vita di Carlo Parietti si è conclusa in un periodo brutto e sgradevole per quel mondo del lavoro e dei lavori cui ha dedicato l’esistenza. Meritava, Carlo, di vedere qualcosa di meglio. Tuttavia, un percorso così importante rimarrà intatto in chi l’ha conosciuto e nel cuore della cara compagna Elisabetta Ramat; nonché del figlio Guido, che potrà essere orgoglioso del padre.

– di Vincenzo Vita – da Il Manifesto




A proposito di Alexandr Bogdanov … e noi – di Alvaro Ricotti

Il romanzo “Stella Rossa” è indubbiamente un romanzo molto particolare. Il suo autore, Aleksandr Bogdanov oltre a ipotizzare tecnologie futuribili per i suoi tempi, denotando una cultura scientifica di altissimo livello, prospetta rapporti sociali ed economici della società marziana che rispecchiano la sua visione di come avrebbe dovuto evolversi la futura società socialista.

Ma questo romanzo di fantascienza, seppur interessante per i suoi risvolti culturali e politici, non è sicuramente il lavoro di maggior rilievo di Bogdanov. Non posso aggiungere nulla alla puntuale ed esaustiva recensione di Claudio Cereda su Stella Rossa, colgo invece l’occasione per articolare una riflessione sul suo autore Bogdanov e le concatenazioni conseguenti che mi portano a parametrare concetti scientifici e metodologie d’analisi politica dei primi del’900 e gli analoghi concetti e metodi che abbiamo utilizzato nella nostra avventura politica degli anni ’70.

Aleksandr Aleksandrovic Malinovkij, meglio conosciuto come Bogdanov, fu uno dei più influenti intellettuali russi dei primi anni del ‘900, a lui si deve la traduzione in russo del Capitale di Marx. Di formazione scientifica, si laureò in medicina, ma fu anche un acuto filosofo ed economista; aderì fin da studente ai movimenti socialisti che gli costarono, in diverse riprese, soggiorni nelle galere zariste. Aderì alla frazione bolscevica del POSDR (Partito operaio socialdemocratico russo) in cui ricoprì incarichi di primissimo piano, come membro del Comitato Centrale e dirigente del Centro Bolscevico. Con l’amico Lenin fondò a Ginevra la prima rivista bolscevica, “Vpered”.

Subì l’influenza filosofico-scientifica del fisico e filosofo austriaco Ernst Mach di cui elaborò e sviluppò il pensiero, esponendo la sua concezione logico-scientifica nell’opera “Empiriomonismo”. Qui esplicita la sua visione della scienza come sistema dinamico di interconnessioni dove l’uomo è sia agente che oggetto in rapporto dialettico con il mondo che lo circonda. In questo sistema, dove fenomeni ed entità interagiscono e si auto-organizzano, anticipando di quasi cinquant’anni quello che sarà chiamato “Sistema delle complessità”, procede e si sviluppa il fenomeno della conoscenza e dell’interpretazione della realtà.

Come dicevo, Aleksandr Bognavov, oltre a essere uno dei massimi dirigenti dell’ala bolscevica del POSDR, a detta di Bucharin, Lunacarskij e Gorkij era la mente più scientifica di tutto il movimento rivoluzionario, in virtù della sua profonda cultura filosofica-scientifica tendeva a considerare il marxismo, al pari delle altre teorie scientifiche, un metodo d’indagine scevro del peso ideologico ripudiando quel principio di autorità in opposizione ai marxisti ortodossi che facevano discendere la loro prassi politica dalla correttezza filologica dei padri fondatori Marx e Engels. Dopo il fallimento della rivoluzione del 1905 la contrapposizione tra gli ortodossi, di cui Lenin era la guida incontrastata, e il gruppo dei machisti si fece più dura.

Nel 1906 Bogdanov venne arrestato e trascorse quasi un anno in prigione e qui finì di scrivere la sua opera “Empiriomonismo”. La divergenza tra la sua interpretazione dell’uso scientifico del marxismo e la visione ideologica ortodossa divenne a questo punto insanabile e Lenin, senza mai citarlo, affrontò la questione sul piano filosofico con lo scritto “Materialismo ed Empiriocriticismo” proponendo la “giusta” visione del materialismo storico secondo la correttezza filologica dei testi marxiani. 

Non solo, ma dato che Lenin stava operando ad una convergenza tattica con i menscevichi e che questi accusavano i bolscevichi, sotto la guida di Bogdanov, di revisionismo di sinistra, per superare l’ostacolo propose ed ottenne l’espulsione dell’ex amico e compagno di lotta dalla corrente bolscevica e successivamente anche dal POSDR. A nulla valse la stima e l’appoggio dato a Bogdanov dall’amico comune Gorkij. Bogdanov rispose alla querelle di Lenin pubblicando “Fede e Scienza” in cui dimostra quanto poco rispondesse al metodo scientifico la posizione espressa dal capo dei bolscevichi in “Materialismo ed Empiriocriticismo”. Per Bogdanov Lenin era schiacciato da un atteggiamento fideistico e da un’ irragionevole e supino senso di sudditanza mentale all’autorità degli estensori del Capitale senza avere il coraggio intellettuale di storicizzarlo ai nuovi tempi e in un contesto, quello russo, ben diverso dal contesto tedesco, ad industrializzazione avanzata, al quale Marx ed Engels facevano invece riferimento.

Aleksandr Bogdanov proponeva un rinnovamento culturale che non partisse da verità assolute, stabilite una volta per tutte e immodificabili, ma da una epistemologia dell’esperienza continuamente edificabile e verificabile nella sua concretezza. I fenomeni sociali, politici ed economici avrebbero dovuto essere interpretati secondo correzioni delle leggi dedotte dall’impianto di base del materialismo storico ed anche questo a sua volta avrebbe dovuto plasmarsi secondo le nuove scoperte verificate della scienza in cui si incominciava ad intravvedere trasformazioni paradigmatiche epocali come le nuove concezioni della struttura della materia e i suoi legami inscindibili con l’energia.

Anche noi, nel nostro passato di militanti di sinistra, siamo rimasti vittime di questa interpretazione asfittica e di un’interpretazione puramente scolastica del marxismo. Così come ci siamo formati politicamente vantando una capacità critica inesistente assimilando come fosse il Verbo testi come “… il rinnegato Kautsky” senza nemmeno prenderci la briga, o un minimo di curiosità, di leggere qualche pagina sulle perplessità politiche di quello che fu il segretario di Engels e il curatore dell’edizione completa del Capitale.

Il rinnegato Kautsky manifestava e argomentava nei confronti della tattica leninista sulla dittatura del proletariato, così abbiamo fatto di “Materialismo ed Empiriocriticismo” un assoluto, non sapendo neanche che fu uno scritto in polemica con uno dei massimi intellettuali del partito bolscevico, cancellato dalla memoria storica della Rivoluzione d’Ottobre ancor prima della pratica dello sbianchettamento delle foto di Trotsky da parte di Stalin. La furia iconoclasta ha radici ben antecedenti alle ossessioni del “Grande Padre”.

Per un recupero di alcuni riferimenti storico-politici consiglio, oltre alle “Memorie di un rivoluzionario”, la lettura di “Fede e Scienza” di A. Bogdanov e “La dittatura del proletariato” nonché “Terrorismo e Comunismo” di Karl Kautsky. Un altro libro interessante è “Mjasnikov e la rivoluzione russa” di Roberto Sinigaglia. Non è un testo dell’epoca, ma un saggio storico dei tempi attuali giusto per sentire una campana di un suono diverso, di come la rivoluzione sia stata vissuta e partecipata dalla componente anarchica del movimento operaio, componente non insignificante nel contesto e di come questa componente operaista e consigliare si sia opposta all’evoluzione da tutto il potere ai soviet a tutto il potere al partito (bolscevico) e di come sia stata in seguito brutalmente liquidata.

“Memorie di un rivoluzionario” di V. Serge colpisce sicuramente di più sul piano emozionale, fa soffrire, mi ha fatto soffrire; ha rimesso in discussione, in modo feroce, il valore delle emozioni rivoluzionarie dei nostri vent’anni, ci ha svelato su quali inganni ideologici appoggiavano i nostri sogni e le nostre certezze. “Fede e Scienza” e “La dittatura del proletariato” mi hanno fatto incazzare e rammaricare….

Perché non li abbiamo letti prima (cinquant’anni fa)? Il rammarico è per la loro scoperta tardiva. Avremmo avuto uno strumento in più, avremmo potuto sviluppare maggiormente e affinare la capacità di critica nel confronto dialettico delle tesi divergenti. Avremmo potuto arricchire la nostra conoscenza analizzando il conflitto e le contraddizioni emergenti tra gruppi che si rifacevano alla stessa ideologia, ma proponevano strategie rivoluzionarie diverse per raggiungerle. Invece ci siamo formati politicamente sotto lo schiacciamento manicheo di un principio di autorità: da una parte i puri, i giusti, quelli che avevano capito tutto, dall’altra i traditori, i “rinnegati” quelli che con “falso linguaggio marxista” (parole di Lenin) agivano per sabotare il processo rivoluzionario al servizio della borghesia; e noi da che parte dovevamo stare? Dalla parte dei giusti naturalmente! Quindi ci siamo inconsapevolmente, ma colpevolmente, adagiati acriticamente su un’unica interpretazione della teoria marxista, quella che risultò a suo tempo vincente!

Il Principio d’Autorità, che per il metodo scientifico è l’espressione concreta della rinuncia a nuove scoperte e nuove soluzioni, veniva da noi metabolizzato a verità assoluta e immodificabile tanto che nel lessico si faceva riferimento ai “testi sacri” e alla “dottrina comunista”. Pensavo, e ci credevo veramente, che in occasione della presentazione di “Volevamo cambiare il mondo” si sviluppasse una riflessione critica sulle radici culturali della nostra utopia. Invece niente!

È stato quasi tutto un Amarcord e su quanto siamo stati bravi a non farci trascinare in tentazioni terroristiche o para-brigatiste. Da persone che stimo tantissimo sul piano intellettuale, per la loro preparazione politica e per la loro abnegazione nella militanza mi aspettavo di più. Da un Biorcio, da un Giovanni Lanzone, da un Vincenzo Vita gli ex militanti di base come me si sarebbero aspettati quel guizzo intellettuale particolare che avrebbe fatto la differenza su tutte le visioni retrospettive su gli anni ’70. A tal riguardo cito un passaggio di Franco Calamida in una videoconferenza su zoom per “Volevamo cambiare il mondo”. Nel suo intervento, peraltro interessantissimo ad un certo punto ha detto “…. Poi la rivoluzione non c’è stata….” È stato l’unico, mi pare, che nel suo intervento abbia usato espressamente il termine RIVOLUZIONE intesa, se ho ben capito, come momento o processo di rottura violenta dell’assetto istituzionale italiano e non come metafora di trasformazione per la quale, presumo, siamo ancora tutti rivoluzionari.

“Volevamo fare la rivoluzione” sarebbe stato il sottotitolo esplicativo se il libro delle memorie dei militanti di AO fosse stato realizzato a ridosso di quegli anni. Io mi chiedo, vi chiedo, cosa intendiamo adesso e cosa intendevamo allora per rivoluzione?

Bisognava essere molto ingenui, nella migliore delle ipotesi, o piuttosto imbecilli a pensare che fosse possibile innescare un processo rivoluzionario a modello bolscevico in Italia nella metà degli anni ’70. Una sorta di pazzia collettiva ha contagiato quella generazione sia in Italia che in Germania e in Francia. I nostri coetanei a Praga o a Berlino che rifiutavano il comunismo li giustificavamo perché si ribellavano alla degenerazione staliniana-krusciofiana- brezneviana del comunismo, non a quello vero, quello puro, quello di Lenin.

Nella società a capitalismo avanzato solo una parodia del processo rivoluzionario si è manifestata ad opera dei Tupamaros in Uruguay, da altre parti, nemmeno in occasioni di colpi di stato, vedi Cile e Argentina, le organizzazioni di sinistra, sia legali sia illegali, ebbero la forza e il consenso popolare per una risposta rivoluzionaria. Ho maturato oggi la convinzione che anche in Italia, nell’eventualità si fosse verificato un colpo di stato, le organizzazioni “rivoluzionarie” non sarebbero state capaci di ottenere quel consenso popolare di massa per una risposta rivoluzionaria, se non a portare ad un suicidio collettivo una intera generazione. Quindi mi  fa semplicemente terrore il ripensare che la rivoluzione alla quale guardavamo con ammirazione, rispetto e riferimento fattuale fosse la Rivoluzione d’Ottobre realizzata attraverso la strategia leninista con la conseguente dittatura del proletariato.

Oggi, se vogliamo essere seri, bisogna esplicitare cosa intendevamo per rivoluzione, e non riproporre una verginità ideologica continuando a sostenere e denunciare che quella che accadde i Russia a seguito della rivoluzione fu una degenerazione incontrollata (che invece fu controllatissima e pianificata) di un uomo e del suo enturage (come se Stalin e Beria fossero delle schegge impazzite) a distruggere il sogno utopico di Lenin per una società più giusta, ma accettare amaramente che tutto ciò che successe era la logica conseguenza di una concezione e una pratica liberticida e antidemocratica del partito bolscevico.

 




Stella rossa (romanzo-utopia) – di Alexandr Bogdanov (recensione)

Stella Rossa è un romanzo sull'utopia del comunismo scritto da Bogdanov nel 1907 dopo il fallimento della esperienza rivoluzionaria del 1905 che aveva visto Bogdanov come massimo esponente a Pietroburgo del partito bolscevico.

Bogdanov era figlio di un fisico, laureato in medicina e per tutta la vita si è interessato della possibilità costruire un accordo tra le scoperte scientifiche del primo Novecento e della riflessione su di esse portata avanti da quelli che in Russia si sarebbero detti empiriocriticisti e che erano, semplicemente, i seguaci delle teorie di Mach il padre di quella versione dell'empirismo che avrebbe dato vita, qualche anno dopo, all'empirismo logico o neopositivismo. Nel recensire "Lenin e l'antirivoluziuone russa" ho messo la famosa immagine della sua partita a scacchi con Lenin sotto gli occhi di Gorkij.

Bogdanov, dopo aver rotto con Lenin su questioni di carattere ideologico legate alla teoria della conoscenza (è lui il puntaspilli di Materialismo ed empiriocriticismo), ha continuato a occuparsi di rivoluzione culturale e dopo la rivoluzione del 17 si è occupato prevalentemente di medicina diventando uno dei massimi esponenti delle problematiche trasfusionali; finendo per morire a causa di una trasfusione effettuata su di sé con un donatore infetto da malaria. Si dice che si sia trattato di un suicidio, ma la cosa non è acclarata.

Ha scritto opere sulla teoria dei sistemi che sono considerate ancora oggi tra le fondazioni della cibernetica e della teoria della organizzazione. Ne parlo perché Stella Rossa è una miniera di suggestioni ed immaginazioni che lasciano stupiti per la correttezza delle intuizioni e delle proposte avanzate solo nel primo decennio del Novecento.

Il protagonista viene avvicinato è convinto a seguirli da un gruppo di marziani che si sono recati sulla terra per studiarne le caratteristiche di civiltà e individuare possibili persone con cui interagire. Viene convinto a seguirli e il romanzo oscilla tra la descrizione degli strumenti tecnologici già in possesso dei marziani e la descrizione di una società nella quale da alcuni secoli si è ormai realizzata l'utopia comunista.

Il motore dell'astronave funzione attraverso processi di disintegrazione radioattiva che producono espulsione di particelle ad altissima velocità in grado di produrre il movimento in senso opposto (conservazione della quantità di moto). Il viaggio dalla terra a Marte che dura alcuni mesi si svolge attraverso una tecnica che prevede una bassa e costante accelerazione che, a metà viaggio, viene poi cambiata di segno rimanendo sempre costante e togliendo di mezzo tutte le problematiche di tipo violento connesse all'utilizzo di accelerazioni elevate.

Bogdanov immagine che Marte sia completamente abitata al di sotto dei canali che aveva osservato l'astronomo italiano Schiapparelli a fine 800 e che avevano fatto pensare, all'inizio del 900, ad una possibilità di un mondo dove fosse presente la vita. La società marziana si trova già nella situazione di Comunismo realizzato e dunque sono stati già affrontati con esito positivo le problematiche che la rivoluzione bolscevica avrebbe dovuto affrontare con esiti negativi qualche anno dopo: la durata ridotta della giornata lavorativa, il principio del da ciascuno secondo le sue capacità a ciascuno secondo i suoi bisogni, la pianificazione basata su un sistema di raccolta delle informazioni in tempo reale che fa pensare alla rivoluzione informatica, l'educazione degli adolescenti nelle case dei bambini con criteri pedagogici molto avanzati.

E' un romanzo, c'è una storia e quella non ve la racconto, ma sono rimasto impressionato dal continuo riafforare di problematiche che saranno al centro dei processi rivoluzionari ma che, nel momento in cui il romanzo viene scritto, non si sono ancora presentati: il socialismo si può realizzare in un singolo paese? si possono sacrificare migliaia di persone in nome di un bene superiore? quali sono i diritti degli uomini nei confronti della natura e dell'universo?

La formazione scientifica di Bogdanov emerge in continuazione nalla capacità di inventare macchinari che poi faranno poarte della storia della tecnologia o nel parlare con competenza di materiali che entreranno da padroni nella storia dell'industria aereo-spaziale.

Apparentemente su Marte le cose vanno a meraviglia grazie alla padronanza delle tecnologie della informazione (il contrario di quanto avverrà con i piani quinquennali di Stalin), ma c'è un ma che ha a che fare con il carattere limitato delle risorse.

Alcatraz ha recentemente pubblicato in un unico volume e a prezzo basso i romanzi su Marte di Bogdanov e vi segnalo dunque questa versione (l'ingegner Menni è uno dei maitre a penser della civiltà marziana e sarà lui a individuare Leonid, giovane matematico e rivoluzionario marxista, come prototipo di personaggio su cui impostare gli studi sulla razza umana in vista di una eventuale collaborazione in un sistema planetario a risorse limitate perché come sosteneva Marx, nella società comunista finiscono le contraddizioni tra gli uomini legate ai rapporti di produzione ma non quelle con la natura.


l'Istituto di Statistica

L’Istituto di Statistica ha i suoi agenti che monitorano lo spostamento dei prodotti nei depositi, la produttività di tutte le aziende e la variazione del numero dei loro lavoratori. In questo modo, si calcola in maniera esatta cosa e quanto sia necessario produrre in un determinato periodo e quante ore di lavoro servano per farlo. In seguito, l’istituto non deve fare altro che calcolare in ogni settore di lavoro la differenza tra i dati esistenti e la situazione ideale e darne comunicazione a tutti. Il flusso di volontari, allora, ristabilisce l’equilibrio....

i bisogni

«Il consumo dei prodotti non è limitato in qualche modo?». «In nessun modo: ognuno prende ciò di cui ha bisogno e nella quantità che vuole». «E tutto ciò è possibile senza che venga richiesto nulla di simile al denaro, senza che ci sia un’attestazione sulla quantità di lavoro compiuto o sull’impegno nel svolgerlo, o cose del genere?».

«Nulla del genere. In una condizione di lavoro libero, come la nostra, non c’è mai carenza: il lavoro è una necessità naturale di un uomo socialista evoluto e qualsivoglia costrizione nascosta o palese per noi è del tutto superflua»...

«Ma se il consumo è illimitato, non sono possibili brusche oscillazioni, tali da ribaltare tutti i calcoli della statistica?». «Certo che no. Una singola persona, forse, può mangiare il doppio o il triplo rispetto al normale, o decidere di cambiare dieci vestiti in dieci giorni, ma una società di tre miliardi di individui non è soggetta a tali fluttuazioni. Con numeri simili, oscillazioni nell’una o nell’altra direzione si bilanciano e i valori medi cambiano molto lentamente e con regolarità».

«Proprio così, e su questo poggiano le basi del nostro sistema. Duecento anni fa, quando il lavoro collettivo bastava appena a soddisfare i bisogni della società, era necessaria una massima precisione nei calcoli e la distribuzione del lavoro non poteva avvenire in modo del tutto libero: la giornata lavorativa era obbligatoria, dunque, non era sempre possibile considerare la predisposizione dei compagni. Ma ogni nuova scoperta, sebbene facesse insorgere qualche complicazione temporanea a livello statistico, poneva rimedio alla questione principale, ovvero la transizione verso una libertà di lavoro illimitata. All’inizio la giornata lavorativa fu accorciata, poi quando in tutti i settori si rivelò un’eccedenza, l’obbligatorietà decadde. Notate come fossero insignificanti le cifre di carenza di forza lavoro nell’industria: migliaia, decine, centinaia di migliaia di ore di lavoro, al massimo, in confronto a milioni o decine di milioni di ore di lavoro che già si spendono in quelle industrie».

la casa dei bambini

Chiesi a Nella perché nella “Casa dei Bambini” stessero assieme giovani di età differente, invece di essere divisi a seconda degli anni in una specifica Casa, il che avrebbe facilitato in modo significativo la divisione del lavoro tra gli educatori e semplificato i loro compiti.

«Perché in tal caso non si tratterebbe di una vera educazione», rispose Nella. «Per riceverne una congrua, un bambino deve vivere la società dall’interno. I bambini acquisiscono il massimo dall’esperienza e dalla conoscenza relazionandosi l’uno con l’altro. Isolare una fascia d’età dall’altra vorrebbe dire instaurare un ambiente di vita ristretto e unilaterale, nel quale lo sviluppo dell’uomo del domani deve avvenire con lentezza, in modo blando e monotono. La differenza di età dà i migliori risultati in termini di vivacità. I bambini più grandi sono i nostri migliori aiutanti nella cura dei piccoli. Non solo amalgamiamo con coscienza bambini di tutte le età, ogni Casa cerca anche di selezionare educatori dalle età e specializzazioni pratiche più diverse».

rapporti tra gli uomini e rapporti con la natura

«Felice? Pacifica? Da dove avete preso quest’idea? Da noi regna la pace tra le persone, è vero, ma non c’è pace con le forze della natura, e non potrà mai esserci. E questo è un nemico da cui a ogni sconfitta sorge una nuova minaccia. Nell’ultimo periodo della nostra storia, abbiamo intensificato di dieci volte lo sfruttamento delle risorse del nostro pianeta. La nostra popolazione sta crescendo e, ancor più in fretta, sta aumentando il nostro fabbisogno. Il pericolo dell’esaurimento delle risorse naturali si è già presentato diverse volte in vari settori lavorativi. Finora siamo riusciti a porvi rimedio, senza dover incorrere in una temuta riduzione dell’aspettativa di vita, nostra e delle generazioni future; tuttavia proprio adesso la lotta sta assumendo un aspetto assai critico».


Alexandr Bogdanov

Su Marte (Stella Rossa, Ingegner Menni, Un Marziano Abbandonato sulla Terra) – tre romanzi

Editore Agenzia Alcatraz

Pagine 376 15 €


 




Michele Randazzo nel ricordo di Rizzo, Forcolini e Molinari

… commissario politico molto fraterno

Michele in prima elementare con le sorelline

La mia familiarita’ con Michele fu all’inizio, piu’ mediata dalla lettura dei suoi contributi sulla nostra rivista teorica che da una diretta frequentazione personale. Il suo lavoro nella Segreteria Nazionale di A.O. lo poneva ad un livello di direzione che incrociava solo occasionalmente l’attività della federazione milanese.

Avevo tuttavia imparato ad apprezzarne sia le riflessioni scritte, ricche di richiami teorici, ma mai ideologiche ed astratte, sia gli interventi nel Comitato Centrale (sì lo chiamavamo così !) di A.O. sia nei gruppi e seminari di studio che lo vedevano come autorevole formatore di quadri per la nostra organizzazione.

Cominciai a conoscerlo meglio quando la Segreteria Nazionale – onestamente non ricordo a seguito di quale contingenza particolare della nostra attività- decise di fargli seguire da vicino la Federazione di Milano.

Il suo ruolo (una sorta di “commissario” politico)  non era ovviamente semplice, soprattutto nel primo impatto. Eppure Michele ci stupi’ per l’assenza totale di qualsiasi sfumatura autoritaria o burocratica. Un fratello maggiore che si offriva come un aiuto sincero; mai parole forti e soprattutto la capacita’ di ascoltare. Non parlava mai per primo, stimolava i nostri interventi e le nostre valutazioni e solo alla fine diceva la sua.

Lo faceva senza alzare mai la voce, senza mai imporre idee, ma proponendosi di convincere e di portare sulle sue posizioni con il ragionamento e la riflessione. Michele praticava nei confronti di noi suoi interlocutori una sorta di maieutica  cosi’ che,  senza rinunciare a raggiungere il punto d’arrivo che si era proposto, tutti ci si arrivasse per convinzione e non per obbedienza.

Sono passati moltissimi anni, ma a pensarci me lo rivedo nelle stanze polverose e un po’ buie di via Vetere, con la bonomia che ispirano naturalmente le persone che vestono large e che in Michele si manifestava al meglio, ma anche con quell’argomentare che gli studi scientifici sanno dare a chi è convinto delle proprie idee:  stringente, cartesiano, che non da’ via di scampo.

Ma sempre – anche questo mi piace ricordare, perche’ merce rara, negli anni in cui il primato assegnato alla politica sembrava vergognarsi dei problemi personali- al termine della riunione vi era una parola buttata li’ per ognuno di noi sulla nostra vita, sullo studio o sul lavoro o sulla famiglia, per stemperare asprezze e giusto per ricordare,  senza retorica, cosa significa nel profondo essere compagni, vivere una straordinaria esperienza comune. E noi, forse di errori ne avremo fatti tanti, ma, in A.O. compagni, abbiamo imparato e sapevamo esserlo. Grazie a maestri come Michele.

Basilio Rizzo

… ci spiegava la teoria senza annoiarci

Per ricordare Michele, devo ritornare indietro al 1969, alla gioventù, ai sette anni più importanti della mia vita, non lo so ma forse lo sono stati anche per Michele, forse anche per te cara Giovanna: Fino al 1976, dopo le nostre strade si sono divise, per non incrociare più quella di Michele e rivedere Giovanna solo recentemente. Allora ci si divideva in politica e ci si divideva nella vita.

Ma in quei sette anni di storia ci si incontrava quasi quotidianamente. Se ci penso è straordinario: credo che in tutto quel tempo non ci fosse una sera, un Sabato o una Domenica in cui non incrociavo Michele Randazzo, la sua grande mole, la sua barba ispida, in contrasto con la sua fragilità ad una riunione, un’assemblea, un direttivo in qualche scantinato di via Bacchiglione, di via Giason del Maino, di Sesto San Giovanni, a una manifestazione, ai turni di vigilanza alla sede di via Vetere o a cena a devastarci il colesterolo che entrambi avevamo molto alto. A proposito, Michele era un maestro ai fornelli.

Ma allora ci si incontrava in tanti, tutti a vivere un sogno collettivo a progettare lotte che spesso vincevamo e a studiare per cambiare il mondo. Sì perché la prima immagine di Michele che riaffiora dai miei ricordi, è quella dei gruppi di studio sul marxismo, che Avanguardia Operaia ai primissimi albori, teneva a studenti e operai alla domenica mattina, in un circolo dalle parti di Foro Bonaparte: il Mandel, l’ABC del comunismo, Stato e Rivoluzione, il Che Fare…

Michele era il migliore, quello che si faceva capire, che ti coinvolgeva rendendo i testi attuali, mentre Luigi, Vanghelis e Gino Meloni  erano delle pizze tremende. Grandi discussioni sullo Stato borghese si che abbatte e non si cambia…cose da pazzi!

Vorrei poter dire: ci pensi Michele?  A  40 anni dal ‘68  ci ritroviamo a difendere con le unghie e con i denti questo Stato da un orda di barbari … sono sicuro che di nuovo saremmo assieme.

Emilio Molinari

… Michele visto da vicino

Michele Randazzo nasce in Sicilia, emigra a Milano, riemigra a Trento e conclude la sua vita in Spagna. Michele è stato un migrante capace, in tutta la sua esistenza, nonostante la precarietà economica ( salvo negli ultimo anni), di affrontare la sua vita con una determinazione, una lucidità ed una autonomia intellettuale che pochi avrebbero saputo mantenere attraverso tutte le prove  che nel suo percorso ha dovuto affrontare.

Lo conobbi nel 1966 come compagno capace di una autonomia critica, in tempi di dogmatismo dilagante, e tale si mantenne negli anni successivi in tutte le fasi dl percorso militante politico e culturale che affrontammo insieme sino a doverne riconoscere il fallimento e l’inevitabile necessità di affrontarlo con la radicalità necessaria ad assumerci tutte le responsabilità che ne conseguivano.

Nonostante ciò, se i militanti formatisi in Avanguardia Operaia non subirono la deriva, variegata ma negativa, di quelli di altre organizzazioni della sinistra rivoluzionaria, si dovette al tipo di formazione che compagni come Michele, allora responsabile dei gruppi di studio per la formazione dei militanti, seppero trasmettere fornendo gli strumenti critici per affrontare la realtà non solo in quel contesto, ma anche per il futuro di ciascuno di noi.

Aveva sacrificato transitoriamente, per l’attività politica a tempo pieno, la conclusione dei suoi studi di ingegneria. Ci pensò il futuro suocero a imporgli di laurearsi usando Giovanna come ricatto. Mi chiese cosa ne pensavo, gli risposi che doveva concludere gli studi; forse per quel consiglio, ma sicuramente per l’amore per Giovanna. Riprese a studiare, superò quel paio di esami che gli mancavano e concluse “ in bellezza” la laurea anche perché gli prestai una cravatta che allora non aveva e che a quei tempi era indispensabile, con la relativa giacca, per laurearsi al Politecnico di Milano.

La famiglia, il rientro nel processo del lavoro produttivo a Trento, ancora una volta da migrante, la capacità di superare i momenti di depressione più nera nel vedere frustrate le sue antiche aspettative politiche e sociali, riuscire a mantenere una capacità di analisi e di giudizio critico su quello che lo circondava è ciò che ha permesso a Michele di vivere con serietà e coerenza senza rinunciare o tradire le premesse dalle quali era partito.

Nelle nostre ultime conversazioni, due furono gli argomenti importanti sui quali si soffermò e che mi colpirono particolarmente. Primo  il suo stupore, misto quasi ad un senso di vergogna per il salto di reddito che il successo imprenditoriale di Giovanna stava procurando alla sua famiglia che mi riconfermò la sua straordinaria lucidità nonché  la sua grande coerenza morale. Secondo la scelta del figlio Luca di dedicarsi all’insegnamento nelle scuole elementari, di diventare un maestro, ne coglieva la capacità di suo figlio a percorrere una strada scelta in totale autonomia , certamente aderente ai suoi desideri, sicuramente non con superficialità, ma certo che si trattasse di una scelta matura.

Quelle poche decine di metri che mancavano alla laurea di Luca, lui sapeva che si potevano sempre percorrere, perché lo aveva già fatto. Infatti così è avvenuto, come anche lui, oltre all’oltranzista Giovanna, si augurava.

Da ultimo Michele lo ricordo nel suo profondo rapporto con la natura, dalle camminate negli anni sessanta sulle alpi valdostane, per lui le prime, alle ultime in Trentino, quando indomito, nonostante la malattia, saliva con grande fatica sui sentieri con una volontà e una tenacia incredibile.

Devo inoltre a lui la conoscenza e l’apprezzamento per il vino di qualità che, arrivato da pochissimo a Trento, lui stesso cominciò ad apprezzare e a farmi conoscere. Insomma Michele era un compagno nel senso più profondo e completo del termine, un uomo capace di mettere in comune con gli altri sentimenti e pensieri, gioie e dolori, che sapeva costruire rapporti profondi, capaci per la loro qualità, di durare una vita. Veramente un compagno straordinario.

Francesco Forcolini


Questi ricordi sono stati scritti nel 2008 in occasione del decennale della morte di Michele Randazzo. Gli altri articoli su Michele e sui nostri morti.


 




Lenin e l’Antirivoluzione russa – di Roberto Massari (recensione)

Sono finito a cercare questo libro dopo aver letto le Memorie di un rivoluzionario di Victor Serge (1) e (2), cronaca di ua vita spesa al servizio della rivoluzione con una progressiva presa di coiscienza che quella prospettiva non solo aveva dovuto fare i conti con la immaturità del processo di sviluppo della Russia, con l'accerchiamento, con la mancata rivoluzione in Occidente, tutte cose che indussero Serge a stringere i denti per continuare a stare con i bolscevichi, ma che c'erano cose che non avevano funzionato nella cosiddetta fase alta del processo rivoluzionario e cioè prima della malattia (1923) e della morte di Lenin (gennaio 1924).

Serge cita in particolare il comunismo di guerra (1918-1921 con le requisizioni e l'annientamento del mondo contadino), la fondazione della Čeka (7 dicembre 1917, contrazione di Večeka, acronimo per Commissione Straordinaria Panrussa per la lotta alla controrivoluzione e al sabotaggio), l'attacco militare e l'uccisione degli esponenti del soviet di Kronstadt (marzo 1921).

La questione che mi attanagliava e mi attanaglia in anni di ripensamenti e riflessioni sulle cose in cui abbiamo creduto in maniera totale negli anni dal 1969 al 1976 era la risposta alle domande: Perché è andata così? Era Inevitabile? Perché la rivoluzione ha avuto come esito lo stalinismo? Perché anche dopo la denuncia dello stalinismo il sistema sovietico ha continuato ad essere dispotico, burocratico e illiberale? Perché dopo la Polonia e l'Ungheria c'è stata la Cecoslovacchia? Perché il PCI, sino all'89 non ha mai rotto in maniera netta con quella storia? Perché tutte le altre esperienze di rivoluzione comunista si sonoi rivelate illiberali?

E il domandone è: in tutto questo c'è qualcosa che ha a che fare con il leninismo, con il modello organizzativo di partito leninista, con una particolare interpretazione data alla dittatura del proletariato?

Il libro di Roberto Massari contiene molte di quelle risposte e detto in estrema sintesi, sostiene che il difetto era nel manico, in una visione del processo rivoluzionario in cui il problema principale era quello della presa del potere e dello strumento necessario alla realizzazione dell'obiettivo, il partito leninista. Sono oltre 400 pagine (in formato 18×24) interamente dedicate a Lenin, alla evoluzione del suo pensiero (a partire dalle origini nel movimento populista passando attraverso il rapporto con la II internazionale, Kautzki e Rosa Luxemburg, le polemiche in campo filosofico con alcune scivolate di tipo hegeliano e la lotta nei confronti di Bodganov e di coloro che cercavano di fare i conti con le rivoluzioni scientifiche stando più dalla parte di un positivismo rivisitato che dell'hegelismo).

Negli anni del mio avvicinamento al leninismo (1969-1974) ricordo che di Lenin mi avevano colpito favorevolmente la capacità di esagerare nel mezzo della battaglia politica: individuava un problema (od un pericolo) e si gettava anima e corpo sulla barra del timone per effettuare il raddrizzamento. Il libro di Massari mi ha confermato in quella impressione, ma la visione di insieme delle oscillazioni (davvero continue e con la capacità di sostenere tutto e il contrario di tutto) non poteva che indurmi a qualche ripensamento (sia con riferimento ai temi della costruzione del partito rivoluzionario e delle sue caratteristiche, sia con riferimento alla rivoluzione, alle istituzioni dello stato e agli organismi di partecipazione delle masse).

Massari individua in Lenin una posizione di tipo centrista e tra le molte precisazioni e puntualizzazioni sono rimasto sostanzialmente confuso sull'utilizzo di questo termine che rinvia più che ad una collocazione di centro nel fuoco delle polemiche, alla capacità di operare rapide svolte di raddrizzamento mettendo troppo spesso la tattica al posto della strategia e le opportunità al posto dei principi rivoluzionari, tutto ciò purché la componente bolscevica del POSDR ne esca vittoriosa e non venga messa in discussione la sua (di Lenin) leadership.

Questo è l'indice del libro:


Sul concetto di rivoluzione e antirivoluzione
Il centrismo è quella cosa…


I. Dal terrorismo alla socialdemocrazia (1887-1901)

1. Imprinting narodniko – 2. Dal populismo all’economicismo – 3. La «cotta» per Plechanov – 4. Apologia di Kautsky

II. Da socialdemocratico (russo) a «bolscevico» (1902-1907)
5. La leggenda della «teoria leninista» del partito – 6. Coscienza socialista e spirito di partito – 7. Intorno al II Congresso – 8. Trotsky e la «robespierriade» caricaturale – 9. Una critica a Lenin (quasi) marxista libertaria – 10. 1905: il centrismo alla prova dei fatti – 11. La deviazione terroristica: 1906-1907

III. L’involuzione filosofica (1894-1916)
12. Antileninismo bolscevico «di sinistra» (Bogdanov) – 13. Marx vs Hegel (e sociologia marxista) – 14. Regresso all’hegelismo – 15. L’idealismo-materialismo dei Quaderni filosofici – 16. Uno studio divulgativo (l’Imperialismo)


IV. L’unica posizione teorica che non cambiò (quasi) mai (1913-1923)
17. Questione nazionale e autodeterminazione dei popoli

V. Oscillazioni tra programma massimo e minimo (1905-marzo 1917)
18. Dittatura democratica rivoluzionaria del proletariato e dei contadini – 19. Il 4 agosto e la Guerra

VI. Tutto il potere ai soviet? (marzo-ottobre 1917)
20. Un ossimoro utopico-statualistico (Stato e rivoluzione) – 21. Prima infatuazione per i soviet (marzo-giugno) – 22. Interludio ostile ai soviet (luglio-agosto) – 23. Ritorno ai soviet e sostituzionismo (settembre-ottobre) – 24. La questione del «colpo di mano»

VII. …No. Tutto il potere al Partito (ottobre-novembre 1917)
25. Governo monopartitico e non dei soviet – 26. Altri sostenitori di «Tutto il potere ai soviet». Gli anarchici – 27. I menscevichi internazionalisti – 28. I socialisti rivoluzionari di sinistra – 29. Mežrajontsy, bespartijny

VIII. L’antirivoluzione bolscevica (novembre 1917-marzo 1921)
30. Da centrista ad antirivoluzionario – Antirivoluzione I: la Ceka – 32. Antirivoluzione II: i Comitati di fabbrica – 33. Antirivoluzione III: l’Assemblea costituente – 34. Antirivoluzione IV: il Terrore di stato (1918-1923) – 35. Da Lenin al Gulag [Appendice] – 36. Antirivoluzione V: la Terza rivoluzione russa (Kronštadt)

IX. La dittatura sul proletariato (1921-1923)
37. Chi «rinnegò» di più: Kautsky o Lenin? – 38. Il «rinnegato» Trotsky – 39. Lenin pro e contro Stalin: l’ultima cospirazione


Massari sostiene, e me lo ha confermato anche a voce, che la rivoluzione russa, fatto salvo l'esperimento soviettista che vide sostanzialmente estranei i bolscevichi nel 1905 e che riguardava soviet con caratteristiche diverse da quelli del 17, inizia a febbraio e termina a novembre del 1917 quando inizia ad opera di Lenin la fase della antirivoluzione, antirivoluzione che si può considerare conclusa già nella primavera del '21. Per Massari la antirivoluzione è una forza di opposizione al processo rivoluzionario che nasce al suo interno e che ad un dato momento si oppone a tale processo perché animata da interessi divergenti e scrive pertanto di antirivoluzione leniniana e di successiva controrivoluzione staliniana.

Il libro è molto ricco di citazioni direttamente basate sugli scritti di Lenin riprese dalle diverse edizioni delle opere complete (ma anche di altri protagonisti del processo rivoluzionario) ed è inframezzato di note storiche e biografiche che, per quanto interessanti, rischiano a volte di far smarrire il filo della argomentazione.

Ne consiglio pertanto una lettura non necessariamente sequenziale e non necessariamente integrale, almeno in prima lettura, anche perché la sostanza che dà corpo al giudizio sulla antirivoluzione è quella contenuta nei capitoli dal VI all' VIII in cui vengono ripercorse le svolte del pensiero e della azione leniniana tra la rivoluzione di febbraio, quando Lenin, che si trova a Zurigo scrive le cinque Lettere da lontano e il gennaio 1918 con il seppellimento del progetto di Assemblea Costituente e l'inizio di esautoramento dei soviet e delle altre forme di partecipazione popolare.


avendo colto la possibilità di portare finalmente al potere lo strumento partitico costruito e rafforzato nell'arco di un quindicennio, Lenin adottò una  tattica fondata sulla possibilità di far leva sui soviet per scalzare il parlamento borghese (Duma di stato e poi Preparlamento) e il Governo provvisorio.  A tal fine:

  • a) esaltò i soviet con eccessivo entusiasmo nella fase della loro nascita e  crescita iniziale;
  • b) li rinnegò dopo la fallita insurrezione di luglio, convinto di non  poterne togliere la direzione ai menscevichi e ai socialisti-rivoluzionari;
  • c) li ricollocò  in cima al proprio programma politico quando il Posdr(b) cominciò a conquistare la  maggioranza in soviet centrali importanti come Pietrogrado e Mosca;
  • d) li mantenne  come asse centrale del programma fino alla conquista del potere;
  • e) adottò tutti i provvedimenti necessari per una rapida estinzione del loro ruolo e soprattutto della loro  autonomia, a partire dagli ultimi due mesi del 1917, cioè subito dopo l'avvio della dittatura monopartitica del bolscevismo.

La nostra generazione, una volta convertita al leninismo ha finito per disinteressarsi un po' troppo degli aspetti di dettaglio di quel processo rivoluzionario innamorandosi della presa del palazzo d'Inverno, trascurando la complessità di ruolo e di rappresentanza politica delle altre forze rivoluzionarie anarchiche e socialiste (con le diverse sfumature presenti tra i menscevichi e i socialisti rivoluzionari) e dando per assodata e giusta la linea d'azione dei bolscevichi. Mi riferisco in particolare:

  • all'uso esagerato e superficiale dell'appellativo di riformista, piccolo borghese o populista assegnato di volta in volta agli altri protagonisti del processo rivoluzionario
  • alla mancata riflessione sui numeri dei risultati elettorali nei soviet (degli operai, dei contadini e dei soldati) e nelle diverse forme di rappresentanza operaia (consigli di fabbrica) e nelle assemblee elettive
  • alla accettazione della semplificazione secondo cui vinte Pietrografo e Mosca era assicurata la vittoria della rivoluzione
  • all'uso esagerato e spregiudicato del volontarismo in nome del quale tutto era lecito o almeno accettabile.

Da leggere.


Roberto Massari

Lenin e l'Antirivoluzione russa

Massari editore collana Miraggi

€ 22,00(2018)


 




Come “volevo cambiare il mondo” – di Lorenzo Baldi

A proposito del libro dedicato alla Storia di Avanguardia Operaia mi pare interessante il riferimento che fa Vincenzo Vita, agli studi althusseriani di Aurelio Campi e alla sua traduzione per Feltrinelli di Lire le capital.

La scuola

Vorrei svilupparlo un po’. Intanto, la distinzione del filosofo francese tra le tentazioni filosofiche di Marx ed il suo corpus principale, di carattere scientifico, si coniuga bene con la nascita di Ao in seno alle facoltà scientifiche milanesi e la sua contrapposizione all’umanistico movimento di via Festa del Perdono.

Il background althusseriano emerge nettamente nel famigerato (per chi ha partecipato agli innumerevoli gruppi di studio) “Opuscolo n° 2” sulla scuola anche se non credo che Oskian abbia scritto personalmente, ma deve aver fortemente ispirato: si parte, infatti, dall’esigenza di disegnare una teoria della riproduzione del sistema capitalistico e si definisce la scuola come un fondamentale apparato ideologico dello stato.

Che l’esito delle politiche scolastiche di Ao sia stato spesso, come dice Claudio Cereda, un po’ troppo da sindacato degli studenti, non osta al fatto che la descrizione teorica dell’intreccio scolastico tra trasmissione della cultura e addomesticamento alla disciplina produttiva sia stato un guizzo di intelletto non male, tra tanto storicismo nel mondo del Pci e tante proposte sempliciotte nel movimento degli studenti, dal 6 garantito all’uso parziale alternativo. Con un’apertura mentale che, al tempo, non era data, si sarebbe potuto interloquire brillantemente con il movimento del ‘77 e le sue ascendenze foucaultiane e deleuziane. Anche questo fa di Ao, come ha scritto Vincenzo, un’ organizzazione colta, tra l’altro alla ricerca di una strada teorica originale, ricerca che con altri riferimenti ed esiti, sarà propria anche di quella parte dell’operaismo che scelse subito la strada del Partito Comunista.

Sempre a proposito di scuola, scrissi io la filippica contro i decreti delegati su Politica Comunista e, ancor oggi, non ne sono pentito.

A proposito di Aurelio Campi, è vero che ci siamo tutti formati sul “Del Carria” e dunque contano più le masse che i leader, è vero che c’è stata una divisione radicale in Ao, attorno alla quale il libro non può non girare, ma che non viene mai affrontata esplicitamente; però c’è stato un periodo nel quale, una volta risolti i problemi del suo stato di apolide e fino alle elezioni del ‘76, Campi è stato una guida riconosciuta per tutti i militanti e un’ispirazione per l’elaborazione politica dell’organizzazione in tutti i settori di attività. E questo non mi pare emergere con sufficiente chiarezza.

un CUB di provincia – il sindacato

A proposito di Cub operai, mi piace ricordare il Cub della Montedison di Castellanza, che partecipò al lavoro del Gruppo di protezione e igiene ambientale che fu una delle esperienze lombarde più avanzate nel campo della salute sul posto di lavoro ed ebbe un ruolo importante nello sviluppo di Medicina Democratica.

Ricordo anche un dibattito, piuttosto acceso, a proposito del rapporto con le organizzazioni sindacali. Si discuteva se, in assoluto, si dovesse condividere la loro vita istituzionale, con gli strumenti dell’iscrizione, del voto, della partecipazione agli organismi dirigenti.

Più sotto traccia si discuteva dell’opportunità di privilegiare i rapporti con la Cgil, in nome del comune riferimento alla tradizione comunista e del suo ruolo maggioritario tra i lavoratori (ma al costo di fare i conti con l’aperta ostilità del Pci); o se non fosse più opportuno cedere alle sirene delle federazioni legate a Cisl e Uil, disposte, talvolta per sincera apertura mentale, ma più spesso in specifica funzione anticomunista, a darci un po’ di spazio e visibilità.
 
servizio d'ordine.

Ho sempre cercato di tenermi lontano dalle attività del servizio d’ordine, (al tempo) non per un rifiuto etico della violenza, quanto perché non ero un tipo di gamba veloce e fendente deciso. Ma, come responsabile di un’organizzazione provinciale, qualcosa ho visto ed ho fatto. In generale, direi che Ao non è mai stata un’organizzazione militarista o militarizzata, come traspare da qualche passaggio del saggio sull’argomento.

Arrivammo tardi a strutturare il servizio d’ordine e questa scelta derivò da tre questioni:

  • il clima di violenza generalizzato, dallo stragismo ai tentativi di golpe, richiedeva capacità di intelligence e organizzazione clandestina
  • la limitata libertà di manifestazione e la fin troppo agguerrita presenza di organizzazioni (queste si) paramilitari fasciste richiedeva capacità di autodifesa
  • il prestigio acquisito negli scontri di piazza era senz’altro un fattore non trascurabile nella contesa per l’egemonia tra le diverse organizzazioni della sinistra rivoluzionaria. E temo che sia stata questo fattore (il meno giustificabile) a pesare sugli eccessi (tragici) di cui siamo stati protagonisti.

Ad un certo punto il servizio d’ordine era diventato una struttura separata che rispondeva politicamente agli organismi provinciali e regionali ma lavorava per conto suo, allenandosi una volta alla settimana e compiendo attività di cui gli altri militanti non erano a conoscenza. I suoi membri più motivati erano evidentemente quelli meglio dotati atleticamente e più aggressivi nel confronto politico (qualche decennio prima, avrebbero più volentieri fatto a botte con i ragazzi del paese o del quartiere accanto): questo era naturale, ma non aiutava certo la moderazione.

Per quanto riguarda la provincia di Varese, il servizio d’ordine di Ao non andò mai oltre qualche spintone e ne sono ancora molto felice. Vorrei anche ricordare una piccola tradizione del servizio d’ordine lombardo. Com’è noto, il 28 aprile Mussolini fu ucciso a Giulino di Mezzegra, un piccolo paese del lago di Como. Per impedire ai fascisti di celebrare il ricordo del Duce, come erano soliti fare in precedenza, grazie all'interessamento di Corrado Lamberti, nativo di quelle parti, AO decise di presidiare il luogo ogni anno.

Era un periodo strapieno di lavoro politico. Si manifestava il 25 mattina nel proprio comune di residenza, al pomeriggio a Milano, a Giulino si andava seguendo la disposizione dei ponti.

Per arrivare a Giulino si passava per forza dalla Statale Regina e bisognava portare in anticipo quel po’ di armamentari impropri, per evitare i posti di blocco. Un anno fu il compito mio e della mia Citroën Dyane 6: con i capelli lunghi, non proprio un modo di passare inosservati. Ma andò tutto bene. Il giorno del presidio ci attendeva il diluvio universale: per fortuna avevamo tutti l’eschimo e gli anfibi (e le auto “pulite”).

Se n’è riparlato quest’anno sui giornali, perché le commemorazioni mussoliniane sul Lario sono riprese ed il Prefetto ha respinto la richiesta dell’Anpi volta ad impedire la manifestazione.

È poi vero che da Ao non ci fu un travaso di militanti nelle file della lotta armata, ma non fummo esenti da qualche contiguità. In provincia di Varese posso contare almeno tre casi, di cui uno salito ampiamente all’onore delle cronache.

giovanilismo

A cavallo tra giovanilismo e viaggi esotici, voglio ricordare le vacanze di alcuni tra noi varesini. In un viaggio in Afghanistan fui convolto direttamente. Ebbi così l’occasione di visitare le grandi statue di Buddha, a Bamian, molti anni prima che i Talebani le prendessero a cannonate: restano un ricordo indelebile.

Non ho mai frequentato la cannabis, preferendo stupefacenti nazional-popolari, invisi più al fegato che al polmone. Ero anche piuttosto bacchettone sulla faccenda e mi nutrivo di letture marxiste, poco frequentando la beat generation. Fu così che mi trovai a Kabul per amore di avventura, raggiungendola con mezzi pubblici e autostop, per scoprire che i miei compagni s’erano imposti un viaggio di 15.000 km in 34 giorni. La prima riunione di cellula era già fissata in agenda e bisognava tornare in fretta soprattutto per farsi liberamente le canne.

Lasciata l’ultima vodka in Armenia, provai anch’io: unico effetto psicotropo fu ri-sognare dei “Caroselli”, in versione a colori, come l’austero Berlinguer non avrebbe mai voluto vederli. Questo per dire che il consumo di cannabis, in Ao, non era distribuito in modo omogeneo, ma era parecchio diffuso e motivato.

Un’altra serie di viaggi dei miei compagni varesini, in quegli anni, ebbe per destinazione la Siria: si trattava di vere e proprie missioni ufficiali per visitare le organizzazioni palestinesi. Chi partecipò ricorda come, insieme ai nostri ortodossi alleati del F.D.P.L.P. di Nayef Hawatmeh, si avesse occasione di incontrare anche militanti di organizzazioni terroriste, come Settembre Nero: i confini, là, non sembravano così netti.

il lavoro culturale e Roberto Ceresoli

Partecipai anch’io, quando potevo, all’avvio del lavoro culturale di Ao. Mi coinvolse Roberto Ceresoli che divenne il mio mentore quando sostituì Attilio Mangano nel lavoro di costruzione di Ao in provincia di Varese e rimase con noi provinciali per 2 o 3 anni. Dico noi provinciali perché Roberto, al di là della politica, divideva il mondo in parigini e provinciali ed ebbe la bontà di catalogarmi nella prima categoria.

Aveva qualche anno più di noi, era un tipo esuberante, altrettanto dedito alla politica quanto ai piaceri della vita, cosa che gli lasciava poco tempo per dormire. Ex pugile, era un tipo grande e grosso e mi ricordo come chiuse, con nonchalance, un conflitto a mani nude con i capanniani di Gallarate, facendo ruzzolare per le scale il capo del loro servizio d’ordine.

Teorizzava, come strategia di sopravvivenza, nel togliere tempo al lavoro per dedicarlo alla politica, l’indebitamento progressivo. Partecipai ad una riunione lunga un week-end, in una casa di campagna, con Ceresoli, Vincenzo Vita, Giorgio Bonomi e pochi altri che non ricordo, dove si posero le basi del progetto di intervento culturale. Ci fu poi un seminario in un albergo affittato apposta a Bellaria di Romagna, in pieno inverno (fine gennaio, forse febbraio), con una nebbia da far invidia alla più impenetrabile scighera dei navigli milanesi.

C’era il tema, teoricamente un po’ approssimativo, degli embrioni di cultura proletaria, che fu alla base di iniziative come il Centro Sociale Santa Marta e tanti altri circoli culturali di base, in città e in provincia (a Saronno ci fu un buon esempio). A, proposito di Santa Marta, tra i futuri famosi voglio ricordare anche Alberto Camerini, musicista di talento che trovò la vetta delle classifiche esplorando la musica elettronica con Rock & Roll Robot, dopo molte cose (più) carine fatte all’inizio (tra le quali gli album “Cenerentola e il pane quotidiano” e “Gelato metropolitano”). E poi c'era Jo Squillo che, dal quasi punk delle origini (“Violentami sul Metrò”), lavora da tempo per Mediaset, occupandosi di moda.

Roberto Ceresoli aveva una compagna, bella quanto paziente, e mi ospitavano spesso a Milano, quando stavo al Quotidiano: le notti erano squarciate dalle scorribande del gatto Gargiulo, un felino che pesava più di dieci chili e si muoveva dal divano solo dopo le 3 di notte. Quando Ao si divise, non capirono e decisero di occuparsi di viaggi a Cuba, lo rividi a metà anni ‘80 da una comune amica, poi non ho saputo più nulla.

a proposito di cambiare il mondo

Ciò che mi lascia sempre perplesso, quando affronto la memorialistica sessantottina, dagli anni formidabili di Mario Capanna a noi che volevamo cambiare il mondo, è il fatto che non si pongono mai domande radicali e si cerca, ogni volta, di confermare l’idea che fossimo la meglio gioventù. Volevamo cambiare il mondo, ma il mondo è cambiato per conto suo, in un’altra direzione, e ha finito per cambiare anche noi.

D’altronde, la nostra formazione culturale non era, propriamente, molto aggiornata e, così, gli strumenti per interpretare la realtà. Il nostro sudato marxismo, perché studiavamo veramente, era lontano dall’appartenere alla versione più aggiornata che, come la storia ha mostrato, era quella italiana: e pure questa si è rapidamente mostrata insufficiente, molto prima del fatidico 1989, probabilmente già a partire dai fatidici anni ‘60.

In quegli anni, il mondo l’hanno cambiato la beat generation, il femminismo, lo stesso edonismo reaganiano (termine coniato da Roberto d’Agostino in pieno “riflusso”).
Il mondo l’hanno cambiato la caduta del socialismo reale e la globalizzazione, grazie alla quale miliardi di uomini sono usciti dall’economia di sussistenza e dalla povertà (e le derive di destra nel mondo occidentale sono anche una risposta reazionaria a questa redistribuzione planetaria del reddito).

Il mondo l’ha cambiato, naturalmente, la rivoluzione digitale, contemporaneamente nel cuore dell’economia e nella nostra vita quotidiana e di relazione. Il socialismo, nella sua variante europea e democratica, è stato tanta parte del tentativo di mitigare gli “istinti animali” del capitalismo, nell’introdurre elementi di giustizia sociale e  nel favorire i consumi di massa come strumento di espansione economica.

Ma oggi è in vistosa ritirata e subisce drammaticamente la concorrenza “verde”. Nella sua versione sovietica (leninista e stalinista), il socialismo è stato una tragedia, frenando lo sviluppo economico anche più delle libertà. Nella versione cinese, dal grande balzo in avanti alla rivoluzione culturale, è stato una tragedia anche più grande, mitigata solo dalla nostra scarsa conoscenza dei fatti; in quella successiva è stato un trionfo del capitalismo come sistema economico e produttivo, abbinato ad una dittatura permissiva negli stili di vita quanto rigida e occhiuta nella gestione del potere, quello sì, forse, di “casta” del Partito Comunista.

Rinunciai alle vacanze estive del 1974 per preparare un seminario sulla rivoluzione cinese, che non si tenne mai per il sovraccarico dell’attività politica quotidiana nei mesi successivi: questo per dire che il riferimento alla Cina non era certo fideistico, come per gli emme-elle, ma, comunque, c’era eccome.

Il dubbio che il capitalismo fosse, semplicemente, il modo di produrre e di scambiare le merci più efficiente (dopo Keynes, anche in termini di redistribuzione del reddito), che senza finanza non ci fosse posto per l’industria né per la crescita economica, che la democrazia liberale fosse la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora (W. Churchill), è sorto nei primissimi anni ‘80. E quando è caduto il muro di Berlino, erano già diventate ragionevoli certezze.

Militavo nel Pci migliorista, quando votai per Craxi sulla scala mobile e la responsabilità civile dei giudici, trepidai per la sorte dei marinai inglesi alle Falkland, lasciai poi il Partito in seguito al gattopardismo occhettiano e alla marcia degli onesti che incarnò il perenne sospetto di infamia fiscale posto in capo alle partite I.V.A., di cui sono stato uno dei primi esemplari. Mi ritirai a vita privata, avendo la fortuna di partecipare all’intero processo di rivoluzione digitale nel mondo audiovisivo. E, per questo, forse videro giusto quei compagni di Ao che non mi vollero più con loro.


Sulla storia della sua militanza e sulla esperienza giornalistica Lorenzo Baldi ha pubblicato su Pensieri in Libertà, nella sezione 1968 e oltreda Avanguardia Operaia al Quotidiano dei Lavoratori  e toccata e fuga al Manifesto





Buio a mezzogiorno – di Arthur Koestler (recensione)

Quando ho recensito il caso Toulaev di Victor Serge mi sono reso conto, sia dai riferimenti nella introduzione, sia dai commenti degli amici, che non avevo mai letto l'altro libro di riferimento, scritto nello stesso periodo (1938/1939) e riferito ai grandi processi del 37-38, "Buio a Mezzogiorno".

Anche Koestler (Budapest 1905 – Londra 1983), come Serge, è un militante comunista, ma nel suo caso si tratta di un comunista prevalentemente vissuto al di qua del confine con l'est. Koestler è ungherese (viene dalla capitale dell'impero asburgico), proviene da una famiglia ebraica, studia a Vienna e dunque scrive in tedesco ( anche perché, sul piano profeessionale ha lungamente operato in Germania) e sino alla fine, cerca suo malgrado, di di essere fedele al punto di vista di Mosca.

La sua storia di scrittore inizia da giovanissimo, con il racconto della sua esperienza in Palestina a lavorare in un Kibbutz ("La schiuma della terra") stretto tra le ostilità degli Inglesi e degli Arabi. Dopo il periodo palestinese riesce a farsi assumere da grandi gruppi editoriali tedeschi e in quegli anni (anche dopo l'adesione al partito comunista tedesco) continuerà a lavorare per il partito, in incognito, con la indicazione di apparire come un giornalista liberal che però, quando può, difende gli interessi dell'URSS. Lo farà in Germania, poi in Spagna e infine in Francia.

La sua rottura con il comunismo e la denuncia dei crimini dello stalinismo avviene solo nel 1938 perché, nonostante viva a contatto con i problemi del totalitarismo staliniano, mette sempre al primo posto la resistenza al nazismo e la necessità che le forze antinaziste rimangano unite. Tutto ciò nonostante tocchi con mano, sin dal primo viaggio in URSS pensato come propagandistico, le condizioni di vita della popolazione russa, lo strangolamento dei kulachi, la persecuzione, di qua e di là del confine sovietico degli oppositori. Buona parte del materiale documentario del romanzo gli viene da una testimone diretta (di carceri e inchieste) che aveva conosciuto nel corso del viaggio in URSS Eva Weissberg e che è stata liberata grazie a pressioni internazionali mentre il marito Alex era stato consegnato alla Gestapo.

Buio a mezzogiorno, insieme ad altri due romanzi dello stesso periodo, I Gladiatori e Arrivo e Partenza ha come tema centrale il rifiuto del principio secondo cui "il fine giustifica i mezzi": il partito è infallibile in quanto avanguardia del proletariato e il proletariato era l'incarnazione del processo storico verso il progresso. Per una ampia biografia su Koestler potete leggere il sito della storica Valentina Piattelli.

Il romanzo, in cui qualcuno ha individiato elementi legati al processo a Bucharin per via della confessionefinale, racconta il processo ad un ex commissario del popolo, Nicola Salmanovič Rubashov, l'ultimo sopravvissuto, oltre a Stalin, della foto di gruppo della vecchia guardia che fino a poco prima stava in tutti gli uffici pubblici (e anche alla Lubjanka), che ora non c'è più perché la vecchia guardia, le teste numerate della fotografia, non c'è più.

Ci sono elementi di similitudine con quanto già scritto da Serge (le celle, i corridoi, gli interrogatori notturni, le figure degli inquisitori, il sotterraneo delle esecuzioni) ma questa volta (a differenza del caso Toulaev) c'è una unica vicenda e un racconto in cui, man mano che procedono gli interrogatori ci sono i salti indietro che ci descrivono la vita e il ruolo di Rubashov che negli anni 30, per conto della Internazionale si dedicava agli interventi di raddrizzamento ed espulsione di militanti delle cellule all'estero (in Germania in pieno nazismo e poi in Belgio).

Rubashov è sereno ma fermissimo; non sono ammessi dissensi, chi dissente è fuori, come capita ai membri della cellula degli scaricatori di un porto del Belgio che avevano organizzato il boicottaggio delle merci dedicate ai nazifascisti e che, la sera prima dello sbarco, apprendono che stanno arrivando dalla patria del socialismo cinque cargo neri, ciascuno con il nome di un grande capo della Rivoluzione e con la bandiera rossa bella in vista. Sono carichi di petrolio da instradare poi, via terra, verso l'Italia di Mussolini, impegnata nella aggressione all'Etiopia e soggetta all'embargo da parte della Società delle Nazioni,

Questo è lo scambio finale con Riccardo, il militante tedesco che ha osato non distribuire il materiale propagandistico giunto da Mosca e sostituirlo con cose scritte sul posto, perché più aderenti alla realtà.


«Il Partito non può mai sbagliare» disse allora Rubasciov. «Tu ed io possiamo commettere degli errori, ma non il Partito. Il Partito, compagno, è piú di te, di me e di mille altri come te e come me. Il Partito è l’incarnazione dell’idea rivoluzionaria nella Storia. La Storia non conosce né scrupoli né esitazioni. Scorre, inerte e infallibile, verso la sua meta. Ad ogni curva del suo corso lascia il fango che porta con sé e i cadaveri degli affogati. La Storia sa dove va. Non commette errori. Colui che non ha una fede assoluta nella Storia non è nelle file del Partito.»

«Hai impedito la diffusione del nostro materiale; hai soppresso la voce del Partito. Hai distribuito volantini ogni parola dei quali era pericolosa e falsa. Hai scritto: “I resti del movimento rivoluzionario debbono unirsi e tutte le forze ostili alla tirannide formare un blocco; dobbiamo porre fine alle nostre vecchie lotte interne e cominciare di nuovo la lotta comune”. Questo è un errore. Il Partito non deve allearsi ai moderati. Sono essi che in perfetta buona fede hanno innumerevoli volte tradito il movimento, e lo faranno ancora alla prossima occasione, e poi ancora alla prossima. Chi scende a un compromesso con essi uccide la rivoluzione. Hai scritto: “Quando la casa brucia, tutti devono contribuire a soffocare l’incendio; se continuiamo a discutere sulle teorie, l’incendio ci ridurrà tutti in cenere”. Altro errore. Noi combattiamo il fuoco con l’acqua; gli altri con l’olio. Pertanto dobbiamo prima decidere quale è il sistema giusto, se l’acqua o l’olio, prima di unire le brigate dei pompieri.


Quando Rubasciov torna in Russia dopo due anni di carcere in Germania trova che molti degli uomini barbuti della fotografia non esistevano più e che i loro nomi non potevano nemmeno essere pronunciati e per questa ragione rimane solo 15 giorni prima di essere inviato in Belgio sui sua richiesta dove gestirà la ribellione dei portuali.


Un’immagine gli comparve alla mente, una grande fotografia in una cornice di legno: i delegati al primo Congresso del Partito. Erano seduti attorno a una grande tavola, chi con i gomiti puntati sopra, altri con le mani sulle ginocchia; seri e barbuti tutti guardavano fisso verso l’obiettivo. Sopra ogni testa si vedeva un piccolo cerchio, che racchiudeva un numero corrispondente a un nome stampato ai piedi della fotografia. Tutti erano solenni, solo il vecchio che presiedeva aveva un’espressione scaltra e divertita negli occhi obliqui da tartaro. Rubasciov era il secondo alla sua destra, col pince-nez sul naso. Il N. 1 era seduto all’altro capo della tavola, in fondo, massiccio e quadrato. Sembrava la riunione del Consiglio municipale di una cittadina di provincia, e preparavano invece la piú grande rivoluzione della Storia. Erano a quel tempo un pugno d’uomini di una specie interamente nuova: filosofi militanti. Conoscevano tutti le prigioni delle città europee come i viaggiatori di commercio conoscono gli alberghi delle loro “piazze”. Sognavano la conquista del potere per abolire il potere; di governare sul popolo per svezzarlo dall’abitudine di essere governato. Tutti i loro pensieri si trasformavano in fatti e tutti i loro sogni divenivano realtà. Dove erano? I loro cervelli, che avevano cambiato il corso del mondo, avevano ricevuto ognuno una scarica di piombo. Chi nella fronte, chi nella nuca. Solo due o tre s’erano salvati, erano spersi per il mondo, logori, finiti. E lui; e il N. 1.


Nonostante ciò Rubashov va in Belgio a gestire la espulsione degli scaricatori, fa espellere i capi della sezione e denuncia il loro leader Nano Loewy come agente provocatore ed è nel periodo belga che Rubashov entra in contatto con labbro leporino il figlio di un diplomatico che sarà utilizzato per imbastire le accuse contro di lui.

In epoca staliniana le eliminazioni seguono due strade:

  • la pratica amministrativa (storicamente ampiamente utlizzata contro i tecnici e gli agronomi) in cui il partito decide che non ci sia interesse ad arrivare al processo e si viene eliminati direttamente su indicazione degli inquirenti (è quanto accade ad un vecchi amico di Rubashov, Bogrov per una questione relativa al tonnellaggio dei sottomarini).
  • il processo pubblico che viene istruito utilizzando chiamate di correità, confessioni, raccolte di documentazione mentre il potenziale imputato è in libertà, si perfeziona con l'arresto e gli interrogatori notturni che hanno la funzione di portare l'imputato allo sfinimento sino a fargli ammettere qualsiasi cosa pur di riposare e che ha come livello massimo di perfezione la ammissione, da parte dell'imputato delle verità più assurde sino al pentimento finale e alla richiesta di espiazione (inclusa la morte) in nome del socialismo.

Rubasciov è un dirigente rivoluzionario e dunque la sua pratica viene affidata ad un amico della prima ora, il giudice Ivanov che si trova ad interagire con un sottoposto della generazione successiva Gletkin, un fanatico convinto che l'imputato vada spezzato distruggendolo. Anche Ivanov, dopo che è riuscito a convincere Rubashov della sua colpevolezza, finirà eliminato per via amministrativa e la pratica passerà all'esperto in confessioni e connessioni in cui da un pelo si costruisce una pelliccia: Rubashov ha ammesso di avere sbagliato convinto dai ragionamenti di Ivanov e Gletkin farà il resto.

Rubashov, reso dubbioso dalle cose che ha visto, ha dei dubbi sull'Io e sul Noi. La dottrina rivoluzionaria si basa sulla divisione aritmetica: l'individuo è il frutto della divisione "una moltitudine di un milione divisa per un milione" ed è su questi temi che viene convinto da UIvanov, ma alla fine, nella sua cella, dopo che il processo si è concluso con la condanna alla fucilazione Rubashov continua ad interrogarsi.


Per che cosa muori tu, in realtà?”, non trovava alcuna risposta. C’era un errore nel sistema; forse consisteva nel precetto, ch’egli aveva considerato finora incontestabile, in nome del quale aveva sacrificato gli altri ed ora egli stesso veniva sacrificato: nel precetto, che il fine giustifica i mezzi. Era questa frase che aveva ucciso la grande fraternità della Rivoluzione e gettato tutti allo sbaraglio. Che cosa aveva scritto egli una volta nel suo diario? “Abbiamo gettato a mare tutte le convenzioni, la nostra sola guida è quella della logica conseguente; navighiamo senza zavorra etica.

Forse la radice del male era tutta qui. Forse non s’addiceva all’umanità navigare senza zavorra. E forse la ragione soltanto era una bussola difettosa, che faceva seguire una rotta cosí tortuosa da fare sparire nella nebbia il punto d’approdo. Forse ora veniva il tempo della grande tenebra.

Forse piú tardi, molto piú tardi, il nuovo movimento sarebbe sorto… con nuove bandiere, con un nuovo spirito, conscio e della fatalità economica e del “senso oceanico”. Forse i membri del nuovo partito avrebbero portato tonache fratesche e predicato che solo la purità dei mezzi può giustificare il fine. Forse avrebbero insegnato ch’è fallace il detto secondo cui un uomo è il prodotto di un milione diviso per un milione e avrebbero introdotto una nuova specie di aritmetica basata sulla moltiplicazione, in modo da formare con un milione di individui una nuova entità che, non piú massa amorfa, sviluppasse una coscienza e un’individualità propria, con una “sensazione oceanica” accresciuta di un milione di volte, in uno spazio illimitato e tuttavia contenuto in se stesso.


Potrei riempirvi di altre decine di citazioni. Il processo razionale che porta Rubashov ad accettare la sua colpevolezza è complesso.Il moderno Prometeo si è annullato nel Partito, ha ammesso di essere al servizio della storia e null'altro conta. I comportamenti delle teste numerate mandate alla fucilazione dal numero 1 sono stati tra loro diversi: c'è chi ha confessato e chiesto la grazia, c'è chi ha ammesso la organizzazione di una opposizione ed è andato con dignità nel corridoio delle cantine della Lubjanka, chi come Zinov'ev è crollato psicologicamente e ha dovuto essere sorretto dai carcerieri. Una tragedia raccontata con grande attenzione all'uomo e alla storia, i due corni del dilemma.


Arthur Koestler

Buio a Mezzogiorno




Memorie di un rivoluzionario – di Victor Serge (2) recensione

Solitamente si sostiene che la degenerazione nello stato sovietico abbia a che fare con la costruzione del potere staliniano, come se fosse esistita una fase aurea, governata da Lenin in coppia con Trockij, in cui, pur con mille problemi, le cose avrebbero sostanzialmente funzionato e una successiva fase degenerata dovuta alla presa del potere da parte di Stalin.

Secondo Serge la questione è più complessa e sarebbero state le condizioni di accerchiamento della rivoluzione a spingere il potere sovietico sulla strada del totalitarismo, una strada che, una volta imboccata, avrebbe portato agli esiti che conosciamo. 

il comunismo di guerra, l'estromissione degli anarchici e la rivolta di Kronstadt, "il totalitarismo è in noi"

La fase finale del comunismo di guerra è caratterizzata dal perdurare di una grave situazione di crisi economico sociale (L'apparato è eccellente, ma la minestra è cattiva!. ) di fronte alla quale c'è chi pensa che la fase dirigista debba durare decenni (Trockij e Bucharin) e in questo contesto si assumonio provvedimenti di tipo demagogico destinati a peggiorare il quadro. Mentre l'inflazione fuori controllo trasforma il danaro in carta straccia si parla della prossima eliminazione della moneta come elemento di socialismo realizzato.

Nelle fabbriche gli operai utilizzano le cinghie di trasmissione in cuoio che portano energia alle macchine in suole per le scarpe; si muore letteralmente di fame, ci si riscalda bruciando il parquet dei palazzi nobiliari o bruciando i libri. Nei lazzaretti, quando i morti di tifo diventano troppi, data la impossibilità di seppellire nel trerreno gelato o di cremare i cadaveri, gli stessi rimangono surgelati nei cameroni e quando diventano troppi ci si trasferisce in un altro palazzo lasciando i cadaveri sul posto.


Il comunismo di guerra poteva definirsi così: 1) requisizione nelle campagne; 2) razionamento implacabile della popolazione delle città, divisa per categorie; 3) socializzazione completa della produzione e del lavoro; 4) ripartizione burocratica estremamente complicata degli ultimi depositi di articoli manufatti; 5) monopolio del potere, con tendenza al partito unico e al soffocamento di ogni dissidenza; 6) stato di assedio e Ceka. Questo sistema, il nono congresso del partito comunista lo aveva sanzionato nel marzo-aprile 1920.


La tendenza a reagire alle difficoltà incrementando costrizione e violenza non fanno che avvitare un quadro in costante peggioramento e mentre si accentua il distacco tra il partito e le masse che applicano l'arte di arrangiarsi si scatenano diverse iniziative di repressione nei confronti delle opposizioni (in particolare degli anarchici) smentendo le timide aperture di Lenin e e di Trockij nei confronti dei contadini anarchici dell'Ucraina (il movimento di Machno).

Gli anarchici hanno posizioni differenziate e spesso inconcludenti ma, osserva Serge, la maggior parte dei bolscevichi, fedeli alla tradizione marxista, li considerava utopisti piccolo-borghesi, incompatibili con lo sviluppo del socialismo scientifico. Nel cervello dei cekisti e di certi burocrati in preda alle psicosi dell'autorità, quei piccoli borghesi diventavano una turba di controrivoluzionari loro malgrado con cui occorreva farla finita ed è questa la ragione per cui si oscilla tra collaborazione, accordi di pacificazione e successiva non applicazione degli stessi mentre cresce la sfiducia nei confronti dei bolscevichi.

Come una ciliegina sulla torta nella notte tra il 28 e il 29 febbraio arriva dal cognato di Zinov'ev una notizia sconvolgente: Kronshtadt è nelle mani dei bianchi. Siamo tutti mobilitati. - Quali bianchi? Da dove saltano fuori? E' incredibile!. - Un certo generale Kozlovskij... - E i nostri marinai? Il soviet? La Ceka? Gli operai dell'arsenale?. - Non so altro.

La base navale di Kronstadt, fiore all'occhiello della marina zarista e da sempre avanguardia dei processi rivoluzionari di Russia, è la via di penetrazione naturale alla Russia (vedi cartina generale e ingrandimento) e dunque non è strana, da parte del partito bolscevico, la scelta di risolvere il problema, manu militari; in una logica di salvaguardia dell'esistente non sono ammessi tentennamenti..

E' sciopero generale, Pietrogrado rischia di cadere, ma si tratta di una balla colossale e credo che sia questa balla ad aver fatto cadere definitivamente in Serge la fiducia assoluta nella verità rivoluzionaria e a portarlo definitivamente su una posizione di comunismo libertario: Dei piccoli manifesti incollati sui muri nelle strade ancora deserte annunciavano che, per complotto e tradimento, il generale controrivoluzionario Kozlovskij s'era impadronito di Kronshtadt e chiamavano il proletariato alle armi. Ma prima ancora di essere arrivato al comitato di zona, incontrai dei compagni, accorsi con i loro mauser, che mi dissero che si trattava di una abominevole menzogna, che i marinai si erano ammutinati, che era una rivolta della flotta, e diretta dal soviet. Non era meno grave, forse; al contrario. Il peggio era che la menzogna ufficiale ci paralizzava. Che il nostro partito ci mentisse così, non era mai capitato. E' necessario dicevano alcuni, sebbene molto abbattuti, per la popolazione....

La richiesta degli ammutinati riguarda questioni che troveranno soluzione solo con la svolta della NEP: Era un programma di rinnovamento della rivoluzione. Riassumo: rielezione dei soviet con voto segreto; libertà di parola e di stampa per tutti i partiti e i gruppi rivoluzionari; libertà sindacale; liberazione dei prigionieri politici rivoluzionari; abolizione della propaganda ufficiale; cessazione delle requisizioni nelle campagne; libertà dell'artigianato; soppressione immediata dei distaccamenti di sbarramento che impedivano alla popolazione di rifornirsi a suo piacimento.

Il partito tentenna, gli anarchici tentano una mediazione ma vengono sconfessati e vengono allora, nell'ordine, prima l'ultimatum e poi l'attacco vittorioso da parte di Tuchacevskij nel giorno anniversario della Comune di Parigi. Una parte dei ribelli raggiunse la Finlandia. Altri si difesero con accanimento, forte per forte, strada per strada. Si lasciavano fucilare al grido di Viva la rivoluzione mondiale!. Ce ne furono che morirono gridando: Viva l'Internazionale comunista!.

Per Serge, come dicevo, si tratta di una cesura non sanabile ed è l'inizio del suo percorso di comunista-libertario che, anche quando si schiererà con l'opposizione trockijsta, determinerà sia giudizi diversi sul regime staliniano, sia un modo diverso di condurre la personale battaglia di resistenza anche proicessuale. Mi si perdoni la lunga citazione ma si tratta di uno dei punti chiavi del libro.


L'opposizione operaia sembrava orientarsi verso la rottura con il partito. Eravamo, in verità, già quasi schiacciati dal nascente totalitarismo. La parola totalitarismo non esisteva ancora. La cosa ci si imponeva duramente senza che ne avessimo coscienza. Io appartenevo all'infima minoranza che se ne rendeva conto. La maggior parte dei dirigenti e dei militanti del partito ...speravano che, venuta la pacificazione, lo stato d'assedio sarebbe caduto da sé e che si sarebbe tornati a una certa democrazia sovietica su cui nessuno aveva più idee chiare.

Le grandi idee del 1917 che avevano permesso al partito bolscevico di trascinare le masse contadine, l'esercito, la classe operaia e l'intelligencija marxista, erano evidentemente morte. Lenin non aveva proposto allora una libertà sovietica della stampa tale che ogni gruppo sostenuto da diecimila voti potesse stampare il suo organo a spese della comunità? (1917). Aveva scritto che nel seno dei soviet gli spostamenti di potere da un partito all'altro avrebbero potuto compiersi senza conflitti acuti. La sua dottrina dello Stato sovietico prometteva uno Stato assolutamente differente dagli antichi Stati borghesi, senza funzionari né polizia distinti dal popolo; in esso i lavoratori avrebbero esercitato direttamente il potere per mezzo dei loro consigli eletti e mantenuto da soli l'ordine grazie a un sistema di milizie.

Il monopolio del potere, la Ceka, l'Armata rossa non lasciavano più sussistere altro che un mito teorico di quello StatoComune sognato. La guerra, la difesa interna contro la controrivoluzione, la carestia creatrice di un apparato burocratico di razionamento avevano ucciso la democrazia sovietica. Come sarebbe rinata? Quando?  ...

A questi fattori storici conviene aggiungere importanti fattori psicologici. Il marxismo è mutato parecchie volte, secondo le epoche. Nasce dalla scienza, dalla filosofia borghese e dalle aspirazioni rivoluzionarie del proletariato, nel momento in cui la società capitalistica si avvicina al suo apogeo. Si presenta come l'erede naturale di quella società di cui è il prodotto. Come la società capitalistico-industriale tende ad abbracciare il mondo intero modellandovi a suo piacimento tutti gli aspetti della vita, così il marxismo dell'inizio del secolo ventesimo mira a riprendere in mano tutto, a trasformare tutto, dal regime della proprietà, all'organizzazione del lavoro e dalla carta dei continenti (per mezzo dell'abolizione delle frontiere), fino alla vita interna dell'uomo (per mezzo della fine della religiosità).

Pretendendo una trasformazione totale, esso era, nel senso etimologico, totalitario. Presentava i due volti della società in ascesa: democratico e autoritario ... Il pensiero bolscevico parte dal presupposto di possedere la verità: agli occhi di Lenin, di Bucharin, di Trockij, di Preobrazenskij e di molti altri, la dialettica materialistica di MarxEngels è, allo stesso tempo, la legge del pensiero umano e quella dello sviluppo della natura e delle società. Il partito detiene semplicemente la verità; ogni pensiero differente dal suo è un errore pernicioso o retrogrado. Questa è la fonte spirituale della sua intolleranza. La convinzione assoluta della sua alta missione gli assicura un'energia morale assolutamente sorprendente - e al tempo stesso una mentalità clericale pronta a diventare inquisitoriale.

Il giacobinismo proletario di Lenin, con il suo disinteresse, la sua disciplina di pensiero e di azione, viene a innestarsi sulla psicologia di quadri formati dal vecchio regime, cioè dalla lotta contro il dispotismo; mi sembra certo che esso debba selezionare i temperamenti autoritari. La vittoria della rivoluzione, infine, rimedia al complesso d'inferiorità delle masse perpetuamente vinte e vessate suscitando in esse uno spirito di rivincita sociale che tende a rendere a loro volta dispotiche le nuove istituzioni. Ho visto marinai e operai dell'antivigilia esercitare il comando con una vera ebbrezza, compiacendosi nel far sentire che le loro persone si identificavano ormai con il potere! Persino i grandi tribuni si dibattevano per le stesse ragioni in contraddizioni inesplicabili che la dialettica permetteva loro di sormontare verbalmente, cioè talvolta demagogicamente.

Venti o cento volte, Lenin ha fatto l'elogio della democrazia e sottolineato che la dittatura del proletariato è una dittatura contro gli ex possidenti spossessati e assieme la più larga democrazia di lavoratori. Lo crede, lo vuole. Va a rendere conti alle officine, domanda di affrontare la critica spietata degli operai. Scrive anche nel 1918 che la dittatura del proletariato non è affatto incompatibile con il potere personale, legittimando così in anticipo una specie di bonapartismo. Fa imprigionare il suo vecchio amico e compagno Bogdanov perché questo grande intellettuale gli presenta obiezioni imbarazzanti; fa mettere i menscevichi fuori legge perché questi socialisti piccolo-borghesi sono purtroppo in errore. Riceve affettuosamente il partigiano anarchico Machno e tenta di dimostrargli che il marxismo ha ragione; ma lascia o fa mettere l'anarchismo fuori legge. Promette la pace ai credenti e ordina di avere riguardi per le Chiese, ma ripete che la religione è l'oppio dei popoli. Andiamo verso una società senza classi, di uomini liberi: ma il partito fa proclamare con manifesti un po' dappertutto che il regno dei lavoratori non avrà fine. Su chi regneranno dunque? E che significa la parola regno? Il totalitarismo è in noi.


In effetti sempre nel marzo del '21 si tiene il X congresso del partito bolscevico e Lenin opera una sterzata su alcune delle questioni calde divenute insostenibili e legate al comunismo di guerra; è la NEP pensata come temporaneo ritorno al capitalismo per consentire allo stato sovietico di sopravvivere: soppressione delle requisizioni, imposte in natura (per i contadini); libertà del commercio, libertà della produzione artigiana; concessioni ai capitalisti stranieri, a condizioni vantaggiose; libertà d'impresa - limitata, è vero - per i cittadini sovietici stessi.

Si apre sul terreno della politica economica e dei rapporti di produzione ma non si molla sul terreno delle libertà politiche. Serge è sfiduciato, assiste al III congresso dell'Internazionale comunista, fonda una associazione eterodossa per il libero pensiero, tenta l'esperimento di una comune agricola nella zona del lago Ladoga e, alla fine tira le somme, considera chiusa la sua esperienza di vita nella terra dei soviet e, sfruttando la consolidata collaborazione con Zinov'ev e i membri dell'esecutivo, si fa mandare in Europa a lavorare per creare le condizioni di alleggerimento dell'isolamento russo. Prima tappa Berlino

rivoluzionario di professione in Europa mentre muore Lenin e in URSS inizia la guerra dentro il partito

Gli anni dal 1922 al 1926 corrispondono da parte dfi Serge al tentativo di digerire la delusione ritornando nella amata Europa a fare il rivoluzionario di professione per conto della Internazionale che sta gestendo le rotture all'interno del movimento socialista e tenta di rompere l'accerchiamento della Russia rivoluzionaria fomentando insurrezioni (spacciate per rivoluzioni socialiste) in primo luogo in Germania.

Serge arriva a Berlino dopo essere passato per la Lituania e rimane colpito dalla sua organizzazione e dall'alto tenore di vita. La Germania, vittima degli accordi di spartizione successivi alla guerra mondiale (le riparazioni di Versailles) è in piena crisi, ma i movimenti affiliati a Mosca sono generalmente diretti da personaggi di secondo piano, in maggioranza russi, governati a guinzaglio corto da Zinoiv'ev che controlla i finanziamenti. E' in questo quadro che nell'ottobre del 23 avviene in Germania una insurrezione farsa e tentativi analoghi riguarderanno prima il mondo balcanico, l'Estonia e poi la Bulgaria.

Dopo i fatti di Gernania Serge si trasferisce a Vienna dove ha modo di incontrare Antonio Gramsci e Angelica Balabanoff; apprende della imminente morte di Lenin e avrà poi modo di avere informazioni da Nikolaj Bucharin testimone diretto:

Lenin sembrava possedesse ancora tutta la sua coscienza, senza mezzi di lavoro, né di espressione. Riusciva appena a balbettare qualche parola; gli si faceva compitare lettera per lettera il titolo della Pravda. Aveva talvolta sguardi carichi di un'amarezza inesprimibile. Verificatosi un miglioramento, aveva voluto rivedere il Cremlino, il suo tavolo di lavoro, i suoi telefoni; vi venne condotto...

Lo vedi, sostenuto da Nadezda Kostantinovna (Krupskaja) e Nikolaj Ivanovic (Bucharin), mentre trascina il suo passo di invalido attraverso il gabinetto, guardando, terrorizzato di non capirla più, la carta sul muro, prende tra le dita delle matite per abbozzare una firma, e tutto questo come un fantasma, come un disperato che sopravvive a se stesso... Bucharin lo visita sovente nella sua casa di campagna di Gor'kij. Bucharin fa l'allegrone con lui, poi si nasconde dietro un cespuglio e lo guarda con gli occhi pieni di lacrime... E' proprio la fine, vecchio mio. E poi?. Poi, sarà la zuffa.

Consiglio la lettura delle pagine dedicate a Gramsci (pronto a scovare il falso per farlo sgonfiare con una punta ironica, vedeva molto chiaro) alla Balabanoff, già mentore e amante del Mussolini socialista, poi autorevole membro della segreteria della III internazionale.

La politica rivoluzionaria, fatta di chiaroveggenza e di coraggio, esige nei tempi decisivi qualità di buon chirurgo, e nessuno è quaggiù più umano e più probo che il buon chirurgo che lavora tuttavia sulla carne viva, nel dolore e nel sangue. Angela insorse allo stesso tempo contro la chirurgia politica che tendeva a scartare senza riguardi i capi riformisti disposti a silurare ogni offensiva e contro gli sporchi intrighetti da medicone e da politicante di Zinov'ev. Essa seppe discernere ben presto i primi indizi della malattia mortale che in una quindicina d'anni avrebbe provocato la morte del bolscevismo.

I marxisti sanno, mi diceva Gyrgy Lukács, autore di "Geschichte und Klassenbewusstsein" che si possono commettere impunemente molte piccole porcherie quando si fanno grandi cose; l'errore di certi consiste nel credere che si può arrivare a grandi risultati facendo soltanto piccole porcherie...Gyrgy Lukács, una sera che andavamo errando sotto le guglie grigie della chiesa votiva, non fatevi stupidamente deportare per nulla, per il rifiuto di una piccola umiliazione, per il piacere di votare con sfida... Credetemi, le vessazioni non hanno grande importanza per noi. I rivoluzionari marxisti hanno bisogno di pazienza e di coraggio; non hanno affatto bisogno di amor proprio.

Amor proprio o no, Serge rientra in Russia per continuare a bere il suo calice amaro; si fa coinvolgere dalla organizzazione della opposizione di sinistra intorno a Trockij. Stalin, espressione del centro (Molotov, Kaganovic, Mikojan, Kirov) si è ormai impadronito del partito rafforzato dall'ingresso di quelli entrati con la morte di Lenin. In Russia si sta meglio e la gente vuole essere tranquilla; si rafforza la burocrazia mentre tra gli esponenti della vecchia guardia e tra i letterati si diffondono i suicidi.

Stanno per iniziare le svolte politiche e i processi di epurazione con i cambi di cavallo che porteranno alla messa fuori gioco dapprima di Trockij, Zinov'ev e Kamenev e poi della destra di Bucharin, Rykov e Kalinin. Nell'ottobre del 27 Trockij pronuncia al C.C. il suo uiltimo discorso (rivoluzione cinese, ripresa della industrializzazione energica e moderata, attenuazione della NEP) e mentre parla alcuni altri che, ben in carne, non avevano la minima idea di non essere più in realtà se non fantasmi agitati di futuri suicidi e fucilati, lo coprivano di oltraggi stenografati: Menscevico! Traditore! Lazzarone! Liberale! Bugiardo! Canaglia! Spregevole chiacchierone! Rinnegato! Infame!.

Nell'autunno del 27 Zinov'ev e Trockij vengono esclusi dal C.C.. Zinov'ev pur privato di tutti gli incarichi farà ammenda mentre il quindicesimo congresso (dicembre 1927) stabilisce la esclusione dal partito della intera opposizione (deviazionismo menscevico) i cui dirigenti, a partire da Trockij vengono esiliati dando loro solo la possibilità di una ritrattazione.

Trockij viene esiliato ad Alma Ata (alla frontier del Turkestan cinese). Anche Serge viene convocato dalla commissione di controllo di Leningrado per un interrogatorio di rito sulla fedeltà: Qual è il vostro contegno circa la decisione del congresso che ha pronunciato l'esclusione dell'opposizione? Risposi: - Mi sottometto per disciplina a tutte le decisioni del partito, ma ritengo che quello sia un errore grave, le cui conseguenze saranno funeste, se non viene presto riparato... L'operaia con il fazzoletto rosso in testa si rizzò e, con una voce stupefatta: - Compagno, avete detto proprio "un errore"? Pensate dunque che il congresso del partito può sbagliarsi e commettere errori?. Citai l'esempio della socialdemocrazia tedesca che aveva votato la guerra il 2 agosto 1914 contro i due soli voti di Karl Liebknecht e di Otto Rhle. Questo paragone sacrilego empì di costernazione la Commissione. Fui escluso immediatamente.

Ho riportato questo brano perché consente di comprendere la posizione di Serge che rimarrà immutata negli anni successivi quando subirà mesi di carcere e di inquisizione. Serge, a differenza di altri esponenti della opposizione che scelgono una sorta di doppio binario per proseguire attività clandestina di collegamento, è per la esplicitazione del dissenso e, paradossalmente, sarà questo uno degli elementi che gli consentiranno di salvarsi evitando le accuse di cospirazione con cui si finiva molto spesso alla fucilazione. Passano pochi giorni e viene arrestato rimanendo nel carcere di Leningrado per alcune settimane. Non gli viene contestato nulla e sarà liberato per effetto di pressioni parigine (è già un intellettuale famoso). 

Una opposizione solitaria e il testamento politico (1928-1933)

Gli anni dal 28 al 33 riguardano problematiche tra loro diverse: la costruzione di una prospettiva professionale, visto che sono ovviamente cessati i diversi incarichi connessi alla attività politica, i mutamenti di linea politica in URSS con la fine della NEP, la persecuzione dei Kulaki e l'industrializzazione forzata, l'incrudimento del carattere illiberale del sistema che inizialmente riguarderà i tecnici e in genere le persone coinvolte nei processi produttivi.

La persecuzione dei Kulaki (i contadini proprietari che erano stati agevolati dalla NEP) avviene nel momento in cui si determina una crisi nella agricoltura e il governo sovietico decide di spingere sulle strutture statali e cooperative (i sovchoz e i colchoz) e contemporaneamente di imboccare la strada della industrializzazione forzata.

I contadini proprietari vengono assogettati requisizioni e deportazioni (e nel giro di un decennio si avrà una riduzione di circa 5 milioni di famiglie contadine su un totale di 25) e Serge racconta le forme di insubordinazione attuate dalle donne in particolare in occasione delle azioni più insensate. In Bielorussia, quando si venne a tagliare il crine dei cavalli per l'esportazione, senza pensare che le bestie ne sarebbero crepate, le donne circondarono il capo del governo locale, Golodied (fucilato o suicida poi nel 1937) e, d'un tratto, sollevarono, furiose, le loro gonne, sotto cui erano nude: - Tieni, porco! Prendi se osi il nostro crine, non avrai quello dei cavalli!.

A treni interi i contadini deportati partivano verso il nord glaciale, le foreste, le steppe, i deserti, popolazioni intere spogliate di tutto; e i vecchi crepavano in viaggio, si sotterravano i neonati sul ciglio delle strade

Serge decide che farà lo scrittore e si occupa inizialmente di saggi dedicati ai primi anni della rivoluzione, oltre che di collaborazioni dirette con riviste francesi. Dato che mi si rifiutava il diritto di partecipare all'industrializzazione senza rinnegare la libertà di opinione, avrei potuto, pur mantenendo fermamente il mio contegno di oppositore ridotto all'inazione, recare su questo tempo testimonianze utili.

Frequenta l'unione degli scrittori e assiste alla crisi di alcuni dei grandi come Majakovskij che si suicida o di Gorkij isolato e dissenziente - In altri tempi lo scrittore russo non aveva da temere se non il poliziotto e l'arcivescovo; il funzionario comunista di oggi è assieme l'uno e l'altro; vuole sempre cacciarvi le sue sporche zampe nell'anima...

In certi momenti, ci facevamo poche illusioni. Ricordo di aver detto: Se un disperato tira una rivoltellata a qualche satrapo, rischiamo parecchio di essere fucilati tutti assieme entro otto giorni. Non sapevo di colpire così nel segno. Per anni, la persecuzione fu dappertutto, insistente, al punto di far perdere la testa. Il regime divorava ogni semestre una nuova categoria di vittime. Finiti i trockisti, ci si era attaccati ai kulaki; poi ai tecnici; poi agli ex borghesi, commercianti e ufficiali privati del diritto inutile di voto; poi ai preti e ai credenti; poi all'opposizione di destra...

Alle difficoltà della sopravvivenza quotidiana si aggiunge il crollo psichiatrico della moglie che non regge alle persecuzioni verso il padre Rusakov, vecchio rivoluzionario libertario. Alla fine del 1932 Serge incomincia seriamente a pensare ad un nuovo espatrio, ma teme contemporaneamente di essere arrestato, questa volta non di passaggio e ciò lo induce a scrivere una sorta di testamento politico da far pubblicare in Francia nel caso di una sua sparizione. Il documento è datato 1 febbraio 1933.


Credo proprio di essere stato il primo a definire in quel documento lo Stato sovietico come uno Stato totalitario. Già da lunghi anni scrivevo, la rivoluzione è entrata in una fase di reazione (...). Non bisogna nascondersi che il socialismo porta in se stesso germi di reazione. Sul terreno russo, questi germi hanno prodotto una prospera fioritura. Oggi noi siamo sempre più in presenza di uno Stato totalitario, castocratico, assoluto, ebbro della sua potenza, per cui l'uomo non conta.

Questa macchina formidabile riposa su una doppia base: una polizia onnipotente che ha ripreso le tradizioni delle cancellerie segrete della fine del diciottesimo secolo e un 'ordine', nel senso clericale della parola, burocratico, di dirigenti privilegiati.

La concentrazione dei poteri economici e politici fa sì che l'individuo è tenuto, attraverso il pane, il vestito, l'affitto, il lavoro, a disposizione assoluta della macchina: essa permette quindi a quest'ultima di trascurare l'uomo e di non tener conto d'altro che dei grandi numeri, alla lunga. Questo regime è in contraddizione con tutto ciò che è stato detto proclamato, voluto, pensato, durante la rivoluzione stessa...

Su tre punti essenziali, superiori a ogni considerazione di tattica, resto e resterò, mi costi quel che mi deve costare, un non consenziente dichiarato, netto, il quale tacerà solo se costretto:

1. Difesa dell'uomo. Rispetto dell'uomo. Bisogna restituirgli diritti, una sicurezza, un valore. Senza di ciò, niente socialismo. Senza di ciò, tutto è falso, fallito, viziato. L'uomo chiunque esso sia, fosse pure l'ultimo degli uomini. 'Nemico di classe', figlio o nipote di borghesi, me ne infischio, non bisogna mai dimenticare che un essere umano è un essere umano. Ciò si dimentica ogni giorno sotto i miei occhi, dappertutto: è la cosa più rivoltante, più antisocialista che ci sia.

E a questo proposito, senza voler cancellare una sola riga di quel che ho scritto sulla necessità del terrore nelle rivoluzioni in pericolo mortale, devo dire che considero un abominio inqualificabile, reazionario, nauseante e demoralizzante l'uso continuo della pena di morte da parte di una giustizia amministrativa e segreta (in tempo di pace! E in uno Stato più potente di qualsiasi altro!). Il mio punto di vista è quello di Dzerzinskij all'inizio del 1920, quando, sembrando terminata la guerra civile, propose - e ottenne senza fatica da Lenin - la soppressione della pena di morte in materia politica (...). E' pure quello di quei comunisti che proposero per anni di ridurre le funzioni delle Commissioni straordinarie (Ceka e Ghepeù) all'inchiesta.

Il valore della vita umana è caduto così in basso e ciò è così tragico che ogni pena di morte dev'essere condannata in questo regime. Abominevole ugualmente, e ingiustificabile, la repressione mediante l'esilio, il confino, la prigione semiperpetua, di ogni dissidenza nel movimento operaio ...

2. Difesa della verità. L'uomo e le masse vi hanno diritto. Non consento né al rimaneggiamento sistematico della storia e della letteratura, né alla soppressione di ogni informazione seria nella stampa (ridotta a una funzione di agitazione). Ritengo la verità una condizione di salute intellettuale e morale. Chi parla di verità parla di sincerità. Diritto dell'uomo all'una e all'altra.

3. Difesa del pensiero. Nessuna ricerca intellettuale, in nessun campo, è permessa. Tutto si riduce a una casistica nutrita di citazioni (...). La paura dell'eresia sbocca nel dogmatismo bigotto più paralizzante. Ritengo che il socialismo non possa crescere nel campo intellettuale altro che per mezzo dell'emulazione, della ricerca, della lotta delle idee; che non debba temere l'errore, sempre riparato col tempo dalla vita stessa, ma il ristagno e la reazione; che il rispetto dell'uomo sottintenda per l'uomo il diritto di tutto conoscere e la libertà di pensare.

Non contro la libertà di pensiero, non contro l'uomo può trionfare il socialismo, ma al contrario nella libertà di pensiero, migliorando la sorte dell'uomo.


Si tratta di tematiche che3 vedremo riprese nell'ultimo capitolo delle memorie. Serge verrà arrestato mentre la lettera è ancora in viaggio per Parigi, lo attende la visione dall'interno del sistema inquisitorio cui farà fronte con la opposizione diretta e a viso aperto senza farsi ingabbiare, come accadrà ai trockijsti, dal culto del partito e dalla considerazione che i rapporti di produzione sono stati rotti e ricostruiti su base socialista. Siamo in presenza di una visione umanistica della lotta per il socialismo: l'uomo, la verità e la libertà di pensiero vengono prima di ogni altra considerazione.

L'arresto, l'inchiesta e la deportazione (1933-1936)

- Ricerche criminali. Vogliate seguirci, cittadino, per verifica di identità. Serge era uscito a prendere medicine per la moglie, viene abbordato per strada e portato alla sede della Ghepeu. Subisce un interrogatorio di 12 ore e poi viene trasferito al carcere dove rimane una sola notte perché poi viene trasferito a Mosca (segno che questa volta si tratta di una cosa seria).

A Mosca finisce alla Lubjanka (sede della Ceka, Ghepeu, KGB) un edificio storico originariamente occupato da una compagnia di assicurazioni ora sede centrale del sistema della repressione con carcere interno, forte segmentazione interna, 10 piani sotterranei con il cunicolo delle fucilazioni (Mi capitava, andando e tornando dall'istruttoria, di passare davanti all'ingresso spalancato di un corridoio cementato del pianterreno brutalmente illuminato).

Durante i primi giorni, in attesa della assegnazione definitiva e della apertura dell'inchiesta sta in mezzo agli altri detenuti in attesa della presa in carico e tra i diversi episodi voglio citare l'incontro con un agronomo siberiano perché rappresenta bene il clima del sistema repressivo-inquisitorio nella sua perfezione-imperfezione. Il libro è pieno di questi racconti veri di tipo kafkiano e lo stesso Serge ne farà uso nei suoi romanzi.

L'ultimo arrivato fu il più simpatico; era un intellettuale siberiano di una sessantina d'anni, vigoroso, teso, allegro. Attaccai discorso con lui e, quando seppe che ero oppositore, mi raccontò gorgogliando di risa la faccenda che lo conduceva a Mosca da Irkutsk e lo empiva di ottimismo.

In seguito alla carestia e alle epizoozie, nella sua remota regione, si era montato contro gli agronomi, i veterinari e gli ingegneri un affare di sabotaggio controrivoluzionario. Si era preteso da loro che facessero confessioni contrarie al semplice buon senso. Aveva, lui, resistito mesi, nel freddo, nella fame, nell'isolamento; poi aveva ceduto a una promessa di miglioramento del regime e confessato tutto ciò che si era voluto.

Dopo di che, gli avevano dato una cella calda, permesso di ricevere viveri e vedere la moglie e avevano promesso di sollecitare per lui, dato il suo pentimento, l'indulgenza del Collegio segreto. Soltanto, ecco! Abbiamo confessato tante cose e così folli che Mosca non ci ha creduto, Mosca ha domandato gli incartamenti, e poiché gli incartamenti sono stupefacenti, ci hanno fatto venire, i due principali accusati e il giudice istruttore, per studiare la faccenda qui stesso! Abbiamo viaggiato un mese con il giudice, sentiva di essere nelle nostre mani, aveva paura di noi, ci colmava di gentilezze...

E il professor N., incontrato dopo qualche giorno, compagno di avventura dell'intellettuale siberiano aggiunge divertito quanto il suo collega, me ne diede volentieri altri particolari... Pensava che tutto si sarebbe rigirato in senso contrario e che i giudici istruttori della Ghepeù locale avrebbero ben presto occupato le celle dei loro accusati della vigilia.

Insieme al professor N. incontra un altro agronomo che gli dà notizia dell'arresto di 35 alti funzionari e dirigenti del commissariato della agricoltura arrestati con lui (tutti fucilati di lì a qualche giorno). Siamo alla coda degli arresti, deportazioni e assassinii dei controrivoluzionari (i tecnici) prima che si scateni la nuova ondata contro i politici (della destra e della sinistra) innescata dall'assassinio di Kirov (si veda il caso Toulaev).

Nella cella della Lubjanka Serge vive in totale solitudine e non ha accesso ai libri, ma si tiene in esercizio mentale facendosi immaginari corsi di diverse discipline e in esercizio fisico in modo di presentarsi lucido agli interrogatori con il giudice Bogin (dapprima) e con l'inquisitore Rutkovskij (collaboratore personale del caposervizio Molcianov, membro del Collegio segreto). La tecnica degli inquisitori si basa sulla guerra psicologica, accusare senza provare, insinuare, blandire, puntare alla ammissione ed è contro queste tecniche che Serge combatte a viso aperto sapendo che gli inquisitori hanno bisogno di ammissioni su cui costruire i loro castelli, perché anche la loro attività viene poi sottoposta a controlli superiori. Sapevo che gli inquisitori della Ghepeù sono controllati da varie commissioni, in particolare la Commissione di controllo del C.C. e che devono, per motivare le sentenze volute, preparare incartamenti secondo tutte le regole.


Bogin spiegò che sapeva tutto: - Tutto. I vostri compagni sono talmente demoralizzati, ho qui le loro deposizioni, non credereste ai vostri occhi. Vorremmo sapere se siete un nemico o, malgrado la vostra dissidenza, un vero comunista. Libero per voi di rifiutarvi di rispondere, l'istruttoria sarà chiusa oggi stesso e vi considereremo con la stima che merita un avversario politico a viso scoperto.

Trappola! Vuoi che ti faciliti il compito dandoti carta bianca, perché tu possa cucinare in seguito contro di me, con i tuoi rapporti segreti, non so quali conclusioni che mi varrebbero almeno anni di isolamento. - No, tengo a rispondere all'interrogatorio. Interrogate.

- Ebbene; parliamo da comunisti come siamo voi e io. Io sono al posto che il partito mi assegna. Voi pensate di servire il partito, e io vi capisco. Voi ammettete l'autorità del C.C.?. Trappola! Se ammetto l'autorità del C.C., entro nel gioco e si può farmi dire qualsiasi cosa in nome della devozione al partito. - Prego, io sono escluso. Non ho richiesto alcuna riammissione. Non sono quindi più tenuto alla disciplina di partito...

- Siete deplorevolmente formalista!. - Domando di sapere di che sono accusato al fine di distruggere l'accusa. Mi sento irreprensibile dal punto di vista delle leggi sovietiche. - Che formalismo! Allora voi vorreste che io metta le carte in tavola?. - Stiamo forse giocando a carte?. Finì per dirmi che si erano trovati in casa mia documenti che provenivano da Trockij. E' falso dissi.


Consiglio la lettura attenta degli interrogatori, delle insinuazioni, delle repliche ferme di Serge, della capacità di far perdere le staffe agli inquisitori che, alla fine, in mancanza della minima ammissione sono costretti a cedere. Serge ammette solo cose che sono lecite per la legge sovietica e non si fa ingannare dal buon cuore degli inquisitori o dallo spirito di partito, errore in cui cadranno molti dei dirigenti rivoluzionari fucilati tra il 36 e il 38, primo di tutti Zinov'ev. Il resto lo fa la sua doppia cittadinanza franco-russa, così l'istruttoria viene chiusa e Serge è spostato in carcere. Un ufficiale della Ghepeù entrò bruscamente, un sottile foglio di carta in mano. Leggete, firmate!. Lessi: Mene controrivoluzionarie, condannato dalla Conferenza speciale a tre anni di deportazione a Orenburg... Firmai con tanta collera quanta gioia. La collera dell'impotenza, la gioia, poiché la deportazione era malgrado tutto l'aria aperta, il cielo libero sopra la testa.

Orenburg è una vecchia capitale decaduta che campa sulla presenza di una scuola di aviazione. C'è una povertà assoluta e la lotta per il pane, nel senso letterale del termine, è all'ultimo sangue (furti, lotte in famiglia, prostituzione).

Il deportato, legato dalla sua corrispondenza con i suoi cari, dal lavoro, dalle cure mediche, viveva letteralmente alla mercé di qualche funzionario di polizia. Tenuto a presentarsi alla Ghepeù tutti i giorni, oppure ogni tre, ogni cinque, ogni sette giorni secondo i casi.

Non appena riusciva a organizzare un po' la sua esistenza, si distruggeva tutto, mediante la disoccupazione, la prigione o il mutamento di sede. Gioco interminabile del gatto e del topo... Mi si fece chiaramente comprendere che non avrei ottenuto lavoro se non avessi cercato le grazie della Ghepeù. Recatomi a parlare di un impiego possibile al trust dell'oro dell'Ural, ebbi con il capo del servizio segreto questo spunto di dialogo: - Avete l'intenzione di sollecitare la vostra reintegrazione nel partito?. - Niente affatto. - E di appellarvi al Consiglio speciale degli interni per la condanna pronunciata contro di voi?. - Niente affatto. Non si parlò più di impiego.

Ma da Leningrado arrivano la moglie, il figlio e la macchina da scrivere che consentirà di continuare il lavoro di scrittore e di pubblicista. In questo periodo Serge riesce a campare con i proventi della attività editoriale che arrivano a singhiozzo da Parigi. Le cronache della deportazione sono gustose e mi limito ad alcuni riferimenti:

  • Il direttore della scuola di Vlady vorrebbe punirlo perché ha osato affermare che in Francia ci sono le libertà politiche e sindacali e considera tale affermazione come un attacco all'Unione Sovietica; Ma dissi, è un fatto che la libertà sindacale e persino politica esiste in Francia, e ciò non ha nulla di antisovietico. - Mi è difficile credervi rispose il direttore, e noi dobbiamo in ogni caso inculcare ai ragazzi che la vera libertà esiste da noi e non sotto la dittatura capitalista dei paesi cosiddetti democratici.
  • il racconto dettagliato del gruppo degli oppositori di sinistra, ciascuno con le sue storie; molti di loro li ritroveremo nel romanzo scritto da Serge dopo la liberazione "Se è mezzanotte nel secolo". Uno di loro sarà agganciato dalla Ghepeu per montare l'ennesima provocazione ai danni di Serge (la costituzione di un comitato clandestino della opposizione, la pistola fumante che non si trova): Lo interrogai sui compagni di Mosca, cercando di identificarli, lo guardai bene in fondo agli occhi, e pensai: Tu, vecchio mio, sei un agente provocatore!. Gli spiegai che, anche nel fondo delle prigioni, rappresentavamo sempre un principio di vita e di libertà e che non avevamo affatto bisogno di costituirci in comitati clandestini. Fallì dunque, ma fu graziato qualche tempo dopo. Avevo avuto ragione. Se lo avessi ascoltato, sarei certo morto a quest'ora, con un forellino nella nuca.
  • l'arrivo da Leningrado di alcuni dei deportati borghesi (i deportati furono da cinquanta a centomila): In seguito alla faccenda Kirov, Stalin aveva mandato al comitato regionale di Leningrado un messaggio in cui gli rimproverava di non aver ripulito la città dell'antica borghesia imperiale. Il rastrellamento cominciò immediatamente.
  • la tragicommedia legata al controllo della corrispondenza; alcune opere spedite in Francia con tutti i crismi della Unione degli scrittori e il controllo della Ghepeu non arriveranno mai e, racconta Serge, ad un certo punto incominciai a campare dei rimborsi dovuti alla corrispondenza spedita per raccomandata che non veniva recapitata. Il capo del servizio segreto dal quale andai a lamentarmi esclamò: - Guardate in che modo deplorevole funziona la posta! E voi dite che esageriamo quando scopriamo dei sabotaggi. Vedete, anch'io, le lettere a mia moglie si perdono! Vi prometto che l'inchiesta sarà ben fatta e la posta vi pagherà senza indugio le indennità legali!. Mi offrì cortesemente di vegliare pure alla spedizione, sempre a Romain Rolland, di un'altra serie di manoscritti che la Ghepeù avrebbe fatto visionare dalla censura letteraria. Glieli affidai - e naturalmente non arrivarono mai. Date le premesse, la mia corrispondenza con l'estero fu interrotta. Il capo del servizio segreto scuoteva gravemente la testa: - Ah! Che volete che facciamo per mettere ordine nelle poste?. La posta mi pagava con regolarità centinaia di rubli per le lettere raccomandate che io continuavo a mandare in ragione di cinque al mese e che si perdevano. Ciò mi procurava il reddito di un tecnico ben retribuito.

La liberazione di Serge arriva alllo scadere dei tre anni di condanna in un momento in cui in URSS è normale essere colpiti da provvedimenti con cui le pene vengono replicate per via puramente amministrativa. La liberazione avviene per effetto delle pressioni internazionali. Il congresso degli scrittori per la difesa della cultura tenutosi a Parigi si occupa estesamente del suo caso mentre gli scrittori russi presenti cercano addirittura di coinvolgerlo nell'attentato a Kirov. L'impudente dichiarazione che giustificava la mia prigionia con un attentato commesso due anni dopo il mio arresto fece passare un brivido lungo qualche schiena. André Gide andò a trovare l'ambasciatore dell'URSS, che non seppe illuminarlo su nulla. Quasi nello stesso tempo Romain Rolland, invitato a Mosca e ricevuto da Stalin, gli parlava dell'affare Victor Serge. Il capo della polizia politica, Jagoda, consultato, non trovò nulla nei suoi incartamenti (se vi avesse trovato la minima compiacente confessione firmata da me, sarei stato perduto). Stalin promise che sarei stato autorizzato a lasciare l'URSS con la mia famiglia.

Gli anni dal 1936 al 1941: la guerra di Spagna, i fronti popolari, il patto russo-tedesco

Serge, nell'aprile del 1936, ce la fa ad espatriare grazie all'azione dei socialisti belghi (in particolare di Emile Vandervelde) che concedono il visto di ingresso (rifiutato da Francia e Inghilterra), viaggia con il figlio Vlady e, prima in Belgio e poi in Francia, è fatto oggetto di continue azioni di provocazione da parte della Ghepeu.

A Mosca sta per iniziare l'epoca dei grandi processi, Zinov'ev, Kamenev e Sverdlov sono già stati coinvolti dalle inchieste legate al processo Kirov e nell'agosto del 36 così descrive uno degli incontri con Vandervelde: dopo l'esecuzione dei sedici a Mosca, lo trovai spaventosamente triste, ancora appesantito sotto l'incomprensibile: Ho letto le confessioni di Kamenev: si tratta di delirio... Come potrete spiegarmelo? Conosco Kamenev, sta là dinanzi a me, con i suoi capelli bianchi, la sua nobile testa - e non posso ammettere che lo si sia ucciso dopo questo straripamento di follia... Come spiegare tali delitti a quel vecchio che incarnava, sull'orlo della tomba, mezzo secolo di umanismo socialista? Ero più interdetto ancora che davanti alle domande di mio figlio.

Serge si batte come un leone ma è sostanzialmente isolato perchè l'internazionale comunista ha iniziato la politica dei Fronti Popolari e il Fronte sta per vincere in Francia (Leon Blum); la carretta la tirano i socialisti ma il ruolo del partito comunista è fondamentale e, anche quando le cose sono chiare, bisogna tacere o far finta di nulla. Il capitolo 9, oltre che raccontare ciò che avviene è occasione per Serge per riflettere sulla genesi di quanto sta per avvenire. A volte preconizza, come nel caso della morte del capo della Ghepeu Jagoda o del processo alla destra di Bucharin e Rykov, altre volte cerca di analizzare le cause di questo salto di qualità.


E, il 14 agosto, - d'un tratto, come il tuono - venne l'annuncio del processo dei sedici, terminato il 25 - in undici giorni! - con l'esecuzione di Zinov'ev, Kamenev, Ivan Smirnov e tutti i loro coimputati. Comprendevo (e lo scrissi immediatamente) che era il principio dello sterminio di tutta la vecchia generazione rivoluzionaria. Impossibile assassinare questi e lasciar vivere gli altri, loro fratelli, testimoni impotenti, ma testimoni che comprendevano tutto fino in fondo.

Perché questo massacro, mi domandavo sulla Révolution Prolétarienne, e non vedevo altra spiegazione che la volontà di sopprimere i gruppi di ricambio del potere alla vigilia di una guerra considerata imminente. Stalin, ne sono persuaso, non aveva strettamente premeditato il processo, ma egli vide nella guerra civile di Spagna il principio della guerra europea. Ho il sentimento di essere la prova vivente della non premeditazione del primo processo, e anche della falsità delirante delle accuse formulate in tutti i processi. Avevo lasciato l'URSS alla metà di aprile, in un momento in cui quasi tutti gli accusati erano già in prigione. Avevo collaborato con Zinov'ev e Trockij, conoscevo da vicino parecchie decine di coloro che stavano per sparire fucilati, ero stato uno dei dirigenti dell'opposizione di sinistra a Leningrado, uno dei suoi portavoce all'estero, non avevo mai abiurato...

Mi si sarebbe lasciato uscire dalla Russia, con la mia penna e le mie convinzioni di testimone inconfutabilmente informato, se il processo di sterminio fosse stato così vicino? Il fatto, d'altra parte, che nessuna accusa insensata sia stata formulata contro di me nel corso dei processi basta a chiarire che non si mentiva altro che contro coloro i quali non avevano nessun mezzo di difesa.


Insieme ad intellettuali francesi e americani mette in piedi una sorta di antesignano tribunale Russel: un comitato per l'inchiesta sui processi di Mosca e per la difesa della libertà d'opinione nella Rivoluzione ma, come detto, si tratta di una lavoro difficile perché c'è l'esigenza di fronte al nazismo, alla guerra di Spagna, al governo socialista di Francia, di restare uniti. Per chi conosce un po' di storia anche dell'antifascismo italiano e dell'emigrazione italiana antifascista in Francia è tutto tragicamente chiaro (i complotti, il sospetto, …).


Annunciai che Radek, condannato a dieci anni di prigione, non sarebbe sopravvissuto a lungo: è stato assassinato in prigione.

Conoscendo gli uomini e la Russia, devo ripetere che i vecchi bolscevichi erano compenetrati da un tale fanatismo di partito, da un tale patriottismo sovietico, che diventavano capaci di accettare i peggiori supplizi, e per ciò stesso erano incapaci di un tradimento. Le loro stesse confessioni provano così la loro innocenza. Lo Stato totalitario si fondava su un sistema di sorveglianza e di spionaggio interno così perfetto che qualsiasi cospirazione vi era impossibile. Ma il vecchio partito nella sua totalità esecrava il regime e il capo, viveva nell'attesa delle catastrofi - che sono venute - e questo si traduceva in molte conversazioni intime e in uno stato d'animo generale di opposizione al capo, a dispetto degli atti di sottomissione e di adorazione che il capo instancabilmente imponeva.

L'immensa maggioranza dei bolscevichi si sono del resto lasciati fucilare nella notte senza prestarsi al gioco abominevole delle confessioni per compiacenza politica. Alcuni sono arrivati fino alla tomba schiacciando la loro coscienza stessa per servire ancora al partito. Tranne una o due eccezioni, coloro che si sono dichiarati trockisti non lo erano, non lo erano mai stati, erano persino abbastanza profondamente in disaccordo con Trockij e le loro polemiche contro di lui sono durate anni.

Se ci sono state trame di cospirazione in qualche luogo, sono state ordite dalla Ghepeù stessa, che si era servita di questo procedimento di provocazione per liquidare gli ultimi bianchi (monarchici), liquidare i menscevichi del Caucaso, liquidare infine, come ho già raccontato, le nostre organizzazioni di opposizione. Se diplomatici, ingegneri, militari, giornalisti, agenti segreti hanno avuto contatti con l'estero, ciò e avvenuto sempre in base a direttive e con un controllo costante; e poi lo hanno considerato un crimine.

Conosco personalmente parecchi casi di questo genere. Una orribile logica ha presieduto all'ecatombe. Il potere intendeva sopprimere i gruppi di ricambio alla vigilia della guerra e castigare dei capri espiatori per trovare responsabili della carestia, della disorganizzazione dei trasporti, della miseria di cui esso stesso era responsabile. Assassinati i primi bolscevichi, bisognava evidentemente assassinare tutti gli altri, diventati testimoni incapaci di perdonare. Bisognò pure, dopo i primi processi, sopprimere coloro che li avevano montati e ne conoscevano i retroscena, - perché la leggenda creata diventasse credibile. Il meccanismo dello sterminio era così semplice che si poteva prevederne il corso. Annunciai, con mesi di anticipo, la fine di Rykov, di Bucharin, di Krestinskij, di Smilga, di Rakovskij, di Bubnov....

Quando Antonov-Ovseenko, il rivoluzionario che aveva, nel 1917, dato l'assalto al Palazzo d'Inverno, il miserabile che aveva testé fatto assassinare a Barcellona il mio amico Andrès Nin e il filosofo anarchico Camillo Berneri, fu richiamato dal suo posto in Spagna per prendere possesso di quello di Commissario del popolo alla Giustizia, lasciato vacante da Krylenko sparito nelle tenebre, annunciai che era perduto - e lo era infatti. Quando Jagoda, capo della Ghepeù, organizzatore del processo Zinov'ev, fu nominato Commissario del popolo alle Poste e Telegrafi, annunciai che era perduto - e lo era infatti... Prevedere non serviva assolutamente a nulla.


Il tribunale internazionale si occupa invano degli eventi di Spagna che precedono la fine della esperienza repubblicana con la persecuzione del partito libertario di sinistra (il POUM) e con la scomparsa e l'assassinio di un compagno di lotte di Serge (ampiamente citato nel libro) Andrès Nin.

Andrès Nin aveva trascorso la sua gioventù in Russia: comunista devoto e poi militante dell'opposizione di sinistra. Ritornato in Spagna, aveva fatto l'esperienza delle prigioni della repubblica reazionaria, tradotto Dostoevskij e Pilnjak, polemizzato contro i fascistizzanti, partecipato alla fondazione di un partito rivoluzionario marxista. La rivoluzione del luglio 1936 ne aveva fatto il consigliere per la giustizia della "Generalidad" di Catalogna. In questa qualità aveva creato i tribunali popolari, messo fine al terrorismo degli irresponsabili, stabilito una nuova legislazione del matrimonio. Era un socialista erudito e un intellettuale di gran classe, stimato da tutti coloro che lo conoscevano, stretto d'amicizia con il capo del governo catalano, Companys.

Senza vergogna, i comunisti lo denunciano come un agente di Franco, Hitler e Mussolini, rifiutano di firmare il patto contro la calunnia che gli offrono tutti gli altri partiti, si ritirano da una conferenza nella quale gli altri partiti gli domandano con calma di recare prove; nella loro propria stampa invocano continuamente i processi di Mosca, nel corso dei quali, del resto, il nome di Nin non è mai stato pronunciato. La giusta popolarità di Nin aumenta ugualmente; non resta che farlo fuori. Riuscimmo a scatenare in favore dei perseguitati di Spagna un movimento di solidarietà internazionale.

Le memorie proseguono alternando riflessioni sul totalitarismo al racconto di avvenimenti che hanno a che fare con la storia francese e con l'evoluzione del quadro politico europeo. Serge combatte la sua battaglia a colpi di conferenze e di articoli e osserva che i nuovi metodi del totalitarismo adottano le tecniche della pubblicità e puntano a umiliare con l'irrazionalismo e la violenza l'intelligenza umana.

Il buon successo di simili tecniche è possibile soltanto in epoche torbide e a condizione che le minoranze coraggiose, che incarnano il senso critico, siano bene imbavagliate o ridotte all'impotenza dalla ragion di Stato e dalla mancanza di risorse materiali. In nessun caso si tratta di convincere, si tratta in definitiva di uccidere. Uno dei fini perseguiti mediante quello scatenamento di pazzia che furono i processi di Mosca fu di rendere la discussione impossibile tra comunisti ufficiali e comunisti di opposizione.

Il totalitarismo non ha nemico più pericoloso del senso critico; si accanisce a sterminarlo. I clamori trascinano via con sé ogni obiezione ragionevole e, se persiste, una barella porta via l'obiettore alla camera mortuaria. Ho tenuto testa a degli assalitori in riunioni pubbliche. Gli offrivo di rispondere a tutte le loro domande. Raffiche di ingiurie, lanciate all'impazzata, si sforzavano di coprire la mia voce.

Mentre in Russia vengono fucilati i vertici dell'Armata Rossa con in testa il maresciallo Tuchacevskij, in Francia su ordine di Mussolini vengono assassinati i fratelli Rosselli, muore in maniera strana il figlio maggiore di Trockij Lev Sedov (febbraio 1938). La sconfitta della Spagna e la crisi del Fronte popolare segnano un cambiamento di clima; l'accordo di Monaco segna la fine della Cecoslovacchia. Per Serge sono i mesi del chiarimento-rottura con Trockij. Serge è perplesso sulla scelta di dar vita ad una nuova internazionale di partitini inconsistenti e ne scrive all'interessato esplicitando il suo dissenso su alcui temi e caratteri della rivoluzione bolscevica (Kronstadt, la repressione successiva, la creazione della Ceka,). Lo vedevo mescolare con i lampi di un'alta intelligenza gli schematismi sistematici del bolscevismo d'altri tempi, di cui credeva la risurrezione inevitabile in ogni paese. Comprendevo quel suo irrigidirsi di ultimo superstite di una generazione di giganti, ma, convinto che le grandi tradizioni storiche non si continuano altrimenti che attraverso i rinnovamenti, pensavo che il socialismo debba pure rinnovarsi nel mondo moderno; e che ciò debba accadere mediante l'abbandono della tradizione autoritaria e intollerante del marxismo russo dell'inizio di questo secolo... Il solo problema che la Russia rivoluzionaria degli anni 1917-1923 non abbia mai saputo porre è quello della libertà, la sola dichiarazione che bisognava rifare e che essa non fece è quella dei Diritti dell'Uomo. Nulla si farà di umanamente grande in avvenire senza risolvere o tentare fortemente di risolvere questo problema.

Trockij vede in tutto ciò una manifestazione di demoralizzazione piccolo-borghese; è la rottura anche se Serge, una volta approdato in Messico quando si è già consumato l'assassinio del grande rivoluzionario con la collaborazione di sua moglie Natallja Ivanovna Sedova scriverà una sintetica biografia Vita e morte di Trockij segno di un rapporto intellettuale che non si è mai interrotto completamente.

Il patto Hitler-Stalin (agosto del 39) con l'accordo per la spartizione della Polonia pensato in URSS come uno strumento per tirare il fiato prima della guerra crea scompiglio in Occidente e se non salverà l'URSS dalla operazione Barbarossa consente al nazismo di pianificare l'invasione rapida del Belgio e della Francia. A gennaio del 1939 Franco entra a Barcellona e a marzo dello stesso anno i nazisti occupano Praga. Serge ci racconta del crollo della società parigina, della fuga verso sud sino a Marsiglia e infine, dopo molte peripezie dell'imbarco verso la Martinica, Cuba e alla fine dell'approdo al Messico.

1941-1943 Città del Messico – per finire …

Nell'ultimo capitolo Serge cerca di tracciare un bilancio della sua vita avventurosa. Mi limito su questi aspetti a sottolineare le questioni più importanti lasciandolo parlare direttamente: Non mi sento affatto individualista, piuttosto personalista, in questo senso, che la persona umana mi appare come un altissimo valore, ma integrata alla società e alla storia. L'esperienza e il pensiero di un uomo hanno un significato degno di essere ricordato solo in questo senso.

vantaggi e inconvenienti dell'essere sbalestrati

Esule politico di nascita, ho conosciuto i vantaggi reali e i pesanti inconvenienti di essere sradicati. Questo allarga la visione del mondo e la conoscenza degli uomini; dissipa le nebbie dei conformismi e dei particolarismi soffocanti; preserva da una sufficienza patriottica che in verità è semplice mediocre contentezza di sé; ma costituisce nella lotta per la vita uno svantaggio più che serio.

Ho visto nascere la grande categoria degli apolidi, cioè degli uomini cui le tirannie rifiutano persino la nazionalità. Quanto al diritto di vivere, la situazione degli apolidi, che sono in realtà gli uomini più attaccati alla loro patria e alla patria umana, non può paragonarsi che a quella dell'uomo "sans aveu" del Medioevo, che, non avendo signore né sovrano, non aveva diritto né difesa, e il cui solo nome è diventato una specie di insulto.

Per spirito conservatore, in un tempo in cui nulla può più essere conservato senza cambiamento, e anche per spirito di inerzia giuridica, la maggior parte degli Stati moderni si sono resi complici della persecuzione di questi difensori della libertà. Ora che stiamo diventando milioni, la cosa forse cambierà...

Non deploro, per parte mia, di portare questa tonnellata di piombo sulla nuca, dato che mi sono sentito allo stesso tempo russo e francese, europeo e eurasiatico, straniero in nessun luogo - malgrado le leggi - ma dappertutto capace di ravvisare nella diversità dei luoghi e della gente l'unità della terra e degli uomini.

Al tempo di Orban, Salvini e di fondamentalisti delle più diverse latitudini (come Erdogan) si tratta di una bella riflessione controcorrente; chi più di un apolide è cittadino del mondo? E per non essere generico voglio parlare di due popoli che nel 900 sono stati al centro dell'essere cittadini del mondo: gli armeni e i curdi due popoli (entrambi svillaneggiati dai turchi) che ancora oggi pur avendo cultura, storia e identità nazionale continuano a non avere diritto a un loro stato.

Alla fine degli anni 60 ne ho conosciuto uno cui la mia formazione culturale-politica deve molto. Si chiama Vanghelis (greco) Oskian (armeno) ed è stato tra i fondatori di Avanguardia Operaia oltre che il suo primo segretario nazionale (divenuto Aurelio Campi con l'ottenimento della cittadinanza italiana). Quando l'ho conosciuto aveva il passaporto giallo dell'ONU, conosceva un sacco di lingue e ragionava di politica a 360°. Ne parlo perché mentre si scrive di storia di Avanguardia Operaia sembra quasi che non sia esistito (come quando Stalin faceva ritoccare le foto degli anni di Lenin per cancellare la faccia di Trockij). Non voglio essere polemico ma la cosa mi intristisce.

Il sentirsi cittadini del mondo, negli ultimi decenni sta passando di moda sia perché le grandi organizzazioni internazionali come l'ONU e le sue filiazioni faticano a funzionare, sia perché la prosecuzione di politiche di sfruttamento dei paesi del terzo e quarto mondo ha fatto rinascere pulsioni nazionalistiche spesso associate a fondamentalismo e fanatismo religioso

partecipare coscientemente alla storia

L'intelligencija russa mi aveva di buon'ora insegnato che il senso stesso della vita consiste nella partecipazione cosciente al compimento della storia. Più ci penso e più questo mi pare profondamente vero. Questo vuol dire pronunciarsi attivamente contro tutto ciò che sminuisce gli uomini e partecipare a tutte le lotte che tendono a liberarli e a farli più grandi. Che questa partecipazione sia inevitabilmente intaccata da errori non ne diminuisce l'imperativo categorico; peggiore è l'errore di vivere soltanto per sé, secondo tradizioni tutte intaccate di inumanità...In Europa, in Asia, in America, generazioni intere si sradicano, si impegnano a fondo in lotte collettive, fanno l'apprendistato della violenza e del grande rischio, l'esperienza delle prigionie, constatano che l'egoismo del ciascuno per sé è ben sorpassato, che l'arricchimento personale non è il fine della vita, che i conservatorismi di ieri non conducono altro che a catastrofi, sentono il bisogno di una nuova presa di coscienza per la riorganizzazione del mondo.

Mi riconosco il merito di aver visto chiaro in alcune circostanze importanti. La cosa in sé non è difficile eppure è poco comune. Non credo che dipenda dall'intelligenza alta o sveglia, ma piuttosto dal buon senso, dalla buona volontà e da un certo coraggio nel superare l'influenza dell'ambiente e una tendenza naturale a chiudere gli occhi sui fatti, tendenza che proviene dal nostro interesse immediato e dalla paura che ci ispirano i problemi.

Serge è un umanista rivoluzionario, uno che crede alla politica come strumento per cambiare il mondo, uno che non chiude gli occhi, uno che non ha paura anche dopo 40 anni di disavventure, uno che non molla, uno che mi ricorda un piccolo aforisma di Einstein che da molti anni ho posto al centro della mia attività e che mi spinge anche a dedicarmi con impegno e in maniera disinteressata ai "Pensieri in Libertà". l'intransigenza, lo spirito critico e la tolleranza (la guerra senza odio)

Quel che c'è di terribile quando si cerca la verità diceva un saggista francese, è che la si trova... La si trova, e non si è più liberi di seguire l'inclinazione dei propri vicini né di accettare i luoghi comuni correnti. Ho scorto subito nella rivoluzione russa i germi di mali profondi come l'intolleranza e l'inclinazione a perseguitare i dissidenti. Essi provenivano da un sentimento assoluto di possesso della verità, innestato sulla rigidezza dottrinale. E questo sentimento si risolveva nel disprezzo dell'uomo differente, dei suoi argomenti, del suo modo di essere.

Uno dei più gravi problemi che a ciascuno di noi tocca risolvere praticamente è certo quello dell'accordo da realizzare tra l'intransigenza che risulta da convinzioni ferme, la conservazione dello spirito critico nei riguardi di quelle stesse convinzioni e il rispetto della convinzione diversa. Nel corso della battaglia il problema è ottenere la massima efficacia pratica e insieme rispettare che cosa c'è dietro il nemico; il problema della guerra senza odio, in una parola. La rivoluzione russa, benché diretta da uomini probi e intelligenti, non lo risolse; le masse avevano ricevuto dal dispotismo un'educazione troppo funesta, non estranea ai dirigenti stessi.

Non disconosco, enunciando questo giudizio, la potenza dei fattori economico-storici; essi sono in gran parte condizione dell'azione, ma non ne determinano tutta la qualità. A questo punto interviene il fattore umano. Varie volte mi sono sentito sull'orlo di una conclusione pessimistica sulla funzione del pensiero (dell'intelligenza) nella società. Ho senza posa constatato, da un quarto di secolo, cioè a partire dalla stabilizzazione della rivoluzione russa un po' prima del 1920, una tendenza generale alla repressione del pensiero chiaroveggente...

Non metto in dubbio, dopo averci molto riflettuto, né lo spirito scientifico del marxismo né il suo apporto assieme razionale e idealistico alla coscienza moderna; ma non posso non considerare una grave sciagura il fatto che un'ortodossia marxista si sia impadronita, in un grande paese in via di trasformazione sociale, dell'apparato del potere. Qualunque sia il valore scientifico di una dottrina, dal momento in cui diventa governativa, gli interessi dello Stato non le permettono più la ricerca disinteressata; e la sua stessa sicumera scientifica la conduce anzitutto a imporsi nell'educazione, poi a sottrarsi alla critica con i metodi del pensiero eterodiretto, che è anzitutto il pensiero soffocato.

I rapporti tra l'errore e la conoscenza giusta sono ancora troppo oscuri perché si possa pretendere di regolarli autoritariamente; senza dubbio all'uomo occorrono lunghi erramenti attraverso le ipotesi, gli sbagli e i tentativi dell'immaginazione, per giungere a mettere in chiaro conoscenze più esatte, in parte provvisorie; giacché ci sono poche esattezze definitive. Ciò significa che la libertà di pensiero mi sembra uno dei valori più essenziali. E anche uno dei più combattuti.

Mi vengono in mente le potenti vaccinazioni antidogmatiche di un pensatore ed epistemologo che mi è molto caro: K.R. Popper con i suoi riferimenti alla ricerca della verità, al suo carattere provvisorio, all'atteggiamento antidogmatico, alla importanza di difendere le proprie opinioni con la simultanea necessità di sottoporle ad un vaglio critico e con la disponibilità ad ammettere di avere torto. Nel racconto della sua vita Serge sui temi della repressione, dell'autoritarismo, della intolleranza e del fanatismo cita molto spesso Gorkij che, dall'alto della sua statura intellettuale, si poteva permettere il ruolo di difensore dei dissenzienti e di profeta della tolleranza.

La paura e il pensiero libero

Ho incontrato dappertutto, continuamente, la paura del pensiero, la repressione del pensiero, come un sordo desiderio assolutamente generale di fuggire o di reprimere questo fermento di inquietudine. Nel tempo della dittatura del proletariato, quando i manifesti rossi proclamavano che il regno dei lavoratori non avrà fine, neppure il primo venuto avrebbe ammesso che si discutesse, mettendola in dubbio, la perennità di un regime che era evidentemente d'eccezione e di battaglia.

I nostri grandi marxisti russi, nutriti di scienze naturali, non ammettevano si mettesse in dubbio la concezione dialettica della natura - che è tuttavia semplicemente un'ipotesi, e ormai difficile da sostenere. I capi dell'Internazionale comunista consideravano come una manchevolezza morale o come un delitto il minimo dubbio sull'avvenire trionfale di questa organizzazione. Più tardi, in seno all'opposizione, così sana nelle sue aspirazioni, Trockij non volle tollerare alcun punto di vista differente dal suo...

Si torna di nuovo sul carattere provvisorio delle trasformazioni, qualunque esse siano. Si fa fronte al bisogno di eterno trasformando un bisogno in un principio di realtà. Così la dittatura del proletariato diventa un dogma, un principio ideologico necessario a farsi forza, a nascondere il reale con le sue contraddizioni

Errori e responsabilità dei rivoluzionari

Se è evidente che le più grandi linee della storia in cammino risultano da fattori che ci oltrepassano, che non possiamo dominare, di cui prendiamo coscienza solo imperfettamente, frammentariamente, non è meno evidente che il carattere dei fatti storici (e il loro stesso orientamento in alcuni casi) dipende abbastanza largamente dalla capacità degli uomini.

Il Comitato centrale del partito bolscevico, riunito nel dicembre 1918 per studiare i mezzi per combattere le azioni della controrivoluzione all'interno, doveva scegliere coscientemente le armi che avrebbe dato al nuovo regime. "Poteva" istituire tribunali rivoluzionari pubblici (ammettendo le porte chiuse in casi precisi), ammettervi la difesa, ordinarvi il rigore. "Preferì" creare la Ceka, cioè un'Inquisizione con procedura segreta, sopprimendo la difesa e il controllo dell'opinione pubblica. Così facendo, seguì probabilmente la china dello sforzo minore, seguì anche impulsi psicologici che si capiscono se si conosce la storia russa, ma che non hanno nulla a che vedere con la coscienza socialista.

Si potevano, nel 1926-27, prevedere in Russia le difficoltà risultanti dalla debolezza dell'industria e dalla ripresa della produzione agricola? Noi le prevedevamo; ed era possibile rimediarvi a tempo in qualche misura; ma gli uomini di governo preferirono ancora una volte seguire la china del minimo sforzo, che è anche quella della minima chiaroveggenza, ma dà l'illusione di differire le crisi gravi come i malati pusillanimi differiscono un'operazione chirurgica. Le difficoltà di cui non si volle avere chiara coscienza si aggravarono, provocarono una sorta di panico, cioè di oscuramento della ragione e obbligarono a soluzioni di violenza spaventosamente inumane e onerose, quelle della collettivizzazione totale e dell'industrializzazione totalitaria...

Nei regimi dispotici, troppe cose dipendono dal tiranno...; e: tutto ciò che è stato fatto in Russia sarebbe stato fatto molto meglio da una democrazia sovietica... Il carattere del tiranno diede in seguito un impulso catastrofico alle lotte politiche. I processi di impostura e di sangue furono decisi dall'Ufficio politico che ne dettò le sentenze e ordinò l'esecuzione di queste sentenze. Cioè una decina di persone al massimo deliberarono a testa fredda sul problema di sapere se bisognasse o no massacrare le migliaia di cittadini permeati di spirito di opposizione; essi potevano decidere per la privazione dei diritti politici e la prigionia di questi avversari, e si pronunciarono per l'impiego dei mezzi più crudeli e più demoralizzanti.

In un'altra circostanza di incalcolabile significato, lo stesso Ufficio politico, dovendo scegliere tra la collaborazione con Hitler e la collaborazione con le potenze democratiche, soluzioni entrambe che implicavano grandi rischi di guerra e di invasione, scelse la soluzione che rimuoveva il pericolo più immediato, accrescendo il pericolo a qualche mese o anno di scadenza, come i fatti hanno provato.

In tutto ciò, l'intelligenza e il carattere degli uomini hanno una funzione capitale; ed è necessario osservare che la loro intelligenza razionale, come la loro moralità - definita dal sentimento umano e dalla fedeltà a principi che rappresentano interessi generali superiori - sono state assenti...

La macchina totalitaria funziona in seguito come un'officina a cui un ingegnere, girando una manovella, abbia trasmesso la corrente. Bisogna concludere da tutto questo: assenza di fatalità, potere enorme dell'uomo, responsabilità personale. Non è una conclusione pessimistica. Ma è la condanna dei sistemi che concentrano in poche mani un potere che rende folli, determinano una selezione alla rovescia, sopprimono il controllo - anche imperfetto - del potere da parte dell'uomo medio, paralizzando la coscienza pubblica.

Si poteva fare diversamente? Serge non fa sconti allo stato di necessità. Occorrono lungimiranza e fermezza dei principi. Occorrono razionalità, senso del provvisorio, moralità perché poi la macchina totalitaria funziona come una macchina in cui ognuno fa un piccolo pezzo del proprio crimine, tutti sono innocenti; il potere assegna i singoli compiti, li rende neutri attraverso poliziotti, giudici, carnefici chiamati a reprimere l'eresia, la differenza di comportamento rispetto ad un assoluto per sua natura indiscutibile.

Il libro è stato concluso nel 1942 in piena guerra mondiale e dunque Serge non ha visto e non vedrà (visto che muore nel 1947) ciò che abbiamo visto noi in termini di fatti e di assetti mondiali. Si rende conto che molte cose cambieranno e chiude con una speranza razionale:

Le grandi linee della storia che sta compiendosi si liberano tuttavia dal caos. Non sono più i rivoluzionari che fanno l'immensa rivoluzione mondiale, sono i dispotismi che l'hanno scatenata, è la tecnica stessa del mondo moderno che rompe brutalmente con il passato e mette i popoli di interi continenti nella necessità di ricominciare la vita su basi nuove.

Che queste basi debbano essere di giustizia sociale, di organizzazione razionale, di rispetto della persona, di libertà, è per me una evidenza stupefacente che si impone poco a poco attraverso l'inumanità del tempo presente.

L'avvenire mi appare pieno di possibilità maggiori di quelle che noi intravedemmo per il passato. Possano la passione, l'esperienza e gli errori stessi della mia generazione combattente illuminarne un poco il cammino!


(2 - fine) Il primo articolo della recensione


Victor Serge

Memorie di un rivoluzionario (1901-1941)

Editore E/O pagine 440 16 €


Victor Serge

Memorie di un rivoluzionario (1901-1941)

Editore Roberto Massari (2011) pag. 336 formato 17×24 € 19

apparato critico [1200 note e indice dei nomi] di Jean Rière nuova traduzione basata sul manoscritto originale e introduzione e cura di Roberto Massari

Le edizioni Massari hanno un catalogo di oltre 200 titoli largamente incentrati sulla costruzione di un movimento internazionale di comunisti libertari (Utopia Rossa) che hanno, proprio nella figura di Victor Serge uno dei riferimenti, fondato sui seguenti punti:

  • Il fine non giustifica i mezzi, ma nei mezzi che impieghiamo dev’essere riflessa l’essenza del fine. [Priorità dell’etica (Guevara) e della verità scientifica su ogni altra considerazione]
  • Sostegno alle lotte di tutti i popoli contro l’imperialismo e/o per la loro autodeterminazione, indipendentemente dalle loro direzioni politiche. [Inizi della Terza internazionale
  • Per l’autonomia e l’indipendenza totale dai progetti politici del capitalismo. [Sinistra di Zimmerwald nella Seconda internazionale]
  • Unità del mondo del lavoro mentale e materiale, senza discriminazioni ideologiche di alcun tipo (a parte le «basi anticapitaliste, antimperialiste e per il socialismo»). [Prima internazionale]
  • Lotta contro le burocrazie politiche, per la democrazia diretta e consigliare. [Internazionale antiautoritaria di Saint-Imier e Quarta internazionale]
  • Salvare la vita sulla Terra, salvare l’umanità. [vera novità storica della Quinta].

 




Riflessioni sul comunismo di un lettore di Victor Serge – di Alvaro Ricotti

Ho seguito il suggerimento di Claudio Cereda e sono andato alla ricerca della versione cartacea del libro di Victor Serge Memorie di un rivoluzionario. Nell’attesa che mi fosse recapitato, mi sono scaricato, come primo assaggio, la versione in ebook di Tutto ciò che un rivoluzionario deve sapere sulla repressione sempre di Serge.  In questo piccolo libro Serge tratteggia il suo ruolo di Commissario presso gli ex archivi del Ministero degli Interni a Pietroburgo. Nella immagine di apertura vediamo Serge a Pietroburgo nel 1921 con il figlio Vlady, la moglie e la cognata.

Questo incarico gli venne assegnato al suo arrivo in Russia nell’aprile del ’19. Nella veste di Commissario aveva il compito di riordinare gli archivi della polizia segreta zarista, individuare per quanto poteva gli ex infiltrati doppiogiochisti nelle file delle organizzazioni rivoluzionarie anti zariste, che ancora erano in circolazione magari riciclati come ferventi bolscevichi, ma doveva, soprattutto, evitare che questi archivi, con la loro ricca documentazione riguardanti i militanti rivoluzionari, cadessero nelle mani delle forze controrivoluzionarie bianche, eventualità non del tutto remota in seguito dell’offensiva degli eserciti bianchi verso Pietroburgo.

Che all’indomani della Rivoluzione d’ottobre le forze rivoluzionarie dovettero fronteggiare la reazione violenta delle milizie controrivoluzionarie sostenute dai Paesi dell’Intesa è cosa nota, ma la narrazione dei fatti di Victor Serge, con il suo stile, da grande giornalista, asciutto ed essenziale di testimone-protagonista mi posero le vicende di quel periodo sotto una luce ben diversa da come le avevo sempre lette nei saggi storici; mi sembrava di leggere la cronaca giornalistica, dove il buon cronista, oltre che raccontare i grandi fatti, si sofferma sui particolari, sulla reazione della gente, gli umori delle persone vere, quelle in carne e ossa, il tempo, il freddo e la fame, la vita e la morte, non con la retorica agiografica, ma come tutto questo veniva vissuto nei suoi drammi più profondi e intimi della paura e della speranza.

Quando finalmente ho ricevuto Memorie di un rivoluzionario mi sono buttato a pesce nella lettura e l'ho divorato e invito tutti gli amici e i compagni alla lettura di questo libro illuminante di un periodo storico che fu preso da parecchi di noi come paradigma per i nostri valori e di riferimento costante all’attività politica che ha caratterizzato gli anni della nostra gioventù.

Quello che vorrei raccontare è l’emozione che mi ha procurato la sua lettura e gli stati d’animo che ogni pagina mi procurava. Non è stata né gioia né rimpianto, ma sofferenza e dolore. Più volte ho dovuto smettere la lettura, non ce la facevo ad andare avanti. Troppi ricordi di vita personale mi venivano sollecitati in paragoni e confronti azzardati, troppe contraddizioni mi venivano fatte esplodere. E poi riprendevo la lettura con più foga e lo sconforto mi attanagliava sempre di più. Mi spiego parlando un po' di me.

Sono nato in una famiglia di comunisti, mio padre è stato un partigiano decorato e suo cugino Roberto fu tra i martiri fucilati al Campo Giuriati di Milano. Nell’immediato dopoguerra, mio padre si aggregò alla Volante Rossa, il nome Alvaro mi fu dato in onore e in ricordo, mi disse, del comandante della Volante Rossa, nome di battaglia Tenente Alvaro. I miei nonni li ricordo con sempre in tasca L’Unità, tesserati alla sezione 25 Aprile; per orgoglio dei nonni sono stato iscritto di diritto nella categoria di Pioniere nei primi anni ’50 con il fazzolettino rosso al collo.

L’URSS era il loro mito, e la terra promessa. Mi ricordo che da bambino quando sentivo i grandi discutere di politica, in sezione o in cooperativa dove mi portavano, le parole che sentivo più spesso erano: giustizia e lavoro. Si faceva la spesa con il libretto, dove il commerciante segnava l’importo, si saldava ogni 15 giorni o a fine mese, dipendeva da quando mio padre riusciva a portare a casa dei soldi.

Il comunismo per noi, anzi per loro, per i grandi, era una vita migliore di quella concreta fatta di stenti, dare qualcosa di più di una tazza di latte con pane raffermo per cena ai figli. Oggi il pane raffermo mi disgusta! Poi è arrivato il ’68, mi sono lasciato indietro la vergogna delle scarpe con i buchi nelle suole e tagliate in punta per far spazio al ditone che cresceva. Ho recuperato l’orgoglio di essere comunista, quell’orgoglio che mio padre aveva un po’ perduto per le umiliazioni che aveva dovuto subire oltre a  quella fiammella di speranza che ormai si era spenta in lui per via di quel suo pragmatismo primitivo Ora è davvero tutto finito, io ho fatto la mia parte. Abbiamo perso l’occasione!.

Ho studiato, noi ragazzi di allora abbiamo studiato, abbiamo letto Marx, di Marx mio padre sapeva dire solo il moto del “Manifesto”: Proletari di tutto il mondo unitevi”; abbiamo letto Lenin, sull’Estremismo come malattia infantile del Comunismo, abbiamo letto Stato e rivoluzione e il Che fare?; qualcuno si è avventurato insieme a me nello studio di Materialismo e Empiriocriticismo, abbiamo osato anche con Rosa Luxemburg, poi ci siamo lanciati nell’empireo con Georg Lukacs, Althusser e Charles Bettelheim.

Pensavamo di aver capito tutto, lo Stato borghese si abbatte e non si cambia, lo stalinismo un errore collaterale e marginale nella lunga marcia verso il socialismo, una degenerazione dovuta alla megalomania di un georgiano maledetto. Fresco di studi e di discussioni in cellula di AO, aggredivo con l’arroganza tipica dei giovani ignoranti mio padre rinfacciandogli errori che non aveva mai commesso, ma che avrebbe potuto commettere. ma come hai potuto gridare W Stalin gli dicevo, e lui Ma io ho combattuto contro il fascismo prima e per darti da mangiare poi, che ne sapevamo noi. Togliatti se avesse saputo ce lo avrebbe detto, e poi c’era il pericolo che i fascisti ritornassero aiutati dagli americani.

Mi pare fosse il ’70, in occasione del 25° della Liberazione, Panorama aveva pubblicato un intero numero dedicato alle giornate di aprile di 25 anni prima. Ero passato a salutarlo come ormai facevo sempre più raramente, i miei si erano separati già da dieci anni, avevo la barba e i capelli lunghi e forse una collanina al collo, lui non apprezzava ste fee cunsciaà me un randa (cosa fai comciato come un barbone).

Gli feci vedere nel giornale il servizio fotografico di quei giorni famosi per me memorabili, Cazzirola leè propi luu  disse fra se e mi indicò il processo farsa che i partigiani intentarono nei confronti di Achille Starace, nella scuola occupata di piazza Leonardo da Vinci. Poi girò la pagina, Ghavem sparà cunt el sten, l’haa faà un salt inscii disse indicando la sequenza fotografica della fucilazione in piazzale Loreto del ex segretario del Partito Fascista.

Queste sono le uniche parole del suo trascorso partigiano che gli abbia mai sentito in tutta la sua vita, non millantava, non si vantava, per pudore non ne voleva semplicemente parlare: lasa stà, non ti esporre, ne ho viste troppe. Al partito sanno cosa fare se dovesse esserci bisogno. Viveva ancora nella convinzione del doppio binario. Ingenuità, ignoranza, buona fede tradita e ingannata, generazioni di comunisti che aspiravano ad un mondo migliore guidati da dirigenti cinici e da un’ideologia grossolana che si esauriva poi alla fine nel il fine giustifica i mezzi.

Migliaia, decine di migliaia se non milioni di uomini accecati dalla perversione del fine che giustifica qualsiasi mezzo si sono fatti carnefici e vittime annegando e strangolando i valori elementari del vivere civile per non parlare dei valori etici della fratellanza e dell’eguaglianza. Quale è il limite a cui può spingersi il mezzo per raggiungere il fine che ci si è posto; in parole più esplicite fino a che livello si può spingere la violenza sull’uomo per raggiungere il socialismo?

Siamo tutti inorriditi nella seconda metà degli anni ’70 quando i Khmer Rossi la formazione comunista guidata da Pol Pot prese il potere in Cambogia e iniziò il processo di trasformazione del Paese verso il socialismo, a suo dire. Venne compiuto un genocidio tra i più terribili: per debellare l’ideologia borghese vennero sterminate milioni di persone, tutti gli adulti che avevano avuto un qualsiasi ruolo o incarico riconducibile al vivere sociale precedente e quindi borghese dovevano essere eliminati per evitare che contagiassero le nuove generazioni che sarebbero dovute crescere negli ideali del socialismo.

Questo concetto aberrante in cosa si discosta dall’eliminazione di massa dei contadini Kulachi voluta da Stalin? Nel numero delle vittime, nei mezzi di eliminazione utilizzati? Solo il contorno iconografico era differente, da una parte le lande desolate e ghiacciate della Siberia artica, dall’altra le melmose risaie del sud-est asiatico.

Ecco, il libro “Memorie di un rivoluzionario” individua progressivamente, pagina dopo pagina in una cronologia dei fenomeni innescati dalla Rivoluzione d’Ottobre, quel meccanismo strutturale elaborato, programmato e messo in atto dal Partito Comunista Russo (Bolscevico) per la presa e il mantenimento del potere. Racconta da protagonista critico (come si giustifica e in fondo si auto assolve) il suo contributo contraddittorio allo svuotamento delle forme democratiche nel rapporto con la gestione del potere e l’ambiguità iniziale su come e cosa intendere con la parola d’ordine tutto il potere ai soviet in cui emerse l’embrione del vulnus poi ineliminabile della degenerazione liberticida.

Non è stata la degenerazione di una mente perversa, la paranoia o la bramosia di potere di un uomo o di una castocrazia, a scatenare quella che ingenuamente era stata chiamata “la rivoluzione tradita”, ma il processo degenerativo naturale di un intero apparato ideologico. Un libro come questo apporta poca conoscenza in più, almeno per me, sui fatti storici, se non nelle particolarità soggettive vissute dal protagonista comunque sempre di grandissimo interesse. Non svela grandi segreti, non ci racconta fatti a noi sconosciuti.

Chi ha fatto seriamente politica a sinistra conosce a grandi linee la parabola iniziata con la rivoluzione del ’17 passata per le grandi purghe, il patto Molotov-Ribbentrop, il successivo grande contributo dato dall’URSS per la sconfitta del nazismo, con i suoi 20 milioni di morti, che sono stati giocati cinicamente sul piatto della spartizione dell’Europa, che sono stati giocati a copertura dell’infame repressione a Berlino nel ’53 e a Budapest nel ’56 fino ad arrivare a Praga nel’ 68, fino al suo tragicomico finale con le Trabant che in fila attraversavano il Muro nel ’89 e il disfacimento di quel gigante dai piedi d’argilla in cui si era ridotta l’Unione Sovietica.

Fine miserabile di un sogno; era lì il socialismo? Certo che no! Ma quando è venuto meno? Dove e quando è iniziato il processo degenerativo? Chi lo ha innescato e perché non è stato bloccato? Con Kruscev direbbe qualcuno o con Stalin direbbe qualcun altro? Coi processi del ’39 o con quelli del ’37? Con la NEP o ancor prima con la repressione fratricida della rivolta di Kronstadt?

Ecco, Victor Serge nel bilancio della sua vita di rivoluzionario spesi per il socialismo analizza quei vent’anni cruciali che vanno dal ’19 al ’40 passati a tu per tu con gli artefici di quel processo, da Kamenev a Bucharin, da Trotsky a Zinovev, e lì individua le radici della fine della sua utopia. Non solo nei fatti, di come si sono succeduti, ma nel come sono stati vissuti dagli uomini, nelle loro speranze e nei loro limiti, nei loro sogni intramontabili contro la durezza della realtà, nello sconquassamento ideologico e psichico nell’uso della violenza usata contro i presupposti nemici e financo contro sé stessi, con le assurde abiure e confessioni, al fine di raggiungere il fine ultimo: il socialismo.

Racconta della paura, la paura crescente di quelli che fucilavano in difesa dell’Idea ben consci che sarebbero prima o poi stati eliminati anche loro per lo stesso motivo calati tutti in un vortice perverso di autodistruzione in cui lo scopo finale qualunque fosse stato il percorso era salvare il Partito unico strumento per raggiungere il Socialismo. 

È questo che mi ha fatto star male, la consapevolezza che uomini, con ideali di pace e di speranza per un mondo migliore per tutti, si fossero trasformati in carnefici e vittime; che la stessa sorte sarebbe potuta accadere ai nostri padri durante la Resistenza o a noi stessi negli anni che ci hanno visto protagonisti della lotta politica. Devo dire che sia in un caso che nell’altro alcuni segni premonitori si evidenziarono, per fortuna gli eventi della storia inibirono lo sviluppo di quelle nefaste tendenze.

Per una circostanza del tutto casuale della storia è da poco tempo che vede la luce il bellissimo Volevamo cambiare il mondo in cui ci siamo ritrovati con un salto nello spazio-tempo di 50 anni a crogiolarci nella nostra gioventù e nei suoi ideali. Non sarebbe il caso di rileggere quei fantastici brani non solo sulle ali della nostalgia ma anche finalmente con una consapevolezza dei limiti profondi di una ideologia profusa e vissuta con una veste di scientificità che invece non aveva?

Non basta dirci quanti errori!, eravamo giovani, eravamo ingenui!, ma sarebbe opportuno dirci quali errori e di che portata. Di questo facciamo ancora fatica a parlarne. Non per aprire inutili polemiche e di poco spessore, ma vorrei chiedere ai compagni che militarono nel Movimento Studentesco, che in questi giorni celebrano l’anniversario della morte prematura di Salvatore Toscano, che riflessioni fanno rispetto ad uno dei loro slogan preferiti gridati nelle manifestazioni dei primi anni ‘70:  “W il compagno Giuseppe Stalin terrore dei fascisti, terrore dei borghesi” oppure quell’altro ad appannaggio del loro servizio d’ordine i Katanga che così mi sembra facesse: Stalin… Beria… Ghe-pe-u il trotkismo non c'è più” mi piacerebbe leggere qualche riflessione sul sito “Quelli di Piazza S. Stefano” al riguardo.