regole di guerra tra bambini

nuvola ceriani sassi

Quando ero bambino la banda della mia strada si scontrava con la banda dell’altra via.
Facevamo azioni di disturbo con insulti e urla per spaventarli. Qualche volta ci picchiavamo in furiosi corpo a corpo, ma c’era una regola: era proibito tirare i sassi.

Per definire questa regola avevamo fatto un “incontro di pace”, una vera e propria trattativa con Ambasciatori delegati dalle due bande (lo ammetto: eravamo un po’… burocratici!). Le due delegazioni erano costituite da due banditi per ogni banda.

Per la mia banda eravamo stati selezionati io, perché ero il più alto, e il Carta perché era quello intelligente. Il Carta era chiamato così perché aveva sempre in tasca un foglio di carta e una matita, con cui segnava i punti delle partite di calcio.

L’incontro si tenne in territorio neutro, davanti al macellaio. I delegati dell’altra banda arrivarono in quattro! Pensavo fossero venuti in tanti per picchiarci, ma uno di loro ci ha spiegato perché erano in quattro invece di due.

Io non ho capito la spiegazione, ma il Carta si, o almeno fingeva di avere capito. Oggi penso che l’altra banda in realtà fosse un Circolo del PD e la delegazione fosse composta da un membro per ogni corrente…

Comunque l’incontro al vertice andò bene e il Carta scrisse la regola: “Le due bande possono picchiarsi, ma non possono mai tirarsi i sassi“. Purtroppo però il Carta aveva un solo foglietto. Chi lo doveva conservare? Noi o l’altra banda?

Dopo un po’ di litigi decidemmo di lasciare il prezioso documento al macellaio, persona autorevole e al di sopra delle parti. Il macellaio si chiamava Galli. Gli mancava un dito di una mano, finito sotto i colpi di machete con cui tagliava la carne.

A volte immaginavo di mangiare il suo dito finito nella carne che compravo, ma quello che mi preoccupava di più era la gamba di sua moglie, la cassiera. La signora, infatti, stava sempre seduta alla cassa perché era senza una gamba (a Milano i bombardieri inglesi non regalavano noccioline…). Io pensavo alla gamba mancante, guardavo la carne in vendita sul bancone e poi a casa non volevo mangiare la carne trita.

Tornando al contratto scritto dal Carta, oggi capisco che avevamo definito la nostra “Linea Rossa Invalicabile”: non tirarci sassi. L’abbiamo sempre rispettata perché i bambini sono persone serie e sanno cosa sono le regole.

Anche gli adulti hanno l’abitudine di definire alcune “Linee Rosse Invalicabili altrimenti si ha l’Escalation”. Peccato però che gli adulti non abbiano a disposizione un autorevole macellaio. Per questo motivo ogni giorno i capi degli adulti valicano una “Linea Rossa Invalicabile” perché gli piace giocare all’Escalation con i corpi dei poveracci che non hanno i soldi per corrompere le incorruttibili guardie di frontiera e scappare dal loro Paese in guerra…




l’Oratorio maschile

1961 sessantesimo

1961 – festa per il 60° dell’Oratorio Maschile se ingrandite l’immagine riconoscete don Angelo Barzaghi e il parroco don Giacomo Gervasoni – accosciato sulla sinistra il dr. Biffi (dal sito della corale Mino)

L’oratorio maschile di Villasanta l’ho frequentato in maniera discontinua per via della parentesi in Collegio, ma ho comunque una serie di ricordi infantili che ho deciso di mettere per iscritto prima che i ricordi si perdano.

Le notizie sulla costruzione dell’oratorio, sulla successione dei preti e sulle attività più strettamente parrocchiali le trovate sul sito della corale Mino, una fonte preziosa: fondazione 1901, negli anni immediatamente successivi completamento della chiesa, nel 1922 il salone teatro-palestra, 1930 il porticato coperto, nel 1936 la casa del prete, nel 1950 arriva don Angelo che prende il posto di don Eugenio che, da lì in poi, si occuperà di scoutismo, e anche questa è una storia che andrebbe raccontata.

Nel 1907 nasce la Robur et Virtus. Nel 1949 ereditando esperienze precedenti nasce la società di calcio COSOV, alla fine degli anni 50 si forma il complessino Ubaldo e i 5 che allieterà le vicende villasantesi per tutti gli anni 60 ( Ubaldo chitarrista, Luigino Scaccabarozzi seconda chitarra, Angelo Brambilla fisarmonica, Lino Bonalumi sax, Giuseppe Magni tromba, Luigino Callegari alla batteria)

ortofoto del 1975 ho delimitato in bordeaux l’area dell’oratorio; la freccia verde indica la via Garibaldi – si osservi sulla destra l’enorme area con fabbrica, parco e villa della Rodolfo Piazza

L’edificio aveva l’ingresso da via Garibaldi ed occupava la zona ora occupata dalla via Leopardi (che non esisteva) e la palazzina della banca; più a est c’era la curt dal Palaset. L’oratorio era lungo e stretto e risaliva sino alla zona di piazza Europa dove scorreva una delle tante rogge che si dirigeva verso la Rodolfo Piazza (Fontana) che ne utilizzava le acque.

La facciata era in mattoni rossi e presentava un doppio ingresso, quello di accesso all’oratorio vero e proprio, che nei giorni di apertura era presidiato per evitare fughe fuori orario, e l’accesso alla casa di don Angelo che stava al primo piano.

Fuori dall’oratorio, in autunno e inverno, c’era l’omino delle caldarroste e prima di entrare, o anche nel pomeriggio, sotto lo sguardo vigile dei guardiani, si faceva la scorta di castagne belle calde e bruciacchiate.

Superato l’ingresso si entrava in un primo cortile asfaltato dove c’era il campo di basket e, sotto la casa di don Angelo, il bar, completamente gestito da volontari (il responsabile ai miei tempi era uno della curt dal nustran): le stringhe di liquerizia, i gommoni, i gelati Eldorado tra cui la banana, il Seven Up,la gazzosa, la spuma a bicchieri, le pesche, che credo arrivassero dalla pasticceria Viganò, i croccanti. Ci facevamo fuori buona parete della mancia della domenica.

1962 la squadra di basket dell’oratorio; in piedi da sinistra Isella, Magni, Crippa, Messa, Scaccabarozzi e accosciati Cereda, Noli, Galbiati, Corno, Mondonico

Sulla sinistra del cortile adattato a campo di basket c’erano alcuni locali a disposizione per le riunioni dell’Azione Cattolica e credo che lì si siano fatti anche i primi incontri del Circolo Studentesco. Sicuramente lì ho utilizzato il primo ciclostile della mia vita, di quelli ad alcool, in cui l’inchiostro stava direttamente sulla matrice battuta a macchina e veniva sciolto e impresso con l’alcool. Naturalmente si potevano fare solo poche decine di stampe perché poi la matrice si esauriva.

In quegli anni, e anche dopo, l’epopea del basket l’hanno fatta le ragazze dell’oratorio femminile che, per disposizione della superiora giocavano con il gonnellino (indecenti i pantaloncini): Anna Teruzzi, Rosangela Varisco, le nostre campionesse.

Al termine del campo da basket, messo trasversalmente, c’era il cinema-palestra. Ci si accedeva da una specie di galleria che al piano di sopra ospitava la macchina da proiezione e, come dice il nome, il cinema-palestra aveva una funzione duplice. Normalmente, infatti, fungeva da palestra con sul fondo le attrezzature per la ginnastica della Robur et Virtus.

1926 la squadra della Robur sul campo dell’oratorio (dal sito della Robur et Virtus).

Per noi bambini le evoluzioni di Pierluigi Assi e degli altri della squadra agonistica degli anni 60 erano prodigi: i volteggi alla sbarra, quelli alle parallele, le evoluzioni sulla trave. Mi impressionavano particolarmente le rotazioni alla sbarra e i salti finali in uscita con la saponaria che salvava lo stato delle mani.

Nel pomeriggio della domenica si spostavano alcuni degli attrezzi e si mettevano giù quelle sedie pieghevoli in legno fatte a listelli che si trovano ancora in ogni comunità; così si proiettava il film della domenica; prevalentemente western in bianco e nero con la pellicola che ogni tanto saltava tra urla e fischi. L’acustica era quella che era con le pareti nude e squadrate.

Al di là del portico soppalcato del cinema si arrivava al cortile, grande, rigorosamente in terra battuta e luogo di tante partite di calcio a sette. Come in tutti gli oratori che si rispettino c’era, in fondo al cortile, la Chiesa; le caratteristiche le vedete nella foto.

chiesa oratorio

chiesa oratorio del Redentore (dal sito della corale Mino – Alfredo Oggioni)

Doppio utilizzo: la domenica mattina c’era una messa piazzata tra le due della parrocchia delle 9 e delle 11 e frequentata dagli oratoriani. Oltre a don Angelo si vedevano anche don Enrico Rossi e don Giulio Oggioni (che stava a Venegono e poi sarebbe diventato vescovo di Bergamo). Don Giulio si occupava di seguire i giovani più acculturati.

La domenica nel tardo pomeriggio, a segnare il game over della giornata c’era la benedizione eucaristica con il canto del Tantum Ergum Sacramentum e della Salve Regina, rigorosamente in latino; don Angelo con ricchi paramenti, un po’ di incenso, dava la benedizione con l’ostensorio, poi tutti a casa. Ma naturalmente d’estate l’oratorio era aperto anche nei giorni feriali e prendeva il posto dei giochi di cortile che si facevano nel resto dell’anno.

Di tutto quello rimane ora solo una vecchia cabina elettrica di distribuzione, che stava sul lato destro della chiesa in un punto dove si riusciva a scavalcare; prima o poi verrà demolita anche quella.

Tantum ergo sacramentum
veneremus cernui
et antiquum documentum
novo cedat ritui.
Praestet fides supplementum
sensuum defectui.
Genitori genitoque
laus et jubilatio
salus, honor, virtus quoque
sit et benedictio.
Procedenti ab utroque
compar sit laudatio.
Amen.
Salve, Regína,
Mater misericórdiae,
vita, dulcédo et spes nostra, salve.
Ad te clamámus,
éxsules filii Evae.
Ad te suspirámus geméntes et flentes
in hac lacrimárum valle.
Eia ergo, advocáta nostra,
illos tuos misericórdes óculos
ad nos convérte.
Et Iesum, benedíctum fructum
ventris tui,
nobis, post hoc exsílium, osténde.
O clemens, o pia, o dulcis Virgo María!

Altri articoli che completano la biografia si trovano alla pagina racconti

 




quando il motore va in fuga

Dobbiamo andare indietro nel tempo alla primavera del 65, quasi sessantanni fa. Facevo la quinta elettrotecnica all’Hensemberger, la scuola in cui, molti anni dopo ho fatto il dirigente scolastico.

Le ore di laboratorio erano una cosa seria e, se non ricordo male, facevamo 8 ore la settimana di misure elettriche (due pomeriggi di 4 ore). L’elettrotecnica la studiavamo proprio bene con il mitico ingegner Bellini (che vedete nell’ultima fotografia insieme alla intera classe in visita alla Ercole Marelli di Sesto S. Giovanni che produceva grandi macchine elettriche e che ha costruito anche i grandi trasformatori della centrale di Bargi). A misure avevamo un ITP capace che si chiamava Arosio e un docente teorico non altrettanto valido, ma tanto ai difetti di insegnamento sopperiva l’Olivieri Ravelli (che aveva un intero volume, dei tre, dedicato alle misure, oltre a elettrotecnica generale e macchine elettriche).

Studiate le macchine elettriche, in quinta si facevano misure sulle macchine: funzionamento a vuoto e a carico, macchine in c.c. e in c.a., sistemi trifase su motori, dinamo, alternatori, trasformatori.

Il laboratorio dell’Hensemberger, fatto a rettangolo, era bellissimo con tanti banchi per le misure comandati da una consolle. Alcuni banchi avevano accesso alle macchine che erano sul lato lungo opposto agli ingressi, quello con i finestroni lungo via Cavallotti.

Si trattava di gruppi di due macchine che potevano comunicare elettricamente attraverso la rete sui nostri banchi: motori asincroni con freno per simulare un carico, dinamo, motore a corrente continua meccanicamente collegato ad un alternatore e proprio di questo vi voglio raccontare.

L’esperienza madre di tutte le misure è quella di simulare cio che accade nelle centrali: il funzionamento di un alternatore che viene collegato alla rete di distribuzione della energia elettrica. Nel fare questa operazione bisogna che l’alternatore giri alla velocità angolare giusta perché tutte le reti di distribuzione funzionano in corrente alternata a 50 Hertz (cioè la corrente, 50 volte al secondo, segue una sinusoide completa) e anche il tuo alternatore prima di essere connesso deve andare a 50 hertz. Se si tratta di una macchina a due poli dovrà fare 3000 giri al minuto, a 4 poli 1500, a 8 poli 750 e così via.

Per conoscere quando è il momento giusto per collegare l’alternatore alla rete non c’era bisogno di sofisticati frequenzimetri, ma si usava un geniale metodo che sfruttava un sistema di 3 lampadine (con un polo collegato all’alternatore e l’altro alla rete) che si accendevano a turno ruotando e ti dicevano se l’alternatore andava troppo svelto o troppo lento mentre smettavano di ruotare quando si arrivava al sincronismo.

Dunque si procedeva in questo modo:

  • si faceva partire un motore asincrono trifase, di quelli che si usano in tutte le applicazioni industriali in tutto il mondo perché sono robusti, indistruttibili e facili da costruire (questo e anche altro che viene dopo) sono tutte cose inventate da fisici e ingegneri italiani tra fine 800 e inizio 900. Il motore asincrono era collegato meccanicamente ad una dinamo. La dinamo produce corrente continua e si può regolarne la tensione di uscita agendo sul circuito di comando del campo magnetico (cosa che facevamo dai banchi).
  • La corrente continua prodotta dalla dinamo la usavamo per comandare un motore a corrente continua che ha la possibilità di regolare facilmente la velocitàsia agendo sulla tensione di alimentazione sia sul campo magnetico del rotore. Il motore era collegato meccanicamente ad un alternatore. Variando la tensione di alimentazione del motore si può far variare la sua velocità di rotazione che risulta essere proporzionale a tale tensione e inversamente proporzionale al flusso del campo magnetico a sua volta determinato dalla corrente che mandiamo nelle bobine dei poli del motore. Questo è un punto cruciale, se in un motore a c.c,. per una ragione qualsiasi, viene a mancare il campo magnetrico la velocità di rotazione tende a infinito (si dice che il motore va in fuga). Si variava la tensione della dinamo che faceva cambiare la velocità di rotazione del motore e dunque l’alternatore incominciava a produrre energia elettrica trifase con una frequenza dipendente dalla velocità di rotazione. Il valore di tensione prodotta dipende oltre che dalla velocità anche dal campo magnetico dell’alternatore ed agendo su quello controllavamo la tensione in uscita.
  • quando la frequenza (lampadine) e la tensione erano quelle giuste abbassavamo gli interruttori e ci collegavamo alla rete e, spegnendo la alimentazione del motore a c.c., l’alternatore diventava un motore sincrono con velocità assolutamente fissata dalla frequenza della rete e il motore a c.c. diventava una dinamo.

Nella realtà delle centrali c’è l’alternatore ma, al posto del motore a c.c. c’è la turbina anche se lo schema concettuale del processo è lo stesso. Tutto bello. I comandi li davamo dai nostri banchi che erano collegati tra loro e agli strumenti di misura atraverso quei cavi con connettore a banana che si trovano in tutti i laboratori. Eravamo felici di avercela fatta ma uno di noi, non ricordo chi, invece di staccare la alimentazione del motore a c.c. ha staccato la alimentazione del campo magnetico del motore stesso.

Questione di un attimo: il motore ha cercato di andare in fuga ma l’alternatore ormai connesso alla rete non poteva andare a una velocità superiore e gli impediva di farlo. Dunque trovando qualcosa che lo frenava senza scampo il motore ha cominciato a chiedere più corrente alla dinamo.

Sono saltati tutti gli interruttori di protezione ma prima di ciò il laboratorio si è riempito di fumo; erano evaporate in un attimo tutte le protezioni di isolamento dei cavi che usavamo nei nostri banchi per mettere in funzione le macchine.

Alla centrale di Bargi non è andata così perché oggi quelle macchine elettriche sono piene di elettronica che allora non si usava ma quando ho sentito che i lavoratori presenti hanno parlato di uno strano rumore proveniente dall’alternatore la mia memoria è andata al 1965.




Gino Strada prima di Emergency (personale) – di Tiziano Marelli

Adesso che ho quasi del tutto metabolizzato la scomparsa di Gino Strada posso scrivere il ricordo che ho di lui. Ed è diverso da quello di tanti altri perché parte da molto lontano, da ben prima che lui diventasse il personaggio straordinario che tutti abbiamo avuto modo di ammirare e compiangere.

Era l'inizio degli anni 80 e ci conoscemmo quando la mia compagna di allora entrò a far parte dell'equipe del Pronto Soccorso del Policlinico di Milano, un'eccellenza allora universalmente riconosciuta che aveva nella figura di un chirurgo d'assoluta unicità come il professor Vittorio Staudacher un baluardo solidissimo.

Oltre a Gino c'erano altri personaggi incredibili, tutti parte di quella che si può definire buona borghesia milanese. Fra gli altri il fratello della seconda moglie del prefetto di Palermo ucciso dalla mafia, il figlio del più grande poliziotto che Milano ricordi (ancora adesso mio buon amico), il fratello del direttore di un gionale di destra appena passato alla concorrenza sempre dalla stessa parte politica.

In più, la leadership del gruppo era contesa fra Gino e un collega che porta lo stesso cognome del segretario attuale del partito più razzista e anti-solidale del nostro Paese: si vede che era parte del suo karma la contrapposizione con quel tipo di "discedenza", e questo mi fa sorridere.

Gino era personaggio un po' scorbutico e scontroso, ma anche dotato di un umorismo unico che talvolta poteva risultare macabro visto che verteva spesso su episodi del lavoro che facevano tutti loro, ma era impossibile non sorriderne. Ho saputo  solo poi che aveva fatto parte dei katanga dell'Ms, anche se il termine mi è sempre sembrato un retaggio ridicolo fin da allora, visto che anche noi non eravamo da meno sulle strade di Milano, e forse noi due ci siamo incrociati anche lì ben prima: la mia organizzazione e la sua si vedevano come il fumo negli occhi, ma con i caschi addosso era difficile  riconoscere i volti di chi ti stava di fronte.

In ogni caso per lui Emergency era un termine che faceva parte del suo vocabolario da sempre. Lo usava quando c'era un'urgenza in ospedale, e mi ricordo che una volta lo usò anche  a cena a casa nostra. Disse proprio così: "Emergency, emergency! Quando si mangia che ho fame!".

È successo più di una volta di organizzare "cene di reparto" e lui veniva con Teresa, che ricordo donna dolcissima e dal sorriso splendido. Una di quelle sere c'era anche una mia amica che con quel gruppo non c'entrava niente se non per i suoi studi (interrotti) in medicina. In silenzio mi prese da parte e mi disse: "Ma quello è Strada, un picchiatore del Movimento Studentesco!". Fu così che lo venni a sapere, e la cosa incredibile è che la famiglia di quell'amica venne poi coinvolta pesantemente nelle indagini dell'omicidio Sergio Ramelli, e le conseguenze credo le siano poi pesate per sempre. Con lei dopo pochi anni ci perdemmo di vista, ma questa è un'altra storia che è meglio non rivangare tanto mi provoca orrore e dolore.

Passò del tempo e persi di vista anche Gino, ma quando lavoravo alla comunicazione di Fininvest – alla metà degli anni 90 – lo cercai, proponendomi come volontario dell'ufficio stampa di Emergency, che ormai cominciava a diventare un'organizzazione nota. Lo feci, è fin troppo facile capirlo, per compensare una professionalità obbligata con le mie convinzioni politiche personali: un modo scontato per "bilanciare" e – come dire? – acquietare la mia coscienza.

Andai a trovarlo in un locale che il Comune di Milano aveva messo a disposizione di Emergency: erano passati anni, ma mi accolse insieme a Teresa come un fratello. Accettò felice e frequentai quel posto solo per qualche settimana perché scoprii ben presto quanto fosse impossibile conciliare le due situazioni e – mi era appena appena separato – che non potevo vivere di volontariato, quindi dovetti rinunciare a malincuore all'impegno. Glielo dissi, e lui capì benissimo la situazione.

Ricordo comunque che era tutto ancora in fase embrionale, che regnava sovrana una confusione costruttiva e che era chiaro per tutti quelli che vi operavano come sarebbe stato importante il futuro di un impegno così gravoso. La malinconia per non aver continuato quel percorso che chissà dove mi avrebbe portato non mi ha mai abbandonato, ma non poteva essere che così.

Io e lui ci incontrammo ancora qualche volta in occasioni "ufficiali" e Gino fu sempre molto cordiale, come se ci fossimo visti il giorno prima: come ho già avuto modo di dire in altre occasioni, è questa la cifra che ben testimonia di un legame che il tempo non può interrompere. La notizia della sua scomparsa mi ha procurato un dolore strano che sa di perdita di un pezzo di vita, dell'ineluttabilità di quello che deve accadere. Oltre al suo tanti altri pezzi se ne sono andati ultimamente, ma chi ci pensava mai solo qualche anno fa? Riposa in pace, amico mio: te lo meriti come pochi altri al mondo.

 




viaggio parallelo di un dito e un capitone – di Arturo Cioffi

6, 6, 6 il segno del diavolo … Filomena C., la Levatrice di Cerreto Sannita, sorrise e si leccò le labbra: c’era alle viste un’altra buona occasione.

Mia madre, intanto, madida di sudore, si torceva sul letto avvolta dalle doglie di un parto difficile. Si era in piena estate. Quando le cose andavano storte, era il momento di chiamare il Medico, il dottor Michele M. Medico e Levatrice, in paese, anche quando venivano nominati si capiva che si dovevano scrivere con l’iniziale maiuscola. A differenza di fravecatore (muratore), scarparo, pecoraro e tanti altri mestieri da presepe che in paese venivano detti, scritti e vissuti rigorosamente in minuscolo.

La levatrice, da qualche tempo, tendeva a drammatizzare le situazioni, sempre più spesso, e sentenziava: "Qua bisogna chiamare il dottore”.  Anche durante la guerra, nell’antico paese, sede vescovile, circondato da monti erbosi che d’estate ardevano, allignava la lussuria. I due erano diventati amanti nel corso di un parto podalico risoltosi positivamente ed avevano continuato a vedersi nelle uniche occasioni che sfuggivano allo stretto controllo sociale: i consulti durante le emergenze perinatali.

Il parto in casa, a quei tempi, avveniva in situazioni igieniche da Burkina-Faso, eppure i due avanzavano la pretesa pseudoscientifica di far evacuare la stanza dalla solita folla di comparse femminili che, senza saperlo, esercitavano di norma un ruolo maieutico. A volte però rompevano i coglioni. Nel frattempo mio padre, prudenzialmente, era andato sulle linee americane. Cercava un dottore esperto e medicine, più che altro antisettici, che non se ne trovavano. Riscuoteva il credito di essersi arrischiato a Benevento, tra ponti rotti e macerie, per guidarli addosso ai tedeschi.

All’andata, da solo, aveva accoppato due della Wehrmacht, come Clint Eastwood. Ce lo tenne nascosto, e lo scoprii dopo la sua morte, da documenti che aveva mio zio. Nel ’68, sarebbe stato il reuccio delle osterie di sinistra se lo avesse raccontato. Ma mi vedeva troppo pericolosamente “inclinato” per darmi lo spunto a emulazioni fuori tempo e luogo.

Bisogna rendere la stanza asettica”, diceva il dottore e la levatrice, persona più alla mano, diceva “Sciò, sciò!” e con mimica inequivocabile cacciava tutti fuori.

Anche mentre stavo per nascere io, quel 21 luglio 1944, i due erano riusciti a restare soli. Mia madre era spossata da ore e ore di travaglio e giunta al punto cruciale non aveva più la forza di spingere. Filomena cominciò – come dire – a darle il ritmo: “E dai! Spingi! Di più, di più, sì, sì, sì! Daje ca mo vene o ‘ddoce, jammo bello, Michè".  Si dice che le donne al dolore del parto associno un piacere assimilabile a quello sessuale. Mia madre aveva solo doglie lancinanti, e con la poca lucidità che aveva percepì una nota stonata negli incitamenti di Filomena: aveva iniziato a spronare lei, propiziando le sue spinte e tenendola stretta per le caviglie. Ora la presa era fortissima e spasmodica, fino a farle male, e la levatrice era tutta scarmigliata e urlava in un crescendo partecipe, gonfiando le vene del collo, prona sull’alto letto… però – così parve alla mamma – non esortava lei a maggior vigore bensì il dottore. La inadeguata!

Stavo sul punto di affacciarmi alla vita ricoperto di liquido appiccicoso ed ebbi subito il flash, l’imprinting, direbbe l’amico degli animali. All’epoca i neonati nascevano ciechi per quaranta giorni, secondo la credenza popolare. Tutte balle. Ci vedevo benissimo ma mi mancava – difettando d’esperienza – la giusta chiave interpretativa. L’avessi avuta, la chiave, avrei visto quanto segue: Filomena curva sul letto aggrappata alle gambe della mamma, che mi alitava in faccia parole di conforto e sprone con tono orgiastico, il dottore che con una mano sentiva il polso della mamma, con l’altra sollevava la sottana della levatrice, poi le abbassava le residue difese tecniche sino al ginocchio, credo per darle aria e ristoro,  poi si avvinghiava a lei con un occhio rivolto alla partoriente e l’altro alla porta, indi iniziava, lui, a spingere al ritmo che Filomena in simultanea trasmetteva alla partoriente, poi abbassava il sipario, sistemava bretelle e pantaloni, si passava in fronte un fazzoletto, accendeva una sigaretta americana per sé e per l’amante, spalancava la porta per esclamare agli astanti: “ È nasciuto, è mascolo, putite trasì”.

Ripulito che fui dalla fanghiglia amniotica fu chiaro a tutti che avevo sei dita alle mani ed al piede sinistro. Sei, sei, sei, 666, il Segno di Satana.

IL CAPITONE È FEMMINA!

Il Segno ebbe una presenza – come dire – carsica, nella mia vita. Riapparve alla luce, sacrilegamente, ma era il suo mestiere, in un Natale di fine Millennio, nel corso del solito psicodramma che aveva come oggetto il mio precario equilibrio tra la Vigilia Napoletana (con i tuoi) e il Pranzo Nordista (con i suoi). Mai con chi vuoi.

Per il Pranzo Nordista a casa dei suoceri, di solito mi portavo appresso dei cibi identitari. La “tre giorni degli struffoli” era una delle prove più dure. Il primo giorno la preparazione della pasta e il suo misterioso riposo in frigo. Il secondo la riduzione della massa lievitata a cordoncini e poi a singoli ciciarielli. Gli appelli telefonici di mia madre a non sottovalutare le dimensioni degli struffoli crudi, ma a considerare quanto crescessero nel corso della frittura.

Quest’ultima, una sfida infernale e poi ancora riposo su lunghi sudari di carta assorbente. Il terzo giorno l’orgia della fusione del miele, l’amalgama, le cocozzelle candite, il cedro, le bucce di mandarino tritate ed infine l’aspersione con le allegre multicolori semenzelle. Mi fermo perché dovevo parlare del Capitone. Che per me è un po’ la Moby Dick di Gregory Peck, e per modestia non dico del Capitano Achab.

Ma non posso lasciar cadere per sempre il Segno del Diavolo originario, quello della nascita. L’informazione va completata, e precisata. Le tre dita soprannumerarie si presentarono come ciliegine di carne rosea, dotate di esile anima cartilaginea. Il dottor M. non si perse d’animo: spense la sigaretta in una tazzina di caffè e chiese una spagnoletta di Filofort. Ne ricavò un laccio strangolatore e con tre successivi gesti decisi troncò la breve ma non insignificante esistenza delle tre dita abusive, mentre io neonato nemmeno sentii dolore, assorto com’ero ad elaborare il senso del dionisiaco rito propiziatorio cui avevo precocemente assistito.

Fu allora che, a successivo esame del piede destro, venne notato il vero Segno. Era il ventiquattresimo dito, a questo punto retrocesso a ventunesimo, che si dipartiva dalla base del più piccolo, a novanta gradi verso l’interno, adagiandosi alla base delle dita ortodosse.

Aveva una solida struttura ossea, e a suo carico non venne preso provvedimento alcuno.È ancora lì, dignitoso e fiero, con i suoi tre centimetri apparentemente insignificanti. La coda del Serpente Kundalini, a voler fare una citazione intrigante. Però la testa, come si dice, era altrove.

Ma era dunque un Natale di fine Millennio e al signor Lui Remo, pescivendolo, titolare di “Non solo Cozze”, chiesi un bel capitone con aggiunta di ovvietà: che fosse vivo! Più vivo di così – ribatté Lui – prenda questo, che se n’è scappato già tre volte e ora sta terrorizzando le granséole!".

In macchina, rinchiuso nei tre sacchetti sovrapposti nei quali era stato prudenzialmente sistemato, continuò ad agitarsi per quello che era: un ossesso. Il capitone è la femmina della Anguilla Anguilla, e la sua verve mi indusse a battezzarla, come facevano gli Spagnoli con gli Incas, prima di passarli a fil di spada. Una capitonessa con l’arteteca, dicono in quelle terre visitate da Dio a giorni alterni, o col diavolo in corpo, se persiste negli anni. In tema, appunto. Il capitone è femmina… boh, chissà come si fa a capirlo.

Quando mi occupavo di transazioni internazionali avevo notato che il Pollo Arena SPA pagava ogni mese fatture in Giappone con la causale “sexage” che mi incuriosì non poco. Alla prima visita nell’azienda posi il quesito e tornai soddisfatto. Il pulcino femmina, crescendo in regime di soccida, ha un rapporto costo/peso migliore del maschio: ovvio separarli alla nascita. A questo ci pensavano dei giapponesi occhialuti e in camice bianco: ognuno presidiava un veloce nastro trasportatore e, usando alternativamente le mani, afferrava i pulcini delicatamente, li portava a trenta centimetri dalla bocca, soffiava sulle tenere piume del culetto e, nell’istante in cui la peluria si spostava come l’erba durante l’atterraggio di un elicottero, capiva, e sempre velocemente smistava in Classe A e Classe B. Di sesso non se ne parlava più.

A fine mese, fattura per milioni di pezzi. Chissà come si regolavano un tempo, i contadini dell’operoso ma non ancor ricco Nordest, quando, nel buio delle loro spelonche, tendevano a congiungersi con ogni specie di animale domestico, mogli comprese!

Ai primi commenti sul sesto dito, nella pre-adolescenza, presi coscienza della mia diversità. Al fiume, tra i sassi bianchi e panciuti, dopo il rituale confronto tra speranzosi cazzetti, c’era sempre qualcuno che sentenziava che quella strana appendice ce l’avevo perché mio padre aveva dato a mia madre “una botta in più”, e io pensavo a qualcosa di artistico, di geniale, alla martellata di Michelangelo. Poco alla volta, associai quel Segno al sesso e ai suoi imperscrutabili misteri. Misteri che ancor oggi mi trascino, assieme all’inseparabile ditino.

Il capitone lo sistemai in veranda, ancora racchiuso nella triplice custodia, alla quale avevo praticato delle prudenti prese d’aria. Me lo riportò, con un cenno di complicità, il militare del terrazzino accanto, dove l’anfibia creatura era arrivata, a forza di distensioni e contrazioni, utilizzando il varco tra il pavimento e la tramezza che separava le due proprietà. Considerata la provenienza dei vicini, forse la bestia desiderava morire di cucina salentina.

Finì in una bacinella di plastica che per prudenza adagiai nella vasca da bagno, sotto un filo d’acqua corrente. Così la Consorte avrebbe potuto agevolmente toglierlo, se avesse desiderato un bagno alle alghe di Bretagna e melma del Mar Morto. Una situazione che il capitone stesso avrebbe gradito, ma non considerava l’innata avversione delle donne, Madonna in testa, per gli esseri striscianti.

Ma torniamo alla mia sensibile appendice. Col mio trasferimento nel Grande Nord perse tutta la sua selvatica innocenza. Cosa avrebbero detto, alla sua vista, i miei coetanei del Nord-est, che già da vestito mi consideravano un diverso?

Pochi anni dopo, quando i miei ormoni iniziarono a prendere a spallate le porte della percezione, assunsi la decisione che avrebbe condizionato tutta la mia vita: mi sarei concesso solo grandi amori, sublimi, segnati da affinità spirituali altissime, tali da ridurre a trascurabile particolare quel mio nervo scoperto. Ma una cosa è dirlo e un’altra presentarsi in tenuta adamitica e con una foglia di fico psicologica provvidenzialmente posatasi sul mio piede esadattilo. Ignoravo che molti santi e mitici giganti, misteriosamente, con sei dita erano ritratti.

Col passar degli anni, presi in considerazione anche l’esatto opposto: amori frettolosi consumati in Volkswagen con l’occhio in allarme per il serial killer, amori ancillari in posizione eretta tra una porta e un armadio, amori lampo con le braghe a mezz’asta nell’ascensore fermo tra due piani, amori manageriali con la complicità di una scrivania di mogano. Amori normali, di quelli che fanno numero e statistica, tracce…

Di notte, il capitone scivolò dalla bacinella di plastica e con un rumore sordo si mise a fare il giro della morte nella vasca. Mia moglie non l’aveva ancora notato e, riavutasi dallo spavento mi disse fermamente: “Accoppalo!”. Rinviai l’esecuzione all’indomani, vigilia di Natale.

Un pestello di legno, acquistato da un vecchio artigiano nei pressi della Grotta di San Michele Arcangelo (provincia di Padre Pio) fu l’arma prescelta. Miravo alla testa, come Maria Vergine col calcagno, ma la bestia sfuggiva, viscida persino in punto di morte. Ecco, viscida. Le versai addosso un pacco da un chilo di farina gialla da polenta, indossai dei guanti di lattice e la trasferii in cucina, lasciandomi dietro una immonda scia gialla di bava e farina.

Le troncai la testa con un colpo di mannaia e appesi il resto ad un gancio. L’acefala creatura continuò ad agitarsi, sfuggendo alla presa, ed inducendomi a seria riflessione su tante cose che nella vita avevo fatto senza il concorso della testa e del cervello. Poi, tolta la pelle, su un tagliere la ridussi a tronchetti: pronta per esser marinata, però da defunta. La misi in un coccio ed iniziai con gli unguenti funebri. Olio, aglio, foglie d’alloro e altri sapori.

L’ultima l’avevo mangiata a Comacchio, il 25 aprile di quell’anno. E ci avevo ben bevuto sopra un rosso fresco e leggermente asprigno, di quelli che sgrassano la bocca. Uscito dal ristorante per fare quattro passi incontrai la banda cittadina in alta uniforme che suonava “Fischia il vento”. Discretamente commosso mi infilai nella Sala Civica dove c’era una mostra sulla civiltà dei pescatori di anguille delle Valli di Comacchio, o Cmacc, come dicono loro. In una sala, a ciclo continuo, proiettavano il sesto episodio di “Paisà”, di Roberto Rossellini, che lì era stato ambientato e girato.

Alle pareti le foto di scena. Pescatori di anguille, poverissimi, che aiutavano partigiani ed alleati discesi dietro le linee col paracadute. E davano loro da mangiare i bisatti, le anguille, privandosi del magro guadagno. Alla scena in cui un cadavere scendeva sulla lenta corrente, verso il mare, sorretto da una camera d’aria, con appeso al collo il cartello “Partigiano” scoppiai a piangere, e i miei singhiozzi produssero echi nelle sale semideserte, talché la gentile custode mi chiese se desideravo un bicchier d’acqua.

Mi trattenni a fatica dal dire: “Con un’ Alka Seltzer, grazie!”. Da allora ogni volta che rivedo quello spezzone di “Paisà” ho la stessa reazione. E sempre, affrontando un capitone, mi ricordo di Comacchio e del film e piango. Sono fatto così. Quando cosparsi di pepe e sale i tronchetti, questi ripresero ad agitarsi all’unisono. Mai morti: era la loro personale Resistenza, e ne ebbi rispetto. Coprii il recipiente con un panno immacolato. Poi, prudentemente, vi sovrapposi una pesante pietra lavica da cucina, la stessa precauzione degli Apostoli con Gesù.

Il giorno dopo, mentre mi portavano dai suoceri, stringevo a me il coccio come se fosse stato un’urna cineraria. Ripetutamente, arrivato a destinazione, tentai di arrostire il capitone con un grill elettrico e puntualmente saltava la corrente. E ogni volta che la stanza piombava nel buio mi diffondevo in ulteriori riflessioni sul motivo per cui la bestia rifiutava di farsi fare.

In conclusione, spazientito, sgocciolai i resti, li infarinai e li passai in olio bollente. Ottimi, non c’era che dire. Alla fine del pranzo, dopo il caffè e ripetuti resentìn, cioè la pulitura della tazza con grappa bianca di origine illegale, buttai un occhio nel coccio, nel quale era rimasto il liquido della marinata. Celata tra le foglie di alloro, gli spicchi d’aglio e l’olio reso torbido dal pepe c’era lei, la Coda, scampata alla frittura. L’ultima sopravvissuta!

Riconobbi in lei ancora una volta il Segno del Diavolo, il mio sesto dito. Non potevano capire, i suoceri – che già si erano cibati con sospetto di quello che definivano un serpente – il perché della mia richiesta di una zappa. Già mi avevano interrogato sulla natura vegetale o animale delle vongole che accompagnavano gli spaghetti. Andai in giardino e scavai una profonda buca. Seppellii l’Indomabile e vi posi a guardia un vaso di gerani morti dal freddo onde evitare che potessero raspare nel terreno i gatti, questi stupidi, sacrileghi sciacalli domestici che già sopraggiungevano, e che scalciai con allegra, inaudita ferocia.

Da allora, il mio piede destro prima accentuò la sua callosità tendente al cheratinoso, poi le dita presero a saldarsi fra di loro ed infine toccò al calcagno inspessirsi, ricoprirsi di peli neri e trasformarsi infine in zoccolo caprino. Così era scritto. La Consorte prese a chiedermi cosa facessi mai per sfondare i calzini sempre sullo stesso punto. Fui evasivo, ma da allora, in luogo riservato, di pedalini ne ho una scorta industriale: neri, tutti uguali, uno vale uno.




l’estate del ’66 – di Rino Riva

Non ci mettemmo molto a decidere sul da farsi. Era un’impresa impegnativa ma due sagome come noi, non del tutto a piombo con il suolo calcato, non se ne curavano affatto. Gianni non stava nella pelle e ripeteva all’infinito: «Remo, ci pensi? Né, ci pensi?». Hai voglia a rispondergli: «Sì che ci penso, sarà una vacanza memorabile». Dopo un attimo ricominciava la litania: «Remo, ma ci pensi? Come sarà, dì, come sarà? Quando torniamo ne avremo di cose da raccontare, non è vero? Li faremo schiattare tutti dall’invidia».

Di questo ne dubitavo. Non vedevo l’ora di partire per una buona dose di motivi: per metterci alle spalle molte questioni irrisolte, per sancire la tratta del dado, per fare in modo che cessasse la quotidiana solfa. Era l’estate del 1966, l’estate prima del servizio militare.

Antonello Venditti la racconta su in questo modo: “Era l’anno dei mondiali / quelli del ’66 / la Regina d’Inghilterra era Pelè…” Il mio primo e ultimo viaggio da giovanotto. La mia prima e ultima vacanza da scapolo.

Sarebbero venute altri estati e non sarebbero state così lievi. Certo, non avrei potuto immaginarmelo in anticipo. Avevamo deciso di fare il giro d’Italia in… Lambretta: una peregrinazione “on the road” senza che avessi letto il libro di Kerouac. Figurarsi Gianni la cui consuetudine con la carta stampata era saldamente ancorata ai fumetti e alle riviste porno.

Il mio amico era stato un bel portierino ma aveva appeso le scarpe al chiodo perché era già fuori quota per l’età. Ricordo una formidabile partita che giocammo in un campo parrocchiale sotto il ponte dell’Ortica. Era una delle sfide ricorrenti fra la U.S.Arpesani e la U.S.Pasini. Gianni ed io ci affrontammo su fronti diversi: lui portiere della U.S.Pasini, io mediano fluidificante della U.S.Arpesani. Ho netta la memoria di uno slalom che inscenai a un certo punto della gara. Fra finte e dribbling, feci fuori tre avversari come birilli e mi affacciai in un’area di rigore libera come un deserto davanti a me.

Ho tirato mirando al sette ma Gianni mi tolse la soddisfazione di un magnifico goal con una incredibile parata alla “Giorgio Ghezzi”, indimenticato portiere del Milan di cui non a caso indossava i colori. Si allungò distendendosi verso destra e levò la palla – con la punta delle dita – dall’angolo alto di porta a cui era destinata.

Un viaggio organizzato con poche lire e con un telone da camion. Eravamo matti? Non c’era alcun dubbio, almeno per quei tempi. Sebbene, prima di noi, erano state commesse ben altre imprese pazzesche: il Passaggio a Nord-Ovest, la scoperta delle sorgenti del Nilo, la scalata del K2, il primo uomo nello spazio e così via.

Ho sempre avuto in testa altri itinerari a piedi, in bicicletta, in vespa o con qualsiasi altro motociclo. Come quello di realizzare, camping per camping, l’intero periplo del Lario. Oppure, effettuare la traversata, dall’alto dei monti, partendo da Como per finire a Colico. O ancora, fare il giro della Liguria – da Ponente a Levante, da Ventimiglia a La Spezia – con bici o motocicletta a livello del mare, con il trekking su e giù dai cucuzzoli.

Imprese che richiederanno un certo tempo a disposizione. Prima di andarmene per altri lidi, so che soddisferò le mie fantasticherie. Avevamo ognuno dei due un motivo specifico per andare via per un mese e oltre. Io per castigare la mia ragazza che aveva esagerato a bearsi della sua libertà. Gianni perché desiderava avvalorarsi al cospetto della sua improbabile fiamma, flirt di una sola estate, a cui si ostinava a restare incollato come un francobollo appiccicoso pur non vedendola da un sacco di tempo.

Tormentava gli amici più intimi affinché gli dessero una mano a scriverle lettere su lettere cui lei non si era mai degnata di rispondere. Si era messo in testa di spedirle una cartolina da ogni luogo significativo da cui saremmo transitati. Un’idea che in corso d’opera farò mia.

Ho detto: poche lire. Erano davvero poche decine di migliaia di lire, infime nonostante il potere di acquisto non roso dall’inflazione di là da venire. Gianni che lavorava come fattorino in un grosso negozio di drogheria ci metteva la parte preponderante, io i pochi spiccioli che papà decise di scucirmi. Con noi, i cambi essenziali di biancheria e vestimento e la mia fida chitarra.

Partimmo una sera, non appena Gianni smontò dal servizio. La prima tappa sarebbe stata Genova, dal passo dei Giovi. Vi giungemmo che era buio pesto con il didietro malridotto per le ore di viaggio a cui lo costringemmo. Demmo fondo alle provviste, bevemmo qualcosa in un bar e… spedimmo la nostra prima avvelenata cartolina. Ora, avremmo dovuto trovare un posto per dormire. Fatico un po’ a fare mente locale: sono passati tanti anni da quell’estate.

So che ci siamo addormentati in un sacco di posti inusitati ma mai in un letto, salvo le volte che siamo stati ospiti a casa dei miei zii di Grosseto e di Taranto. Abbiamo ristorato le nostre stanche membra in un chiosco abbandonato (Latina), in un palazzo in costruzione (Capua), nel sottoscala pieno di residui di piastrelle e di mattoni (vicino a Bari), in un prato all’aperto (Eboli) dove non si fermò solo Cristo ma anche Gianni e… Remo. Stavo per dire Pinotto.

La prima volta, appena fuori Genova, ci fermammo in un bosco. Stendemmo, per la prima e unica volta, il telo – dalla lambretta al terreno – a mo’ di tenda sotto cui ripararci. In seguito, lo usammo solo come giaciglio e come coperta. Non piovve mai salvo la volta in cui ci rifugiammo, bagnati fradici, sotto quel sottoscala: un temporale di fine agosto, intenso ma passeggero.

Sostammo a Castiglioncello dove facemmo il bagno. Da lì fino a Grosseto fu tutta una tirata. Il nostro viaggio si ingrippò a questo punto. Eravamo riveriti ospiti di mio zio Peppino e della sua famiglia: dormivamo sopra un materasso steso sull’impiantito della cucina e divoravamo le prelibatezze cucinate da Nonna Vera.

Gli zii avevano già quattro figli: due femmine, le cugine Laura e Caterina, di 11 e 10 anni e due maschi: il cuginetto Claudio di 4 anni – maschiaccio viziato dalle terrificanti orecchie a sventola – e l’infante Cesare, nato da pochi mesi, che la zia Anna ancora allattava. Laura era bellina ma stava sulle sue come la Principessa Taitù, Caterina portava gli occhiali correttivi, una lente delle due coperta da un cerotto, era invece affettuosa e socievole.

Andavamo di giorno al mare ispezionando le spiagge del litorale maremmano: da Follonica a Orbetello, transitando per Riva del Sole, Punta Ala, Castiglione della Pescaia, Marina di Grosseto, Marina di Alberese, Talamona. Visitammo luoghi esclusivi come Porto Ercole e Porto S. Stefano. Cercavamo di sdebitarci, offrendo noi almeno lo zuccotto serale che acquistavamo al vicino bar tabacchi.

Dopo cena, andavamo al cinema. Altre volte stavamo a casa e scendevamo nel giardinetto sottostante dove altri inquilini uscivano a godersi il fresco degli alberi portandosi la sedia da casa. A volte, suonavo la chitarra e cantavo qualche canzone sotto lo sguardo serio e affascinato di zio Peppino.

Lui era di quelle idee là: nel portafoglio custodiva con rispetto il santino del duce e non si curava di tirarlo fuori e mostrarlo a chicchessia. Non mi riusciva di volergli male: era mio zio, il fratello di mia madre. Aveva il suo carattere, epperò era un generoso. Tarantino di nascita e di crescita fin verso la maggiore età, nel dopoguerra entrò nella Polizia. Venne distaccato a Grosseto – città rossa – dove gli scontri di piazza erano frequenti e autentici.

Lì conobbe zia, se ne innamorò e la impalmò. Fu accolto senza ostilità dalla famiglia di lei che era rossa come la città. Abbandonò la Polizia e si mise a fare il mestiere che gli aveva insegnato mio padre: l’autista sulle autolinee. Spettacolare il suo uso “h-orretto della lingua tos-h-ana, madonna h-agnolina”.

Gianni uscì una notte in mare aperto sul motopeschereccio dei cognati di mio zio. Non so dire perché non ci andai anch’io, ero di luna storta. Ne provo rimpianto, tuttora, sia sul piano umano che per l’insolita esperienza: non era alla portata di tutti degustare il pesce alla griglia pescato al momento.

Visitammo Nomadelfia, la città comunitaria di Don Zeno. Arrivammo sino a Siena, dove bevemmo una birra seduti a un tavolino di Piazza del Campo. Lo zio ci volle con sé, sulla corriera da lui guidata fin sul Monte Amiata. Ci portò a mangiare in una trattoria dove Gianni gustò una succulenta bistecca fiorentina alta due dita.

Stavamo benissimo, Gianni era entusiasta. Ci stavamo però fermando da troppi giorni in un unico posto e il nostro progetto si era arenato in… “maremma maiala”. Fu dura convincere Gianni e, nel medesimo tempo, superare le resistenze di zio Peppino che non acconsentiva a farci partire. Domandava accorato: «Ma non state bene qui?». Difficile rispondergli che stavamo fin troppo bene ma che dovevamo realizzare la nostra idea iniziale.

Con gli accorgimenti idonei affinché nessuno potesse sentirsi offeso, levammo le tende e ripartimmo. Civitavecchia, Roma, dove pranzammo perfino in un ristorante in collina: la città era ai nostri piedi e là rimase. Latina, Terracina, Formia, Gaeta e Sperlonga, un luogo magico e incontaminato. Un elevato sperone di roccia bianca che si protendeva sul mare, sul cui alto pianoro aveva trovato posto un tipico paesino del sud con le sue case chiare e i suoi vicoli stretti.

Sperlonga doveva il suo nome alle spelonche: grotte entro cui uomini primitivi avevano eletto il proprio habitat. Su entrambi i lati della rupe, due spiagge dal diverso colore si estendevano deserte per centinaia di metri. A nord, una spiaggia dal colore marroncino; a sud, invece, una lunghissima spiaggia di colore chiaro al cui termine si stagliava la celebrata grotta di Tiberio. Qui, sì, sarebbe valso fermarsi. In uno di questi luoghi avevamo sostato per bere qualcosa. C’era un sole alto e chiaro, una luce che riverberava sui muri delle case bianche. Ai tavolini attigui, sedevano altri giovani e uno di questi aveva la chitarra da cui, suscitando in me un imperioso moto di invidia, estraeva con maestria i limpidi accordi di “Michelle” dei Beatles:

Michelle, ma belle
Sont trois mots
Qui vont très bien
Ensemble

Ci spingevamo nel mezzogiorno. A pranzo e a cena ci arrangiavamo: il pane era buono e il formaggio costava poco. Delibammo una strabiliante mozzarella alla bufala che entrambi non avevamo mai assaggiato prima. Riprendemmo a spedire cartoline.

Tuttavia, si assottigliavano con rapidità i nostri fondi. Eravamo a un bivio: tornare a Grosseto dicendo addio al progetto originario oppure rischiare e, pur ridimensionando di molto le idee iniziali, procedere comunque verso sud. Per giungere quantomeno a Taranto e lì chiedere un prestito allo zio Franco e ritornarcene a casa senza angustie.
Scommettemmo sulla seconda ipotesi. A Salerno, esponemmo le nostre difficoltà al gestore di un distributore di benzina e riuscimmo a convincerlo a erogarci il pieno di miscela a credito, lasciandogli in pegno la mia carta d’identità: saremmo tornati a saldare il dovuto e a riprenderci il documento.

Deviammo lasciandoci sulla destra uno dei nostri primari obiettivi: la Calabria, Tropea, Paola, Amantea. Nomi che evocavano ambienti paradisiaci e mari di favola.
Ci fermammo in ora tarda a Eboli, come il “Cristo” di Carlo Levi. Stendemmo in un pratone il nostro telo, sdraiammo i nostri corpi spossati e ci ricoprimmo con il telo restante. Faceva freschino, agosto volgeva al termine. Ci addormentammo di schianto senza nemmeno levarci gli occhiali da sole.

Lo ricordo poiché, il mattino seguente, mi svegliai sollecitato da qualche rumore e non vedevo nulla: gli occhiali erano appannati. Era ancora buio: il prato luccicava per lo strato di brina che l’escussione notturna aveva provocato. D’un tratto vedo avvicinarsi, al galoppo, un cane enorme. D’istinto mi è venuto di stendermi di nuovo, di coprirmi sotto il telo, di dire a Gianni di non muoversi e di non fiatare: le spiegazioni a dopo. Il cagnone arrivò, girò intorno al nostro misero talamo, annusò alla grande. Immobile, fra me e me, pregavo che al bestione non gli venisse lo schiribizzo di espletare lì – come spregio – i suoi bisogni. Gli dei accolsero le mie preghiere.

Il cane-cavallo, così come si era materializzato all’improvviso, seduta stante scomparve a caccia di ben altre emozioni. Attraversammo terre aride e interminabili cave di tufo: dalla materia prima si ricavava una sorta di grosso mattone con cui edificare le case. Oramai viaggiavamo con l’unico scopo di approdare a Taranto.

A Tricarico facemmo sosta e mangiammo del buon pane e formaggio con pochi spiccioli. Chiedemmo, ormai in Puglia, a un contadino se ci vendeva dell’uva: dalle vigne penzolavano dei grappoli divini di uva bianca dagli acini grossi come albicocche. Ci rispose di prenderne quanta ne volevamo e gratis: «Mangiate, mangiate figli miei che ne avete bisogno».

Ringraziammo con calore e non esagerammo nel servirci di quell’imprevisto ben di dio. Gettammo l’ancora nel Mar Piccolo di Taranto vecchia, davanti al ristorante “Pesce fritto” dove mio zio svolgeva le mansioni di capocuoco. Saranno state le 15.30. Avevamo fatto l’ultima manciata di chilometri con il cerchione della ruota anteriore reso storto da una buca la cui pericolosità Gianni aveva sottostimata.

Mio zio ci venne incontro, contento ma anche preoccupato. Gli spiegai in breve i nostri problemi e lui, in quattro e quatr’otto, fece venire a prendere la lambretta da uno dei lavoranti di una officina dei vicoli vicini perché fosse riparata come si deve e poi andò a cucinare qualcosa: pesce e patate fritte.

Rimanemmo a Taranto un paio di giorni. Dormimmo in uno dei quarti di Nonna Caterina e per i pasti fummo ospiti di zio Franco e zia Giuseppina. Telefonai ai miei a cui dovevo spiegare che avrei chiesto un prestito allo zio da restituirsi non appena fossimo tornati a Milano. La prima cosa che mi disse mio padre fu: «Non ti sembra sia arrivato il momento di smetterla di andare in giro come un vagabondo?».

Né più né meno. In effetti, un mese era bell’e e passato. Tornammo sui nostri passi, saldammo il benzinaio di Salerno e ritirammo il documento. Ci fermammo di nuovo a Sperlonga, perla di questo viaggio. Sostammo per qualche giorno a Grosseto. Non senza aver dovuto subire le rampogne dello zio Peppino.

Il dolce far niente e i buoni manicaretti avevano prodotto uno degli effetti rituali sul mio metabolismo ballerino. Avevo messo su un certo numero di chili tanto che non stavo più nei pantaloni. Lo zio me ne diede un paio dei suoi di un assurdo color ruggine e una sua camicia.

Tornammo a casa. Un mese e sei giorni dopo la partenza. Non facemmo il giro d’Italia come ci eravamo prefissi ma attraversammo 7 regioni: Lombardia, Liguria, Toscana, Lazio, Campania, Lucania, Puglia. Ci bagnammo in mari diversi: Ligure, Tirreno, Ionio. Peccato non aver segnato il quantitativo di chilometri percorsi o forse lo facemmo e me ne sono dimenticato.

Lontana la eco dei mondiali di calcio e le polemiche per la sconfitta della nazionale italiana con la Corea. Pelè sarà stato pure la Regina d’Inghilterra ma i tedeschi e gli inglesi sembravano marziani. La Regina dei Mondiali non fu Pelé e il suo Brasile ma l’Inghilterra di Bobby Charlton. Il loro calcio totale e senza pause era inimitabile mentre noi eravamo una squadra di abatini.

Era l’estate del sessantasei che si avviava a lasciare il testimone al subentrante autunno carico di piogge che avrebbe provocato, per restare in Toscana, eccezionali straripamenti dell’Ombrone e dell’Arno e inondazioni catastrofiche di Grosseto, Pisa e Firenze: il peggior evento alluvionale dal 1557. Gianni tornò a Grosseto da solo per alcune estati. Ci perdemmo di vista. Io? Beh, per me iniziava la salita




Designer ? No, metalmeccanico – di Rino Riva

Donato Lamorte l’ho conosciuto, una domenica mattina del 1973, dalle parti del campo Giuriati dietro Città Studi. Eravamo un certo numero di “militanti” lì radunati per “fare fiato”.

Già, perché dopo una settimana di turni di lavoro, di riunioni sindacali e di partito e magari di cortei qualcuno aveva escogitato che era nostro precipuo desiderio occupare dell’altro residuo tempo libero. La maggioranza dei convenuti avevano un incarico nella “struttura”, il cosiddetto servizio d’ordine

Non ricordo bene perché fossimo un misto della zona Lambrate e della zona S.Siro. Avevo qualche chilo da perdere e mi sono aggregato. Dopo qualche giro ai bordi dell’ipotetico campetto e qualche esercizio a corpo libero, la cosa che d’acchito viene in mente a tutti é organizzare una partitella di calcio, così si univa l’utile al dilettevole. Donato era un caciarone, la sua voce rumorosa e la sua risata accattivante, la cadenza tipica di uomo del Sud, le frasi un po’ provocatorie non lo rendevano inosservato.
Me lo rese subito simpatico un suo gesto: si sdraiò sul prato, mentre noi correvamo, subissandoci di sfottò.

Lavorava all’Innocenti dove agiva una bella squadra di compagni. Incominciammo a salutarci da lontano, lui forse sapeva di me e del mio ruolo. Di sicuro era al corrente che di me ci si poteva fidare.

Nato nel 1945, era arrivato al nord nel 1962 e aveva trovato lavoro in una piccola fabbrica di carpenterie metalliche, la Panigalli di Cologno Monzese dove credo abitasse. Nel 1970 lo raggiunse il fratello più giovane, immigrato come lui. Trovarono casa comune a Vimodrone fin quando il fratello nel 1982 si sposò. Il titolo di studio che aveva venendo dal sud era la licenza elementare. A Milano si iscrisse a una scuola serale, frequentò per 3 anni e conseguì la licenza media. Appresso, volle iscriversi a un istituto per Periti ma abbandonò al termine del primo anno.

Nel frattempo, c’era stato l’incontro esaltante con la politica e siamo già all’inizio degli anni Settanta. In qualsiasi realtà produttiva si sia venuto a trovare, so che ha cercato di fare tesoro di ogni esperienza, di apprendere i rudimenti della professione dal lavoratore più esperto. Riflessivo ammiratore di accorgimenti che rendono provetto un operaio, a cominciare da una postazione di lavoro, ordinata secondo criteri scrupolosi: ogni attrezzo rimesso nella sede precisa per meglio svolgere la mansione a cui si è preposti. Non c’era nessuna cortigianeria in lui né smania da “aristocrazia operaia” bensì un’etica del lavoro che sapeva ben distinguere i ruoli fra lavoratori e padroni, ben scindere la necessità e i momenti della lotta dal saper fare operaio.

Attento e curioso di tutte le novità tecnologiche, rivolte al miglioramento dell’ambiente – anche a seguito dall’ultima attività lavorativa all’Amsa dopo la chiusura dell’Innocenti – si informa e conosce ogni tipo di macchinario per il trattamento dei rifiuti. Acquista ogni giovedì il Sole 24 ore – scandalo! – per il solo inserto sulle nuove tecnologie, una vera sua passione. Il suo è un autodidattismo vorace e, molti anni dopo, scoprirò una sua peculiare genialità.

Iniziai a frequentarlo dal 1977 in poi, il percorso suo e mio fu il medesimo dopo l’uscita da Avanguardia Operaia. Ci incontravamo alla F.I.O.M., così cominciammo a parlare fra di noi e a conoscerci a vicenda. Era un uomo dal piglio generoso, un compagnone, ma la sua vita mi è apparsa, come in fondo è rimasta, quella di un solitario. Siamo diventati amici, nondimeno abbiamo continuato a vederci poco: capita spesso, per ragioni indecifrabili, e non rinuncio a pensare che sia un vero peccato. Finché non è andato in pensione, Donato è rimasto a Milano. Ma le uniche volte in cui avevamo occasione di rivederci, da allora in poi, erano i grandi appuntamenti delle manifestazioni del 25 aprile e del 1° maggio. Era sempre molto bello quando scoprivamo di esserci entrambi e di stare nonostante i mugugni sempre dalla stessa parte. Gli ridevano gli occhi mentre ci abbracciavamo.

A un certo punto venni a sapere da amici comuni che, dopo la scomparsa dell’anziana madre, era tornato al suo paese il cui nome ha molto a che vedere con il suo carattere e la sua condotta: Ripa Candida, vicina a Rionero in Vulture (Potenza, Lucania). Sapevo che vi ritornava ogni anno, in determinati periodi, quando era ancora viva sua madre e dove, sebbene non nello stesso comune, vivevano altri suoi parenti, una sorella, i nipoti. Ci siamo del tutto persi di vista e temevo che avrei fatto fatica a rincontrarlo. La cosa mi dispiaceva poiché davo importanza a un rapporto con lui, perfino a incrementarne la confidenza. Il caso me l’avrebbe fatto incontrare comunque. Il caso me l’ha fatto incontrare prima.

Mi trovavo a Pisa, ospite di un comune amico dove questi si era trasferito con la propria famiglia una volta raggiunta l’età pensionabile. Nella sua abitazione, sulle mensole  sovraccariche di libri da far paura, mi cade l’occhio su due curiosi soprammobili: sono due minuscole sedie in stile Art Decò, con una struttura in ferro il cui design è variato su modelli differenti (senza giunture saldate, valevole per gambe e schienale) e il sedile in legno.

Amo moltissimo gli oggetti in miniatura, perciò ho chiesto ai miei ospiti dove li avessero trovati. La risposta mi lasciò di sale: “Le ha costruite Donato, sono opera sua”.
Donato… magnifiche, che bravo, pensai. urono i miei ospiti a darmi i suoi numeri di telefono, anzi lo chiamarono e mi fecero parlare a sorpresa con lui.

A posteriori rifletto sul dono che Donato ha voluto fare ai suoi amici, dando di sé il meglio faticoso della sua genialità e del suo saper fare operaio. Le sue “sedie” fanno bella mostra – mi chiedo con quanta consapevolezza dei riceventi – su scaffali e arredi in molte case di militanti, spesso ancora in attività, della sinistra estrema milanese.
Se solo una minima parte avesse inteso il suo messaggio, la sua richiesta di aiuto, e si fosse prestato a trovarvi rimedio magari oggi le sue sedie sarebbero un prodotto commerciale e non un sogno da realizzare.

Recuperai così un rapporto che é fatto di periodiche telefonate, di fugaci incontri quando viene a Milano dove ancora possiede un monolocale dalle parti di viale Monza sulla Martesana. Sugli scaffali della mia libreria più che ridondanti di libri, oggettistica varia e, ahimé, di polvere c’è ora una minuscola sedia, costruita apposta per me, a fare la sua bella figura.

Mi spiegò che ogni seggiola dallo specifico design era parte di un progetto che mi illustrò facendomi notare che ogni modello di sedia avrebbe potuto con facilità essere costruita, per mezzo di una piegatrice ben attrezzata. Di sedie sue adesso ne ho due e, insieme, un cd in cui sono state immagazzinate, dopo averle fotografate: i modelli da lui progettati sono all’incirca una settantina, una più una meno!

Trovo che le sue sedie i cui schienali mi fanno venire in mente degli abbracci equivalgano a minuscole sculture, frutto di una intelligenza e perspicacia operaia invero notevoli e ricordano nelle loro sagome le figure del grande Henry Moore. Donato, nel seminterrato di Ripa Candida, ha un’officina e la sua giornata ha i tempi contingentati. La mattina, dopo aver fatto la colazione, esce di casa, acquista il giornale e, se il tempo è benevolo, va a leggerselo in piazza sopra una panchina.

Lì, può succedere che gli venga un’idea e allora butta giù uno schizzo sulla parte non scritta del giornale, meglio – se ne è fornito – sopra un pezzo di carta bianca. E in quel modo, inizia a prendere forma una delle sue numerose sculture in ferro. Può succedere che mentre sta disegnando uno dei suoi capolavori, a un  tavolino di un bar della città che lo ha accolto molti anni fa, un curioso giapponese del tavolino accanto gli chieda: «Designer?» e lui, pronto, si schermisca: «No, metalmeccanico».

La sua mente fervida intuisce che può propagandare in altro modo le sue produzioni, così inventa le magliette che iniziano a diffondersi fra i suoi amici milanesi: accanto al ritratto di una sua sedia ad altezza normale spicca la scritta: “Design metalmeccanico”, un marchio doc. Ritorna a casa e lavora fino a mezzogiorno ai suoi progetti. Interrompe per il pranzo, si fa un’altra camminata nel paese e nel pomeriggio riprende a ingegnarsi fino all’ora di cena.

Nel giardinetto prospiciente l’ingresso di casa le sedie da lui ideate, ad altezza normale, fanno bella mostra di sé e pubblicità al loro inventore. Anche a Ripa Candida, Donato – analizzatore industrioso dei problemi che affliggono la cittadina – si è impegnato a elaborare un progetto risolutivo  per migliorare la qualità della vita nel centro storico. Gli è complice fattiva, la sorella che si è incaricata di buttar giù gli schizzi necessari a sostegno della proposta.

Dando un’occhiata al numero di “Poliscritture on-line”, ho scorto  la fotografia di una piccola sedia che a colori fa persino più scena. Avevo cognizione che fosse sua e ne ho chiesto conferma a Ennio Abate, il responsabile della rivista. Da Ennio che mi ha subito risposto, sono venuto a sapere che Donato ha inventato anche una macchina in grado di raccogliere i sassi nei terreni agricoli, raccontandomi che: “quando lavoravo al Molinari, avevo sottoposto a un insegnante-ingegnere il suo progetto che era stato valutato bene. Purtroppo, il collega era “fuori dal giro”, come me (o noi) del resto e non se ne fece nulla”.

L’idea gli era venuta durante il prolungato corso di formazione, frutto dell’accordo sindacale per la riconversione industriale, nella successione dalla Innocenti alla Maserati. Donato, che prima o poi andrò a trovare al suo paese, non é come abbiamo visto, un superbo progettista una tantum. Tutt’altro. Infatti, vista la mia considerazione per le sue geniali idee nient’affatto balzane, mi portò a vedere poco tempo dopo: “Pigia”, prototipo di macchina per la riduzione dei contenitori di plastica e lattine,  composta da solo cinque pezzi principali, in grado di comprimere i vuoti, riducendo il volume di circa il 70%.

Un manufatto facile a mettersi in produzione che potrebbe essere un  ausilio indispensabile per condomini, bar, ospedali e tutti gli esercizi che per la loro attività si vedono costretti a maneggiare sacchi ingombranti di plastiche e lattine. Utilissimo per la raccolta differenziata permetterebbe un considerevole risparmio sui costi di smaltimento e di trasporto del materiale riciclabile e, cosa non secondaria, sulle tasse comunali per i rifiuti. Congegni dalla medesima finalità, analoghi ma non uguali, credo siano già prodotti e commercializzati. Tuttavia, non mi sembra che i caseggiati e i condomini ne siano forniti come si dovrebbe.

Pur essendo privo di adeguati titoli di studio, avendo fatto tesoro di una lunga pratica che, non di rado, vale come e più della grammatica, Donato – senza averne cognizione – è un seguace di Edward De Bono, teorico del pensiero laterale, il quale afferma che se si affronta un problema con il metodo razionale del pensiero, si ottengono risultati corretti ma limitati dalla rigidità dei modelli logici. Quando si richiede una soluzione davvero diversa e innovativa si deve stravolgere il ragionamento, partire dal punto più lontano possibile, ribaltare i dati, mescolare le ipotesi, negare certe sicurezze e addirittura affidarsi ad associazioni di idee del tutto casuali.

Nascono in questo modo i progetti di Donato che sono seri, affidabili e belli: perciò mi sono convinto che occorre smetterla di interrogarsi su chi può dargli credito o meno e che bisognerebbe invece uscire dalla rassegnazione che obbliga anche noi – suoi autentici amici – all’inattività colpevole per  verificare se non sia fattibile trovare chi si  appassioni ai progetti di questo versatile inventore e designer operaio. Per iniziare, ho voluto scrivere questo apologo: un modo come un altro per esprimere a Donato la mia stima e la mia rinnovata amicizia e per comprovare che le realizzazioni sono sue senza ombra di dubbio.


Ciò che ho scritto vale a raccogliere suggerimenti, idee, soluzioni operative, proposte per fare in modo che l’ostinatezza di Donato venga infine premiata.
Mi piacerebbe che per l’azione congiunta di pochi o tanti, non importa, la narrazione sappia mettere in moto forze sufficienti per vincere le grandi forze degli intrallazzi e degli ammanicamenti e che il sogno tenace di Donato possa trasformarsi in realtà.


 




preistoria della grafica computerizzata raccontata da uno che la usava – di Lorenzo Baldi

Daniele Marini fondò Pixel e io ne fui un appassionato lettore, ma per me volava troppo alto…Ero passato dalla comunicazione cartacea (il Quotidiano dei Lavoratori, il Manifesto e, più tardi, alcune riviste di arte, architettura e design) a quella audiovisiva, che stava diventando accessibile al di fuori delle sale cinematografiche e della televisione e si stava diffondendo anche nel mondo delle imprese e della cultura a partire dalla seconda metà degli anni ’70.

Sapevo maneggiare gli strumenti della fotografia già dall’età di 10 anni, grazie ad un padre fotoamatore, e l’idea aveva cominciato a frullarmi per la testa già qualche anno prima quando Augusto Ciuffini, produttore di Caroselli (ricordate quello del tonno Arrigoni "io non compro a scatola chiusa") e padre della valletta di Mike (Sabina), realizzò degli audiovisivi per la campagna di Avanguardia Operaia in occasione del referendum del 1974.

Si trattava di diapositive  sincronizzate ad un’audiocassetta, proiettate manualmente, oppure in dissolvenza, attraverso una centralina elettronica, anche su più schermi (e, in questo caso, la si chiamava multivisione).

Fu così, che con la mia compagna di allora e di oggi, Liliana, realizzammo il nostro primo audiovisivo per il comune dove lei lavorava. Coordinava le attività parascolastiche delle scuole elementari (un doposcuola intelligente a base di drammatizzazioni teatrali e giganteschi murales sulla resistenza) e lo documentammo con una mole impressionante di fotografie ed un testo pensoso, come usava al tempo. Era, credo, il 1977.

Cinque anni dopo, incontrai un artista che mi propose di lavorare insieme sugli audioviosivi. Fu un inizio, ma lui viveva di rendita e io avevo un disperato bisogno di creare un lavoro economicamente credibile. Quando un amico illustratore mi propose di realizzare una trasmissione televisiva per la Televisione Svizzera, producendo audiovisivi da trasferire in video e ottenendo così una specie di cartone animato a basso costo, io e  Liliana aprimmo la partita I.V.A. e ci gettammo a capofitto. Seguirono anni difficili, puntavamo a un mercato nella comunicazione sociale e nella cultura che non era maturo; non avevamo rapporti con le grandi imprese che cominciavano a investire in comunicazione interna ed esterna.

Riuscimmo comunque a realizzare progetti interessanti: un audiovisivo di promozione delle biblioteche lombarde (giravano più copie pirata che copie vendute), una campagna di informazione della Regione Lombardia sulla legge per l’imprenditoria giovanile (partimmo troppo presto per approfittarne); realizzammo il nostro primo documentario video sui “Monasteri Benedettini della provincia di Varese” che, ancor oggi, qualcuno guarda su You Tube o Vimeo.

Alla fine degli anni ’80, entrammo in contatto con i servizi di formazione e comunicazione interna di alcune aziende della Grande Distribuzione, delle quali diventammo consulenti e fornitori, partecipando all’inizio dei programmi di qualità totale, realizzando videocorsi di formazione – tra i più importanti quelli per la sicurezza del lavoro dopo l’approvazione della legge 626, quelli per il passaggio dalla lira all’euro e quelli che accompagnavano i progetti di azionariato dei collaboratori, più o meno fortunati, di aziende come i supermercati Auchan e Sma e i centri bricolage Leroy Merlin.

Ma torniamo alla computer grafica e ai primissimi ’80. A quel tempo, la realizzazione di diapositive con un semplice titolo richiedeva l’utilizzo dei caratteri trasferibili, seguito da più passaggi su pellicola fotomeccanica e fotografica. Per non parlare di elaborazioni più complesse, con sovraimpressioni o effetti grafici, che potevano richiedere molte ore di lavorazione, con fallimenti e tentativi ripetuti.

L’interesse per la nascente computer grafica era quindi alto, perché avrebbe ampliato le possibilità e facilitato molto il lavoro. Partecipai così alla sua nascita dal basso, come potenziale utente interessato a soluzioni non troppo costose e con l’approccio da autodidatta che mi ha sempre accompagnato.

Erano i primissimi anni ’80 e, per cominciare a razzolare con la grafica computerizzata, comprai un Atari 800, che costava, più o meno, un milione di lire. Aveva un processore 6502 (come l’Apple II), 8 Kb (!) di memoria, una risoluzione di 320 x 192 pixel  con 4 colori contemporanei (a scelta tra 128), poteva animare sullo schermo degli ogetti di 32 x 32 pixel e salvava i dati su un registratore esterno a cassetta.

Atari era leader nei videogiochi, quindi le caratteristiche grafiche erano importanti per i suoi home computers, i cui concorrenti diretti erano gli inglesi Sinclair e i più noti Commodore. Come monitor, usava un normale televisore a colori.

Mi buttai ventre a terra nella programmazione in basic e, imparati i primi rudimenti, programmai un’applicazione per disegnare col joystick sullo schermo. Non c’erano, o non sapevo dove trovarle, librerie per il disegno grafico, e mi ingegnai così a costruire tutte le routine per disegnare segmenti, poligoni, circonferenze ecc. e per eseguirne il riempimento.

Il Basic non è mai stato un linguaggio di programmazione elegante e temo di aver aggravato i suoi difetti, ma funzionava e l’interfaccia utente era facile, ci hanno disegnato anche dei bambini. Con l’Atari 800 si potevano fare anche rudimentali animazioni 2D, caricando tutti i fotogrammi in una zona della memoria e controllando un puntatore che li riproduceva a turno sullo schermo. Per utilizzare queste funzioni avanzate, imparai ad accedere direttamente all’hardware e scrissi qualche rudimentale routine in linguaggio macchina (l'Assembler).

Con la sezione del Pci organizzai anche una mostra, a Saronno, mobilitando i primi rivenditori di informatica, i bravi insegnanti che, all’ITIS, cominciavano ad usare i PC e, perfino, il tabaccaio che faceva i primi sistemi per il totocalcio con un Olivetti M20. Non si può dire che la nostra sezione del PCI, in quegli anni, guardasse al passato.

Il secondo step di pionierismo dal basso venne alla fine degli anni 80, con il Commodore Amiga 1000, poi 2000. Per me non si limitò ad essere un’occasione di crescita personale, ma ebbe un risvolto professionale e commerciale. Gli affari della piccola società di cui vivevo non andavano granché bene e quando mi imbattei in questo computer fui folgorato dalle sue prestazioni, mentre visitavo il negozio il tempio del computer (in Corso Vittorio Emanule, a Milano).

Amiga offriva la miglior grafica a colori a basso costo del momento, parecchio prima di Apple e un sistema operativo già basato su mouse e interfaccia grafica. Con lo stesso processore Motorola 68000 dei primi Apple Macintosh e 256 Kb di memoria, offriva una grafica a 16 colori con la stessa risoluzione delle trasmissioni televisive o, a mezza risoluzione, 4096 colori, sufficienti per digitalizzare decentemente una fotografia.

Non si trattava più di un giocattolo per nerd. In Italia, se anche volevi, non trovavi un programma legale per Amiga e c’era un gran commercio semiclandestino di dischetti con i programmi pirata, provenienti dagli US.A. e rigorosamente senza manuale.

Ci investii tre milioni, quasi tutte le poche riserve disponibili (anch’io ricordo con terrore gli interessi vicini al 20%, peraltro all’origine delle ossssioni anti-inflattive della politica economica europea), e fu un affare, anche se la leggendaria instabilità del sistema operativo mi costò molte notti insonni e il frequente terrore di non consegnare in tempo i lavori.

In quegli anni, ero passato dalle diapositive al video, con i sistemi U-matic. Le titolatrici video costavano molto e, se a colori, moltissimo. Con l’aiuto di uno scatolotto elettronico australiano (che andava a 240 volt ed era sensibilissimo alla tensione di rete per cui ci volle un trasformatore su misura per farlo funzionare), gli Amiga si interfacciavano perfettamente con i sistemi di montaggio video e producevano titoli a colori, a livello di macchine specializzate, 10 o 20 volte più costose (e anche meglio).

Si potevano anche acquisire e modificare immagini con una telecamera, realizzare animazioni 2D e 3D in tempo reale (ne ricordo una per il Congresso delle ACLI a Milano, con un flying logo che non si poteva vedere e una, invece, molto carina, con i rimbalzi di una pallina che facevano da filo conduttore ad un filmato sulla storia della Cgil). Vendevo anche contributi grafici ad altri colleghi.

Quanto alle diapositive, che si usavano soprattutto nelle convention aziendali, c’erano dei sistemi con software proprietari e costosissimi film-recorder, con i quali una slide costava anche più di centomila lire.

A quel tempo, Power Point era agli albori e in bianco e nero e la videoproiezione una tecnica ultracostosa. Con clienti, anche importanti, ma renitenti a spendere svariati milioni di lire per qualche diapositiva, mi creai un mercato, producendo le diapositive con l’Amiga e riproducendole fotograficamente dal monitor CRT più decente che potessi permettermi.

Non erano super-nitide e soffrivano delle deformazioni geometriche del monitor, ma andarono bene per una convention dei supermercati GS (ora Carrefour), alla presenza di Romano Prodi che era maggiore azionista in qualità di Presidente dell’I.R.I.

Poi, nel 1991, passai al Macintosh, che uso tuttora, e finì la fase pionieristica. Photoshop 2 (oggi siamo alla versione n. 21) per elaborare le immagini, scheda Vista per digitalizzarle e trasferirle nel montaggio video, le diapositive le stampava un service (ma quasi mai bene al primo tentativo). L’attenzione si era, ormai, spostata dal “poterlo fare” (a costi sostenbili) al “saperlo fare”, utilizzando tecnologie stabili e in continua crescita prestazionale.

Lo sviluppo e la crescente professionalizzazione dell’attività di comunicazione audiovisiva per le aziende non mi ha poi lasciato il tempo e la voglia di continuare a maneggiare gli strumenti di programmazione (magari “strutturandomi”) e, di questo, provo un certo rimpianto. Ma, nei limiti delle possibilità economiche, non ho mai smesso di mantenermi sul fronte avanzato delle tecnologie. E, grazie a quelle esperienze, ho sempre cercato di capire cosa succedesse sotto il cofano, senza mai dover chiedere assistenza per uno dei numerosi Mac e Pc che hanno lavorato sulle mie scrivanie.




1985 – preistoria della grafica computerizzata (Università) – di Daniele Marini

Congiunzioni astrali. Come Claudio Cereda, anch’io negli anni ‘80 ho avuto l'esigenza di uscire dall'Università scegliendo di lavorare part-time. Un po’ per necessità economiche, e un po’ per insoddisfazione, mi sentivo prigioniero.

Avevo visitato per la prima volta gli Stati Uniti e mi ero reso conto di come la nostra accademia forse ferma. Anche la mia carriera era ferma, dopo essere diventato contrattista nel 1975 il governo stava disattendendo completamente gli impegni di indire concorsi ogni due anni e nel 1980 ancora nessun concorso era stato indetto. In quel periodo mi stavo interessando di grafica col computer e già da 3 o 4 anni collaboravo con uno studio di Architettura.

Altri colleghi del Politecnico stavano introducendo il CAD (Computer Aided Design – progettazione assistita dal computer) tra le discipline. Ricordo in particolare Umberto Cugini, Alessandro Polistina, Claudio Luini. Con Polistina e Luini fondammo una rivista divulgativa – Pixel – e una associazione – Aicographics che cercava di portare in Italia le conferenze SIGGRAPH, che univano temi di ricerca avanzatissima nella sezione delle conferenze, con la promozione commerciale delle nuove tecnologie nella sezione della mostra. In seguito chiamai eidomatica questo nuovo campo delle discipline informatiche.  SIGGRAPH sta per Special Interest Group on GRAPHics and Interactive Techniques ed è la conferenza sulla grafica computerizzata (CG) organizzata annualmente negli Stati Uniti dall'ACM SIGGRAPH organization.

Nel 1981 avevo fatto un lavoro che venne esposto alla Sacrestia Nuova di Santa Maria delle Grazie ed ebbe un grandissimo successo: la ricostruzione a computer della scena dell’Ultima Cena di Leonardo. Avevo utilizzato un mini computer progettato specificamente per la grafica prodotto da una azienda di Boston, Computervision, e che veniva offerto al mercato della progettazione ingegneristica. Proprio per presentare quel lavoro a una conferenza di grafica a Harvard andai a Boston nell’81 e incontrai l'Amministratore Delegato della Computervision che mi offrì di lavorare con loro. Rifiutai, all’epoca ero estremamente insicuro delle mie capacità.

Un compagno di studi che avevo perso di vista, Gianni Della Rossa, venne a parlare con Degli Antoni perché voleva avviare una attività di animazione a computer. Si occupava già di cinema e gestiva una iniziativa di film in lingua originale. Andava e veniva dalla California (Los Angels, San Francisco, San Diego, la Silicon Valley). Degli Antoni lo mise in contatto con me e ci trovammo subito in sintonia nel considerare quello il momento giusto per lanciare una iniziativa nostra. Poco dopo uscì TRON, il primo film con scene elaborate interamente con il computer. Un altro film pietra miliare fu L’Ira di Khan della serie Star Trek, in cui una famosa scena di fecondazione di un pianeta era stata generata con la simulazione grafica dei frattali.

I tempi sembravano maturi ma mancavano le capacità, le persone in grado di lavorare con noi. Fondammo una cooperativa, Eidos, che avviò un programma di formazione trans-disciplinare: tecnologie informatiche e design. Finanziati dal Fondo Sociale Europeo, avviamo un primo corso in cui, con l’aiuto di colleghi informatici, offrivo la formazione tecnica, e con l’aiuto di Giovanni Anceschi impostammo il filone della formazione di design, coinvolgendo docenti come Bruno Munari e Tomas Maldonado. Negli anni successivi organizzammo altre due edizione e anche un corso per la produzione di videodischi, l’ultima novità tecnologica.

Il campo di azione che avevamo scelto era estremamente costoso perché di frontiera, e la grafica richiede enormi capacità di calcolo. Avevamo quindi l’esigenza di ottenere finanziamenti cospicui. Il mio socio, Gianni, in questo abilissimo, riuscì a coinvolgere STET, IMI con una nuova propria società per finanziare quelle che oggi chiamiamo una start-up, Vencapital, e Olivetti. Con il loro finanziamento creammo una società per azioni.

Se non ricordo male era il 1984, proprio l’anno del lancio del primo MacIntosh. Noi dovevamo programmare mini computer sempre più potenti e avevamo acquistato un Data General MV/8000. I nostri clienti si stavano affacciando da poco ai personal computer, i PC IBM. Quindi i nostri programmatori lavoravano in questi due ambienti ta loro molto diversi.

Per la grafica più avanzata usavamo un terminale Evans&Sutherland – quello usato nei simulatori di volo professionali. La sviluppo del nostro progetto software avveniva sulle prime workstation Apollo. Avevamo anche lanciato lo sviluppo di un software per grafica 2d ispirato a quella del Macintosh e che racchiudeva in nuce tutte le funzione che vennero poi sviluppate da Adobe in Photoshop.

Qui devo fare una parentesi. non mi sto vantando, sto solo descrivendo come vivevo il clima in questo settore dovuto ai continui sviluppi e ricerche che seguivo con grande attenzione. Ad esempio Adobe venne fondata da uno dei ricercatori che avevano condotto gli studi più avanzati sul problema della eliminazione delle superfici e delle linee invisibili, perché nascoste, nella grafica 3D. Erano ricerche che conoscevo, come conoscevo l’uso dei linguaggi di markup su cui si basavano le prime versioni di Adobe e che portarono al formato pdf.

Era per me quindi naturale trarre da quelle ricerche idee per lo sviluppo di nuovi programmi. Ancora prima, lavorando su un P6060 Olivetti e programmando in linguaggio BASIC, avevo creato due applicazioni: la prima basata su tecniche di mark-up per stampare e impaginare una relazione (non c’erano ancora word e simili) e la seconda una sorta di foglio elettronico per trattare dati statistici organizzati in tabelle. Visicalc e poi Lotus vennero fuori solo un anno dopo, ma non riuscii a convincere Olivetti ad sviluppare il mio foglio elettronico e farne un prodotto: all’epoca erano convinti che i soldi si facessero con l’hardware!

Tornando alla storia della mia start-up, avevamo successo ed eravamo impegnati a sviluppare un nostro software, che io stavo progettando con l’aiuto di alcuni miei laureandi e di un paio di giovani americani che avevano creduto alla nostra offerta quando visitammo la Brown University.

Vale la pena di raccontare meglio questo episodio: ogni anno e spesso anche due volte all’anno, andavamo in USA o per partecipare alla famosa conferenza SIGGRAPH o per visitare aziende ed Università all’avanguardia delle tecnologie della grafica. Un anno chiedemmo al prof. Van Dam della Brown University di visitare i suoi laboratori e di poter presentare la nostra azienda ai suoi studenti. In quella occasione ho capito come doveva agire un professore universitario serio: fu felice di presentarci; così io e il mio socio spiegammo i nostri progetti. Dopo qualche mese due di questi studenti decisero di venire a lavorare da noi. Sono ancora in contatto con loro.

Avevamo successo, ma la situazione economica del paese era disastrosa: solo per poter avere un anticipo sulle fatture emesse pagavamo alle banche tassi dell’ordine del 20%! L’impegno nello sviluppo del nostro software richiedeva nuovi capitali per passare dalla fase di prototipo alla fase di ingegnerizzazione. Volevamo creare un personal computer dedicato alla grafica animata, basato su una architettura parallela adottando i nuovissimi processori Transputer della INMOS.

Facemmo qualche prototipo, poi alla fine del 1987 arrivò il lunedì nero con il crollo di Wall Street. La lira era agganciata al Sistema Monetario Europeo, SME, alcune aziende italiane avevano fatto operazioni arrischiate sui cambi e perdettero una montagna di quattrini. La Olivetti era già in crisi per la concorrenza sui personal computer e decise di ritirarsi dall’azienda. la Eidos chiuse e io tornai a fare il docente full time.

Una nota di gratificazione: pochi mesi dopo, nel 1988, mi venne chiesto da una piccola azienda, anch’essa partecipata da Olivetti, di svolgere una consulenza visitando alcune aziende USA per capire come si stava sviluppando la tecnologia del calcolo parallelo e del calcolo grafico. Da una delle aziende, Wavefront di San Francisco, che venne poi rilevata dalla major che oggi producono filmi di animazione a computer, arrivò la risposta che accoglievano volentieri il consulente purché non avesse nulla a che fare con la società italiana Eidos, che consideravano il loro maggiore concorrente.

Come Claudio Cereda anch’io mi sentivo estraneo al modo tradizionale di essere imprenditore. Le relazioni finanziarie e gran parte delle relazioni commerciali le intratteneva il mio socio Gianni, io preferivo dedicarmi alla direzione tecnica e di sviluppo, in qualche modo tutelato dal dover venire a patti con atteggiamenti corruttivi. Ma dovevo comunque venire a patti con la realtà di una azienda: commisurare lo sviluppo tecnico alla maturità del mercato pur cercando sempre di portarsi avanti. Una cosa per cui però ho sofferto e ho deciso quindi di non intraprendere più la strada dell’impresa, è stato il dover licenziare i collaboratori quando arriva la crisi. Ricordo che la notte ero preda di incubi degni di scenari da Barbablù.

E’ stata in ogni caso una esperienza straordinaria, che mi ha fatto capire meglio cosa vuol dire formare giovani ricercatori o tecnici, e che ho cercato di riversare nei molti progetti di ricerca che in seguito o lanciato e diretto all’Università




due giorni in giro – di Rino Riva

Mi sono messo in viaggio sabato mattina. L’obiettivo era Alba, l’Alba di Beppe Fenoglio, l’Alba della buona cucina e del tartufo.

Ero con mia figlia che desiderava visitare questo bellissimo borgo al centro delle Langhe. Dovevo portare da tre anni i tappi delle bottiglie che raccoglievo ogni estate sia in campeggio sia sulla  spiaggia dove stazionavo per mesi. Materiale prezioso, tanto da diventare oggetto di furti, poiché rilavorabile, da cui si può ricavare tanto materiale d’arredo urbano e anche personale come sedie, panche, tavoli ed altro.

L’obiettivo successivo era Elle. Mia figlia desiderava fare un bagno nell’acqua cantabrica: rinfrescante, ritemprante, rigenerante e… congelante. Un’acqua in cui io sguazzo alla grande anche perché negli ultimi anni possiedo una muta naturale.

No, non è così. Anche quando correvo ed ero un bel tot di chili in meno mi buttavo nei mesi impensabili nelle acque di Elle. Che so, Marzo, Novembre. Poi, in giro per i viaggi di Vivi e me, ho fatto bagni a Capo Sunio in aprile, uno in Marocco a Essaouira in ottobre. E poi quelli in Irlanda o in Cornovaglia. Per non parlare della bella e amata Bretagna.

Sono fatto così. Niente di strano, è da anni che accarezzavo l’idea di scendere ad Alassio per il bagno dicembrino oppure per fare l’attraversamento in diagonale del Naviglio Grande. Sono temerario, sì, ma non un pi…stola. Perciò attendevo il momento di essere un po’ più in forma o meglio un po’ meno sformato.

Dopo aver consegnato i tappi, siamo andati a poche centinaia di metri a visitare la tomba di Beppe Fenoglio e di Ugo Cerrato, il suo fraterno amico che si è impegnato strenuamente per pubblicare tutto quello che si poteva rendere pubblico dello scrittore langarolo.

Quindi ci siamo diretti verso il grande parcheggio prospiciente l’ingresso alle vie commerciali della cittadina. Ho fatto da Cicerone a mia figlia che è rimasta affascinata da tutto. Dai portici di via Cavour, dal Duomo ovvero la cattedrale di San Lorenzo, dalle sue belle librerie, dalla casa avita di Piazza Rossetti di proprietà di Amilcare, il padre macellaio di Beppe Fenoglio, troncata a metà dall’acefala speculazione edilizia. Alla lunghissima “via maestra”, assai più lunga dell’omonimo Corso Vittorio Emanuele di Milano, bellissima per le torri, per la biblioteca ristrutturata, per gli affascinanti negozi ottocenteschi e per gli stili architettonici diversi, dal medioevale al liberty, che la caratterizzano.

Alba era nota come città delle cento torri, cinta, all'epoca da grandi mura poligonali, mura medioevali che rappresentavano un notevole sistema di difesa: costruite su un basamento alto oltre 2 metri, avevano mezzo metro di spessore, erano munite di contrafforti e torrioni, per tutto il loro perimetro erano circondate da un fossato.
Mia figlia ha fatto fotografie con il cellulare in lungo e in largo. Siamo sbucati in Piazza Savona nel cui bar si recava il nostro Beppe. A poche centinaia di metri la casa di Ugo Cerrato e della sua carissima Luciana.

Da piazza Savona abbiamo deciso di fare un giro nelle vie interne per vederne le architetture e le case di impianto medioevale, fino a giungere in via Pertinace e alla bella Libreria Milton del mio amico Carlo Borgogno e di Serena, la sua bella collaboratrice. A qualche centinaio di metri, il punto di arrivo della nostra escursione, la via Macrino con la spettacolare Osteria dei sognatori, il Pastificio dei Sognatori, il bistrot dei Sognatori. Il guaio però è che tutto era ancora chiuso e l’apertura sarebbe avvenuta la… sera.

Abbiamo avuto fortuna a trovare un rimedio, un ristorantino in una delle vie perpendicolari alla via maestra. Un posto gradevolissimo. Abbiamo mangiato un gustoso primo a testa e bevuto del buon Nebiolo. Sembrava di stare nel centro storico di Girona con le sue stradine acciottolate e i suoi ristorantini “laterali”.

Ci siamo rimessi in marcia, perdendo un sacco di tempo per le indicazioni assurde dei cartelli segnaletici per l’autostrada Torino-Savona, e siamo arrivati a Elle intorno alle 16.00. Saluti e abbracci virtuali con il proprietario del campeggio e i suoi splendidi collaboratori. Invece con “il Marco”, il gestore del ristorantino interno ci siamo proprio abbracciati. Era un pomeriggio soleggiato. Abbiamo scaricato l’auto, ci siamo cambiati e siamo andati al mare che è a soli 100 mt. Subito in acqua per il primo bagno di stagione con replica di lì a poco.

Serata dolcissima in campeggio sulla terrazza con contorno di un’avanguardia di lucciole. Sì, lucciole. A letto presto perché cotti entrambi dalla lunghissima giornata.
Domenica mattina, piove. In maniera insistente. Appena spiove un po’ scendo al bar sulla via Aurelia per bere un caffè. Mia figlia dorme e io non la disturbo. Il tempo non cambia però dobbiamo metterci in moto per andare a Imperia a fare il pieno di metano.

In Liguria ci sono 4 distributori di metano, due sul mare: Albisola e Imperia e due nell’entroterra. L’assurdità però è quella del distributore Eni di Imperia che apre o chiude a proprio piacimento. Lo temevo e ne ho avuto la conferma. Un cartello ci ha comunicato che sabato e domenica l’impianto è chiuso. Ma si può? Vorrà dire che torneremo a Milano con la benzina, spendendo quattro volte di più.

Un po’ di spesa in un supermercato e pranzo in campeggio, questa volta dentro la casetta poiché si era rimesso a piovere. Il tempo così induce a fare un sonnellino che per me dura sempre troppo poco. Alle 16.00 fa capolino il sole. Convinco Enrica a scendere al mare altrimenti poi se ne sarebbe pentita. Ma arrivati in spiaggia lei ha continuato il suo pisolino, io invece ho fatto a piedi più di un chilometro di spiaggia. Ho fatto altri due bagni, uno con il sole e l’altro senza.

Cena in campeggio, sempre sul tavolo esterno. Serata dolce, sempre con lucciole. A letto presto poiché la mattina dopo avremmo dovuto fare una levataccia per riuscire a partire alle 6.00 per essere a Milano in tempo per il lavoro di mia figlia. A Milano piove.

La Casetta Blu è bella, il campeggio è bello, il paese è bello, il mare è bello. Ci vengo dal 1991. Non so però se ci ritornerò. Ci sono dei luoghi che a un certo punto diventano inabitabili. Elle con annessi e connessi è uno di quelli.