Antartide – Tito Barbini

Perdersi e ritrovarsi alla fine del mondo.

Mentre con lo scanner acquisivo l'immagine di copertina, visto che in rete si trovavano solo dei formati francobollo, mi è venuto da osservare che i libri di Barbini sono pensati per stare nello zaino o in tasca. Il formato è 12×17: quello di chi viaggia e non vuole troppo ingombro.

Antartide è del 2008 e viene dopo Le nuvole non chiedono permesso che, qua e là lo anticipava. Fa parte della operazione disintossicazione e non c'è nulla di meglio per disintossicarsi dalla società occidentale che immergersi nelle solitudini e negli spazi di ciò che sta a sud dell'America del Sud, Gondwana o ciò che resta di quel continente che 64 milioni di anni fa migrò verso sud andando a posizionarsi dove l'uomo  non avrebbe potuto arrivare.

Barbini ci racconta del fascino delle terre inesplorate iniziato quando i genitori, che battevano i mercati vendendo giocattoli per bambini, gli regalarono un mappamondo di quelli con la luce all'interno, il fascino dello scorrere con il dito i confini, le catene montuose, gli oceani.

Oggi possiamo farlo facilmente con Google Maps: la Patagonia, Punta Arenas in Cile e Ushuaia in Argentina (con il confine tirato con il righello), lo stretto di Magellano, capo Horn e lì a destra le Falkland Malvinas che, ai tempi dello scontro tra Inghilterra ed Argentinas, tutti ci chiedemmo cosa fossero.

Poi se andate più giù trovate i due oceani uniti, mare e mare, oceano tempestoso, sino a una penisola che si protende verso l'America Latina; è l'inizio dell'Antartide, il pezzo di Terra che per ora sta fuori dalle rotte del turismo, che è di proprietà dell'umanità e non di singoli stati e che contiene, oltre ai pinguini, alle balene, alle orche, la gran parte delle riserve mondiali di acqua dolce. Sperando che non ci mettano mano i cinesi.

Tito va nel mondo e viaggia dentro di sè anche se, materialmente, è a bordo del Professor Mulchanov, un rompighiaccio già appartenuto alla marina sovietica. A differenza di altri libri di viaggio qui ci sono tante foto perché certe immagini aiutano a ricordare: almeno in viaggio mi porto un bagaglio leggero di preoccupazioni e inquietudini. Anzi, è proprio in viaggio che sto bene, sicuro che si può essere uomini in perenne ricerca – una ricerca priva perfino di un suo oggetto e quindi di una destinazione finale – senza per questo abdicare alla possibilità della gioia.

Sul rompighiaccio i diversi passeggeri lasciano in dono a chi verrà dopo di loro un libro. Tito lascia la sua copia di Moby Dick e sfogliando i diversi volumi viene a conoscenza della storia di Padre De Agostini un salesiano, fratello minore del fondatore della De Agostini delle carte geografiche. Padre De Agostini, detto don Patagonia, è stato un esploratore, geografo e difensore delle tribù dei nativi della terra del fuoco sterminati dai fazenderos. Il CAI gli dedica una monografia e lo ricorda così.

Incontriamo le balenottere azzurre e i pinguini imperatore che stanno in Antartide anche in inverno: restano i maschi a covare l'uovo lasciato dalla femmina che, dopo averlo deposto, va a nord alla ricerca del cibo, mentre i maschi si dispongono in una spirale circolare dandosi il cambio con chi rimane temporaneamente all'esterno: per l'intero inverno i pinguini vanno avanti in questo modo, sostenendosi tutti insieme: una colonia, ma io preferisco dire una comunità, che si salva solo perché resta unita  e si distribuisce democraticamente il disagio.

Un tempo … sia il passato che il futuro, il mio passato e il mio futuro, erano qualcosa di molto spazioso, ma in fondo appena sufficiente per contenere quello che troppo spesso ho chiamato passione e scambiato per passione, pur essendo solo egoismo. E Tito ripensa alla politica e all'amore.

Della politica restano in piedi alcune amicizie autenticheper il resto poco o niente, se non il senso di una bella utopia svanita e senz'altro anche tradita … No, non rimpiango davvero niente di tutti questi anni imbevuti di politica, anche se poi, gratta gratta, i rimpianti non vanno certo per una ideologia che non c'è più, inseguono piuttosto la generosità e l'innocenza, la passione e l'intensità: doni un tempo elargiti in abbondanza… quanto deve cambiare, la politica, per trovare un modo nuovo di stare nell'esperienza umana.  E l'Antartide induce a ragionare sui destini del pianeta, la frontiera per una nuova politica.

La riflessione sull'amore, la ritrovo per la prima volta nei suoi taccuini di viaggio. E' sempre un tema difficile da affrontare: in realtà forse non ho mai imparato ad amare e, ogni volta che ho incontrato qualcosa che aveva la pretesa di essere assoluta e definitiva prima o poi riuscivo a smontarla. Per cedere alla tentazione di riaprire la vita, di fare piazza pulita per ricostruire altro … La passione mai appagata e mai spenta, di volta in volta sognata e mai vissuta veramente. E l'Antartide aiuta a capire e a capirsi.

Barbini ha fatto per un po' di anni l'assessore al territorio e all'urbanistica di Regione Toscana e la visione della immutabilità su scale temporali umane del paesaggio dell'Antartide lo porta ad una riflessione su quello toscano fatto di natura più storia e dunque caratterizzato da artificialità.

E' proprio così e mi viene da mandare un messaggio all'ex assessore. I vincoli e le tutele in un contesto in cui sono cambiate l'economia agricola e il modo di produrre, non bastano a fermare il degrado, a meno di disporre di ingenti risorse pubbliche che oggi non esistono. Dove vivo il bosco avanza e si riappropria del territorio ma non è vero che il bosco lasciato a sè migliori l'ambiente. L'antico ruolo della castagna è finito; esistono ancora i castagneti, sempre più ammalorati (non solo per colpa del Cinipide) e in mezzo ad essi i seccatoi che possono essere ristrutturati solo se rimangono tali. Così la maggioranza di quelli ancora esistenti è infestata dai rovi e quando crolla il tetto il gioco finisce, la minoranza è stata ristrutturata e trasformata in casina d'appoggio per un picnic, ma l'alternativa tra degrado e illecito non mi sembra il massimo.

Uno degli ultimi capitoli è intitolato Il senso del tempo e prende spunto dal fatto che in Antartide l'orologio rimane sempre in cabina. Dal 2007/2008 la situazione è peggiorata. E' vero, più nessuno mette al polso l'orologio, ma quanti non sono schiavi del tempo gestito dallo smartphone e da Whatsapp l'ultimo infernale strumento di eliminazione della propria individualità con la finta scusa di condividere? Ricorda la vita degli zii mezzadri in val di Chiana: non era l'orologio che scandiva la giornata ma al contrario era il lavoro che scandiva il tempo.

A seguire: la storia di un personaggio conosciuto grazie al viaggio in Antartide: Il cacciatore di ombre. In viaggio con don Patagonia.


Tito Barbini

Antartideperdersi e ritrovarsi alla fine del mondo

Edizioni Polistampa – 2008 – 174 pag. – 8 €


 




la Gigia, Sigaro e Miou – mondo gatto

Tutte le notti, verso le tre, mi si infila nel letto una diciottenne, mi si mette di fianco e inizia a succhiarmi il muscolo del braccio; alle cinque ricomincia a saltare su e giù dal letto; va sulla scrivania e si mette a raspare l'armadio: è la Gigia, la mia gatta anziana che ha, appunto, 18 anni e io non sono un pedofilo.

Fa così da quando era cucciola; succhia proprio, senza usare i denti, con labbra e lingua, e con le zampe anteriori fa la pasta; in certe notti, se ha le crisi abbandoniche,  fa anche tre o quattro visite addormentandosi mentre succhia sempre più lentamente.

E' stata abbandonata da molto giovane, in mezzo ai rovi, lungo il Lambro, e Bruna, che era in giro per un servizio di guardia ecologica, l'ha trovata, richiamata dai miagolii, insieme ad altri due fratellini dentro un sacchetto di plastica; era così piccola che stava nel palmo della mano.

Ne ha passate tante rischiando di perdere un occhio per una congiuntivite e cheratite eosinofila; le dava fastidio e per combattere il prurito si era data una bella unghiata nella cornea. Il dottor Tiziano Monti, che si è sempre occupato di oculistica veterinaria a Monza, è stato bravissimo. Una prima volta è riuscito a sistemarla intervenendo chirurgicamente sulla cornea ferita e una seconda volta, in cui c'erano perforazioni importanti, le ha fatto anche un mezzo trapianto, applicando sopra la cornea originale una porzione di cornea proveniente da un maiale.

Ormai è la nostra vecchietta, me la sono portata in Toscana e all'inizio, scontrosa e solitaria, interagiva solo con me, scappando a nascondersi se arrivavano Daniela o Ruggero e soffiando agli altri animali. Poi, pian piano si è lasciata andare e ora, nonostante la riservatezza, sta con gli altri gatti e non scappa più se arriva qualche altra persona.

Quando sono solo, al computer o sdraiato a leggere, lei arriva e si mette in braccio o di fianco; mi lascia lavorare, ma intanto ronza, si fa accarezzare e mi rilassa.

Non si sa per quanto tempo restarà ancora tra noi; diciotto anni per un gatto sono già una bella età. Di salute sta bene, ma sono iniziate le difficoltà articolari; i muscoli si sono ridotti e nonostante mangi come gli altri, anzi di più, è molto dimagrita e pesa meno di 3 kg. In dialetto si dice: la ga tacà poe nigot.

Quando la Gigia è arrivata a casa, a Villasanta, c'era ancora Clio e con lei sono passati da casa altri protagonisti che ora non ci sono più; li ricordo in rapida sequenza:

  • Miou (arrivata ai tempi della casa di via Verdi) intraprendente e randagia, scomparsa in via Mantegna nei giorni in cui, nel cantiere delle villette di fronte, facevano le gettate per i cementi armati,
  • Faccione (un bel maschio tigrato, da esterno, con una faccia imponente) che veniva solo a mangiare e un giorno non si è visto più,
  • Vlad il gatto bianco di Daniela (il gatto bianco che sembra un po' un coniglio, gli canticchiava) avvelenato in via Mantegna e ritrovato in fin di vita (la morte di Vlad è stata tra le concause che l'hanno fatta decidere per veterinaria),
  • Chop un maschio bianco e nero molto pacioso a cui piaceva sia stare in casa, sia andarsene in giro, scomparso pochi giorni dopo il suo arrivo in Toscana dove l'avevamo portato nelle vacanze di Natale.

Nei giorni del mio arrivo a Solaia, intorno a casa di Daniela, girava Sigaro, il gatto-nutria, che era stato abbandonato da una coppia-meteora che l'aveva portato a Solaia prima di trasferirsi altrove abbandonandolo con le orecchie che, a guardarle, sembrano mozzate con le forbici (avevano una bimba piccola che, probabilmente, ha fatto qualche esperimento).

Sigaro era in attesa di una famiglia, dopo essere stato buttato fuori casa anche da Daniela a cui aveva rovinato con una pisciata da gatto maschio (di quelle che non si levano più) un set di materassi pregiati comperati da poco.

Ha 7 anni e l'ho definito Gatto-nutria, o gatto-marmotta, perché ha le zampe cortissime, una coda di neanche 15 centimetri, la faccia piccola ma bella, e un bel pelo tabby tigrato. E' molto affettuoso e si comporta come un cagnolino attento a non farsi beccare dalla Chicca che si diverte a rincorrerlo solo per il gusto di vederlo correre. E quando corre è proprio ridicolo.

Come lo tocchi inizia a ronzare e si mette a pancia in su per farsi fare i grattini. Se non lo tocchi arriva e si struscia, ti spinge con la testa, finché non ti decidi a dargli una razione di coccole.

E' un po' tonto e non ha ancora scoperto il trucco per rientrare in casa quando la gattaiola è chiusa in ingresso. Sopperisce alla mancanza di spirito critico con il linguaggio, che è molto ricco di vocalizzazioni diverse, con cui trasmette richieste e desideri.

L'ultima arrivata, Miou seconda, è stata chiamata così, quando ce l'hanno portata nell'estate del 2012, per via della intraprendenza e della abtudine a miagolare in continuazione, come faceva la prima Miou.

Arrivava da una delle colonie feline tra Cerbaia e il Palazzo e l'ha trovata una turista tedesca di passaggio, molto piccola, ma già mollata dalla madre e autosufficiente. Venendo da una colonia felina temevamo per la FIV e la FELV, ma  per fortuna non è stato così. Appena arrivata faceva delle battaglie bellissime con la Cabesita con assalti al volo, pelo ritto e unghiette in fuori.

Miou è il contrario di Sigaro; è cresciuta da gatto domestico, ma ha la sua vita all'esterno, con un territorio molto esteso nei boschi sia verso il fosso di Solaia, sia verso la val di Farma. E' di corporatura grande e ha una muscolatura potente. Quando la prendo in braccio resto impressionato di quanto sia stagna e pesante con una massa muscolare che le consente di fare di tutto: arrampicarsi sugli alberi, saltare le reti delle recinzioni, salire sui tetti, cacciare topi e uccellini. A differenza di Sigaro che si spaventa, lei si diverte a farsi rincorrere dalla Chicca e sembra sfidarla: non mi prendi, non mi prendi, …. e la guarda da un ramo di un  albero.

Per evitare incursioni notturne, avevo bloccato la gattaiola in ingresso, e ci ha messo meno di mezza giornata per scoprire come entrare lo stesso. Dà dei colpetti alla porticina e riesce a farla rimbalzare verso l'esterno; ci ficca sotto una zampa, poi la testa e il gioco è fatto.

I tre stanno insieme e si contendono due spazi: il divano del soggiorno-cucina, messo di fronte alla stufa e su cui in certi momenti dormicchiano l'uno di fianco all'altro e il pavimento della mia camera da letto, intorno al tubo della stufa che arriva dal piano di sotto. Il pavimento si scalda e la Gigia e Miou ci si acciambellano all'intorno.

Mentre la Gigia e Sigaro stanno tranquillamente in braccio e anzi amano essere maneggiati, Miou ha completamente conservato l'indipendenza felina: sono io a decidere; se sono su uno scalino e avvicini la mano,magari, ti dò una leccatina, ma non credere che mi lasci accarezzare perché tu ne hai voglia. Se insisti me ne vado.

Quando esco di casa per un giretto nel bosco mi segue e fa lo stesso quando vado a casa di Daniela. Mi aspetta fuori dalla porta, messa sopra la cuccia della Chicca in posizione irraggiungibile. Mi aspetta, se tardo un po' si mette a miagolare, e poi mi riaccompagna a casa tutta impettita e con la coda ritta all'insu.

La loro vita scandisce la mia giornata; mi alzo su ordine della Gigia e, dopo aver acceso la stufa inizio con la pulizia delle cassette. Sigaro e Miou mi seguono mentre prendo la legna o butto nel bosco cenere e bentonite utilizzata. Poi si piazzano alla base della scala e iniziano i vocalizzi in attesa del cibo, ognuno con le note diverse che crescono di intensità quando arrivo con le ciotole in mano; due dabasso e la Gigia di sopra, perché lei è una signora e non vuole gente intorno mentre mangia.

La sera, verso le sei e mezza identica operazione prima di cena e, in genere Miou a quell'ora ritorna dal bosco. Se ritardo un po', si agitano. I gatti sono molto abitudinari:  ma stasera non si mangia? Spazzolate le ciotole dabasso si piazzano davanti alla porta della camera per il rito delle leccatine. Sigaro e Miou a leccare i sapori della ciotola della Gigia mentre lei scende le scale a fare lo stesso in quelle dabasso.

Il dopo cena è fatto di inseguimenti su e giù per la scala di legno e poi finalmente tutti sul divano per la siesta post prandiale. A quel punto posso mangiare anch'io e il più delle volte, di fronte a telegiornali pieni di polemichine senza frutto e costrutto, spengo la TV e metto un CD di musica classica. Anche i gatti apprezzano.

 




Orazio, la Chicca e la Cabesita

In casa nostra gli animali che arrivano sono sempre casi da servizio sociale; d'altra parte Bruna, di mestiere, ha fatto l'assistente sociale.

Stavo facendo gli esami di stato in provincia di Mantova quando mi arrivò la notizia, da Daniela, di essere riuscita a convincere la mamma a portare a casa l'Orazio. Voi non preoccupatevi che tanto poi io me ne vado in Toscana e lo porto con me.

Credo che fosse l'estate del 99 e nella nostra famiglia si stava per fare un passo importante: dai soli gatti a cani e gatti. Daniela stava finendo veterinaria e da tempo faceva la volontaria al canile dell'ENPA di Monza; pulizie, ma anche sala chirurgica.

In canile c'era Orazio un incrocio tra un Husky e un lupoide (pelo nero folto e sottopelo grigio chiaro), maschio sui 7 anni, in canile da 3 dopo essere stato sequestrato ad un padrone che l'aveva sempre tenuto alla catena.

Non si riuusciva ad affidarlo perché era considerato un cane caratteriale. Assomigliava un po' ai cani dei film tratti dai romanzi di Jack London (tipo Zanna Bianca e Il richiamo della foresta) e, in effetti, non abbaiava ma ululava.

Incominciammo ad andare a trovarlo e a portarlo fuori a fare delle passaeggiate lungo il canale. Dopo essere stato per anni in un box di cemento, non gli pareva vero di uscire. Teneva la cacca il più possibile e, come si usciva, per il primo quarto d'ora era un fermarsi continuo a farla lungo le sponde del Villoresi.

Così, ad un certo punto, è arrivato a casa. E' stato a Villasanta facendosi qualche inverno sul terrazzo coperto di via Mantegna. Gli avevo fatto una grossa cuccia sotto un tavolo di legno quadrato, utlizzando cartoni da imballo, su più strati, come pareti e come pavimento. Sul davanti c'era un foro per l'ingresso e anche una tenda di lana: una cuccia larga e calda e, anche quando fuori andava sotto zero, se mettevi la mano nella cuccia si sentiva un bel caldino.

Poi è venuto in Toscana; Daniela stava, da sola, a Castello di Tocchi in una casa in pietra, riscaldata solo con il camino e lavorava a Siena dalla mattina alla sera. Orazio le faceva compagnia e di giorno stava sul terrazzo sopra la clinica. La sera le capitava di addormentarsi su un minidivano davanti al camino e lui di fianco.

Era un cane buonissimo e la sua caratterialità si estrinsecava nel non lasciarsi maneggiare; se tentavi di forzarlo ad atti contrari alla sua volontà ringhiava  Per qualunque atto medico anche di lieve entità bisognava sedarlo.

Dai tempi del canile aveva conservato la voracità; se trovava qualcosa da mangiare la divorava, perché non si sa mai se domani avrò da mangiare Una volta,che aveva trovato un grosso osso di costina, nel tentativo di masticarlo se lo ficcò, incastrato, tra il palato superiore ed inferiore a bocca spalancata. Sembrava la riproduzione del metodo di cattura dei coccodrilli che avevo visto in tanti doumentari.

Era con me e non sapevo cosa fare. Mi feci aiutare da Bruna con un asciugamano di spugna per aprirgli ulteriormente la bocca e poi, con una pinza, misi le mani tra quei denti affilati e aperti. Evidentemente capì perché mi lasciò fare; sudavo freddo ma riuscii a levare l'osso. Un'altra volta tornammo a casa e rimanemmo impressionati dal fatto che continuava a bere: un litro d'acqua, un'altro litro, ma cosa avrà Orazio? Poi vedemmo a terra la retina di corda di un salame che stava nel locale caldaia adiacente al terrazzo. Era riuscito a prenderlo e l'aveva mangiato tutto sputando la corda; un salame da un chilo; ecco perchè aveva sete.

Nel periodo in cui Daniela è tornata al nord e ha lavorato a Milano, Orazio si è nuovamente trasferito a Villasanta e faceva compagnia a me e Bruna. Cominciava ad avere problemi di cedimento sul posteriore e dunque non si poteva più farlo correre in bici, ma è stato comunque un pezzo importante della famiglia e un incentivo a fare delle belle camminate nel parco.

L'ultimo anno della sua vita lo ha passato nuovamente in Toscana, nella casa ristrutturata di Solaia dove stiamo ora. Era ormai molto anziano, malfermo sul posteriore e con le stesse sindromi neurologiche che si vedono negli anziani umani. Lo ha soppresso Daniela quando, a 14 anni, non ce la faceva più nè ad alzarsi, nè a mangiare, ed ora riposa vicino a una pianta al limitare del bosco.

la Chicca

Sembrava che non ci sarebbero più stati cani grandi tra noi e invece, nel settembre del 2013, Daniela è arrivata con un batuffolo, mezzo spelato, con la coda che sermbrava si stesse staccando, infestato dalla rogna e dalle pulci. Era l'ultimo cucciolo di una nidiata di pastori tedeschi, abbandonato dalla madre che non lo nutriva più. Glielo avevano portato in ambulatorio da sopprimere.

Non se l'è sentita e così la Chicca, che non aveva neanche due mesi ed era poco più grande di una spanna, è rimasta con noi. All'inizio è stata nutrita con il biberon, poi pian piano si è svezzata ed ha iniziato a mangiare da sè.

L'idea era di affidarla a qualcuno, ma come è noto, ci si affeziona. I problemi che presentava, per i quali aveva rischiato di essere soppressa, si sono risolti nel giro di due mesi ed è diventata una canina  bellissima, un pastore tedesco a pelo lungo.

La cosa più bella è il muso; ha la faccia da cane felice e anche ora, che ha più di tre anni, viene scambiata, da chi la vede per la prima volta, per un cucciolo. E' cresciuta in simbiosi con Valentina che, soprattutto nel primo anno, ogni tanto si ficcava con lei nella cuccia di legno a farsi le coccole reciproche, avvinghiate l'una sull'altra.

Da lei si fa fare di tutto compresa la cosa che odia, la pulizia del pelo con l'eliminazione di nodi e forasacchi.

Ha a disposizione un prato di più di mille metri quadri che confina con un castagneto e poi con i boschi della val di Farma e così passa la giornata a correre inseguendo uccellini, api, topolini, cinghiali ed istrici al di là della recinzione. Corre e sta all'aperto con qualsiasi tempo e, se diluvia, tanto meglio; sta sotto l'acqua e quando comincia ad averne troppa addosso si dà una scrollata e ricomincia.

Gioca anche da sola con pezzi di corbezzolo che ama sgranocchiare sino a fargli la punta e con quei grandi vasi di plastica nera che usano i giardinieri; li butta per aria per aferrarli al volo; li scuote tenendoli in bocca come se fossero delle prede, me li porta davanti all'uscio e poi abbaia per farseli lanciare.

Come dice Ruggero: la Chicca ha addestrato il nonno e quando vuole giocare lo chiama.

Dalla primavera, all'autunno, se c'è il sole si fa almeno un paio di docce al giorno con la canna dell'acqua che ama alla follia e dunque quando siamo in giro non si perde un fosso.

Tra casa mia e casa di Daniela ci sono 5 gatti e il rapporto tra cane e gatto è di amicizia anche se Chicca non rinuncia a fingere di inseguirli senza poi far loro nulla. Così, il povero Sigaro, il gatto maschio, imbranato e dalle zampine corte, è continuamente all'erta, gira al largo, si accquatta per non farsi vedere.

C'è un rovescio della medaglia; nella condizione di isolamento in cui viviamo, Chicca ha sviluppato un senso eccessivo della territorialità e non sopporta che qualcun altro si avventuri dalle nostre parti, siano cani o esseri umani. Il suo preferito è il postino; sente arrivare la sua Panda e lo aspetta.

Se lei è dentro e gli altri sono fuori abbaia forsennatamente per dare l'allarme. In tutto ciò è paradossale: se la si porta fuori si tranquillizza, anzi, poiché è un po' fifona, ci mette un po' a socializzare.

Ho incominciato a portarla per boschi quando stradelli o sentieri ma ho sempre un po' di timore a sganciarla dal guinzaglio perché, con tutti gli ungulati che ci sono in giro, non so come si comporterebbe e non mi va di correre rischi; cosa accade ad un cane che ha voluto fare troppo il furbo con un cinghiale lo vediamo continuamente da novembre a gennaio quando, in stagione di caccia, Daniela fa le ore piccole in ambulatorio.

C'è anche un minicane, più anziano di Chicca, la Cabesita, un Chihuahua a pelo lungo. L'abbiamo chiamata così perché anche lei è un caso sociale.

L'allevatrice l'ha regalata a Daniela per via di una fossetta cranica non perfettamente richiusa che ne avrebbe impedito la vendita. (Cabesita vuol dire testolina). La Cabe pesa meno di 2 chili e dunque è una specie di soprammobile vivacissimo.

Nella divisione degli affetti se ne è appropriato Ilia, ma a dir la verità con la scusa che quello che sta più a casa sono io, Cabesita, che ama stare in compagnia, viene da me e passa ore sul divano insieme ai miei tre gatti. Verso di loro l'unica competizione è quella del giro delle ciotole per vedere se è avanzato qualche cosa.

 

 

 

 

 

 

 

 




Handy e Pato

La prima è stata una soriana tigrata rossa (color salmone) e non ha fatto neanche in tempo ad avere un nome, la chiamerò Rossina. E' comparsa una mattina nel giardinetto della casa di  montagna a Lanzada in Valmalenco; sarò stato l'ottanta.

Come molte gatte voleva la compagnia, ma anche l'indipendenza. Ha incominciato a seguirmi nel mio girovagare; prima nei giri intorno a casa e poi anche per i sentieri; un giorno mi è venuta dietro da San Giuseppe a Chiareggio passando per gli alpeggi; un po' davanti, un po' dietro. Ogni tanto spariva dentro le baitelle del formaggio e poi ricompariva. Si comportava come un cagnolino, ma aveva l'indipendenza dei gatti.

E' andata avanti così per una settimana; poi siamo tornati a Villasanta e me la sono portata a casa con l'intenzione di acclimatarla nella colonia di gatti che vivevano nei ruderi del vecchio circolo di via Verdi. La sera la chiudevo nel box, ma dopo due giorni è scomparsa e ho pensato che avesse adottato un'altra famiglia, sperando che non fosse finita male tra le macchine di via Mazzini.

E' stata Rossina a scatenare in famiglia la passione per i gatti. Le gatte della colonia di via Verdi partorivano in zone irraggiungibili, da cui solo loro riuscivano a salire e scendere, un po' arrampicandosi e un po' saltando. I piccoli crescevano e quando avevano fame iniziavano i loro concerti di chiamata delle madri. Noi stavamo al quarto piano, nel condominio costruito a fianco della nostra vecchia casa, dove un tempo c'era il tabaccaio di via Mazzini, il signor Valentini (ul tabacheè) che, negli anni 50 vendeva un po' di tutto.

Ad un certo punto le madri, pronte per il calore e per la prossima gravidanza, li portavano giù da quei muri, tetti e ruderi prendendoli tra i denti per la collottola e li mollavano sulla via Verdi; adesso dovete arrangiarvi. Arrivarono così, in un giorno di fine giugno due tigratini: lui era pezzato più che tigrato (macchie nere su un fondo marrone), ed era buono come il pane; lei aveva una splendida tigratura longitudinale grigio argento, era vivacissima, ma era quasi cieca. Un occhio era completamente chiuso e ricoperto da una spessa crosta per i postumi di una congiuntivite purulenta e l'altro era sulla stessa strada.

Bruna si è impietosita; non sapevamo nemmeno che esistessero i veterinari, e a Villasanta non ce n'erano; ma lei aveva i suoi giri in ospedale, legati all'impegno nel consiglio dei delegati, ed è stato così che portammo la gattina al reparto oculistico dell'ospedale vecchio dalla dottoressa Lauri (anche lei impegnata tra i delegati). Pulizia, visita, terapia. L'occhio chiuso aveva ormai la cornea quasi completamente opaca e l'altro era rovinato per metà.

Fu così che i due cuccioli ebbero un nome legato all'handicap: lei si chiamò Handy e lui avrebbe dovuto essere Cap, ma Daniela preferì Pato e con loro, e la piccola Dany, sono andato in montagna.

Eravamo del tutto digiuni di conoscenze su come si tengono gli animali; mangiavano quel che c'era, con aggiunte di milza, polmone e fegato (presi dal macellaio) e scarti della affettatrice che arrivavano dalla cooperativa (fondi di prosciutto cotto, grasso, fondi di salame). Le tre bimbe (Daniela, Sara e Valeria) integravano la dieta catturando i saltamartini e dandoglieli da mangiare (e un giorno ne vomitarono una quantità industriale).

La casa di Lanzada era fuori paese, aveva sul davanti un giardinetto recintato da una cancellata in ferro da cui i gatti potevano andare e venire e la strada lì davanti congiungeva Chiesa a Lanzada: la strada per le dighe della Valmalenco con un traffico di giorno e di notte e nessun limite di velocità.

Handy e Pato iniziarono a perlustrare i dintorni e a mettere il naso sulla strada; Handy vedeva solo le cose vicine che finivano nella porzione di cornea ancora trasparente; era semicieca, ma vivacissima; Pato la seguiva e la proteggiava.

Mi ricordo di quella volta che portai a casa un disinfettante spray e li spruzzammo dopo averli messi sul tavolino da campeggio in lamiera rossa. Le pulci, lucide, nere e cornee, cadevano morte come sabbia sparsa nel pelo, erano pienissimi. A Villasanta, nella vecchia camera di Daniela, è rimasta una foto di quella operazione, l'unica immagine rimasta di Handy e Pato.

Poi una sera, mentre stavamo cenando ci bussarono alla porta. Era un passante che ci avvertiva: guardate che sul ciglio della strada c'è una gattina morta. Corsi fuori sconvolto; era Handy, con il corpo intatto, la testa ciondoloni, la lingua fuori e una strisciolina di sangue che colava dalla bocca semiaperta. Di fianco a lei c'era Pato che la guardava e non capiva.

Fu una mezza tragedia; la misi in una borsa di plastica; le bimbe la vollero vedere; piangevamo tutti; feci una buca nel prato a monte del giardino e ci misi Handy. Pato, da quella sera entrò in casa e cambiò il modo di rapportarsi ai gatti.

Quando tornammo a Villasanta venne anche lui al quarto piano; era un gatto tranquillo e non ci furono problemi nell'abituarsi a rimanere in casa. Cresceva; lo portavo dal veterinario (il dottor Prati che aveva aperto l'ambulatorio in via Mazzini) che rinviò un paio di volte la vaccinazione a quando fossero terminate tutte le terapie connesse alla crescita, allo sverminamento e così via.

Quando nel pomeriggio mi mettevo in tinello a leggere, o davo qualche lezione privata, lui arrivava, saltava sul tavolo e poi si acciambellava sulle mie spalle e rimaneva lì a farmi compagnia. Come tutti i gatti maschi era un patatone alla ricerca di coccole e di contatto fisico. Aveva 9 mesi.

Ma non era finita, un pomeriggio, di ritorno da scuola lo trovai in cucina in posizione a sfinge, miagolava dal dolore e in giro c'erano vomito e feci semiliquide. Telefonai a Prati e, con Daniela che piangeva, ci fiondammo a Monza nel suo ambulatorio in via Cavallotti. Eravamo soli perché Bruna era nel bresciano per un corso sindacale resdenziale.

Prati lo visitò e fu subito esplicito: gaestrenterite virale; prognosi infausta all'80%. Ci diede qualche terapia, ma mi disse che l'unica era aspettare e idratarlo. Mi ricordo che andammo alla farmacia di turno, sulla curva di via Vittorio Emanuele, a predere le flebo.

A casa lo misi su un puff marocchino di cuoio di fianco al letto. Stava sempre più male e aveva dolori atroci con qualche miagolio disperato. Non riusciva già più a stare nella posizione a sfinge e stava sdraiato di fianco perdendo l'urina.  Sopravvisse sino al primo pomeriggio del giorno dopo; lo lasciavo in camera sul suo puff e andavo ogni mezz'ora a controllarlo. Verso le quattro lo trovai morto.

Mi ricordo che il giorno dopo, al Frisi tentai di spiegare a qualche collega che ero in lutto, mi veniva da piangere, ma gli uomini mi guardarono stupiti mentre trovai più solidarietà tra le donne.

Non ci davamo pace; viveva in casa, come era stato possibile. Prati ci disse che i virus potevano essere arrivati da noi sotto la suola delle scarpe; le vaccinazioni erano ancora poco diffuse e le due pandemie feline, la rinotracheite e la gastroenterite erano endemiche in molte colonie.

Pato venne incenerito e per 6 mesi, per ragioni cautelari, Prati ci sconsigliò dal prendere altri animali, poi trascorsa la quarantena arrivò Clio, nata in un giardino condominiale di una ricca casa monzese. La sua mamma adottiva era di cultura classica, di qui il nome di una musa, quella della storia.

Clio è stata con noi 19 anni e di lei parlerò un'altra volta.