anche la Santanché fa cose buone

Da ieri è in vigore in Lombardia la “legge Santanché” sugli affitti brevi turistici.

Lo era già da circa un mese in altre quattro regioni, grazie a un piano progressivo che coinvolgerà tutta Italia entro qualche settimana. Verso fine anno la legge sarà applicativa in tutti i dettagli sull’intero territorio nazionale.

La legge, mirata a fare emergere il sommerso illegale, è in fondo una riedizione della “legge Renzi” di 7-8 anni fa che i Governi successivi non hanno mai reso applicativa. Una differenza fra le due leggi è che Santanché, rispetto a Renzi, aumenta le tasse per chi affitta ai turisti più di una casa.

Queste attività, che vanno dal famigliare all’imprenditoriale, vivono quasi esclusivamente grazie ad alcuni portali internazionali (Booking, AirBnb, VRBO, ecc.) e qualche portale italiano di serie B poco utilizzato anche dagli italiani.

Ma è possibile che l’Italia, Paese che vive di turismo, non sia in grado di mettere in piedi un grande portale turistico internazionale? La “legge Santanché” impone condizioni precise ai portali e rilevanti multe in caso di trasgressione sia al portale sia ai proprietari.

Inoltre la legge impone ai proprietari una serie di condizioni di sicurezza (obbligo di estintori, di rilevatori di fumi e di gas, ecc.), oltre all’obbligo di esporre fuori casa il CIN, numero nazionale che identifica la locazione autorizzata all’affitto breve.

La vera novità della legge è però la sua validità nazionale, che supera alcune precedenti confuse normative regionali. Addirittura alcune regioni “distratte” non avevano nessuna normativa simile e in quelle aree prosperava l’affitto turistico in nero.

Se fate le vostre vacanze tramite affitti brevi controllate se all’arrivo vi chiedono i documenti di tutti gli over-18 (i proprietari sono obbligati a copiare i dati sul portale della Polizia di Stato). Se non lo fanno sono abusivi; non pagano le tasse e non garantiscono la vostra sicurezza.

In questo caso potete telefonare alla Finanza e non pagare una lira di affitto. L’abusivo si beccherà una multa di qualche migliaio di euro. Anche la Santanché a volte fa “cose buone”…




1987-1992: il lavoro alla Informatica SISDO

Le vicende che mi portarono a lasciare la scuola per approdare alla SISDO le ho già raccontate alla fine del Capitolo 17, quello dedicato ai miei primi 10 anni al Frisi.

La SISDO ha ormai cessato la sua attività. Era una azienda milanese che si occupava di Informatica per mini-sistemi (la via di mezzo tra i main-frame e i PC) e i colori aziendali erano il verde e il nero, gli stessi che caratterizzavano l’arredamento della sede principale, dalle poltrone alle scrivanie.

Dalla esperienza alla SISDO ho imparato un sacco di cose che poi ho usato nella vita e riportato nella scuola. Un giorno Oskian (ormai era diventato cittadino italiano, si chiamava Campi, ma per me era sempre Oskian) mentre discutevamo animatamente su come risolvere un problema di Informatica mi disse: la vuoi piantare di fare il professore. Voi professori l’abitudine del so tutto io ve la portate appresso per tutta la vita.

Aveva ragione; l’oggetto della discussione era il malfunzionamento di un apparato complesso e non si capiva neanche bene se fosse un problema hardware o software. Io volevo venirne a capo facendo l’analisi della situazione e lui mi spiazzò incominciando a staccare un filo alla volta, finché, per esclusione, capimmo qual era il problema. Poi mi disse: queste cose le ho imparate dalla teoria dei sistemi ed io imparai la lezione. La teoria dei sistemi, non sempre insegnata in maniera adeguata, è comunque una delle discipline di indirizzo nella istruzione tecnico-tecnologica.

come era strutturata la SISDO

La società, nel periodo di massimo sviluppo, aveva una ventina di dipendenti e altrettanti collaboratori che lavoravano a domicilio facendo del data entry. Le sedi erano tre: in viale Bianca Maria 18 (centralino, direzione, amministrazione e commerciale), in piazza Tricolore (sviluppo software e data center), in viale Monza (attività di service).

Ci si occupava di data entry, sofware gestionale per le aziende, banche e software per la pubblica amministrazione, con tentativi abbozzati di occuparsi di cartografia, di reti tecnologiche e di sistemi intelligenti (Oskian era appassionato di intelligenza artificiale).

Si lavorava in Cobol e in C e si usavano, come database, DB4 sui PC e Informix, ADABAS e Oracle sui mini sistemi.

a che stadio era l’Informatica

L’informatica si trovava nella fase di passaggio tra l’era dei main frame e quella dei mini, messi in rete tra loro a creare reti geografiche. Stava iniziando anche l’era delle reti di PC, ma si era ancora ad uno stadio embrionale. Windows era nato da poco, si era alla 2.0 e dunque, per dirne una, i programmi di videoscrittura (WordStar o XYWrite) richiedevano, per avere dei font decenti da usare nella corrispondenza commerciale, di fare l’upload dei caratteri nella memoria della stampante (se era una laser) mentre in quelle ad aghi si lavorava con sequenze di caratteri di controllo (le cosiddette sequenze di escape) che interagivano con l’hardware della stampante.

Per un certo periodo lavorammo per l’editoria digitando testi di libri in XYWrite. Questo editor, molto veloce e parco nell’uso delle risorse, aveva il vantaggio di lavorare in modalità testo, con i comandi espressi attraverso apposite sequenze distinte dal testo vero e proprio attraverso dei separatori come avviene con l’HTLM (Hyper Text Markup Language); i nostri markup erano «». Questo consentiva di scrivere i driver per le stampanti in  maniera abbastanza semplice ed era quello che facevano gli editori per pilotare le macchine di fotocomposizione. I file di testo risultavano indipendenti dai sistemi operativi e trasportabili con facilità.

Office non esisteva. C’erano i primi fogli elettronici (il Lotus 123) con l’idea avvenieristica di simulare i fogli di contabilità dei ragionieri ma incorporando le formule. Il foglio elettronico consente di copiarle in vari punti del foglio senza perdere i riferimenti alle celle da utilizzare, grazie al concetto di indirizzo relativo. Permette non solo di fare calcoli complicati e ripetitivi ma anche di impostare le simulazioni della evoluzione di un dato contesto al mutare dei parametri. Consente infine, dati i risultati finali che si vogliono ottenete di lavorare sui parametri di ingresso per ottenere il risultato desiderato.

Il database relazionale per PC era il DB3 (poi divenuto DB4) della Ashton Tate; esistevano anche dei compilatori che consentivano di trasformare le applicazioni scritte nel linguaggio di programmazione di dB4 in eseguibili che non avevano bisogno di appoggiarsi sulle licenze della Ashton Tate. Il principe di tali compilatori si chiamava Clipper. Oggi tutte quelle aziende sono sparite, distrutte dal predominio Microsoft e dall’avvento di Windows con la piattaforma di Office Automation Office divenuta uno standard: Word per il trattamento testi, Excel per i fogli elettronici, Access per i database, Outlook per la posta elettronica e l’agenda, Power Point per le presentazioni, Publisher per la editoria elettronica.

In proposito ricordo che poco prima che io lasciassi la SISDO uscì Windows 3.1 che finalmente garantiva il multitasking, la possibilità di fare reti di PC senza grandi complicazioni e aveva introdotto i True Type Font. I caratteri facevano parte del sistema operativo, erano caratteri proporzionali (cioè le dimensioni delle lettere finalmente erano diverse per migliorare la leggibilità e infine la loro dimensione (il corpo) e i loro attributi erano tutti gestiti via sofware (ingrandendosi non sgranavano ede era banale passare dal normale al corsivo al neretto.

partita IVA con rapporto esclusivo

Quando arrivai alla Sisdo Oskian era rientrato da Roma da qualche anno lasciando la vicesegreteria del PDUP, aveva fatto qualche esperienza di società di informatica  e formazione manageriale con altri e poi si era messo in proprio. Si era iscritto al PCI ed era responsabile regionale per la Ricerca e per la Università e questo incarico gli aveva aperto possibilità di business nel mondo delle cooperative e nella CGIL. Di formazione era un fisico, era sto tra i primi laureati di Degli Antoni e tornava ai vecchi amori.

Dopo un anno di apprendistato, in cui continuano ad insegnare mi propose la scelta tra assunzione come dipendente o la partita IVA, con collaborazione pressoché esclusiva. Per ragioni di convenienza personale optai per la seconda ipotesi. Lavoravo molto; partivo da casa verso le 7:15 e ritornavo dopo 12 ore. Guadagnavo più del doppio rispetto a scuola e in più, ope legis, avevo diritto ad una pensioncina di circa un milione al mese. Ma ben presto incomiciai a riflettere sul fatto che quello non era il mio progetto di vita, dei soldi non mi è mai importato un gran che; avevo avuto voglia di staccare dalla scuola per vedere il mondo del privato, lo stavo vedendo e sperimentando ma per me si trattava comunque di una parentesi.

Un giorno mi resi conto che la mattina, alla stazione di Arcore, oltre che vedere sempre le stesse facce, incominciavo a mettermi sempre nello stesso punto del marciapiede. Sul lavoro mi pesavano anche le pause pranzo nei bar di piazza Tricolore con gli impiegati del terziario avanzato che mangiavano un panino in piedi continuando a parlare di lavoro o di clienti.

In azienda c’erano per metà laureati (quasi tutti in matematica) e per metà diplomati e, proposto da me, venne a dirigere il lavoro di data entry un amico villasantese momentaneamente disoccupato: Franco Ornaghi.

Per due anni di seguito facemmo anche quei corsi finanziati da Regione Lombardia su fondi CEE per giovani disoccupati e ad assunzone garantita. Dal punto di vista del bilancio, nonostante qualche economia di scala perché docenti e direzione del corso erano interni all’azienda, si faticava a finire in pareggio, ma era un modo per selezionare del personale senza sobbarcarsi le fasi di training, perché il training faceva parte del corso e così c’era modo di individuare le persone più valide. In quegli anni ci fu qualche scandalo per corsi regolarmente fatturati e inesistenti, nei giri loschi di Regione Lombardia, ma non fu il nostro caso. Semmail il problema era il complesso meccanismo di rendicontazione in base alla normativa CEE e per quello bisognava affidarsi apersonale specializzato che lo faceva di mestiere.

le cose che ho imparato

SISDO è l’acronimo di Sistemi Informativi, Sistemi Decisionali, Organizzazione: un programma strategico bellissimo che aveva dentro si sè l’idea che Oskian aveva dell’Informatica, in particolare per quanto riguarda i sistemi decisionali (inizialmente SISDO stava per Sistemi informativi, Sviluppo dell’Organizzazione). Questa faccenda della organizzazione ritorna sempre tra di noi (dai tempi della Organizzazione Comunista Avanguardia Operaia). Organizzazione e supporto alle decisioni il primo passo verso l’intelligenza artificiale.

E’ stata una esperienza utile sul piano professionale nel senso ampio del termine. Ho appreso questioni di informatica che non conoscevo quali l’utilizzo dei database relazionali e la organizzazione a blocchi di sistemi complessi. Nascevano le reti e la Ethernet, divenuta uno standard dal punto di vista hardware e del protocollo di comunicazione, l’ha inventata la Digital sul suo sistema operativo proprietario, il VMS (Virtual Memory System).

Digital era l’azienda con cui operavamo per l’hardware. Erano loro ad aver inventato l’informatica distribuita e la SISDO l’aveva sposata nel momento in cui realizzò il sistema informativo per la CGIL Lombardia con minisistemi in ogni capoluogo di provincia e messi in rete tra loro.. Più avanti saremmo passati dal VMS allo Unix con la Honeywell Bull e l’IBM.

informatica sanitaria

Per un certo periodo mi sono occupato di progettazione della architettura di sistemi medio grandi per l’area sanitaria. Bisognava essere aggiornati sulla evoluzione delle tecnologie, saper ascoltare le esigenze dei clienti e saperle alzare di livello, nel senso di costruire una risposta harware e software partendo dall’output richiesto, cioè da quello che voleva ottenere il cliente.

I modem erano lenti e costosi e per garantire più postazioni si usavano dei concentratori detti multiplexer. Ero arrivato da poco alla SISDO quando, per svariati milioni di lire, fu acquistato un hard disk da 10 megabyte (!!!). Per le grandi masse di dati si usavano ancora i nastri magnetici a lettura sequenziale che avevo conosciuto nei tardi anni 60. Oggi i Terabyte, un milione di volte più capienti, si comperano al supermercato per qualche decina di euro e lo stesso vale per le pennette USB.

La attività di data entry riguardava una grande commessa di Regione Lombardia nell’ambito delle procedure di controllo della spesa sanitaria e la SISDO, come altre società del settore, lo svolgeva relativamente ad alcune delle province. Arrivavano grandi sacchi pieni di ricette che le USL ricevevano dalle farmacie. La registrazione dei dati della ricetta veniva fatta manualmente con degli M24 Olivetti attraverso programmi sviluppati all’interno con un primo controllo on line dei dati controllabili (codice medico, codice del farmaco, …).

Gli M24, e più tardi dei PC della Sanyo, lavoravano con 2 dischetti magnetici (i floppy disk) del diametro di  5 pollici e un quarto. Sul primo disco c’erano il sistema operativo, il programma per la registrazione e gli archivi dei farmaci per il controllo di correttezza della digitazione. Sull’alltro dischetto venivano registrati i dati della ricetta (il data entry). La RAM era ancora a 256 KB.

Alla fine della registrazione tutti quei dischetti venivano dati in pasto al Microvax (o al PDP, il suo predecessore) e controllati su archivi più grandi per finire poi nei file definitivi dove si facevano i controlli di congruità e la correzione degli errori di acquisizione. Il prodotto finito, su nastro, finiva in Regione. La grande idea che consentiva di essere competitivi era stata quella del data-entry su PC che consentiva, in qualche caso, addirittura il lavoro a domicilio e comunque non richiedeva grandi investimenti in infrastrutture. eravamo proprio alla preistoria; oggi non si digita più nulla a mano; funziona tutto con lettori di codice a barre in farmacia e con le ricette elettroniche dove sono già presenti in formato digitale tutti i dati necessari (codice prodotto, quantità, codice medico prescrivente, codice assistito).

schema a blocchi della architettura classica (Roberto Savino)

Oltre che di architetture di rete mi sono occupato lungamente della progettazione di software gestionale in ambito sanitario: dalla contabilità finanziaria, al personale, agli stipendi, alla informatizzazione di singoli servizi (area sociale, consultori familiari, CUP, laboratorio di analisi, farmacia ospedaliera…). Scrivevo le specifiche e seguivo la realizzazione del software anche se, alcuni prototipi, li ho creati direttamente.

Da allora il mondo è cambiato per due fattori altrettanto importanti:

  • la disponibilità di hardware molto più potenti, la nascita di Internet e la disponibilità delle reti in cloud che hanno eliminato gran parte dei problemi di conservazione e trasferimento dati con cui avevamo a che fare
  • la crescita di una cultura dei diritti che ha obbligato le amministrazioni ospedaliere e i manager della sanità a mettere al centro del processo il cittadino-utente (non mi piace la parola paziente) sia rispetto alla facilità di accesso ai servizi, sia rispetto alla gestione dei dati (basta pensare al fascicolo sanitario elettronico).

In quegli anni inziavano a comparire anche i primi sistemi di registrazione vocale digitale che aprivano la strada alla gestione automatizzata della cartella clinica, mentre per i laboratori di analisi era già applicato l’interfacciamento della strumentazione che trasmetteva i risultati delle analisi attraverso la porta seriale RS232.

Schema a blocchi della archietttura innovativa con il cittadino e le reti in cloud (Roberto Savini)

Se guardo a quei problemi con gli occhi di oggi e vedo che nella gestione delle cartelle cliniche non si è fatto ancora quasi nulla, mi viene da confermare un concetto che ci era chiaro anche allora. Nella gestione dei flussi informativi, il collo di bottiglia non è mai di tipo tecnico, ma riguarda le persone e la organizzazione del processo. Me ne resi conto quando, per alcuni grandi clienti mi capitò di occuparmi di formazione sulla Office Automation. I programmi di allora facevano già molto di più di quanto non venisse richiesto ed erano assolutamente sottoutilizzati dal personale.

Oggi, ogni volta che accedo ad un ambulatorio per una visita specialistica resto stupito del cattivo uso che i medici fanno del PC. Spesso, anche nei grandi ospedali, ci sono segmenti non in rete e ci sono banche dati costantemente disallineate. C’è ancora un sacco di informazione di anamnesi o di terapia che viene digitata a mano (anziché essere disponibile e condivisa on line) con grandi perdite di tempo e rischio molto alto di errore. Così il 60% del tempo della visita è dedicato alla produzione semimanuale del referto (che alla fine non viene riletto con attenzione e contiene spesso errori materiali di registrazione).

Quello della progettazione era un lavoro interessante dal punto di vista concettuale perché bisognava riempire una scatola nera (l’architettura del software) a partire dai dati di input e di output (determinati dalla normativa e dalla organizzazione del cliente) e inoltre si trattava di ottimizzare lo stesso input per evitare ridondanze, ottimizzare le risorse e semplificare i protocolli di raccolta dei dati. Alla fine definite le caratteristiche funzionali del software si disegnava la archiettura hardware (numero e potenza dei mini, tipologia di rete, numero e tipologia delle stazioni di lavoro).

Ho imparato l’importanza della organizzazione e che una organizzazione deve avere a cuore il benessere dei suoi collaboratori ma, contemporaneamente, deve riuscire a funzionare in maniera indipendente dagli stessi. Ciò significa dedicare del tempo e delle risorse adeguate alla documentazione di quanto si fa, perchè le persone passano ma, se la documentazione rimane, l’organizzazione continua a funzionare.

Questo aspetto era pressoché sconosciuto nella scuola con la figura del professore monade, padrone della classe, dopo la chiusura della porta. In tanti anni di scuola ho sperimentato la difficoltà a far accettare un  minimo di standardizzazione per quanto riguarda i contenuti dell’insegnamento, gli obiettivi in uscita e gli strumenti di valutazione nell’ambito di una medesima istituzione scolastica. Me ne resi conto pesantemente, anni dopo, quando passai a fare il Dirigente Scolastico e cercai di introdurre qualche elemento di teoria della organizzazione. Ci sarà modo di riprendere l’argomento.

le cose che non ho imparato perché non le condivido

Nel rapporto con i clienti bisogna saper barare o meglio bisogna saperli tranquillizzare. Il settore dei servizi informatici, salvo che non si abbia a disposizione una nicchia di mercato in condizione di monopolio, è un settore a rapido sviluppo e client oriented.

Il cliente vuole per domani ciò che non esiste e tu devi rassicurarlo facendogli credere che quello che vuole esiste già e domani sarà visibile e presto utilizzabile.

Tu lo sai che con realismo, cioè non oggi ma domani, la cosa si potrà fare, ma l’altro vuole sentirsi dire che è già pronta. Non devi contare una balla, devi fare quello che il catechismo della chiesa cattolica chiamava peccato per omissione e la Chiesa lo colloca tra i peccati veniali.

Questo è un modo di lavorare che ho sempre fatto fatica a praticare mentre è quello che fanno di mestiere i funzionari commerciali, che non mi sono mai piaciuti perché si tratta di esperti in promesse al vento . Superficiali sino al midollo, usano le parole per sentito dire in maniera indipendente dal significato. Una volta uno dei nostri commerciali, a cui avevo consegnato un software già funzionante, mi chiese “sì, ma quando lo implementiamo“. Diceva implementare, ma non sapeva cosa significasse.

Il settore dei servizi informatici, e il terziario avanzato in genere, erano in grande espansione e di conseguenza era molto alta la mobilità del personale; la gente, giustamente puntava a fare carriera e a fare nuove esperienze professionali. Dunque c’era costantemente il problema di come tenere i migliori e disfarsi dei peggiori senza interventi autoritativi. Si usavano gli incentivi di natura economica e quelli bravi sapevano come fare per ottenere aumenti di stipendio; si andava a presentare le dimissioni e poi si trattava. Ma Oskian, in questo campo, conosceva le astuzie e i mercanteggiamenti di quel mondo medio orientale da cui proveniva.

Comunque alcune dimissioni di persone vicine o che avevo personalmente portato in azienda mi hanno ferito anche perché, per via dei maledetti ruoli che ricoprivo, la gente mi vedeva come una emanazione del capo e dunque mi teneva all’oscuro. In quegli anni a Milano esplose l’AIDS tra gli eroinomani e, nel giro di alcuni mesi, morirono due dei nostri fattorini. Dapprima un po’ di assenteismo, poi il tenere nascosta la malattia raccontando le balle più colossali, il dimagrimento, e alla fine la morte.

le cose che non hanno funzionato

Quando sono andato alla SISDO pensavo di riaprire con Oskian un rapporto che si era interrotto anni prima ma, per dirla con il linguaggio un po’ crudo del marxismo, i rapporti economici e quelli di produzione trasformano e condizionano i rapporti tra le persone: se sei un imprenditore sei orientato al profitto, perché è il profitto che ti consente di fare qualsiasi altra cosa incluso lo sviluppo delle risorse umane o il benessere aziendale.

Oskian era diventato un imprenditore ed io ero rimasto il figlio di mio padre, quello che non aveva saputo gestire la sua azienda. Le dinamiche erano quelle: sul piano personale ero disposto a dare anche l’anima per la SISDO purché non mi si chiedesse di dire o di fare cose che si scontravano con i miei principi dell’etica pubblica.

I resti di un antico villaggio Anasazi

Lui era molto generoso e, nel 91, in occasione del perfezionarsi di una grande commessa per la quale avevo dato una grossa mano, mi offrì un viaggio chiavi in mano negli Stati Uniti per me e per Bruna.

Lo barattai con l’equivalente in danaro e me lo organizzai alla CLUP (l’agenzia di viaggi nata dal movimento del Politecnico) in maniera di portarci anche nostra figlia Daniela: voli, alberghi e rent a car, prenotati dal’Italia e, appena possibile, fuori dalle città usando i motel.

Siamo stati via due settimane, prima New York e poi San Francisco e gli stati dell’ovest: California, New Mexico, Utah, Arizona; i parchi naturali, i deserti, il gran Canyon, la valle della Morte, la Monument Valley, la foresta pietrificata, l’America quasi disabitata, le riserve Navajo e Hopi, gli Anasazi. Sul ritorno abbiamo anche fatto tappa a Vienna.

La scelta di andarmene dalla SISDO fu innescata da una tipica questione in cui mi veniva chiesto di ragionare da imprenditore mentre io ero un dipendente. C’era un ritardo nella realizzazione di una commessa e il ritardo dipendeva da questioni nostre, ma era conveniente far vedere che il ritardo fosse  dovuto a difficoltà organizzative del cliente. Dopo l’ennesima discussione con Oskian non me la sono sentita di contare balle e ho presentato di getto le dimissioni scritte con questa frase di accompagnamento: preferisco cambiare lavoro puttosto che incrinare il rapporto con te.

In trasparenza intravvedevo anche i rapporti di sovrapposizione tra economia e politica che emersero ai tempi di mani pulite. Ho personalmente gestito la fornitura e l’avviamento del programma di gestione di farmacia al Pio Albergo Trivulzio (quello di Mario Chiesa) ma di tangenti nemmeno l’ombra. C’era la spartizione delle commesse pubbliche in ambito regionale con il coinvolgimento di pezzi del gruppo dirigente del PCI milanese e della Lega delle Cooperative (e la SISDO operava dentro la Lega). Alla Lega c’era un vecchio amico dei primi tempi del movimento di Matematica, Sergio Soave presidente regionale, potentissimo e rimasto pesantemente coinvolto dalle inchieste di Di Pietro.

Condividevo le scelte politiche dei miglioristi milanesi da Vicky Festa, a Piero Borghini, a Corbani, a Cervetti ma vedevo anche la presenza di una zona grigia. Così non solo me ne andai dalla SISDO, ma evitai anche di aderire al PDS dove si era scatenata una pesante lotta di potere spacciata per rinnovamento. I duri e puri dalle mani pulite, guidati da Barbara Pollastrini, non mi convincevano proprio, anzi non mi convincono mai sia perché non sono puri, sia perché non sono flessibili.


La pagina con l’indice della mia autobiografia da cui potete scegliere i capitoli da leggere


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a proposito di redditometro e grande fratello

Non ne usciremo mai, ciascuno dice la sua, con le sue convenienze. Il viceministro all’economia Leo, che ho scoperto essere uno dei maggiori esperti tributaristi del paese, fa i conti con il fatto che nei conti pubblici tira una brutta aria legata ai provvedimenti di finanza allegra e al fatto che prima o poi dovremo sottostare alle inique leggi economiche di Bruxelles: dare dei segnali che si fa sul serio e non dico puntare a non fare nuovo deficit (lo fece Prodi), ma almeno puntare a ridurre la incidenza percentuale del rapporto deficit PIL, che vuol dire, il deficit continua ad aumentare, ma almeno lo fa diminuendo il ritmo di crescita.

Ricordo che sui recenti provvedimenti europei che impongono di farlo l’Italia si è chiamata fuori facendo ridere tutti.

Così Leo propone un intervento, non certo strutturale, ma qualcosa che consente di arrivare all’autunno avendo raggranellato qualche miliardo: il redditometro, un provvedimento che consente alla agenzia delle entrate di andare a vedere se c’è sproporzione tra reddito dichiarato e stile di vita.

Siamo sotto elezioni e … apriti cielo. Prima Tajani in maniera soft, poi Salvini in maniera più sguaiata e così Meloni interviene, smentisce il suo viceministro e blocca un decreto già in Gazzetta Ufficiale. Suo, per due ragioni: perché è un esponente importante del suo governo e perché è del suo partito.

C’è il diritto alla privacy, poi non bisogna confondere i beni di impresa con i beni personali perché se lo yacht è della ditta io posso continuare a dichiarare meno di un professore di scuola media; e allora giù con il Grande Fratello che ti scruta, ti entra in casa … Chi le tasse le paga non ha alcuna paura del grande fratello, anzi semmai chiede di semplificare ulteriormente, evitare di doversi occupare del 730 andando al patronato o dal commercialista. Ed è singolare che parlino di Grande Fratello esponenti di un partito come Forza Italia, che il grande fratello, quello della puttanTV lo hanno inventato.

In tutto ciò mi stupisce e mi sconcerta leggere che dalle parti della opposizione vengano chieste le dimissioni di Leo e di Giorgetti. Dimissioni di chi? Dimissioni perché? Opposizione a cosa?

 




Gli opportunisti d’Europa

 

Dopo anni di trattative il Parlamento Europeo ha approvato a grande maggioranza (con 359 voti favorevoli, 166 contrari e 61 astensioni) le nuove regole sul Patto di Stabilità cioè le regole che l’Europa impone ai paesi membri in ordine alle politiche di bilancio per evitare che il deficit vada fuori controllo e per imporre dei piani di rientro. Le regole erano state congelate nel 2020 per effetto della pandemia e vanno ora rimesse in essere.

Artefice di questo piano è stato il commissario europeo alla economia Paolo Gentiloni, esponente di primo piano del PD, già Presidente del Consiglio, riformista di lunga data. Lo ricordo ai tempi della segreteria Renzi per i suoi interventi alle riunioni di direzione, interventi sempre molto pacati ma contemporaneamente incisivi. Non menava mai il can per l’aia e per questa ragione era molto ascoltato.

Le trattative sono state lunghe e, nell’ultimo anno, le hanno condotte direttamente il ministro Giorgetti (Lega) e il capo del governo Giorgia Meloni. Entrambi, in più occasioni, si sono vantati di aver migliorato il progetto originale. Caro lei, ora ci siamo noi. Il parametro massimo previsto in Europa, per il quale si applicano misure graduali, ma stringenti,  di riduzione è del 5% ma proprio in questi giorni si è acclarato che per il 2023 tale deficit è stato del 7,3% (grazie allo scellerato bonus del 110% voluto da Conte e dalla banda degli sfascia bilanci).

Attenzione il deficit di bilancio è il rapporto percentuale tra la differenza tra spese ed entrate e il prodotto interno lordo. L’Italia da anni è in deficit e il debiti pubblico continua ad aumentare. Se non ricordo male solo i governi Prodi riuscirono a ridurlo (parlo del debito pubblico). Ora non solo non ci si pone tale obiettivo ma si considera iniquo il contenimento del disavanzo al di sotto del 5%.

E’ andata in questo modo: è partita lancia in resta la Lega, che si è astenuta invece di votare contro solo perché le trattative le aveva condotte il suo numero due Giorgetti (l’eterno secondo). A questo punto Forza Italia, competitor della Lega per il secondo posto nel centro destra, si è incredibilmente accodata e ha deciso di astenersi con dichiarazione del suo attuale leader e ministro degli Esteri fregandosene del voto compatto dei popolari europei.

Fratelli d’Italia, che viene da una storia euroscettica e la cui leader, oltre che capo del governo, presiede il gruppo dei conservatori e riformisti europei, ha dovuto cambiare linea e dopo aver contribuito a costruire in maniera determinante il compromesso proposto da Gentiloni, ed essersene vantata pubblicamente, ha innestato la retromarcia e dato la indicazione di astenersi. Il gruppo europeo si è spaccato e gli spagnoli e i polacchi hanno votato a favore.

Qualcosa di analogo è accaduto tra i socialisti europei che insieme ai popolari stanno nella cabina di regia dell’Europa. Il gruppo ha votato a favore, gli europarlamentari del PD, erano per questa posizione, ma Elly Schlein e il partito romano hanno dato la indicazione di astensione (e se non fosse stato per il partito europeo e per Gentiloni avrebbero votato contro).

Stessa solfa per Renew Europe, per quel poco che conta in Italia, Nicola Danti segretario regionale toscano di Italia Viva, si è astenuto (e io me ne ricorderò l’8 e 9 giugno), mentre ha votato a favore Sandro Gozzi ex PD dei tempi di Renzi, ma ora parlamentare europeo eletto in Francia con Macron.

Tutti gli astensionisti raccontana la balla che ci sarà modo con nuove trattative di migliorare il patto di stabilità. E l’ottimo Gentiloni, con il suo aplomb, ha ironizzato e affermato che siamo riusciti a mettere d’accordo l’Italia.

Velo pietoso sui contrari che si sa, sono per la spesa incontrollata, e hanno votato contro: Sinistra Italiana, Verdi e 5 stelle. Conte, maggior artefice degli sforamenti nel deficit di bilancio, ha chiesto la testa di Giorgetti. Complimenti.

Che dire? L’Italia ha fatto in Europa l’ennesima pessima figura motivata non dalla visione di Europa e nemmeno dall’interesse nazionale (a meno che si pensi che dobbiamo finire come la Grcia di qualche anno fa), ma esclusivamente da interesse di bottega in vista delle elezioni. Si aggiunga quanto ha ripetutamente affermato Prodi in questi giorni: se ti metti in lista lo fai per farti eleggere e poi in Europa ci vai. Prodi ha parlato nel deserto.

Se non erro l’unico che su questo punto è stato coerente sin dall’inizio è stato il leader di Azione Calenda che si è dichiarato contrario a mettere nelle liste i leader di partito già parlamentari italiani. Peccato però che, dopo essere stato eletto in maniera plebiscitaria parlamentare europeo nel 2019, si sia prevalentemente occupato poi di politica italiana fino a dimettersi nel 2022 per fare il parlamentare italiano. E che dire di Renzi che prima aveva dichiarato che era disponibile a fare il capolista in tutte le circoscrizioni (quando sembrava che Italia Viva si presentasse da sola) e si è convertito alla linea opposta dopo l’accordo elettorale con + Europa.

Insomma, e vale per tutti: le politiche di bilancio sono una cosa seria, il parlamento europeo è una cosa seria. Fare scelte sulle politiche di bilancio in base a beghe di cortile e pensando di prendere l’1% in più è roba da miserabili.

 




morire sul posto di lavoro

 

Casi mortali denunciati nel 2023 1.041 contro 1.090 nell’anno precedente. A diminuire sono solo i decessi avvenuti in itinere, dai 300 del 2022 ai 242 del 2023, mentre quelli direttamente sul lavoro sono stati nove in più, da 790 a 799. Ipotizzando di contare in corso d’anno circa 240 giornate lavorative i morti sul posto di lavoro sono circa 3.3 al giorno (fonti INAIL).

I morti sulle strade sono stati all’incirca 50 per milione di abitanti, mentre i morti sul lavoro (calcolati su 22 milioni di lavoratori) sono 36 per milione e dunque, anche se la mortalità sul lavoro grida vendetta, è giusto osservare che sono più pericolosi i mezzi di trasporto dei posti di lavoro e dunque tutta una serie di polemiche di tipo qualunquistico contro i multavelox, le norme contro l’uso dei cellulari, i controlli sull’uso di sostanze stupefacenti e/o alcoliche sono decisamente fuori luogo. A proposito di mortalità sulle strade l’Italia è a 52 per milione, con la Romania a 81 e i Paesi Bassi a 32

Per quanto riguarda la mortalità sul lavoro emerge un dato interessante dalla immagine qui sopra dove si vede che la situazione è molto diversificata tra le diverse regioni e, se la Toscana è intorno a 20 per milione di occupati, l’Abruzzo è a 60, segno di una decisamente diversa cultura del lavoro e della sicurezza tra le diverse regioni.

Solitamente quei 3,3 morti ogni giorno al posto di lavoro non fanno notizia se non per due casi: le morti strazianti come nel caso di Luana d’Orazio, risucchiata nell’orditoio da cui erano state rimosse le sicurezze, o nel caso delle morti miultiple, come nel caso della trave in cemento precompresso crollata sui solai dove si stava facendo la gettata (cantiere Esselunga di Firenze) o nel caso del recente incidente alla centrale di Bargi.

Gli infortuni mortali plurimi nel 2023 sono stati 15 per un totale di 36 vittime, 22 di questi morti sono morti in presenza di un mezzo di trasporto (operai al lavoro sulle rotaie a Brandizzo, …)

Il caso degli incidenti plurimi fa notizia perché rimane all’attenzione per più giorni, perché le povere vittime vengono indagate nei loro affetti, perché con una certa ritualità si fanno le manifestazioni di protesta, perché si cogli l’occasione per polemizzare sui sub-appalti o sulla insufficiente formazione sulla sicurezza (spesso sbagliando bersaglio). Su questo fronte servirebbe grande celerità nelle indagini in modo che le condanne, quando sono dovute, siano rapide e senza possibilità di allungamenti del brodo.

Qui in Toscana un incidente mortale abbastanza diffuso è quello dovuto al ribaltamento dei trattori; purtroppo non sono riuscito a risalire alle statistiche, ma se digitate con Google “Toscana incidente con il trattore” ne avrete immediata contezza.

Avete presente tutti quegli omini che girano con i vecchi trattori FIAT, Landini, SAME, … quasi sempre senza cabina e senza la barra di protezione antiribaltamento. Fanno di tutto con quei mezzi privi di protezione dimenticandosi che la Toscana è ricca di pendenze e ogni tanto succede l’incidente.

I provvedimenti che servirebbero alla messa in sicurezza sono stati emanati da qualche anno e prevedono che anche i mezzi agricoli siano sottoposti a determinati vincoli sulla sicurezza e alla revisione periodica come per gli altri mezzi a motore. Mancano le norme attuative e tali norme non vengono emanate per ragioni connesse al consenso e all’azione di qualche lobby degli agricoltori. E così quei mezzi insicuri continuano a circolare.

 




Carlo Parietti – nel sindacato – di Silvana Cappuccio

Sabato 22 gennaio 2022 è improvvisamente morto Carlo Parietti, compagno di vita di Elisabetta Ramat, papà di Guido, storico dirigente della Cgil, inossidabile militante politico e amico di tante e tanti che lo hanno conosciuto. Un uomo riservato, elegante e discreto, la cui scomparsa ci addolora e colpisce portando via con sé quei tratti di gentilezza che Carlo esprimeva con profonda umanità e attenzione nel rispetto per il prossimo e le sue sensibilità.

Carlo non perdeva mai la capacità di ascoltare e accogliere gli altri, anche quando, come capita, gli eventi della vita non erano pienamente favorevoli. Perfino in queste circostanze mostrava la marcia in più di chi sa che bisogna guardare oltre. Oltre il proprio destino e le piccole questioni contingenti e individuali. Perché Carlo ha dedicato la vita sua intera al desiderio di trasformare il mondo, migliorare le condizioni di vita delle persone e provare con la forza dell’impegno collettivo a contrastare le ingiustizie.

Questi obiettivi lo guidavano in una visione che non gli permetteva di restare confinato nel “particulare”. All’opposto, erano i grandi ideali di universalità, giustizia, pace e democrazia che ispiravano la sua eterna e quotidiana ricerca di libertà e felicità per tutti. Sempre e senza soluzione di continuità di pensiero, quasi un assillo incessante.

Carlo ed io ci siamo conosciuti solo una ventina d’anni fa, quando entrambi vivevamo a Bruxelles, lui presidente di Eurocadres e io alla Federazione internazionale dei tessili. Di lui sapevo che era stato il portavoce del grande Bruno Trentin e il capo ufficio stampa della Cgil. Mi raccontò lì la sua storia personale, politica e sindacale.

Carlo aveva una memoria impressionante su fatti, personaggi, nomi, date, circostanze e dettagli. Raccontava il tutto con dovizia di particolari che non scindevano mai il privato dal politico: c’erano le storie e c’era lui con il suo pensiero e i suoi sentimenti, trasmessi con generosità e passione. Sia che parlasse della sua esperienza come giornalista che dell’impegno nel Pdup e delle funzioni ricoperte in casa Cgil, non presentava mai sterile cronaca.

Carlo ci teneva a ricreare il pathos da cui racconti e aneddoti scaturivano, e sceglieva accuratamente le parole che li componevano. Spesso ritornava su alcuni di questi, perché nel ricordarli li riesaminava, arricchendoli di commenti e considerazioni, sostanziandoli di nuovi dubbi e quesiti, interrogandosi talvolta anche esistenzialmente sul senso delle cose e degli eventi stessi. In quest’esercizio, c’era il rigore tutto orientato su di sé dell’uomo che non vuole risparmiarsi nessuna sfumatura di conoscenza nella ricerca della verità. Spesso aggiungeva il condimento dell’autoironia, utile ad alleggerirgli il peso di tanto rigore.

E’ anche così che ha coltivato il valore della dialettica, di cui si è ampiamente avvalso sia per cercare e praticare l’unità in campo sindacale, che per inseguire il sogno europeo contro l’individualismo e il neoliberismo in avanzata nel nuovo secolo. Europa e unità sindacale sono stai due veri leitmotiv del pensiero e dell’impegno di Carlo, voluti e cercati in ogni sede e con instancabile tenacia.

Carlo è stato un sano intellettuale, coerente, un uomo naturalmente amabile, aperto alle novità, pronto e capace di offrire conforto e aiuto agli altri nelle piccole cose e nei momenti più gravi e difficili, colto e a suo agio con quasi chiunque. Il “quasi” è d’obbligo, perché rifuggiva da carrieristi, opportunisti e poveri di spirito. Amava la buona cucina, il vino, il cinema, la letteratura, la poesia e la bellezza.

Da qualche anno stava male. Il suo malessere, anche a suo dire, sembrava mettere insieme inestricabilmente mali fisici con sofferenze di natura intellettuale e ideologica per l’ottusità della politica che viviamo, per l’egoismo imperante e per la stagnazione delle idee, per la mancanza di nuovi orizzonti che Carlo non aveva mai cessato di cercare, mai.

Mi piace ricordarlo entusiasta e innamorato della vita. E mi dico che questa ha un senso se la si è vissuta come Carlo ha fatto, imprimendovi un segno indelebile del suo passaggio nel cuore di così tante e tanti che lo hanno incrociato.

– di Silvana Cappuccio – da Sinistra Sindacale




auto elettriche (?) 3 – di Lorenzo Baldi

Allora compro un’auto elettrica. Mettiamoci sul mercato, in cerca di un’auto elettrica (o elettrificata).

Mild e full-hybrid si possono considerare automobili a benzina che il recupero di energia rende altrettanto convenienti delle diesel (di più in ambiente urbano, meno in autostrada), senza lo spauracchio dei divieti di circolazione nelle aree metropolitane. Si tratta di una soluzione e breve termine che sta incontrando un certo successo di pubblico.

Le ibride plug-in hanno senso, soprattutto, su percorsi casa–lavoro di 30-40 km andata/ritorno, con la possibilità di ricaricare le batterie quotidianamente. In questo modo si comportano nella maggioranza dei casi come auto elettriche, consentendo occasionali viaggi a lungo raggio, affidati al motore termico. Sono oggetti complessi e, conseguentemente, piuttosto costosi e il loro prezzo di acquisto si giustifica quasi esclusivamente in presenza di incentivi statali. Per svolgere correttamente la loro missione, richiedono una ricarica domestica ed il loro impatto ambientale dipende fortemente dal tipo di percorsi e dalle modalità di guida.

La scelta dell’elettrico puro, oggi, non può essere giudicata in modo separato dal reddito, dalle esigenze pratiche, dallo stile di vita e dal rapporto con l’oggetto–automobile di ogni suo utente. Il modo di guidare deve cambiare in direzione di un pilotaggio dolce e progressivo, indispensabile, anche con modelli grandi e molto potenti, per utilizzare correttamente il recupero di energia e ottenere autonomie reali comparabili a quelle dichiarate. Il pieno utilizzo delle prestazioni dichiarate dei veicoli per un tempo sostenuto, porta infatti ad un crollo verticale dell’autonomia reale.

Contano anche le convinzioni sui temi dell’ambiente che, per chi dispone del denaro, possono giustificare un esborso maggiore. E, anche qui, per finire, un prerequisito è la disponibilità della ricarica nel garage domestico. I pionieri dell’auto elettrica insistono sulla necessità di modificare il proprio stile di vita, con una mobilità “programmata” nei viaggi lunghi (da colonnina a colonnina di ricarica) e utilizzando le pause in modo creativo. Ma non sembra un atteggiamento compatibile, per esempio, con le necessità di un funzionario aziendale costretto a percorrere oltre 50.000 km all’anno.

Un tema essenziale riguarda poi la piattaforma del progetto. Alcune auto nascono per essere esclusivamente elettriche: parliamo di Tesla, Bmw i3, Honda “e”, Volkswagen ID3 e dell’appena annunciata Hyundai Ioniq.

Altri modelli offrono indifferentemente motorizzazioni endotermiche, ibride o elettriche e sono quindi progettati per ospitare le diverse tipologie di organi meccanici; per esempio le coreane Hyundai Kona e Kia Niro, le gemelle Peugeot 205 e Opel Corsa, la Mini e la BMW X3, la Fiat 500, da poco in commercio, o la Renault Twingo. Questa seconda categoria risponde ad esigenze industriali e di mercato, ma esclude quella parte dei vantaggi offerti da un’auto elettrica che riguarda il design, la funzionalità e il comfort della vettura, derivanti dalla semplificazione degli organi meccanici.

Tra le auto dei segmenti di mercato superiori, Tesla vince per distacco, con prezzo, prestazioni e piacere di guida comparabili alle alternative benzina o diesel di Mercedes, Bmw e Audi, i sistemi di assistenza alla guida più evoluti del mercato, un’interfaccia col guidatore completamente digitale e un’elevata autonomia. A ciò si aggiunge la rete proprietaria dei “supercharger che permette di pianificare con più tranquillità i viaggi a lungo raggio.

Bmw i3 è una city car molto costosa, con una grande ricerca sui materiali, sia dal punto di vista della leggerezza che della sostenibilità, ed un design sofisticato. Anche Honda innova molto sul design, soprattutto, sui sistemi informativi di bordo. Mentre Volkswagen ha scelto la strada di un progetto più tradizionale, non volendo rischiare nulla in una svolta elettrica che è figlia del dieselgate e delle sue pesanti ripercussioni sui bilanci del gruppo.

Tutto il resto consiste di modelli di concezione piuttosto datata e destinati soprattutto a flotte aziendali (Renault Zoe, Nissan Leaf) o basati su piattaforme non esclusivamente elettriche e mi sembra meno interessante, seppur largamente usabile in condizioni adeguate.

Vale la pena far conoscere anche una start-up con un coraggio da leoni (ci vuole coraggio, per entrare da zero nel mondo dell’automotive): si tratta di Sono Motors, fondata da un gruppo di giovani ecologisti tedeschi, che ha presentato al CES (la fiera dell’elettronica di consumo USA, sì, non al salone dell’auto) il suo prototipo di auto elettrica e (parzialmente) solare: una sensata e pratica macchina per famiglie, ad un prezzo annunciato di circa 25.000 €. Questo progetto ha già un piano di industrializzazione con dei partner di tutto rispetto ed ha appena raccolto circa 100 milioni di € da diversi investitori istituzionali del nord Europa.

Infine, da anni, molte indiscrezioni anticipano l’ingresso di Apple nel mercato automotive, con le elevate attese che questo fatto determina in termini di innovazione.

Qualche domanda e un’ipotesi sul futuro.

Oggi siamo in grado di dire che è iniziata la transizione verso l’auto elettrica (e la guida autonoma), ma non abbiamo altrettanta certezza su quali saranno tempi e modalità di questo cambiamento. Volendo scommettere, è possibile che avremo auto a batteria nei contesti urbani e auto a idrogeno per il lungo raggio, in un contesto di transizione dall’auto di proprietà all’auto come servizio.

Inoltre la guida completamente autonoma arriverà quando i veicoli saranno in grado di interagire tra di loro, attraverso la rete 5G, in modo da creare un secondo livello di sicurezza, oltre a quello attuale basato su sensori radar e telecamere montati a bordo, ma non interconnessi con gli altri veicoli.

Al momento, la questione che sembra più controversa è quella del prezzo. Se sono importanti i costi di ricerca e sviluppo che riguardano le batterie e la guida autonoma,  il veicolo in sé attinge ad una tecnologia, tutto sommato, matura e induce una grande semplificazione dei processi industriali. I prezzi attualmente proposti dai costruttori si spiegano soprattutto con previsioni di vendita piuttosto basse e con il desiderio di caricare i costi di ricerca e sviluppo, il più possibile, sui soli modelli elettrici. O con l’intenzione di prepararsi alla svolta elettrica, senza promuoverla troppo attivamente, cercando di massimizzare il valore estratto dagli impianti e dalle tecnologie esistenti e sostenendo una posizione negoziale con gli enti regolatori, nella sostanza, ancora sbilanciata verso la propulsione endotermica.

Una seconda questione riguarda l’offerta di modelli a batteria nella quale prevalgono modelli di lusso ad alte prestazioni (quindi presumibilmente destinati a percorsi medio-lunghi), per non parlare di supersportive e supercar elettriche o elettrificate (che, tuttavia, non riescono ad eccitare gli appassionati con la stessa intensità delle antenate a benzina): forse più un’esibizione di “responsabilità sociale” da parte dell’industria e dei suoi clienti che un fatto di mercato significativo.

Come abbiamo visto, si tratta spesso di veicoli il cui impatto ambientale globale, dalla fonte energetica fino alla rottamazione, non è inferiore a quello dei corrispondenti modelli endotermici. Ma, soprattutto, è interessante immaginare come questo cambiamento influirà sul ruolo sociale e culturale della mobilità individuale, come ce l’ha lasciato in eredità il Novecento.

Nel secolo scorso l’automobile è stata affermazione di libertà individuale, possibilità di viaggiare in autonomia per conoscere città e nazioni, piacere della velocità, dimostrazione di abilità e competenza tecnica, esibizione di potenza e di ricchezza. Oggi tutto questo sembra venir meno. L’automobile assomiglia sempre più ad un servizio di mobilità tra mille altri, dal monopattino al treno ad alta velocità.

Per la maggior parte dei giovani, il suo possesso corrisponde esclusivamente a necessità pratiche, familiari e lavorative, mentre altre sono le offerte tecnologiche che incidono sullo stile di vita e l’immaginario. Le strategie di marketing, insieme alle normative ambientali e di sicurezza, hanno finito per omologare le soluzioni tecniche e aumentare ad ogni riprogettazione la dimensione e il peso dei veicoli (con buona pace delle emissioni, che sono proporzionali alla massa e alla resistenza aerodinamica).

La congestione del traffico, assai prima delle sue regole, rendono ormai praticamente impossibile l’esercizio della guida stradale come divertimento o come sport. L’insistenza monotona della pubblicità sull’emozione e l’orgoglio del possesso sembra solo voler ritardare il più possibile il momento in cui l’automobile diventerà un servizio.

Noi “teste di benzina” siamo oggettivamente dinosauri destinati a scomparire o, nella migliore delle ipotesi, a rinchiuderci in parchi gioco per adulti tanto benestanti quanto, ormai, giurassici, dove esercitare l’ennesima forma di sport estremo sotto le ali della Red Bull.

L’elettrificazione è il cuore di questo passaggio. La titubanza dell’industria, nel suo complesso, a promuoverla veramente, sfruttando la semplificazione tecnologica come leva per recuperare marginalità, è un segno di come le grandi organizzazioni abbiano un carattere e, spesso, come uomini (come uomini appassionati di motori) reagiscano male al cambiamento.

Probabilmente serviranno altri attori, dopo Tesla (che, in fondo, resta prigioniera dell’immaginario automobilistico novecentesco), capaci di iniettare idee e prospettive nuove nel mercato della mobilità, concependo l’automobile come una commodity ed un sistema di servizi. Sarà un terremoto come quello che ha colpito i fabbricanti di computer grandi come un edificio di fronte ai primi Pc, una rivoluzione della mobilità come quella che internet e i cellulari hanno operato sui modelli della comunicazione. (3 – fine)


Il primo articolo dedicato alla spiegazione dei problemi di natura tecnologica tra endotermico, ibrido, elettrico puro e idrogeno
Il secondo artcolo dedicato alle normative europee sulle emissioni


 




auto elettriche (?) 2 – di Lorenzo Baldi

È impossibile affrontare il tema della mobilità sostenibile senza dare uno sguardo al complesso quadro delle normative, soprattutto europee. Le norme antinquinamento guidano, come abbiamo visto, da decenni l’evoluzione tecnica dei motori endotermici, introducendo crescenti costi industriali e di ricerca e sviluppo.

Ma ciò che più determina oggi le scelte strategiche delle case automobilistiche in Europa è il sistema di incentivi e sanzioni cui sono soggette a partire dal 2021: 95 € per ogni grammo di CO2 prodotto dalle auto vendute, oltre la soglia media di 95 gr/km di CO2 per tutta la gamma (soglia da ridursi a 75 gr/km nel 2025 e 50 gr/km nel 2030), con correzioni al ribasso per le auto più piccole e meno pesanti e incentivi per quelle che emettono meno di 50 gr/km.

Nel 2019 la media delle auto vendute in Europa emetteva 122 gr/km che corrisponderebbero a circa di 15 miliardi di € annui in sanzioni a carico dell’industria. Non solo, dal 2018 al 2019 questo valore è cresciuto, per l’aumento di peso dei veicoli, per il diffondersi dei SUV, che hanno maggior peso e minore penetrazione aerodinamica, e per la crisi delle vendite di motori diesel che, pur emettendo meno CO2 degli omologhi a benzina, si sono circondati di pessima fama durante il dieselgate e guadagnati l’ostracismo delle amministrazioni comunali metropolitane a causa dell’emissione di polveri sottili e NOX (con valori, in realtà, non così alti, per i motori che rispettano le vigenti normative Euro 6).

Annullare le multe comporterebbe la vendita del 20% di auto elettriche, o di un numero ancor superiore di ibride plug-in, obiettivo che non sembra praticabile nell’immediato. La risposta delle case non si limita quindi ad approntare nuovi modelli elettrici ma è piuttosto articolata, con la revisione delle gamme, il downsizing, l’introduzione massiccia di sistemi mild-hybrid e hybrid plug-in.

Si può quindi affermare che l’effetto delle norme europee non porta direttamente verso la diffusione dell’auto elettrica, inducendo piuttosto le case ad una progressiva elettrificazione di tutta la gamma, con l’implementazione di soluzioni tecniche differenziate. La normativa ha anche qualche effetto distorsivo, spingendo i costruttori a soluzioni di tipo ibrido – più accettabili immediatamente dal mercato – piuttosto che verso scelte strategiche in direzione dell’elettrico puro o dell’idrogeno, pianificate a lungo termine.

Negli Stati Uniti di Biden, inoltre, assisteremo certamente ad una ripresa dei temi ambientali, dopo la parentesi trumpiana cui si erano allineate General Motors, Toyota e Fiat Chrysler, nella speranza di un importante allentamento normativo sulle emissioni.

La risposta dell’industria.

L’approccio dell’industria all’elettrificazione è differenziato. Tesla nasce come fabbrica di auto solo elettriche, con lo sguardo fisso al traguardo della guida autonoma. Ma si specializza in veicoli di alta gamma, in concorrenza con modelli come Bmw Serie 3 o Serie 5 e Mercedes Classe C o E, nella fascia di prezzo 50-100.000 € (tutti i prezzi citati sono al lordo di eventuali incentivi). Al momento è l’unica casa a commercializzare numeri significativi, nell’ordine dei 500.000 veicoli elettrici nel mondo.

C’è poi Volkswagen che, a seguito dello scandalo dieselgate, ha effettuato una scelta strategica in direzione dell’elettrico. Nel quinquennio 2020-2025 ha investito 27 miliardi di € in ricerca e sviluppo sulle tecnologie digitali e di guida autonoma, 11 miliardi sulle tecnologie ibride e 35 per l’elettrico. Sono previsti 70 nuovi modelli elettrici entro il 2030, il primo dei quali è un modello comparabile alla Golf, la ID3 (> 40.000  €), che ha debuttato in concessionaria durante la pandemia ed è stato venduto, nel mondo, in 56.500 esemplari nel 2020.

Gli altri costruttori sembrano cercare più flessibilità e sono meno decisi nella strategia verso l’elettrico. Tutti i listini, ormai, pullulano di soluzioni ibride e ogni costruttore ha almeno una proposta completamente elettrica. Ma, da parte delle case, ci sono significative obiezioni contro l’elettrico a batteria.

Akyo Toyoda, CEO di Toyota, ha di recente dichiarato che l’auto a batteria è sovrastimata, che l’energia, in Giappone, non basterebbe per alimentare un intero parco circolante di Ev e che l’intera industria del settore è messa a rischio dalla corsa sfrenata in questa direzione (il riassunto delle dichiarazioni è preso da “Quattroruote”).

Luca De Meo, il manager italiano da poco a capo di Renault, e Carlos Tavares, AD di Stellantis, hanno ambedue lamentato il fatto che i costi sono molto elevati e che ci vorrà molto tempo perché i volumi di produzione consentano di realizzare economie di scala, rendendo il prezzo dei veicoli elettrici comparabili con quelli dei modelli a motore endotermico.

Sembra essere questo, insieme alle normative CE, il tema che, per ora, struttura il mercato. I modelli elettrici o appartengono ai segmenti più elevati e offrono prestazioni molto (e inutilmente) elevate, o sono veicoli cittadini “premium”, con un prezzo da 3 a 4 volte quello di una city car a benzina. Conferma questo posizionamento verso i ceti benestanti con elevata sensibilità ambientale e le aziende con programmi avanzati di Responsabilità Sociale il fatto che gli allestimenti siano sempre estremamente ricchi di accessori, spingendo il prezzo ancora più in alto.

La presenza di consistenti e differenziati incentivi statali in molti paesi rende difficile una valutazione reale dei listini dei veicoli elettrici, i cui prezzi potrebbero essere sostenuti artificialmente, convogliando così parte degli aiuti di Stato nelle casse delle case costruttrici. (2-continua)


Leggi l'articolo di inquadramento auto elettriche (?) 1





auto elettriche (?) 1 – di Lorenzo Baldi

Quando un anglosassone parla di uno come me, lo definisce un “petrolhead”, in italiano testa di benzina. Sarà che sono nato a non grande distanza dallo stabilimento Fiat di Mirafiori, sarà che ho imparato a leggere Quattroruote quando frequentavo ancora l’asilo, la mania dei motori, a due e quattro ruote, non mi ha mai lasciato e ha consumato una parte dei miei risparmi.

Questo per dire che, per come sono fatto, la virata dell’industria automobilistica in direzione della propulsione elettrica, mi getta in uno stato di lutto, o, eventualmente, mi suggerisce una sorta di ribellismo à la Trump, ormai, per fortuna, un po’ démodé. All’idea dell’automobile come un giocattolo rotto, però, si affianca la constatazione di un percorso insieme tecnologico e umano che, se pensiamo al ruolo centrale dell’automobile nella cultura industriale, prepara un cambiamento di grandi proporzioni nella nostra società.

Motori termici sempre più complessi

Si può condividere in misura totale, o affrontare con qualche scetticismo, il tema dell’origine antropica del riscaldamento globale, tuttavia la riduzione delle emissioni di CO2 è diventato un obiettivo condiviso in tutto il mondo, anche nei paesi di recente sviluppo industriale; ed è incontrovertibile che la qualità dell’aria delle grandi città e di grandi aree come l’intera pianura padana sia pessima, in buona parte a causa delle emissioni dovute alla mobilità.

Il contrasto all’inquinamento dell’aria dovuto ai motori a scoppio ha una storia trentennale, a partire dal 1993, anno in cui la Comunità Europea ha imposto l’impiego del convertitore catalitico nei sistemi di scarico degli autoveicoli con la norma Euro 1 (e da 10 anni prima per quanto riguarda il mercato U.S.A.). Da allora, possiamo leggere l’evoluzione della tecnica motoristica soprattutto in termini di mantenimento della prestazione, in presenza di normative ambientali sempre più stringenti.

La strada maestra è stata quella del miglioramento della combustione, abbinata all’impiego di dispositivi di abbattimento degli inquinanti nel sistema di scarico. Ne è derivata una crescente complicazione meccanica ed elettronica, della quale vale la pena ripercorrere le tappe.

Per quanto riguarda la combustione, l’iniezione, a partire dal 1989, ha sostituito completamente i carburatori: dall’iniezione indiretta si è passati all’iniezione diretta e multi getto, con pressioni del carburante sempre più elevate. Nello stesso periodo sono stati sviluppati sistemi di fasatura variabile delle valvole sempre più complicati e sofisticati, dal VTEC della giapponese Honda, passando per il Porsche Vario Cam, il Vanos/Valvetronic di BMW, per arrivare al Fiat Multi Air, un esempio di brillante ingegneria italiana.

Con la seconda serie della Nissan Micra, già nel 1992, i motori a 4 valvole per cilindro sono presenti anche nel segmento delle auto di piccola cilindrata. Nel 1997 il Gruppo Fiat, qualificandosi come grande protagonista dell’innovazione motoristica, ha montato, per la prima volta sull’Alfa Romeo 156 JTD, un motore diesel common-rail, con iniezione ad alta pressione, dando il via alla stagione dei motori diesel con basso consumo ed elevata guidabilità e prestazione.

Dalla seconda metà degli anni 2000 si è assistito ad una riduzione generalizzata della cilindrata dei motori (downsizing), sostituiti da unità più piccole e con potenza specifica superiore agli 80 Kw per litro di cilindrata, ottenuta attraverso il turbocompressore. Queste tecnologie sono ormai diffuse, con poche eccezioni, su quasi tutti i modelli dei diversi segmenti di mercato, dalla city car alla supersportiva.

Altre soluzioni, ancora più complesse, sono in corso di sviluppo o iniziale implementazione: ad esempio, motori con rapporto di compressione variabile (Infiniti VC-T), motori a benzina HCCI (Homogeneous Charge Compression Ignition) che accendono la miscela aria/benzina per compressione, come i Diesel (è già in commercio il Mazda Skyactiv –X); sistemi di distribuzione a controllo elettronico e comando elettromagnetico, la cui fasatura è controllabile in ogni istante, indipendentemente dalla rotazione dell’albero motore; turbocompressori ibridi (Mercedes), in grado di recuperare energia con un alternatore/motore elettrico che riduce drasticamente anche il tempo di risposta, come nelle attuali auto da competizione di F1.

Per quanto riguarda i sistemi che ripuliscono le emissioni del motore endotermico, ai convertitori catalitici (che hanno continuato ad evolversi) si sono aggiunti i filtri antiparticolato ed i sistemi di riduzione degli ossidi di azoto che, in molti casi, richiedono all’utente anche la gestione del rifornimento di un serbatoio di urea.

Il “rasoio” dell’ingegnere.

Il motore endotermico è una macchina con efficienza relativamente bassa per ragioni legate al II principio della termodinamica individuate ed analizzate già nel corso dell'800. Il rendimento non supera il 40% e raggiunge un picco del 55% negli attuali motori di F1, dotati di complessi sistemi elettrici destinati al recupero di energia. In termini di efficienza, grandi investimenti tecnologici producono quindi miglioramenti significativi ma non sostanziali.

La coperta si rivela anche piuttosto corta: nei motori diesel, per esempio, l’impiego di miscele magre per aumentare l’efficienza energetica eleva la produzione di ossidi di azoto; gli stessi motori diesel sono, in realtà, più efficienti degli equivalenti a benzina (e quindi più puliti in termini di CO2), ma producono PM10 e NOX in quantità elevate.

In questo contesto, la propulsione elettrica si presenta come il rasoio di Ockham: “Frustra fit per plura quod potest fieri per pauciora” (è futile fare con più mezzi ciò che si può fare con meno); ovvero  “Entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem" ("Non si moltiplicano gli enti se non vi è necessità di farlo").

Da un lato, migliorando l’efficienza, l’elettrico riduce comunque la produzione di CO2, indipendentemente dal modo di generare energia elettrica, e migliora la qualità dell’aria nei microambienti urbani più trafficati; dall’altro, semplifica drasticamente il veicolo, fino al punto in cui si temono importanti riduzioni occupazionali nel settore dell’assemblaggio e della componentistica.

Si tratta, anche, di una specie di ritorno al futuro: le prime notizie di elettromobili risalgono agli anni ’30 del XIX secolo. Negli ultimi anni di quel secolo, piccole flotte di taxi elettrificati circolavano a Londra e a New York. Nel 1899, in Francia, un veicolo elettrico (la Jamais contente) superò per la prima volta i 100 km/h. Questi tentativi si infransero davanti allo stesso ostacolo che, ancor oggi, l’elettrificazione della mobilità individuale si trova a fronteggiare: l’autonomia.

La propulsione elettrica, in sé, è dunque una tecnologia matura e gli stessi sistemi elettronici di controllo del motore sono stati sviluppati ormai lungo qualche diecina d’anni. Essa permette di recuperare energia in frenata e facilita enormemente il controllo del veicolo da parte dei sistemi di guida autonoma, mentre consente di disegnare chassis semplificati e modulari, collocando il peso delle batterie in basso, le ruote ai quattro angoli, senza sbalzi longitudinali, con vantaggi considerevoli in termini di abitabilità e vano di carico. I costi di manutenzione sono ridotti perché, di regola, non esistono né il cambio di velocità, né la lubrificazione del motore ed i freni sono molto meno sollecitati grazie al freno motore impiegato per il recupero di energia.

A prescindere dalle questioni ambientali, la propulsione elettrica è comunque credibile e, per certi versi, necessaria per aprire un nuovo ciclo industriale, riguadagnando una profittabilità che l’estrema complicazione dei veicoli endotermici ha relegato nelle fasce medio-alte del mercato e in presenza di brand molto forti sul mercato.

Ciò che, invece, appare piuttosto irrazionale e, comunque, con un valore transitorio, sembra essere la propulsione ibrida. Se consideriamo lo schema full-hybrid Toyota (che per prima ha implementato questa soluzione), il motore elettrico si presenta esclusivamente come un sistema di  recupero dell’energia in frenata, a fronte di una discreta semplificazione del motore a scoppio (un ciclo Atkinson aspirato, molto basico e abbastanza efficiente), e della trasmissione (un sistema di ingranaggi planetari).

Il cosiddetto ibrido plug-in è costituito da un sistema di propulsione elettrico con bassa autonomia (di norma 30-50 km) abbinato, con un significativo aumento di peso, ad un sistema endotermico di ultima generazione (con cambio automatico a doppia frizione); si configura così un insieme di organi meccanici ed elettrici molto complesso. Si è poi largamente diffuso il sistema mild hybrid, che consiste, solitamente, di un motore elettrico di piccola potenza che svolge insieme la funzione di avviamento, recupero di energia in frenata e aiuto al motore a scoppio nelle fasi di partenza da fermo, consentendo guadagni emissivi nei cicli di omologazione europei.

Con l’ibrido, la riduzione delle emissioni è variabile a seconda dei percorsi (massima in città, minima lungo le autostrade) e, nel caso delle plug-in” le normative di test sono inadeguate e certificano emissioni che sono realistiche esclusivamente in una piccola parte dei casi d’uso reali.

La distribuzione dell’energia e l’ansia da autonomia.

L’ostacolo principale che si oppone all’elettrificazione della mobilità individuale è quello della distribuzione dell’energia. Due sono le opzioni disponibili.

Le batterie ricaricabili dalla rete elettrica, la cui tecnologia è in rapida evoluzione, comportano diversi problemi di sostenibilità ambientale (in termini di peso, e quindi di minore efficienza del sistema veicolo, di costi energetici per la produzione e, infine, di costi di smaltimento a fine vita) e di sostenibilità etica (in considerazione delle condizioni dell’approvvigionamento delle materie prime nei paesi del terzo mondo).

Il costruttore giapponese Mazda è noto per il proprio approccio innovativo ai problemi dell’ingegneria del veicolo: impiega motori aspirati di cilindrata generosa, invece dei piccoli turbocompressi oggi in voga, ha mantenuto sempre attiva la ricerca sui motori rotativi Wankel, porta molta attenzione alla riduzione di peso.

Per il suo primo modello elettrico, un SUV di medie dimensioni, ha deliberatamente scelto di limitare l’autonomia a 200 km, dichiarando che un’autonomia superiore avrebbe prodotto un impatto ambientale non accettabile nel ciclo completo di vita del prodotto. Una filosofia diametralmente opposta a quella di Tesla che ha fatto delle prestazioni e dell’autonomia elevata una bandiera, in vista dell’immediata usabilità dell’auto elettrica in qualunque contesto e della sua diretta concorrenzialità con i modelli a propulsione endotermica..

L’auto a batteria si scontra inoltre con le abitudini e gli stili di vita degli utenti: la ricerca di colonnine di ricarica e i tempi d’attesa non brevissimi, anche con i sistemi di ricarica rapida ad alto amperaggio, collidono con la fretta inseparabile dalla vita urbana contemporanea, scoraggiano l’utilizzo professionale del veicolo quando sono necessari spostamenti a lungo raggio, richiedono importanti lavori di elettrificazione delle autorimesse ed una diffusione capillare di centraline stradali in vista della ricarica notturna.

L’auto a batteria si ambienta molto bene, invece, nelle situazioni di pendolarismo: ville e villette a schiera, tipologie abitative diffuse nella parte esterna delle aree metropolitane, sono facilmente attrezzabili con sistemi di ricarica notturna e lo stesso vale per i posteggi aziendali.

La seconda possibilità per distribuire energia pulita è quella basata sull’idrogeno, impiegato per produrre energia elettrica a bordo dei veicoli con l’aiuto di celle a combustibile. Si tratta di un’altra tecnologia relativamente matura, se pensiamo che è stata utilizzata nel programma spaziale Gemini, a metà degli anni ’60 del secolo scorso.

L’idrogeno può essere ricavato dagli idrocarburi, con un rilascio di CO2 nell’atmosfera più o meno controllato (il c.d. idrogeno blu), o per elettrolisi a partire da energia rinnovabile (idrogeno verde). I costi del processo elettrolitico sono oggi significativamente più alti ma si attende una forte riduzione nel prossimo decennio. Sono necessari investimenti molto elevati per portare la produzione di idrogeno a volumi compatibili con l’utilizzo per autotrazione, in navi e aerei o nel riscaldamento.

Inoltre, la distribuzione e lo stoccaggio dell’idrogeno sono temi che comportano, con altri ingenti investimenti, seri problemi di sicurezza, sia sul territorio che a bordo dei veicoli. Si va decisamente verso un futuro all’idrogeno nel trasporto pesante, dove per i pesi, le potenze e le autonomie in gioco, le batterie non sono un’opzione praticabile.

Possiamo citare i progetti di Scania, Mercedes, Toyota-Hino e le strategie di importanti paesi come Germania e Francia. In questa prospettiva si dovrebbe creare un’infrastruttura di base per la distribuzione dell’idrogeno lungo le autostrade, suscettibile di essere estesa abbastanza facilmente ai veicoli leggeri. Tra gli investimenti “green” del Recovery Plan europeo post-pandemia, lo sviluppo della produzione e distribuzione di idrogeno troverà sicuramente un posto significativo e, qui in Italia, è recente la presentazione del piano industriale Snam fino al 2024, che “punta a essere tra i pionieri nell’utilizzo dell’idrogeno come vettore energetico pulito del futuro”.

La prospettiva dell’auto a idrogeno è, al momento, controversa: la sostengono costruttori come Bmw, Toyota e Hyundai (le due case orientali hanno già a listino un modello a testa, ma in Italia, al momento, possono rifornirsi solo a Bolzano), mentre Mercedes ha recentemente abbandonato il progetto di un’auto a fuel-cell e Honda, una delle prime case a muoversi in questa direzione, lo ha sospeso. Dal punto di vista dell’autonomia, l’esperienza d’uso dell’automobile azionata dall’idrogeno resta molto simile a quella dei carburanti fossili, con rifornimenti di pochi minuti presso stazioni di servizio. Mentre dal punto di vista della guida, è assimilabile a quella di un’auto elettrica a batterie. (1 – continua)


Nel prossimo articolo il panorama delle normative europee in termini di emissioni e la risposta delle case automobilistiche





dal netWorking al notWorking – di Giovanni Cominelli

Il 14 settembre sarà il D-Day della scuola italiana? Un esercito disorientato di 7.599.259 alunni delle scuole statali, di circa 870.000 alunni delle scuole paritarie, di 835.489 insegnanti, di 7.859 dirigenti, di 203 mila ATA, di circa 15 milioni di genitori sta recandosi all’appuntamento fatale del 14 settembre, quando le scuole apriranno i battenti.

Perché fatale? Perché, a dispetto dell’ottimismo di maniera – “andrà tutto bene!” – il Covid-19 non sta mollando la presa, così che l’imprevedibilità degli scenari si è venuta accentuando. Se nella fase iniziale dell’epidemia gli Ospedali hanno funzionato da bomba biologica, è concreto il rischio che questo ruolo venga assunto dalle Scuole, popolate da bambini e adolescenti eventualmente infettati, per lo più asintomatici, e pronti a redistribuire in famiglia il micidiale virus.

Perché disorientato? Per molte ragioni: i mille Decreti governativi, con il corteo inevitabile di Decreti attuativi e di regolamenti; gli scontri tra Governo e governi regionali sui tempi di ingresso nelle scuole, sui banchi – con o senza rotelle? – e sulle mascherine con l’appendice logistica delle rime buccali; gli allarmi degli esperti; la renitenza crescente degli insegnanti alla leva.

Stretto tra l’insostenibilità sociale di una serrata a tempo indeterminato degli Istituti scolastici – le famiglie hanno ben presto incominciato a protestare – e il rischio di trasformare ogni Istituto scolastico in una centrale di contagio, il Governo si è mosso in ritardo, in modo goffo e incerto.

Nonostante le scuole siano state chiuse con il DPCM del 4 marzo 2020, il Piano scuola è stato inviato alle Regioni per la prima volta solo il 23 giugno, cioè oltre 3 mesi dall’inizio dell’emergenza, e dopo essere stato discusso nella Conferenza Unificata con le Regioni solo il 25 giugno.

Il primo segno ufficiale di vita è stato dato dal Governo solo il 26 giugno, sotto la pressione crescente delle manifestazioni di piazza dei genitori e nonostante le resistenze dei sindacati, che controllano di fatto la politica del Ministero. In quel giorno, il Presidente del Consiglio e la Ministra Lucia Azzolina hanno presentato le Linee Guida per la riapertura delle scuole, intitolate “Documento per la pianificazione delle attività scolastiche, educative e formative in tutte le Istituzioni del Sistema nazionale di Istruzione”.

Perché tanto attendismo? Perché dell’universo scolastico interessano, da sempre, solo le potenzialità di consenso elettorale, che sono fornite principalmente e immediatamente dalla massa degli 800 mila insegnanti e da quella dei precari che ci girano intorno. La Ministra del M5S non ha dimenticato che nelle elezioni del 2018 il 41% degli insegnanti ha votato il suo partito. Quanto all’altro partner dell’alleanza giallo-rossa, il PD, dopo il sostanziale fallimento dell’operazione Buona scuola, pare avere abbandonato definitivamente il terreno di battaglia, delegando totalmente le politiche alla Ministra pentastellata. Ha fatto più politica scolastica la Ministra della Famiglia, Elena Bonetti, di Italia Viva.

Tuttavia, in questi giorni di fine agosto, si sta gonfiando la questione dei docenti, di quelli che non vogliono rientrare in servizio e di quelli che mancano. Il Governo ha deciso di invitare gli insegnanti a fare i tamponi. Ci si aspettava che, trattandosi di funzionari” dello Stato, chiamati a svolgere una funzione pubblica, il Governo li rendesse obbligatori. Invece sono rimasti “volontari”.

A questo punto, molti insegnanti non li vogliono fare, con le motivazioni più disparate: che li hanno già fatti, o perché già colpiti a suo tempo direttamente da Covid-19 o perché già coinvolti in quarantene familiari; perché sono considerati inutili o utili solo per un giorno – oggi risulto immune al tampone, domani no – ; perché, se risulto “positivo”, automaticamente la mia famiglia finisce in quarantena, compreso il coniuge che lavora…

Intanto, sono incominciate ad arrivare centinaia di lettere ai Presidi, in cui i docenti denunciano la propria condizione di “fragilità” e chiedono/annunciano pertanto di restare a casa in malattia. E’ noto che l’età media dei docenti italiani è la più alta al mondo. Lo segnala il Rapporto dell’Ocse sull’istruzione, “Education at a Glance 2019”: circa il 60% dei docenti è ultra-cinquantenne. Contemporaneamente l’Italia ha la quota più bassa di insegnanti nella popolazione di età compresa tra i 25 e i 34 anni.
La tragedia del Covid sta facendo esplodere un bubbone infiammato da anni: quello della politica del personale scolastico.

Dal 5 marzo una quota notevole di insegnanti, variabile da scuola a scuola, da territorio a territorio, non ancora quantificata – ma forse non lo sarà mai – se l’è data a gambe, come gran parte dell’Amministrazione pubblica: stipendio assicurato, lavoro impossibilitato.

D’altronde, il Net-working non è previsto dai contratti, come prontamente hanno sottolineato e continuano a sottolineare i sindacati. I quali si sono subito cimentati in interrogativi degni della scolastica medievale: se uno è a casa in quarantena, è obbligato al Net-working? No, perché la quarantena è una malattia. Così il Net-working si è subitamente trasformato in Not-working. Ovviamente retribuito. E le poco sudate ferie? Non si potrebbero anticipare? No, sono regolari solo se fatte ad agosto.
Si potrebbe indugiare moralisticamente sulla scarsa tendenza all’eroismo dei nostri docenti, ma chi si sente eroe del Covid-19 scagli pure la prima pietra!

Occorre una spiegazione meno moralistica della caduta massiccia di senso civico e di deontologia professionale di molti docenti. Alle spalle sta una mutazione antropologica, che ha cause ben individuabili. Con l’avvento della scuola di massa, dopo l’introduzione della Nuova Scuola Media nel 1963, gli insegnanti sono aumentati, appunto, in modo massiccio e si sono trasformati, dopo il periodo “eroico” degli anni ’60-primi anni ’70, in una massa di funzionari statali, fortemente sindacalizzati, sempre meno ideologizzati – di per sé non era un male – rigorosamente attenti ai propri diritti, veri o presunti, reclutati a caso, nonostante i concorsi o proprio a causa della casualità dei concorsi, pagati discretamente, rispetto agli altri dipendenti statali, ma poco rispetto alla funzione civile e nazionale oggettiva chiamati a svolgere.

Il passaggio dall’insegnante-missionario, dotato di vocazione culturale e civile, all’insegnante-impiegato è stato fortemente perseguito dall’Amministrazione ministeriale e dai sindacati: dall’Amministrazione, che segue fatalmente una filosofia di standardizzazione burocratica dei comportamenti; dal sindacato, che co-gestisce direttamente poteri e benefit dall’interno e gestisce una professione sempre più svalutata socialmente. E la politica: salvo lampi di riformismo, si è accodata. Gli insegnanti hanno sempre rappresentato una notevole constituency elettorale, spostatasi a sinistra, ma oggi al 41% verso il M5S. Guai a chi la tocca.

La condizione attuale della categoria – invecchiamento crescente, scarsità di vocazioni, eroismo missionario di una minoranza, troppi insegnanti per caso – è effetto di politiche, di cui l’avvento inaspettato del Covid-19 ha messo a nudo la miseria culturale, l’opportunismo elettoralistico, l’irresponsabilità civile.

Il problema sono i docenti, a questo punto? No, è la politica, che non ha costruito lungo i decenni un profilo istituzionale e sociale autorevole del docente, non lo retribuisce, non lo valorizza, non lo valuta, non ne differenzia carriere e stipendi. L’assunzione frettolosa, ma non troppo, di 50 mila nuovi insegnanti – gli Istituti sono 41 mila – non basta a riempire i vuoti dovuti a pensionamenti e a Quota 100. I sindacati hanno calcolato che serviranno circa 250 mila supplenti. Non c’è nessun traccia di consapevolezza né nella Ministra né nel Governo, né nel M5S né nel PD della condizione drammatica cui si sta avviando la scuola italiana.