Memorie di un rivoluzionario – di Victor Serge (2) recensione

Solitamente si sostiene che la degenerazione nello stato sovietico abbia a che fare con la costruzione del potere staliniano, come se fosse esistita una fase aurea, governata da Lenin in coppia con Trockij, in cui, pur con mille problemi, le cose avrebbero sostanzialmente funzionato e una successiva fase degenerata dovuta alla presa del potere da parte di Stalin.

Secondo Serge la questione è più complessa e sarebbero state le condizioni di accerchiamento della rivoluzione a spingere il potere sovietico sulla strada del totalitarismo, una strada che, una volta imboccata, avrebbe portato agli esiti che conosciamo. 

il comunismo di guerra, l'estromissione degli anarchici e la rivolta di Kronstadt, "il totalitarismo è in noi"

La fase finale del comunismo di guerra è caratterizzata dal perdurare di una grave situazione di crisi economico sociale (L'apparato è eccellente, ma la minestra è cattiva!. ) di fronte alla quale c'è chi pensa che la fase dirigista debba durare decenni (Trockij e Bucharin) e in questo contesto si assumonio provvedimenti di tipo demagogico destinati a peggiorare il quadro. Mentre l'inflazione fuori controllo trasforma il danaro in carta straccia si parla della prossima eliminazione della moneta come elemento di socialismo realizzato.

Nelle fabbriche gli operai utilizzano le cinghie di trasmissione in cuoio che portano energia alle macchine in suole per le scarpe; si muore letteralmente di fame, ci si riscalda bruciando il parquet dei palazzi nobiliari o bruciando i libri. Nei lazzaretti, quando i morti di tifo diventano troppi, data la impossibilità di seppellire nel trerreno gelato o di cremare i cadaveri, gli stessi rimangono surgelati nei cameroni e quando diventano troppi ci si trasferisce in un altro palazzo lasciando i cadaveri sul posto.


Il comunismo di guerra poteva definirsi così: 1) requisizione nelle campagne; 2) razionamento implacabile della popolazione delle città, divisa per categorie; 3) socializzazione completa della produzione e del lavoro; 4) ripartizione burocratica estremamente complicata degli ultimi depositi di articoli manufatti; 5) monopolio del potere, con tendenza al partito unico e al soffocamento di ogni dissidenza; 6) stato di assedio e Ceka. Questo sistema, il nono congresso del partito comunista lo aveva sanzionato nel marzo-aprile 1920.


La tendenza a reagire alle difficoltà incrementando costrizione e violenza non fanno che avvitare un quadro in costante peggioramento e mentre si accentua il distacco tra il partito e le masse che applicano l'arte di arrangiarsi si scatenano diverse iniziative di repressione nei confronti delle opposizioni (in particolare degli anarchici) smentendo le timide aperture di Lenin e e di Trockij nei confronti dei contadini anarchici dell'Ucraina (il movimento di Machno).

Gli anarchici hanno posizioni differenziate e spesso inconcludenti ma, osserva Serge, la maggior parte dei bolscevichi, fedeli alla tradizione marxista, li considerava utopisti piccolo-borghesi, incompatibili con lo sviluppo del socialismo scientifico. Nel cervello dei cekisti e di certi burocrati in preda alle psicosi dell'autorità, quei piccoli borghesi diventavano una turba di controrivoluzionari loro malgrado con cui occorreva farla finita ed è questa la ragione per cui si oscilla tra collaborazione, accordi di pacificazione e successiva non applicazione degli stessi mentre cresce la sfiducia nei confronti dei bolscevichi.

Come una ciliegina sulla torta nella notte tra il 28 e il 29 febbraio arriva dal cognato di Zinov'ev una notizia sconvolgente: Kronshtadt è nelle mani dei bianchi. Siamo tutti mobilitati. - Quali bianchi? Da dove saltano fuori? E' incredibile!. - Un certo generale Kozlovskij... - E i nostri marinai? Il soviet? La Ceka? Gli operai dell'arsenale?. - Non so altro.

La base navale di Kronstadt, fiore all'occhiello della marina zarista e da sempre avanguardia dei processi rivoluzionari di Russia, è la via di penetrazione naturale alla Russia (vedi cartina generale e ingrandimento) e dunque non è strana, da parte del partito bolscevico, la scelta di risolvere il problema, manu militari; in una logica di salvaguardia dell'esistente non sono ammessi tentennamenti..

E' sciopero generale, Pietrogrado rischia di cadere, ma si tratta di una balla colossale e credo che sia questa balla ad aver fatto cadere definitivamente in Serge la fiducia assoluta nella verità rivoluzionaria e a portarlo definitivamente su una posizione di comunismo libertario: Dei piccoli manifesti incollati sui muri nelle strade ancora deserte annunciavano che, per complotto e tradimento, il generale controrivoluzionario Kozlovskij s'era impadronito di Kronshtadt e chiamavano il proletariato alle armi. Ma prima ancora di essere arrivato al comitato di zona, incontrai dei compagni, accorsi con i loro mauser, che mi dissero che si trattava di una abominevole menzogna, che i marinai si erano ammutinati, che era una rivolta della flotta, e diretta dal soviet. Non era meno grave, forse; al contrario. Il peggio era che la menzogna ufficiale ci paralizzava. Che il nostro partito ci mentisse così, non era mai capitato. E' necessario dicevano alcuni, sebbene molto abbattuti, per la popolazione....

La richiesta degli ammutinati riguarda questioni che troveranno soluzione solo con la svolta della NEP: Era un programma di rinnovamento della rivoluzione. Riassumo: rielezione dei soviet con voto segreto; libertà di parola e di stampa per tutti i partiti e i gruppi rivoluzionari; libertà sindacale; liberazione dei prigionieri politici rivoluzionari; abolizione della propaganda ufficiale; cessazione delle requisizioni nelle campagne; libertà dell'artigianato; soppressione immediata dei distaccamenti di sbarramento che impedivano alla popolazione di rifornirsi a suo piacimento.

Il partito tentenna, gli anarchici tentano una mediazione ma vengono sconfessati e vengono allora, nell'ordine, prima l'ultimatum e poi l'attacco vittorioso da parte di Tuchacevskij nel giorno anniversario della Comune di Parigi. Una parte dei ribelli raggiunse la Finlandia. Altri si difesero con accanimento, forte per forte, strada per strada. Si lasciavano fucilare al grido di Viva la rivoluzione mondiale!. Ce ne furono che morirono gridando: Viva l'Internazionale comunista!.

Per Serge, come dicevo, si tratta di una cesura non sanabile ed è l'inizio del suo percorso di comunista-libertario che, anche quando si schiererà con l'opposizione trockijsta, determinerà sia giudizi diversi sul regime staliniano, sia un modo diverso di condurre la personale battaglia di resistenza anche proicessuale. Mi si perdoni la lunga citazione ma si tratta di uno dei punti chiavi del libro.


L'opposizione operaia sembrava orientarsi verso la rottura con il partito. Eravamo, in verità, già quasi schiacciati dal nascente totalitarismo. La parola totalitarismo non esisteva ancora. La cosa ci si imponeva duramente senza che ne avessimo coscienza. Io appartenevo all'infima minoranza che se ne rendeva conto. La maggior parte dei dirigenti e dei militanti del partito ...speravano che, venuta la pacificazione, lo stato d'assedio sarebbe caduto da sé e che si sarebbe tornati a una certa democrazia sovietica su cui nessuno aveva più idee chiare.

Le grandi idee del 1917 che avevano permesso al partito bolscevico di trascinare le masse contadine, l'esercito, la classe operaia e l'intelligencija marxista, erano evidentemente morte. Lenin non aveva proposto allora una libertà sovietica della stampa tale che ogni gruppo sostenuto da diecimila voti potesse stampare il suo organo a spese della comunità? (1917). Aveva scritto che nel seno dei soviet gli spostamenti di potere da un partito all'altro avrebbero potuto compiersi senza conflitti acuti. La sua dottrina dello Stato sovietico prometteva uno Stato assolutamente differente dagli antichi Stati borghesi, senza funzionari né polizia distinti dal popolo; in esso i lavoratori avrebbero esercitato direttamente il potere per mezzo dei loro consigli eletti e mantenuto da soli l'ordine grazie a un sistema di milizie.

Il monopolio del potere, la Ceka, l'Armata rossa non lasciavano più sussistere altro che un mito teorico di quello StatoComune sognato. La guerra, la difesa interna contro la controrivoluzione, la carestia creatrice di un apparato burocratico di razionamento avevano ucciso la democrazia sovietica. Come sarebbe rinata? Quando?  ...

A questi fattori storici conviene aggiungere importanti fattori psicologici. Il marxismo è mutato parecchie volte, secondo le epoche. Nasce dalla scienza, dalla filosofia borghese e dalle aspirazioni rivoluzionarie del proletariato, nel momento in cui la società capitalistica si avvicina al suo apogeo. Si presenta come l'erede naturale di quella società di cui è il prodotto. Come la società capitalistico-industriale tende ad abbracciare il mondo intero modellandovi a suo piacimento tutti gli aspetti della vita, così il marxismo dell'inizio del secolo ventesimo mira a riprendere in mano tutto, a trasformare tutto, dal regime della proprietà, all'organizzazione del lavoro e dalla carta dei continenti (per mezzo dell'abolizione delle frontiere), fino alla vita interna dell'uomo (per mezzo della fine della religiosità).

Pretendendo una trasformazione totale, esso era, nel senso etimologico, totalitario. Presentava i due volti della società in ascesa: democratico e autoritario ... Il pensiero bolscevico parte dal presupposto di possedere la verità: agli occhi di Lenin, di Bucharin, di Trockij, di Preobrazenskij e di molti altri, la dialettica materialistica di MarxEngels è, allo stesso tempo, la legge del pensiero umano e quella dello sviluppo della natura e delle società. Il partito detiene semplicemente la verità; ogni pensiero differente dal suo è un errore pernicioso o retrogrado. Questa è la fonte spirituale della sua intolleranza. La convinzione assoluta della sua alta missione gli assicura un'energia morale assolutamente sorprendente - e al tempo stesso una mentalità clericale pronta a diventare inquisitoriale.

Il giacobinismo proletario di Lenin, con il suo disinteresse, la sua disciplina di pensiero e di azione, viene a innestarsi sulla psicologia di quadri formati dal vecchio regime, cioè dalla lotta contro il dispotismo; mi sembra certo che esso debba selezionare i temperamenti autoritari. La vittoria della rivoluzione, infine, rimedia al complesso d'inferiorità delle masse perpetuamente vinte e vessate suscitando in esse uno spirito di rivincita sociale che tende a rendere a loro volta dispotiche le nuove istituzioni. Ho visto marinai e operai dell'antivigilia esercitare il comando con una vera ebbrezza, compiacendosi nel far sentire che le loro persone si identificavano ormai con il potere! Persino i grandi tribuni si dibattevano per le stesse ragioni in contraddizioni inesplicabili che la dialettica permetteva loro di sormontare verbalmente, cioè talvolta demagogicamente.

Venti o cento volte, Lenin ha fatto l'elogio della democrazia e sottolineato che la dittatura del proletariato è una dittatura contro gli ex possidenti spossessati e assieme la più larga democrazia di lavoratori. Lo crede, lo vuole. Va a rendere conti alle officine, domanda di affrontare la critica spietata degli operai. Scrive anche nel 1918 che la dittatura del proletariato non è affatto incompatibile con il potere personale, legittimando così in anticipo una specie di bonapartismo. Fa imprigionare il suo vecchio amico e compagno Bogdanov perché questo grande intellettuale gli presenta obiezioni imbarazzanti; fa mettere i menscevichi fuori legge perché questi socialisti piccolo-borghesi sono purtroppo in errore. Riceve affettuosamente il partigiano anarchico Machno e tenta di dimostrargli che il marxismo ha ragione; ma lascia o fa mettere l'anarchismo fuori legge. Promette la pace ai credenti e ordina di avere riguardi per le Chiese, ma ripete che la religione è l'oppio dei popoli. Andiamo verso una società senza classi, di uomini liberi: ma il partito fa proclamare con manifesti un po' dappertutto che il regno dei lavoratori non avrà fine. Su chi regneranno dunque? E che significa la parola regno? Il totalitarismo è in noi.


In effetti sempre nel marzo del '21 si tiene il X congresso del partito bolscevico e Lenin opera una sterzata su alcune delle questioni calde divenute insostenibili e legate al comunismo di guerra; è la NEP pensata come temporaneo ritorno al capitalismo per consentire allo stato sovietico di sopravvivere: soppressione delle requisizioni, imposte in natura (per i contadini); libertà del commercio, libertà della produzione artigiana; concessioni ai capitalisti stranieri, a condizioni vantaggiose; libertà d'impresa - limitata, è vero - per i cittadini sovietici stessi.

Si apre sul terreno della politica economica e dei rapporti di produzione ma non si molla sul terreno delle libertà politiche. Serge è sfiduciato, assiste al III congresso dell'Internazionale comunista, fonda una associazione eterodossa per il libero pensiero, tenta l'esperimento di una comune agricola nella zona del lago Ladoga e, alla fine tira le somme, considera chiusa la sua esperienza di vita nella terra dei soviet e, sfruttando la consolidata collaborazione con Zinov'ev e i membri dell'esecutivo, si fa mandare in Europa a lavorare per creare le condizioni di alleggerimento dell'isolamento russo. Prima tappa Berlino

rivoluzionario di professione in Europa mentre muore Lenin e in URSS inizia la guerra dentro il partito

Gli anni dal 1922 al 1926 corrispondono da parte dfi Serge al tentativo di digerire la delusione ritornando nella amata Europa a fare il rivoluzionario di professione per conto della Internazionale che sta gestendo le rotture all'interno del movimento socialista e tenta di rompere l'accerchiamento della Russia rivoluzionaria fomentando insurrezioni (spacciate per rivoluzioni socialiste) in primo luogo in Germania.

Serge arriva a Berlino dopo essere passato per la Lituania e rimane colpito dalla sua organizzazione e dall'alto tenore di vita. La Germania, vittima degli accordi di spartizione successivi alla guerra mondiale (le riparazioni di Versailles) è in piena crisi, ma i movimenti affiliati a Mosca sono generalmente diretti da personaggi di secondo piano, in maggioranza russi, governati a guinzaglio corto da Zinoiv'ev che controlla i finanziamenti. E' in questo quadro che nell'ottobre del 23 avviene in Germania una insurrezione farsa e tentativi analoghi riguarderanno prima il mondo balcanico, l'Estonia e poi la Bulgaria.

Dopo i fatti di Gernania Serge si trasferisce a Vienna dove ha modo di incontrare Antonio Gramsci e Angelica Balabanoff; apprende della imminente morte di Lenin e avrà poi modo di avere informazioni da Nikolaj Bucharin testimone diretto:

Lenin sembrava possedesse ancora tutta la sua coscienza, senza mezzi di lavoro, né di espressione. Riusciva appena a balbettare qualche parola; gli si faceva compitare lettera per lettera il titolo della Pravda. Aveva talvolta sguardi carichi di un'amarezza inesprimibile. Verificatosi un miglioramento, aveva voluto rivedere il Cremlino, il suo tavolo di lavoro, i suoi telefoni; vi venne condotto...

Lo vedi, sostenuto da Nadezda Kostantinovna (Krupskaja) e Nikolaj Ivanovic (Bucharin), mentre trascina il suo passo di invalido attraverso il gabinetto, guardando, terrorizzato di non capirla più, la carta sul muro, prende tra le dita delle matite per abbozzare una firma, e tutto questo come un fantasma, come un disperato che sopravvive a se stesso... Bucharin lo visita sovente nella sua casa di campagna di Gor'kij. Bucharin fa l'allegrone con lui, poi si nasconde dietro un cespuglio e lo guarda con gli occhi pieni di lacrime... E' proprio la fine, vecchio mio. E poi?. Poi, sarà la zuffa.

Consiglio la lettura delle pagine dedicate a Gramsci (pronto a scovare il falso per farlo sgonfiare con una punta ironica, vedeva molto chiaro) alla Balabanoff, già mentore e amante del Mussolini socialista, poi autorevole membro della segreteria della III internazionale.

La politica rivoluzionaria, fatta di chiaroveggenza e di coraggio, esige nei tempi decisivi qualità di buon chirurgo, e nessuno è quaggiù più umano e più probo che il buon chirurgo che lavora tuttavia sulla carne viva, nel dolore e nel sangue. Angela insorse allo stesso tempo contro la chirurgia politica che tendeva a scartare senza riguardi i capi riformisti disposti a silurare ogni offensiva e contro gli sporchi intrighetti da medicone e da politicante di Zinov'ev. Essa seppe discernere ben presto i primi indizi della malattia mortale che in una quindicina d'anni avrebbe provocato la morte del bolscevismo.

I marxisti sanno, mi diceva Gyrgy Lukács, autore di "Geschichte und Klassenbewusstsein" che si possono commettere impunemente molte piccole porcherie quando si fanno grandi cose; l'errore di certi consiste nel credere che si può arrivare a grandi risultati facendo soltanto piccole porcherie...Gyrgy Lukács, una sera che andavamo errando sotto le guglie grigie della chiesa votiva, non fatevi stupidamente deportare per nulla, per il rifiuto di una piccola umiliazione, per il piacere di votare con sfida... Credetemi, le vessazioni non hanno grande importanza per noi. I rivoluzionari marxisti hanno bisogno di pazienza e di coraggio; non hanno affatto bisogno di amor proprio.

Amor proprio o no, Serge rientra in Russia per continuare a bere il suo calice amaro; si fa coinvolgere dalla organizzazione della opposizione di sinistra intorno a Trockij. Stalin, espressione del centro (Molotov, Kaganovic, Mikojan, Kirov) si è ormai impadronito del partito rafforzato dall'ingresso di quelli entrati con la morte di Lenin. In Russia si sta meglio e la gente vuole essere tranquilla; si rafforza la burocrazia mentre tra gli esponenti della vecchia guardia e tra i letterati si diffondono i suicidi.

Stanno per iniziare le svolte politiche e i processi di epurazione con i cambi di cavallo che porteranno alla messa fuori gioco dapprima di Trockij, Zinov'ev e Kamenev e poi della destra di Bucharin, Rykov e Kalinin. Nell'ottobre del 27 Trockij pronuncia al C.C. il suo uiltimo discorso (rivoluzione cinese, ripresa della industrializzazione energica e moderata, attenuazione della NEP) e mentre parla alcuni altri che, ben in carne, non avevano la minima idea di non essere più in realtà se non fantasmi agitati di futuri suicidi e fucilati, lo coprivano di oltraggi stenografati: Menscevico! Traditore! Lazzarone! Liberale! Bugiardo! Canaglia! Spregevole chiacchierone! Rinnegato! Infame!.

Nell'autunno del 27 Zinov'ev e Trockij vengono esclusi dal C.C.. Zinov'ev pur privato di tutti gli incarichi farà ammenda mentre il quindicesimo congresso (dicembre 1927) stabilisce la esclusione dal partito della intera opposizione (deviazionismo menscevico) i cui dirigenti, a partire da Trockij vengono esiliati dando loro solo la possibilità di una ritrattazione.

Trockij viene esiliato ad Alma Ata (alla frontier del Turkestan cinese). Anche Serge viene convocato dalla commissione di controllo di Leningrado per un interrogatorio di rito sulla fedeltà: Qual è il vostro contegno circa la decisione del congresso che ha pronunciato l'esclusione dell'opposizione? Risposi: - Mi sottometto per disciplina a tutte le decisioni del partito, ma ritengo che quello sia un errore grave, le cui conseguenze saranno funeste, se non viene presto riparato... L'operaia con il fazzoletto rosso in testa si rizzò e, con una voce stupefatta: - Compagno, avete detto proprio "un errore"? Pensate dunque che il congresso del partito può sbagliarsi e commettere errori?. Citai l'esempio della socialdemocrazia tedesca che aveva votato la guerra il 2 agosto 1914 contro i due soli voti di Karl Liebknecht e di Otto Rhle. Questo paragone sacrilego empì di costernazione la Commissione. Fui escluso immediatamente.

Ho riportato questo brano perché consente di comprendere la posizione di Serge che rimarrà immutata negli anni successivi quando subirà mesi di carcere e di inquisizione. Serge, a differenza di altri esponenti della opposizione che scelgono una sorta di doppio binario per proseguire attività clandestina di collegamento, è per la esplicitazione del dissenso e, paradossalmente, sarà questo uno degli elementi che gli consentiranno di salvarsi evitando le accuse di cospirazione con cui si finiva molto spesso alla fucilazione. Passano pochi giorni e viene arrestato rimanendo nel carcere di Leningrado per alcune settimane. Non gli viene contestato nulla e sarà liberato per effetto di pressioni parigine (è già un intellettuale famoso). 

Una opposizione solitaria e il testamento politico (1928-1933)

Gli anni dal 28 al 33 riguardano problematiche tra loro diverse: la costruzione di una prospettiva professionale, visto che sono ovviamente cessati i diversi incarichi connessi alla attività politica, i mutamenti di linea politica in URSS con la fine della NEP, la persecuzione dei Kulaki e l'industrializzazione forzata, l'incrudimento del carattere illiberale del sistema che inizialmente riguarderà i tecnici e in genere le persone coinvolte nei processi produttivi.

La persecuzione dei Kulaki (i contadini proprietari che erano stati agevolati dalla NEP) avviene nel momento in cui si determina una crisi nella agricoltura e il governo sovietico decide di spingere sulle strutture statali e cooperative (i sovchoz e i colchoz) e contemporaneamente di imboccare la strada della industrializzazione forzata.

I contadini proprietari vengono assogettati requisizioni e deportazioni (e nel giro di un decennio si avrà una riduzione di circa 5 milioni di famiglie contadine su un totale di 25) e Serge racconta le forme di insubordinazione attuate dalle donne in particolare in occasione delle azioni più insensate. In Bielorussia, quando si venne a tagliare il crine dei cavalli per l'esportazione, senza pensare che le bestie ne sarebbero crepate, le donne circondarono il capo del governo locale, Golodied (fucilato o suicida poi nel 1937) e, d'un tratto, sollevarono, furiose, le loro gonne, sotto cui erano nude: - Tieni, porco! Prendi se osi il nostro crine, non avrai quello dei cavalli!.

A treni interi i contadini deportati partivano verso il nord glaciale, le foreste, le steppe, i deserti, popolazioni intere spogliate di tutto; e i vecchi crepavano in viaggio, si sotterravano i neonati sul ciglio delle strade

Serge decide che farà lo scrittore e si occupa inizialmente di saggi dedicati ai primi anni della rivoluzione, oltre che di collaborazioni dirette con riviste francesi. Dato che mi si rifiutava il diritto di partecipare all'industrializzazione senza rinnegare la libertà di opinione, avrei potuto, pur mantenendo fermamente il mio contegno di oppositore ridotto all'inazione, recare su questo tempo testimonianze utili.

Frequenta l'unione degli scrittori e assiste alla crisi di alcuni dei grandi come Majakovskij che si suicida o di Gorkij isolato e dissenziente - In altri tempi lo scrittore russo non aveva da temere se non il poliziotto e l'arcivescovo; il funzionario comunista di oggi è assieme l'uno e l'altro; vuole sempre cacciarvi le sue sporche zampe nell'anima...

In certi momenti, ci facevamo poche illusioni. Ricordo di aver detto: Se un disperato tira una rivoltellata a qualche satrapo, rischiamo parecchio di essere fucilati tutti assieme entro otto giorni. Non sapevo di colpire così nel segno. Per anni, la persecuzione fu dappertutto, insistente, al punto di far perdere la testa. Il regime divorava ogni semestre una nuova categoria di vittime. Finiti i trockisti, ci si era attaccati ai kulaki; poi ai tecnici; poi agli ex borghesi, commercianti e ufficiali privati del diritto inutile di voto; poi ai preti e ai credenti; poi all'opposizione di destra...

Alle difficoltà della sopravvivenza quotidiana si aggiunge il crollo psichiatrico della moglie che non regge alle persecuzioni verso il padre Rusakov, vecchio rivoluzionario libertario. Alla fine del 1932 Serge incomincia seriamente a pensare ad un nuovo espatrio, ma teme contemporaneamente di essere arrestato, questa volta non di passaggio e ciò lo induce a scrivere una sorta di testamento politico da far pubblicare in Francia nel caso di una sua sparizione. Il documento è datato 1 febbraio 1933.


Credo proprio di essere stato il primo a definire in quel documento lo Stato sovietico come uno Stato totalitario. Già da lunghi anni scrivevo, la rivoluzione è entrata in una fase di reazione (...). Non bisogna nascondersi che il socialismo porta in se stesso germi di reazione. Sul terreno russo, questi germi hanno prodotto una prospera fioritura. Oggi noi siamo sempre più in presenza di uno Stato totalitario, castocratico, assoluto, ebbro della sua potenza, per cui l'uomo non conta.

Questa macchina formidabile riposa su una doppia base: una polizia onnipotente che ha ripreso le tradizioni delle cancellerie segrete della fine del diciottesimo secolo e un 'ordine', nel senso clericale della parola, burocratico, di dirigenti privilegiati.

La concentrazione dei poteri economici e politici fa sì che l'individuo è tenuto, attraverso il pane, il vestito, l'affitto, il lavoro, a disposizione assoluta della macchina: essa permette quindi a quest'ultima di trascurare l'uomo e di non tener conto d'altro che dei grandi numeri, alla lunga. Questo regime è in contraddizione con tutto ciò che è stato detto proclamato, voluto, pensato, durante la rivoluzione stessa...

Su tre punti essenziali, superiori a ogni considerazione di tattica, resto e resterò, mi costi quel che mi deve costare, un non consenziente dichiarato, netto, il quale tacerà solo se costretto:

1. Difesa dell'uomo. Rispetto dell'uomo. Bisogna restituirgli diritti, una sicurezza, un valore. Senza di ciò, niente socialismo. Senza di ciò, tutto è falso, fallito, viziato. L'uomo chiunque esso sia, fosse pure l'ultimo degli uomini. 'Nemico di classe', figlio o nipote di borghesi, me ne infischio, non bisogna mai dimenticare che un essere umano è un essere umano. Ciò si dimentica ogni giorno sotto i miei occhi, dappertutto: è la cosa più rivoltante, più antisocialista che ci sia.

E a questo proposito, senza voler cancellare una sola riga di quel che ho scritto sulla necessità del terrore nelle rivoluzioni in pericolo mortale, devo dire che considero un abominio inqualificabile, reazionario, nauseante e demoralizzante l'uso continuo della pena di morte da parte di una giustizia amministrativa e segreta (in tempo di pace! E in uno Stato più potente di qualsiasi altro!). Il mio punto di vista è quello di Dzerzinskij all'inizio del 1920, quando, sembrando terminata la guerra civile, propose - e ottenne senza fatica da Lenin - la soppressione della pena di morte in materia politica (...). E' pure quello di quei comunisti che proposero per anni di ridurre le funzioni delle Commissioni straordinarie (Ceka e Ghepeù) all'inchiesta.

Il valore della vita umana è caduto così in basso e ciò è così tragico che ogni pena di morte dev'essere condannata in questo regime. Abominevole ugualmente, e ingiustificabile, la repressione mediante l'esilio, il confino, la prigione semiperpetua, di ogni dissidenza nel movimento operaio ...

2. Difesa della verità. L'uomo e le masse vi hanno diritto. Non consento né al rimaneggiamento sistematico della storia e della letteratura, né alla soppressione di ogni informazione seria nella stampa (ridotta a una funzione di agitazione). Ritengo la verità una condizione di salute intellettuale e morale. Chi parla di verità parla di sincerità. Diritto dell'uomo all'una e all'altra.

3. Difesa del pensiero. Nessuna ricerca intellettuale, in nessun campo, è permessa. Tutto si riduce a una casistica nutrita di citazioni (...). La paura dell'eresia sbocca nel dogmatismo bigotto più paralizzante. Ritengo che il socialismo non possa crescere nel campo intellettuale altro che per mezzo dell'emulazione, della ricerca, della lotta delle idee; che non debba temere l'errore, sempre riparato col tempo dalla vita stessa, ma il ristagno e la reazione; che il rispetto dell'uomo sottintenda per l'uomo il diritto di tutto conoscere e la libertà di pensare.

Non contro la libertà di pensiero, non contro l'uomo può trionfare il socialismo, ma al contrario nella libertà di pensiero, migliorando la sorte dell'uomo.


Si tratta di tematiche che3 vedremo riprese nell'ultimo capitolo delle memorie. Serge verrà arrestato mentre la lettera è ancora in viaggio per Parigi, lo attende la visione dall'interno del sistema inquisitorio cui farà fronte con la opposizione diretta e a viso aperto senza farsi ingabbiare, come accadrà ai trockijsti, dal culto del partito e dalla considerazione che i rapporti di produzione sono stati rotti e ricostruiti su base socialista. Siamo in presenza di una visione umanistica della lotta per il socialismo: l'uomo, la verità e la libertà di pensiero vengono prima di ogni altra considerazione.

L'arresto, l'inchiesta e la deportazione (1933-1936)

- Ricerche criminali. Vogliate seguirci, cittadino, per verifica di identità. Serge era uscito a prendere medicine per la moglie, viene abbordato per strada e portato alla sede della Ghepeu. Subisce un interrogatorio di 12 ore e poi viene trasferito al carcere dove rimane una sola notte perché poi viene trasferito a Mosca (segno che questa volta si tratta di una cosa seria).

A Mosca finisce alla Lubjanka (sede della Ceka, Ghepeu, KGB) un edificio storico originariamente occupato da una compagnia di assicurazioni ora sede centrale del sistema della repressione con carcere interno, forte segmentazione interna, 10 piani sotterranei con il cunicolo delle fucilazioni (Mi capitava, andando e tornando dall'istruttoria, di passare davanti all'ingresso spalancato di un corridoio cementato del pianterreno brutalmente illuminato).

Durante i primi giorni, in attesa della assegnazione definitiva e della apertura dell'inchiesta sta in mezzo agli altri detenuti in attesa della presa in carico e tra i diversi episodi voglio citare l'incontro con un agronomo siberiano perché rappresenta bene il clima del sistema repressivo-inquisitorio nella sua perfezione-imperfezione. Il libro è pieno di questi racconti veri di tipo kafkiano e lo stesso Serge ne farà uso nei suoi romanzi.

L'ultimo arrivato fu il più simpatico; era un intellettuale siberiano di una sessantina d'anni, vigoroso, teso, allegro. Attaccai discorso con lui e, quando seppe che ero oppositore, mi raccontò gorgogliando di risa la faccenda che lo conduceva a Mosca da Irkutsk e lo empiva di ottimismo.

In seguito alla carestia e alle epizoozie, nella sua remota regione, si era montato contro gli agronomi, i veterinari e gli ingegneri un affare di sabotaggio controrivoluzionario. Si era preteso da loro che facessero confessioni contrarie al semplice buon senso. Aveva, lui, resistito mesi, nel freddo, nella fame, nell'isolamento; poi aveva ceduto a una promessa di miglioramento del regime e confessato tutto ciò che si era voluto.

Dopo di che, gli avevano dato una cella calda, permesso di ricevere viveri e vedere la moglie e avevano promesso di sollecitare per lui, dato il suo pentimento, l'indulgenza del Collegio segreto. Soltanto, ecco! Abbiamo confessato tante cose e così folli che Mosca non ci ha creduto, Mosca ha domandato gli incartamenti, e poiché gli incartamenti sono stupefacenti, ci hanno fatto venire, i due principali accusati e il giudice istruttore, per studiare la faccenda qui stesso! Abbiamo viaggiato un mese con il giudice, sentiva di essere nelle nostre mani, aveva paura di noi, ci colmava di gentilezze...

E il professor N., incontrato dopo qualche giorno, compagno di avventura dell'intellettuale siberiano aggiunge divertito quanto il suo collega, me ne diede volentieri altri particolari... Pensava che tutto si sarebbe rigirato in senso contrario e che i giudici istruttori della Ghepeù locale avrebbero ben presto occupato le celle dei loro accusati della vigilia.

Insieme al professor N. incontra un altro agronomo che gli dà notizia dell'arresto di 35 alti funzionari e dirigenti del commissariato della agricoltura arrestati con lui (tutti fucilati di lì a qualche giorno). Siamo alla coda degli arresti, deportazioni e assassinii dei controrivoluzionari (i tecnici) prima che si scateni la nuova ondata contro i politici (della destra e della sinistra) innescata dall'assassinio di Kirov (si veda il caso Toulaev).

Nella cella della Lubjanka Serge vive in totale solitudine e non ha accesso ai libri, ma si tiene in esercizio mentale facendosi immaginari corsi di diverse discipline e in esercizio fisico in modo di presentarsi lucido agli interrogatori con il giudice Bogin (dapprima) e con l'inquisitore Rutkovskij (collaboratore personale del caposervizio Molcianov, membro del Collegio segreto). La tecnica degli inquisitori si basa sulla guerra psicologica, accusare senza provare, insinuare, blandire, puntare alla ammissione ed è contro queste tecniche che Serge combatte a viso aperto sapendo che gli inquisitori hanno bisogno di ammissioni su cui costruire i loro castelli, perché anche la loro attività viene poi sottoposta a controlli superiori. Sapevo che gli inquisitori della Ghepeù sono controllati da varie commissioni, in particolare la Commissione di controllo del C.C. e che devono, per motivare le sentenze volute, preparare incartamenti secondo tutte le regole.


Bogin spiegò che sapeva tutto: - Tutto. I vostri compagni sono talmente demoralizzati, ho qui le loro deposizioni, non credereste ai vostri occhi. Vorremmo sapere se siete un nemico o, malgrado la vostra dissidenza, un vero comunista. Libero per voi di rifiutarvi di rispondere, l'istruttoria sarà chiusa oggi stesso e vi considereremo con la stima che merita un avversario politico a viso scoperto.

Trappola! Vuoi che ti faciliti il compito dandoti carta bianca, perché tu possa cucinare in seguito contro di me, con i tuoi rapporti segreti, non so quali conclusioni che mi varrebbero almeno anni di isolamento. - No, tengo a rispondere all'interrogatorio. Interrogate.

- Ebbene; parliamo da comunisti come siamo voi e io. Io sono al posto che il partito mi assegna. Voi pensate di servire il partito, e io vi capisco. Voi ammettete l'autorità del C.C.?. Trappola! Se ammetto l'autorità del C.C., entro nel gioco e si può farmi dire qualsiasi cosa in nome della devozione al partito. - Prego, io sono escluso. Non ho richiesto alcuna riammissione. Non sono quindi più tenuto alla disciplina di partito...

- Siete deplorevolmente formalista!. - Domando di sapere di che sono accusato al fine di distruggere l'accusa. Mi sento irreprensibile dal punto di vista delle leggi sovietiche. - Che formalismo! Allora voi vorreste che io metta le carte in tavola?. - Stiamo forse giocando a carte?. Finì per dirmi che si erano trovati in casa mia documenti che provenivano da Trockij. E' falso dissi.


Consiglio la lettura attenta degli interrogatori, delle insinuazioni, delle repliche ferme di Serge, della capacità di far perdere le staffe agli inquisitori che, alla fine, in mancanza della minima ammissione sono costretti a cedere. Serge ammette solo cose che sono lecite per la legge sovietica e non si fa ingannare dal buon cuore degli inquisitori o dallo spirito di partito, errore in cui cadranno molti dei dirigenti rivoluzionari fucilati tra il 36 e il 38, primo di tutti Zinov'ev. Il resto lo fa la sua doppia cittadinanza franco-russa, così l'istruttoria viene chiusa e Serge è spostato in carcere. Un ufficiale della Ghepeù entrò bruscamente, un sottile foglio di carta in mano. Leggete, firmate!. Lessi: Mene controrivoluzionarie, condannato dalla Conferenza speciale a tre anni di deportazione a Orenburg... Firmai con tanta collera quanta gioia. La collera dell'impotenza, la gioia, poiché la deportazione era malgrado tutto l'aria aperta, il cielo libero sopra la testa.

Orenburg è una vecchia capitale decaduta che campa sulla presenza di una scuola di aviazione. C'è una povertà assoluta e la lotta per il pane, nel senso letterale del termine, è all'ultimo sangue (furti, lotte in famiglia, prostituzione).

Il deportato, legato dalla sua corrispondenza con i suoi cari, dal lavoro, dalle cure mediche, viveva letteralmente alla mercé di qualche funzionario di polizia. Tenuto a presentarsi alla Ghepeù tutti i giorni, oppure ogni tre, ogni cinque, ogni sette giorni secondo i casi.

Non appena riusciva a organizzare un po' la sua esistenza, si distruggeva tutto, mediante la disoccupazione, la prigione o il mutamento di sede. Gioco interminabile del gatto e del topo... Mi si fece chiaramente comprendere che non avrei ottenuto lavoro se non avessi cercato le grazie della Ghepeù. Recatomi a parlare di un impiego possibile al trust dell'oro dell'Ural, ebbi con il capo del servizio segreto questo spunto di dialogo: - Avete l'intenzione di sollecitare la vostra reintegrazione nel partito?. - Niente affatto. - E di appellarvi al Consiglio speciale degli interni per la condanna pronunciata contro di voi?. - Niente affatto. Non si parlò più di impiego.

Ma da Leningrado arrivano la moglie, il figlio e la macchina da scrivere che consentirà di continuare il lavoro di scrittore e di pubblicista. In questo periodo Serge riesce a campare con i proventi della attività editoriale che arrivano a singhiozzo da Parigi. Le cronache della deportazione sono gustose e mi limito ad alcuni riferimenti:

  • Il direttore della scuola di Vlady vorrebbe punirlo perché ha osato affermare che in Francia ci sono le libertà politiche e sindacali e considera tale affermazione come un attacco all'Unione Sovietica; Ma dissi, è un fatto che la libertà sindacale e persino politica esiste in Francia, e ciò non ha nulla di antisovietico. - Mi è difficile credervi rispose il direttore, e noi dobbiamo in ogni caso inculcare ai ragazzi che la vera libertà esiste da noi e non sotto la dittatura capitalista dei paesi cosiddetti democratici.
  • il racconto dettagliato del gruppo degli oppositori di sinistra, ciascuno con le sue storie; molti di loro li ritroveremo nel romanzo scritto da Serge dopo la liberazione "Se è mezzanotte nel secolo". Uno di loro sarà agganciato dalla Ghepeu per montare l'ennesima provocazione ai danni di Serge (la costituzione di un comitato clandestino della opposizione, la pistola fumante che non si trova): Lo interrogai sui compagni di Mosca, cercando di identificarli, lo guardai bene in fondo agli occhi, e pensai: Tu, vecchio mio, sei un agente provocatore!. Gli spiegai che, anche nel fondo delle prigioni, rappresentavamo sempre un principio di vita e di libertà e che non avevamo affatto bisogno di costituirci in comitati clandestini. Fallì dunque, ma fu graziato qualche tempo dopo. Avevo avuto ragione. Se lo avessi ascoltato, sarei certo morto a quest'ora, con un forellino nella nuca.
  • l'arrivo da Leningrado di alcuni dei deportati borghesi (i deportati furono da cinquanta a centomila): In seguito alla faccenda Kirov, Stalin aveva mandato al comitato regionale di Leningrado un messaggio in cui gli rimproverava di non aver ripulito la città dell'antica borghesia imperiale. Il rastrellamento cominciò immediatamente.
  • la tragicommedia legata al controllo della corrispondenza; alcune opere spedite in Francia con tutti i crismi della Unione degli scrittori e il controllo della Ghepeu non arriveranno mai e, racconta Serge, ad un certo punto incominciai a campare dei rimborsi dovuti alla corrispondenza spedita per raccomandata che non veniva recapitata. Il capo del servizio segreto dal quale andai a lamentarmi esclamò: - Guardate in che modo deplorevole funziona la posta! E voi dite che esageriamo quando scopriamo dei sabotaggi. Vedete, anch'io, le lettere a mia moglie si perdono! Vi prometto che l'inchiesta sarà ben fatta e la posta vi pagherà senza indugio le indennità legali!. Mi offrì cortesemente di vegliare pure alla spedizione, sempre a Romain Rolland, di un'altra serie di manoscritti che la Ghepeù avrebbe fatto visionare dalla censura letteraria. Glieli affidai - e naturalmente non arrivarono mai. Date le premesse, la mia corrispondenza con l'estero fu interrotta. Il capo del servizio segreto scuoteva gravemente la testa: - Ah! Che volete che facciamo per mettere ordine nelle poste?. La posta mi pagava con regolarità centinaia di rubli per le lettere raccomandate che io continuavo a mandare in ragione di cinque al mese e che si perdevano. Ciò mi procurava il reddito di un tecnico ben retribuito.

La liberazione di Serge arriva alllo scadere dei tre anni di condanna in un momento in cui in URSS è normale essere colpiti da provvedimenti con cui le pene vengono replicate per via puramente amministrativa. La liberazione avviene per effetto delle pressioni internazionali. Il congresso degli scrittori per la difesa della cultura tenutosi a Parigi si occupa estesamente del suo caso mentre gli scrittori russi presenti cercano addirittura di coinvolgerlo nell'attentato a Kirov. L'impudente dichiarazione che giustificava la mia prigionia con un attentato commesso due anni dopo il mio arresto fece passare un brivido lungo qualche schiena. André Gide andò a trovare l'ambasciatore dell'URSS, che non seppe illuminarlo su nulla. Quasi nello stesso tempo Romain Rolland, invitato a Mosca e ricevuto da Stalin, gli parlava dell'affare Victor Serge. Il capo della polizia politica, Jagoda, consultato, non trovò nulla nei suoi incartamenti (se vi avesse trovato la minima compiacente confessione firmata da me, sarei stato perduto). Stalin promise che sarei stato autorizzato a lasciare l'URSS con la mia famiglia.

Gli anni dal 1936 al 1941: la guerra di Spagna, i fronti popolari, il patto russo-tedesco

Serge, nell'aprile del 1936, ce la fa ad espatriare grazie all'azione dei socialisti belghi (in particolare di Emile Vandervelde) che concedono il visto di ingresso (rifiutato da Francia e Inghilterra), viaggia con il figlio Vlady e, prima in Belgio e poi in Francia, è fatto oggetto di continue azioni di provocazione da parte della Ghepeu.

A Mosca sta per iniziare l'epoca dei grandi processi, Zinov'ev, Kamenev e Sverdlov sono già stati coinvolti dalle inchieste legate al processo Kirov e nell'agosto del 36 così descrive uno degli incontri con Vandervelde: dopo l'esecuzione dei sedici a Mosca, lo trovai spaventosamente triste, ancora appesantito sotto l'incomprensibile: Ho letto le confessioni di Kamenev: si tratta di delirio... Come potrete spiegarmelo? Conosco Kamenev, sta là dinanzi a me, con i suoi capelli bianchi, la sua nobile testa - e non posso ammettere che lo si sia ucciso dopo questo straripamento di follia... Come spiegare tali delitti a quel vecchio che incarnava, sull'orlo della tomba, mezzo secolo di umanismo socialista? Ero più interdetto ancora che davanti alle domande di mio figlio.

Serge si batte come un leone ma è sostanzialmente isolato perchè l'internazionale comunista ha iniziato la politica dei Fronti Popolari e il Fronte sta per vincere in Francia (Leon Blum); la carretta la tirano i socialisti ma il ruolo del partito comunista è fondamentale e, anche quando le cose sono chiare, bisogna tacere o far finta di nulla. Il capitolo 9, oltre che raccontare ciò che avviene è occasione per Serge per riflettere sulla genesi di quanto sta per avvenire. A volte preconizza, come nel caso della morte del capo della Ghepeu Jagoda o del processo alla destra di Bucharin e Rykov, altre volte cerca di analizzare le cause di questo salto di qualità.


E, il 14 agosto, - d'un tratto, come il tuono - venne l'annuncio del processo dei sedici, terminato il 25 - in undici giorni! - con l'esecuzione di Zinov'ev, Kamenev, Ivan Smirnov e tutti i loro coimputati. Comprendevo (e lo scrissi immediatamente) che era il principio dello sterminio di tutta la vecchia generazione rivoluzionaria. Impossibile assassinare questi e lasciar vivere gli altri, loro fratelli, testimoni impotenti, ma testimoni che comprendevano tutto fino in fondo.

Perché questo massacro, mi domandavo sulla Révolution Prolétarienne, e non vedevo altra spiegazione che la volontà di sopprimere i gruppi di ricambio del potere alla vigilia di una guerra considerata imminente. Stalin, ne sono persuaso, non aveva strettamente premeditato il processo, ma egli vide nella guerra civile di Spagna il principio della guerra europea. Ho il sentimento di essere la prova vivente della non premeditazione del primo processo, e anche della falsità delirante delle accuse formulate in tutti i processi. Avevo lasciato l'URSS alla metà di aprile, in un momento in cui quasi tutti gli accusati erano già in prigione. Avevo collaborato con Zinov'ev e Trockij, conoscevo da vicino parecchie decine di coloro che stavano per sparire fucilati, ero stato uno dei dirigenti dell'opposizione di sinistra a Leningrado, uno dei suoi portavoce all'estero, non avevo mai abiurato...

Mi si sarebbe lasciato uscire dalla Russia, con la mia penna e le mie convinzioni di testimone inconfutabilmente informato, se il processo di sterminio fosse stato così vicino? Il fatto, d'altra parte, che nessuna accusa insensata sia stata formulata contro di me nel corso dei processi basta a chiarire che non si mentiva altro che contro coloro i quali non avevano nessun mezzo di difesa.


Insieme ad intellettuali francesi e americani mette in piedi una sorta di antesignano tribunale Russel: un comitato per l'inchiesta sui processi di Mosca e per la difesa della libertà d'opinione nella Rivoluzione ma, come detto, si tratta di una lavoro difficile perché c'è l'esigenza di fronte al nazismo, alla guerra di Spagna, al governo socialista di Francia, di restare uniti. Per chi conosce un po' di storia anche dell'antifascismo italiano e dell'emigrazione italiana antifascista in Francia è tutto tragicamente chiaro (i complotti, il sospetto, …).


Annunciai che Radek, condannato a dieci anni di prigione, non sarebbe sopravvissuto a lungo: è stato assassinato in prigione.

Conoscendo gli uomini e la Russia, devo ripetere che i vecchi bolscevichi erano compenetrati da un tale fanatismo di partito, da un tale patriottismo sovietico, che diventavano capaci di accettare i peggiori supplizi, e per ciò stesso erano incapaci di un tradimento. Le loro stesse confessioni provano così la loro innocenza. Lo Stato totalitario si fondava su un sistema di sorveglianza e di spionaggio interno così perfetto che qualsiasi cospirazione vi era impossibile. Ma il vecchio partito nella sua totalità esecrava il regime e il capo, viveva nell'attesa delle catastrofi - che sono venute - e questo si traduceva in molte conversazioni intime e in uno stato d'animo generale di opposizione al capo, a dispetto degli atti di sottomissione e di adorazione che il capo instancabilmente imponeva.

L'immensa maggioranza dei bolscevichi si sono del resto lasciati fucilare nella notte senza prestarsi al gioco abominevole delle confessioni per compiacenza politica. Alcuni sono arrivati fino alla tomba schiacciando la loro coscienza stessa per servire ancora al partito. Tranne una o due eccezioni, coloro che si sono dichiarati trockisti non lo erano, non lo erano mai stati, erano persino abbastanza profondamente in disaccordo con Trockij e le loro polemiche contro di lui sono durate anni.

Se ci sono state trame di cospirazione in qualche luogo, sono state ordite dalla Ghepeù stessa, che si era servita di questo procedimento di provocazione per liquidare gli ultimi bianchi (monarchici), liquidare i menscevichi del Caucaso, liquidare infine, come ho già raccontato, le nostre organizzazioni di opposizione. Se diplomatici, ingegneri, militari, giornalisti, agenti segreti hanno avuto contatti con l'estero, ciò e avvenuto sempre in base a direttive e con un controllo costante; e poi lo hanno considerato un crimine.

Conosco personalmente parecchi casi di questo genere. Una orribile logica ha presieduto all'ecatombe. Il potere intendeva sopprimere i gruppi di ricambio alla vigilia della guerra e castigare dei capri espiatori per trovare responsabili della carestia, della disorganizzazione dei trasporti, della miseria di cui esso stesso era responsabile. Assassinati i primi bolscevichi, bisognava evidentemente assassinare tutti gli altri, diventati testimoni incapaci di perdonare. Bisognò pure, dopo i primi processi, sopprimere coloro che li avevano montati e ne conoscevano i retroscena, - perché la leggenda creata diventasse credibile. Il meccanismo dello sterminio era così semplice che si poteva prevederne il corso. Annunciai, con mesi di anticipo, la fine di Rykov, di Bucharin, di Krestinskij, di Smilga, di Rakovskij, di Bubnov....

Quando Antonov-Ovseenko, il rivoluzionario che aveva, nel 1917, dato l'assalto al Palazzo d'Inverno, il miserabile che aveva testé fatto assassinare a Barcellona il mio amico Andrès Nin e il filosofo anarchico Camillo Berneri, fu richiamato dal suo posto in Spagna per prendere possesso di quello di Commissario del popolo alla Giustizia, lasciato vacante da Krylenko sparito nelle tenebre, annunciai che era perduto - e lo era infatti. Quando Jagoda, capo della Ghepeù, organizzatore del processo Zinov'ev, fu nominato Commissario del popolo alle Poste e Telegrafi, annunciai che era perduto - e lo era infatti... Prevedere non serviva assolutamente a nulla.


Il tribunale internazionale si occupa invano degli eventi di Spagna che precedono la fine della esperienza repubblicana con la persecuzione del partito libertario di sinistra (il POUM) e con la scomparsa e l'assassinio di un compagno di lotte di Serge (ampiamente citato nel libro) Andrès Nin.

Andrès Nin aveva trascorso la sua gioventù in Russia: comunista devoto e poi militante dell'opposizione di sinistra. Ritornato in Spagna, aveva fatto l'esperienza delle prigioni della repubblica reazionaria, tradotto Dostoevskij e Pilnjak, polemizzato contro i fascistizzanti, partecipato alla fondazione di un partito rivoluzionario marxista. La rivoluzione del luglio 1936 ne aveva fatto il consigliere per la giustizia della "Generalidad" di Catalogna. In questa qualità aveva creato i tribunali popolari, messo fine al terrorismo degli irresponsabili, stabilito una nuova legislazione del matrimonio. Era un socialista erudito e un intellettuale di gran classe, stimato da tutti coloro che lo conoscevano, stretto d'amicizia con il capo del governo catalano, Companys.

Senza vergogna, i comunisti lo denunciano come un agente di Franco, Hitler e Mussolini, rifiutano di firmare il patto contro la calunnia che gli offrono tutti gli altri partiti, si ritirano da una conferenza nella quale gli altri partiti gli domandano con calma di recare prove; nella loro propria stampa invocano continuamente i processi di Mosca, nel corso dei quali, del resto, il nome di Nin non è mai stato pronunciato. La giusta popolarità di Nin aumenta ugualmente; non resta che farlo fuori. Riuscimmo a scatenare in favore dei perseguitati di Spagna un movimento di solidarietà internazionale.

Le memorie proseguono alternando riflessioni sul totalitarismo al racconto di avvenimenti che hanno a che fare con la storia francese e con l'evoluzione del quadro politico europeo. Serge combatte la sua battaglia a colpi di conferenze e di articoli e osserva che i nuovi metodi del totalitarismo adottano le tecniche della pubblicità e puntano a umiliare con l'irrazionalismo e la violenza l'intelligenza umana.

Il buon successo di simili tecniche è possibile soltanto in epoche torbide e a condizione che le minoranze coraggiose, che incarnano il senso critico, siano bene imbavagliate o ridotte all'impotenza dalla ragion di Stato e dalla mancanza di risorse materiali. In nessun caso si tratta di convincere, si tratta in definitiva di uccidere. Uno dei fini perseguiti mediante quello scatenamento di pazzia che furono i processi di Mosca fu di rendere la discussione impossibile tra comunisti ufficiali e comunisti di opposizione.

Il totalitarismo non ha nemico più pericoloso del senso critico; si accanisce a sterminarlo. I clamori trascinano via con sé ogni obiezione ragionevole e, se persiste, una barella porta via l'obiettore alla camera mortuaria. Ho tenuto testa a degli assalitori in riunioni pubbliche. Gli offrivo di rispondere a tutte le loro domande. Raffiche di ingiurie, lanciate all'impazzata, si sforzavano di coprire la mia voce.

Mentre in Russia vengono fucilati i vertici dell'Armata Rossa con in testa il maresciallo Tuchacevskij, in Francia su ordine di Mussolini vengono assassinati i fratelli Rosselli, muore in maniera strana il figlio maggiore di Trockij Lev Sedov (febbraio 1938). La sconfitta della Spagna e la crisi del Fronte popolare segnano un cambiamento di clima; l'accordo di Monaco segna la fine della Cecoslovacchia. Per Serge sono i mesi del chiarimento-rottura con Trockij. Serge è perplesso sulla scelta di dar vita ad una nuova internazionale di partitini inconsistenti e ne scrive all'interessato esplicitando il suo dissenso su alcui temi e caratteri della rivoluzione bolscevica (Kronstadt, la repressione successiva, la creazione della Ceka,). Lo vedevo mescolare con i lampi di un'alta intelligenza gli schematismi sistematici del bolscevismo d'altri tempi, di cui credeva la risurrezione inevitabile in ogni paese. Comprendevo quel suo irrigidirsi di ultimo superstite di una generazione di giganti, ma, convinto che le grandi tradizioni storiche non si continuano altrimenti che attraverso i rinnovamenti, pensavo che il socialismo debba pure rinnovarsi nel mondo moderno; e che ciò debba accadere mediante l'abbandono della tradizione autoritaria e intollerante del marxismo russo dell'inizio di questo secolo... Il solo problema che la Russia rivoluzionaria degli anni 1917-1923 non abbia mai saputo porre è quello della libertà, la sola dichiarazione che bisognava rifare e che essa non fece è quella dei Diritti dell'Uomo. Nulla si farà di umanamente grande in avvenire senza risolvere o tentare fortemente di risolvere questo problema.

Trockij vede in tutto ciò una manifestazione di demoralizzazione piccolo-borghese; è la rottura anche se Serge, una volta approdato in Messico quando si è già consumato l'assassinio del grande rivoluzionario con la collaborazione di sua moglie Natallja Ivanovna Sedova scriverà una sintetica biografia Vita e morte di Trockij segno di un rapporto intellettuale che non si è mai interrotto completamente.

Il patto Hitler-Stalin (agosto del 39) con l'accordo per la spartizione della Polonia pensato in URSS come uno strumento per tirare il fiato prima della guerra crea scompiglio in Occidente e se non salverà l'URSS dalla operazione Barbarossa consente al nazismo di pianificare l'invasione rapida del Belgio e della Francia. A gennaio del 1939 Franco entra a Barcellona e a marzo dello stesso anno i nazisti occupano Praga. Serge ci racconta del crollo della società parigina, della fuga verso sud sino a Marsiglia e infine, dopo molte peripezie dell'imbarco verso la Martinica, Cuba e alla fine dell'approdo al Messico.

1941-1943 Città del Messico – per finire …

Nell'ultimo capitolo Serge cerca di tracciare un bilancio della sua vita avventurosa. Mi limito su questi aspetti a sottolineare le questioni più importanti lasciandolo parlare direttamente: Non mi sento affatto individualista, piuttosto personalista, in questo senso, che la persona umana mi appare come un altissimo valore, ma integrata alla società e alla storia. L'esperienza e il pensiero di un uomo hanno un significato degno di essere ricordato solo in questo senso.

vantaggi e inconvenienti dell'essere sbalestrati

Esule politico di nascita, ho conosciuto i vantaggi reali e i pesanti inconvenienti di essere sradicati. Questo allarga la visione del mondo e la conoscenza degli uomini; dissipa le nebbie dei conformismi e dei particolarismi soffocanti; preserva da una sufficienza patriottica che in verità è semplice mediocre contentezza di sé; ma costituisce nella lotta per la vita uno svantaggio più che serio.

Ho visto nascere la grande categoria degli apolidi, cioè degli uomini cui le tirannie rifiutano persino la nazionalità. Quanto al diritto di vivere, la situazione degli apolidi, che sono in realtà gli uomini più attaccati alla loro patria e alla patria umana, non può paragonarsi che a quella dell'uomo "sans aveu" del Medioevo, che, non avendo signore né sovrano, non aveva diritto né difesa, e il cui solo nome è diventato una specie di insulto.

Per spirito conservatore, in un tempo in cui nulla può più essere conservato senza cambiamento, e anche per spirito di inerzia giuridica, la maggior parte degli Stati moderni si sono resi complici della persecuzione di questi difensori della libertà. Ora che stiamo diventando milioni, la cosa forse cambierà...

Non deploro, per parte mia, di portare questa tonnellata di piombo sulla nuca, dato che mi sono sentito allo stesso tempo russo e francese, europeo e eurasiatico, straniero in nessun luogo - malgrado le leggi - ma dappertutto capace di ravvisare nella diversità dei luoghi e della gente l'unità della terra e degli uomini.

Al tempo di Orban, Salvini e di fondamentalisti delle più diverse latitudini (come Erdogan) si tratta di una bella riflessione controcorrente; chi più di un apolide è cittadino del mondo? E per non essere generico voglio parlare di due popoli che nel 900 sono stati al centro dell'essere cittadini del mondo: gli armeni e i curdi due popoli (entrambi svillaneggiati dai turchi) che ancora oggi pur avendo cultura, storia e identità nazionale continuano a non avere diritto a un loro stato.

Alla fine degli anni 60 ne ho conosciuto uno cui la mia formazione culturale-politica deve molto. Si chiama Vanghelis (greco) Oskian (armeno) ed è stato tra i fondatori di Avanguardia Operaia oltre che il suo primo segretario nazionale (divenuto Aurelio Campi con l'ottenimento della cittadinanza italiana). Quando l'ho conosciuto aveva il passaporto giallo dell'ONU, conosceva un sacco di lingue e ragionava di politica a 360°. Ne parlo perché mentre si scrive di storia di Avanguardia Operaia sembra quasi che non sia esistito (come quando Stalin faceva ritoccare le foto degli anni di Lenin per cancellare la faccia di Trockij). Non voglio essere polemico ma la cosa mi intristisce.

Il sentirsi cittadini del mondo, negli ultimi decenni sta passando di moda sia perché le grandi organizzazioni internazionali come l'ONU e le sue filiazioni faticano a funzionare, sia perché la prosecuzione di politiche di sfruttamento dei paesi del terzo e quarto mondo ha fatto rinascere pulsioni nazionalistiche spesso associate a fondamentalismo e fanatismo religioso

partecipare coscientemente alla storia

L'intelligencija russa mi aveva di buon'ora insegnato che il senso stesso della vita consiste nella partecipazione cosciente al compimento della storia. Più ci penso e più questo mi pare profondamente vero. Questo vuol dire pronunciarsi attivamente contro tutto ciò che sminuisce gli uomini e partecipare a tutte le lotte che tendono a liberarli e a farli più grandi. Che questa partecipazione sia inevitabilmente intaccata da errori non ne diminuisce l'imperativo categorico; peggiore è l'errore di vivere soltanto per sé, secondo tradizioni tutte intaccate di inumanità...In Europa, in Asia, in America, generazioni intere si sradicano, si impegnano a fondo in lotte collettive, fanno l'apprendistato della violenza e del grande rischio, l'esperienza delle prigionie, constatano che l'egoismo del ciascuno per sé è ben sorpassato, che l'arricchimento personale non è il fine della vita, che i conservatorismi di ieri non conducono altro che a catastrofi, sentono il bisogno di una nuova presa di coscienza per la riorganizzazione del mondo.

Mi riconosco il merito di aver visto chiaro in alcune circostanze importanti. La cosa in sé non è difficile eppure è poco comune. Non credo che dipenda dall'intelligenza alta o sveglia, ma piuttosto dal buon senso, dalla buona volontà e da un certo coraggio nel superare l'influenza dell'ambiente e una tendenza naturale a chiudere gli occhi sui fatti, tendenza che proviene dal nostro interesse immediato e dalla paura che ci ispirano i problemi.

Serge è un umanista rivoluzionario, uno che crede alla politica come strumento per cambiare il mondo, uno che non chiude gli occhi, uno che non ha paura anche dopo 40 anni di disavventure, uno che non molla, uno che mi ricorda un piccolo aforisma di Einstein che da molti anni ho posto al centro della mia attività e che mi spinge anche a dedicarmi con impegno e in maniera disinteressata ai "Pensieri in Libertà". l'intransigenza, lo spirito critico e la tolleranza (la guerra senza odio)

Quel che c'è di terribile quando si cerca la verità diceva un saggista francese, è che la si trova... La si trova, e non si è più liberi di seguire l'inclinazione dei propri vicini né di accettare i luoghi comuni correnti. Ho scorto subito nella rivoluzione russa i germi di mali profondi come l'intolleranza e l'inclinazione a perseguitare i dissidenti. Essi provenivano da un sentimento assoluto di possesso della verità, innestato sulla rigidezza dottrinale. E questo sentimento si risolveva nel disprezzo dell'uomo differente, dei suoi argomenti, del suo modo di essere.

Uno dei più gravi problemi che a ciascuno di noi tocca risolvere praticamente è certo quello dell'accordo da realizzare tra l'intransigenza che risulta da convinzioni ferme, la conservazione dello spirito critico nei riguardi di quelle stesse convinzioni e il rispetto della convinzione diversa. Nel corso della battaglia il problema è ottenere la massima efficacia pratica e insieme rispettare che cosa c'è dietro il nemico; il problema della guerra senza odio, in una parola. La rivoluzione russa, benché diretta da uomini probi e intelligenti, non lo risolse; le masse avevano ricevuto dal dispotismo un'educazione troppo funesta, non estranea ai dirigenti stessi.

Non disconosco, enunciando questo giudizio, la potenza dei fattori economico-storici; essi sono in gran parte condizione dell'azione, ma non ne determinano tutta la qualità. A questo punto interviene il fattore umano. Varie volte mi sono sentito sull'orlo di una conclusione pessimistica sulla funzione del pensiero (dell'intelligenza) nella società. Ho senza posa constatato, da un quarto di secolo, cioè a partire dalla stabilizzazione della rivoluzione russa un po' prima del 1920, una tendenza generale alla repressione del pensiero chiaroveggente...

Non metto in dubbio, dopo averci molto riflettuto, né lo spirito scientifico del marxismo né il suo apporto assieme razionale e idealistico alla coscienza moderna; ma non posso non considerare una grave sciagura il fatto che un'ortodossia marxista si sia impadronita, in un grande paese in via di trasformazione sociale, dell'apparato del potere. Qualunque sia il valore scientifico di una dottrina, dal momento in cui diventa governativa, gli interessi dello Stato non le permettono più la ricerca disinteressata; e la sua stessa sicumera scientifica la conduce anzitutto a imporsi nell'educazione, poi a sottrarsi alla critica con i metodi del pensiero eterodiretto, che è anzitutto il pensiero soffocato.

I rapporti tra l'errore e la conoscenza giusta sono ancora troppo oscuri perché si possa pretendere di regolarli autoritariamente; senza dubbio all'uomo occorrono lunghi erramenti attraverso le ipotesi, gli sbagli e i tentativi dell'immaginazione, per giungere a mettere in chiaro conoscenze più esatte, in parte provvisorie; giacché ci sono poche esattezze definitive. Ciò significa che la libertà di pensiero mi sembra uno dei valori più essenziali. E anche uno dei più combattuti.

Mi vengono in mente le potenti vaccinazioni antidogmatiche di un pensatore ed epistemologo che mi è molto caro: K.R. Popper con i suoi riferimenti alla ricerca della verità, al suo carattere provvisorio, all'atteggiamento antidogmatico, alla importanza di difendere le proprie opinioni con la simultanea necessità di sottoporle ad un vaglio critico e con la disponibilità ad ammettere di avere torto. Nel racconto della sua vita Serge sui temi della repressione, dell'autoritarismo, della intolleranza e del fanatismo cita molto spesso Gorkij che, dall'alto della sua statura intellettuale, si poteva permettere il ruolo di difensore dei dissenzienti e di profeta della tolleranza.

La paura e il pensiero libero

Ho incontrato dappertutto, continuamente, la paura del pensiero, la repressione del pensiero, come un sordo desiderio assolutamente generale di fuggire o di reprimere questo fermento di inquietudine. Nel tempo della dittatura del proletariato, quando i manifesti rossi proclamavano che il regno dei lavoratori non avrà fine, neppure il primo venuto avrebbe ammesso che si discutesse, mettendola in dubbio, la perennità di un regime che era evidentemente d'eccezione e di battaglia.

I nostri grandi marxisti russi, nutriti di scienze naturali, non ammettevano si mettesse in dubbio la concezione dialettica della natura - che è tuttavia semplicemente un'ipotesi, e ormai difficile da sostenere. I capi dell'Internazionale comunista consideravano come una manchevolezza morale o come un delitto il minimo dubbio sull'avvenire trionfale di questa organizzazione. Più tardi, in seno all'opposizione, così sana nelle sue aspirazioni, Trockij non volle tollerare alcun punto di vista differente dal suo...

Si torna di nuovo sul carattere provvisorio delle trasformazioni, qualunque esse siano. Si fa fronte al bisogno di eterno trasformando un bisogno in un principio di realtà. Così la dittatura del proletariato diventa un dogma, un principio ideologico necessario a farsi forza, a nascondere il reale con le sue contraddizioni

Errori e responsabilità dei rivoluzionari

Se è evidente che le più grandi linee della storia in cammino risultano da fattori che ci oltrepassano, che non possiamo dominare, di cui prendiamo coscienza solo imperfettamente, frammentariamente, non è meno evidente che il carattere dei fatti storici (e il loro stesso orientamento in alcuni casi) dipende abbastanza largamente dalla capacità degli uomini.

Il Comitato centrale del partito bolscevico, riunito nel dicembre 1918 per studiare i mezzi per combattere le azioni della controrivoluzione all'interno, doveva scegliere coscientemente le armi che avrebbe dato al nuovo regime. "Poteva" istituire tribunali rivoluzionari pubblici (ammettendo le porte chiuse in casi precisi), ammettervi la difesa, ordinarvi il rigore. "Preferì" creare la Ceka, cioè un'Inquisizione con procedura segreta, sopprimendo la difesa e il controllo dell'opinione pubblica. Così facendo, seguì probabilmente la china dello sforzo minore, seguì anche impulsi psicologici che si capiscono se si conosce la storia russa, ma che non hanno nulla a che vedere con la coscienza socialista.

Si potevano, nel 1926-27, prevedere in Russia le difficoltà risultanti dalla debolezza dell'industria e dalla ripresa della produzione agricola? Noi le prevedevamo; ed era possibile rimediarvi a tempo in qualche misura; ma gli uomini di governo preferirono ancora una volte seguire la china del minimo sforzo, che è anche quella della minima chiaroveggenza, ma dà l'illusione di differire le crisi gravi come i malati pusillanimi differiscono un'operazione chirurgica. Le difficoltà di cui non si volle avere chiara coscienza si aggravarono, provocarono una sorta di panico, cioè di oscuramento della ragione e obbligarono a soluzioni di violenza spaventosamente inumane e onerose, quelle della collettivizzazione totale e dell'industrializzazione totalitaria...

Nei regimi dispotici, troppe cose dipendono dal tiranno...; e: tutto ciò che è stato fatto in Russia sarebbe stato fatto molto meglio da una democrazia sovietica... Il carattere del tiranno diede in seguito un impulso catastrofico alle lotte politiche. I processi di impostura e di sangue furono decisi dall'Ufficio politico che ne dettò le sentenze e ordinò l'esecuzione di queste sentenze. Cioè una decina di persone al massimo deliberarono a testa fredda sul problema di sapere se bisognasse o no massacrare le migliaia di cittadini permeati di spirito di opposizione; essi potevano decidere per la privazione dei diritti politici e la prigionia di questi avversari, e si pronunciarono per l'impiego dei mezzi più crudeli e più demoralizzanti.

In un'altra circostanza di incalcolabile significato, lo stesso Ufficio politico, dovendo scegliere tra la collaborazione con Hitler e la collaborazione con le potenze democratiche, soluzioni entrambe che implicavano grandi rischi di guerra e di invasione, scelse la soluzione che rimuoveva il pericolo più immediato, accrescendo il pericolo a qualche mese o anno di scadenza, come i fatti hanno provato.

In tutto ciò, l'intelligenza e il carattere degli uomini hanno una funzione capitale; ed è necessario osservare che la loro intelligenza razionale, come la loro moralità - definita dal sentimento umano e dalla fedeltà a principi che rappresentano interessi generali superiori - sono state assenti...

La macchina totalitaria funziona in seguito come un'officina a cui un ingegnere, girando una manovella, abbia trasmesso la corrente. Bisogna concludere da tutto questo: assenza di fatalità, potere enorme dell'uomo, responsabilità personale. Non è una conclusione pessimistica. Ma è la condanna dei sistemi che concentrano in poche mani un potere che rende folli, determinano una selezione alla rovescia, sopprimono il controllo - anche imperfetto - del potere da parte dell'uomo medio, paralizzando la coscienza pubblica.

Si poteva fare diversamente? Serge non fa sconti allo stato di necessità. Occorrono lungimiranza e fermezza dei principi. Occorrono razionalità, senso del provvisorio, moralità perché poi la macchina totalitaria funziona come una macchina in cui ognuno fa un piccolo pezzo del proprio crimine, tutti sono innocenti; il potere assegna i singoli compiti, li rende neutri attraverso poliziotti, giudici, carnefici chiamati a reprimere l'eresia, la differenza di comportamento rispetto ad un assoluto per sua natura indiscutibile.

Il libro è stato concluso nel 1942 in piena guerra mondiale e dunque Serge non ha visto e non vedrà (visto che muore nel 1947) ciò che abbiamo visto noi in termini di fatti e di assetti mondiali. Si rende conto che molte cose cambieranno e chiude con una speranza razionale:

Le grandi linee della storia che sta compiendosi si liberano tuttavia dal caos. Non sono più i rivoluzionari che fanno l'immensa rivoluzione mondiale, sono i dispotismi che l'hanno scatenata, è la tecnica stessa del mondo moderno che rompe brutalmente con il passato e mette i popoli di interi continenti nella necessità di ricominciare la vita su basi nuove.

Che queste basi debbano essere di giustizia sociale, di organizzazione razionale, di rispetto della persona, di libertà, è per me una evidenza stupefacente che si impone poco a poco attraverso l'inumanità del tempo presente.

L'avvenire mi appare pieno di possibilità maggiori di quelle che noi intravedemmo per il passato. Possano la passione, l'esperienza e gli errori stessi della mia generazione combattente illuminarne un poco il cammino!


(2 - fine) Il primo articolo della recensione


Victor Serge

Memorie di un rivoluzionario (1901-1941)

Editore E/O pagine 440 16 €


Victor Serge

Memorie di un rivoluzionario (1901-1941)

Editore Roberto Massari (2011) pag. 336 formato 17×24 € 19

apparato critico [1200 note e indice dei nomi] di Jean Rière nuova traduzione basata sul manoscritto originale e introduzione e cura di Roberto Massari

Le edizioni Massari hanno un catalogo di oltre 200 titoli largamente incentrati sulla costruzione di un movimento internazionale di comunisti libertari (Utopia Rossa) che hanno, proprio nella figura di Victor Serge uno dei riferimenti, fondato sui seguenti punti:

  • Il fine non giustifica i mezzi, ma nei mezzi che impieghiamo dev’essere riflessa l’essenza del fine. [Priorità dell’etica (Guevara) e della verità scientifica su ogni altra considerazione]
  • Sostegno alle lotte di tutti i popoli contro l’imperialismo e/o per la loro autodeterminazione, indipendentemente dalle loro direzioni politiche. [Inizi della Terza internazionale
  • Per l’autonomia e l’indipendenza totale dai progetti politici del capitalismo. [Sinistra di Zimmerwald nella Seconda internazionale]
  • Unità del mondo del lavoro mentale e materiale, senza discriminazioni ideologiche di alcun tipo (a parte le «basi anticapitaliste, antimperialiste e per il socialismo»). [Prima internazionale]
  • Lotta contro le burocrazie politiche, per la democrazia diretta e consigliare. [Internazionale antiautoritaria di Saint-Imier e Quarta internazionale]
  • Salvare la vita sulla Terra, salvare l’umanità. [vera novità storica della Quinta].

 




Memorie di un rivoluzionario – di Victor Serge (1) recensione

Nell'ultimo mese ho dedicato qualche ora al giorno a questo libro: lettura, rilettura (con creazione di una versione epub con un indice elettronico decente e con le immagini dei protagonisti principali).

La autobiografia di Serge mi ha appassionato sin da subito per diverse ragioni; infatti racconta pezzi di storia del 900 da testimone attivo: i movimenti anarchici francesi di inizio novecento, la mancata rivoluzione di Barcellona dello stesso periodo, la rivoluzione bolscevica, la fondazione della III internazionale, i moti rivoluzionari promossi dalla III internazionale e falliti nella Europa degli anni 20, le degenerazioni all'interno del partito bolscevico e le battaglie della opposizione di sinistra, l'arresto e la deportazione al di là degli Urali, la espulsione verso la Francia grazie alla notorietà che gli aveva garantito la attività di scrittore, le ripercussioni della guerra di Spagna, la invasione nazista della Francia e la fuga verso Marsiglia, l'approdo al Messico.

Vengo subito al dunque comprate il libro (versioni cartacee da e/o editore e anche nella vecchia versione della Nuova Italia acquistabile su ebay e su Amazon) e se vi piacciono gli ebook (formato epub) scrivetemi che vi mando la mia versione artigianale. Sono poco più di 400 pagine suddivise in 10 capitoli molto densi costruiti sulla base di una suddivisione temporale ma in cui si corre il rischio di perdersi per la grande quantità di fatti, personaggi e riflessioni su quei fatti, che Serge non si è curato di suddividere in paragrafi, anche se, nell'indice della versione cartacea, i paragrafi, introvabili nel testo, sono presenti. Proprio questo elemento mi ha indotto a creare una versione epub dotata di un indice a due livelli (capitoli e paragrafi) che agevolasse la consultazione.

Naturalmente questo libro può essere visto come la testimonianza di un protagonista di fatti che hanno segnato la storia del 900, ma non c'è solo quello; c'è una chiave di lettura, che mi limito a citare qui e, che è molto significativa: il racconto degli ambienti della Russia Sovietica (dalle città alle campagne sperdute a nord e a est, la descrizione dei personaggi siano essi dirigenti rivoluzionari, letterati o semplici protagonisti della rivoluzione.

Serge si batteva per un mondo migliore trasferendo in azione pratica alcune pulsioni e ribellioni che gli venivano dall'infanzia e contemporaneamente scriveva: articoli, saggi storici, romanzi. Come ci racconta lui stesso, più della metà della sua produzione è andata perduta nelle tante occasioni in cui, in fretta e furia, ha dovuto abbandonare tutto per piantare le tende da un'altra parte.


Ho passato dieci anni, su un po' più di cinquanta, in diverse prigioni, generalmente dure. Mi hanno insegnato quanta verità ci sia nell'aforisma paradossale di Nietzsche: Tutto ciò che non mi uccide mi rende più forte... Non ho mai avuto beni, quasi mai vissuto in condizioni di sicurezza. Ho perduto varie volte tutto ciò a cui tenevo materialmente: libri, carte e reliquie personali. A Bruxelles, a Parigi, a Barcellona, a Berlino, a Leningrado, alla frontiera dell'URSS, ancora a Parigi, ho lasciato quasi tutto dietro di me - o tutto mi è stato tolto. Ciò mi ha reso indifferente alle cose materiali senza scoraggiarmi di nulla.


Victor Serge (pseudonimo di Viktor L'vovič Kibal'čič), è nato a Bruxelles il 30 dicembre del 1890 ed è morto di infarto il 17 novembre nel 1947 su di un taxi a Citta del Messico. Era nato a Bruxelles (ed è rimasto per tutta la vita di madrelingua francese) perchè il padre era stato un attivista del movimento populista-terrorista Narodnaja Volja (la volontà del popolo) organizzatore dell'attentato riuscito allo zar Alessandro II ed era stato costretto a fuggire clandestinamente dalla Russia. Il padre che, alla fine, riuscì a trovare un impiego presso l'istituto di Anatomia di Bruxelles era un appassionato di scienza e fu lui a trasmettere al figlio la passione per la cultura e la razionalità.


Io nacqui per caso a Bruxelles, sulle vie del mondo, poiché i miei genitori, alla ricerca del pane quotidiano e delle buone biblioteche, viaggiavano tra Londra - "British Museum" - Parigi, la Svizzera e il Belgio. C'erano sempre ai muri, nei nostri piccoli alloggi di fortuna, dei ritratti di impiccati. Le conversazioni delle persone grandi si riferivano a processi, a esecuzioni, a evasioni, alle vie della Siberia, a grandi idee rimesse continuamente in discussione, agli ultimi libri su queste idee...


1. Un mondo senza evasione possibile (1906-1912)


Nel primo capitolo dopo aver descritto la sua infanzia e le scelte a favore del cambiamento della società maturate già intorno ai 16 anni, ma fortemente influenzate dalla figura paterna, Serge ci racconta della esperienza francese un po' a fianco e un po' dentro l'anarchismo.

Serge è deluso dalla inconcludenza dei partiti socialisti e pian piano si avvicina agli anarchici conquistato dalla esperienza di una comune e dalla copresenza (evento raro) di pensiero ed azione. Lo spingoono verso gli anarchici anche le manifestazioni, duramente represse, in occasione della decapitazione sulla pubblica piazza di militanti anarchici.

L'anarchismo ci prendeva per intero perché ci chiedeva tutto, ci offriva tutto: non c'era un solo angolo della vita che non rischiarasse, almeno così ci sembrava. Si poteva essere cattolici, protestanti, liberali, radicali, socialisti, anche sindacalisti senza nulla cambiare della propria vita, e per conseguenza della vita: bastava dopo tutto leggere il giornale corrispondente; a rigore frequentare il caffè degli uni o degli altri. Intessuto di contraddizioni, dilaniato in tendenze e sottotendenze, l'anarchismo esigeva anzitutto l'accordo tra gli atti e le parole (cosa che in verità esigono tutti gli idealismi, ma che tutti dimenticano, addormentandosi).

La fase anarchica  si conclude con il processo alla banda Bonnot un gruppo anarco-individualista che mise in atto una serie di rapine con uso delle auto. Ci furono ammazzamenti e, al processo, pesantissime condanne. Cadde l'accusa a Serge di essere l'ideologo della banda (dirigeva la rivista l'Anarchie), ma il ritrovamento di due revolver nella redazione della rivista che dirigeva gli valse comunque 5 anni di carcere.

Di quell'infanzia difficile, di quell'adolescenza inquieta, di quegli anni terribili, non rimpiango nulla per me: compiango coloro che crescevano in quel mondo senza conoscerne il rovescio inumano, senza prendere coscienza del vicolo chiuso e del dovere di combattere anche ciecamente - per gli uomini. Ho soltanto il rimpianto delle forze perdute in lotte che non potevano essere altro che sterili; esse mi hanno insegnato che il meglio e il peggio sono affiancati nell'uomo, si confondono talvolta - e che la corruzione del meglio è quanto c'è di peggio...

… una constatazione, quella finale, che non ha a che fare solo con la storia della anarchia ma sarà una costante delle esperienze di Serge nella rivoluzione bolscevica.


2. Questa ragione di vivere: vincere (1912-1919)


Quando Serge entra in carcere siamo alle soglie della prima guerra mondiale e il secondo capitolo si apre con il racconto e l'analisi della insensatezza del sistema carcerario francese. Dentro il carcere gli giungono gli echi della guerra e si fa viva in lui l'idea che la guerra porterà alla rivoluzione ed è questa la ragione, insieme al grande disorientamento nella società parigina, che lo spinge ad andare a vedere quella più vicina, la prevista e prossima insurrezione di Barcellona. Siamo nel 1917 e giungono in Spagna gli echi della rivoluzione d'ottobre.

Quanto alla rivoluzione russa, ero sicuro solo di una cosa: che non si sarebbe fermata a metà strada. La valanga sarebbe rotolata sino in fondo. Quale fondo? I contadini prenderanno la terra, gli operai le officine. Poi, non so. Dopo, lo scrissi, lotte senza grandezza ricominceranno, ma questo avverrà su una terra ringiovanita. L'umanità avrà fatto un gran balzo in avanti.

L'insurrezione di Barcellona abortisce prima di nascere e Serge ritorna a Parigi deciso ad andarsene in Russia ma la cosa è tutt'altro che semplice perché le autorità britanniche di dichiarano indisponibili al rilascio dei visti. Ci vorrà del tempo e ci sarà di mezzo un campo di concentramento in risposta alla presa del potere da parte dei bolscevichi. Pian piano Serge si avvicina al leninismo.

La domanda-prova d'esame che si poneva - che mi si poneva - in ogni circostanza era questa: per o contro il bolscevismo? Per o contro la Costituente? Rispondevo secondo la mia abitudine con imprudente chiarezza: la Rivoluzione russa non si può limitare a un cambiamento di regime politico; essa è, deve essere sociale. Ciò significa che i contadini devono prendere la terra e la prenderanno ai proprietari fondiari, con o senza sommosse, con o senza il permesso di una Costituente; che gli operai imporranno la nazionalizzazione o almeno il controllo delle grandi industrie e delle banche: non hanno buttato giù i Romanov per rientrare nelle officine impotenti come prima e assistere all'arricchimento dei fabbricanti di cannoni...

Nell'estate del 17 il clima, in Francia, si fa meno favorevole a chi sogna la fine della guerra, le azioni della rivoluzione russa calano perché l'entrata in guerra degli Stati Uniti fa rinascere nei paesi dell'Intesa il sogno di una vittoria (e ciò fa calare le azioni della rivoluzione bolscevica); gli agitatori vengono fermati e messi in campo di concentramento (tra questi Serge) che mette in piedi un gruppo di esuli russi e compare qui la prima riflessione sul tema rivoluzione-democrazia:

Formai ben presto a Précigné un gruppo rivoluzionario russo di una quindicina di militanti e di una ventina di simpatizzanti; non comprendeva che un solo bolscevico, l'ingegnere chimico Krauterkraft, di fronte al quale mi trovai sempre all'opposizione, poiché preconizzava una dittatura spietata, la soppressione della libertà di stampa, la rivoluzione autoritaria, l'insegnamento marxista. (Rifiutò, più tardi, di partire per la Russia.) Noi volevamo una rivoluzione libertaria, democratica meno l'ipocrisia e la debolezza delle democrazie borghesi -, egualitaria, tollerante per le idee e gli uomini, che usasse il terrore ove fosse necessario, ma abolisse la pena di morte. Da un punto di vista teorico, impostavamo malissimo questi problemi, il bolscevico li impostava certamente meglio di noi; dal punto di vista umano, eravamo nella verità infinitamente più di lui. Vedevamo nel potere dei soviet la realizzazione delle nostre aspirazioni e lui pure. La nostra intesa si fondava dunque su un malinteso profondo e su una necessità generale.

Si tratta di questioni che, dopo l'arrivo di Serge in Russia torneranno fuori ripetutamente prima come auspicio e poi come elemento esplicito di dissenso che porterà Serge ad individuare nel leninismo alcuni elementi della successiva degenerazione staliniana e che determineranno anche la sua rottura con il trotkismo.

La permanenza nel campo di concentramento dura sino all'estate del 1918 quando, mentre in Russia infuria la guerra civile, si creano le condizioni per uno scambio: i profughi di Francia in cambio della missione militare francese in Russia arrestata dopo un attentato a Lenin. Così il gruppo parte prima a piedi, sino a Dunkerque e poi verso la Finlandia via mar Baltico; ferrovia e poi di nuovo a piedi sino al confine: La sentinella rossa alla quale, soffocando di gioia, gridammo: Salve, compagno!, crollò il capo, poi ci chiese se avevamo del pane. Ne avevamo. Tieni, prendi. La rivoluzione ha fame...Si animarono quando offrimmo loro della roba in scatola. Allora, non si ha fame in Francia? Hanno ancora pane bianco laggiù?. Chiedemmo loro dei giornali, non ne ricevevano.

E' il gennaio del 1919 e finalmente Serge arriva a Pietrogrado.


3. L'angoscia e l'entusiasmo (1919-1920)


Il terzo capitolo riguarda due soli anni ma è fondamentale perché si racconta della impressione di Serge di fronte agli entusiasmi e ai problemi della rivoluzione oltre che del II congresso della internazionale comunista cui Serge partecipa come stretto collaboratore di Zinov'ev: il titolo è paradigmatico (entusiasmo ma anche angoscia). Ci sono tante cose che non vanno ma la rivoluzione viene prima di tutto: la fame e la carestia, la guerra civile e la lotta contro le armate bianche, il partito che comincia a diventare un luogo in cui conviene accasarsi, la Ceka, gli altri partiti e movimenti rivoluzionari (menscevichi, socialisti rivoluzionari, anarchici) che in parte collaborano e in parte criticano.

Carestia: Ci davano in un centro di accoglienza razioni minime di pane nero e di pesce secco. Mai ancora nessuno di noi aveva conosciuto così terribile cibo. Delle giovani donne con fasce rosse e dei giovani agitatori occhialuti ci riassumevano lo stato delle cose: Carestia, tifo, controrivoluzione dappertutto. Ma la rivoluzione mondiale ci salverà. Lo sapevano con maggiore certezza di noi, i nostri dubbi li insospettivano a momenti.

Il rapporto con Zinov'ev: Zinov'ev, invece, presidente del soviet, affettava una sicurezza straordinaria. Ben rasato, pallido, il viso un po' gonfio, la capigliatura abbondante e ricciuta, lo sguardo grigio-azzurro, si sentiva semplicemente al suo posto al vertice del potere, essendo il più antico dei collaboratori di Lenin al Comitato centrale; ma da tutta la sua persona emanava anche una sensazione di mollezza e come di inconsistenza nascosta. Una spaventosa reputazione di terrore lo circondava all'estero e glielo dissi. Certo rispose sorridendo, i nostri modi plebei di batterci non piacciono. E fece un'allusione agli ultimi rappresentanti del corpo consolare che facevano presso di lui dei passi a favore degli ostaggi della borghesia, e che lui mandava a farsi benedire.

Il partito si gonfia: Mosca pareva vivesse un po' meglio di Pietrogrado, accumulando comitati su consigli e direzioni su commissioni. Di questo apparato che mi sembrò funzionasse in gran parte a vuoto perdendo i tre quarti del suo tempo a discutere su disegni ineffettuabili, ebbi immediatamente la peggiore impressione. Esso nutriva già, nella miseria generale, una moltitudine di funzionari più affaccendati che occupati. Si trovavano negli uffici dei commissari signori eleganti, dattilografe carine perfettamente incipriate, uniformi di buon taglio coperte di distintivi e tutto questo bel mondo, che faceva contrasto con la plebe affamata delle strade, per la minima cosa vi rimandava da un ufficio all'altro senza il minimo risultato. Vidi uomini appartenenti al ceto dirigente telegrafare infine a Lenin per ottenere un biglietto ferroviario o una camera all'albergo, cioè alla Casa dei soviet.

I mescevichi: I menscevichi mi parvero mirabilmente intelligenti, probi, devoti al socialismo, ma completamente sorpassati dagli avvenimenti. Rappresentavano un principio giusto, quello della democrazia operaia, ma in una situazione così piena di pericoli mortali che lo stato d'assedio non permetteva il funzionamento di istituzioni democratiche. E i loro rancori di partito del compromesso, brutalmente vinto, deformavano il loro pensiero.

L'adesione al bolscevismo: La mia decisione era presa; non sarei stato né contro i bolscevichi né neutrale, sarei stato con loro, ma liberamente, senza abdicare al pensiero né al senso critico. Le grandi carriere rivoluzionarie mi erano facilmente aperte; decisi di evitarle e persino di evitare, per quel che sarebbe stato possibile, le funzioni che implicassero esercizio di autorità... Sarei stato con i bolscevichi perché davano compimento con tenacia, senza scoraggiamenti, con ardore magnifico, con passione riflessa, alla necessità stessa; perché erano soli a darvi compimento, prendendo su di sé tutte le responsabilità e tutte le iniziative e dando prova di una stupefacente forza d'animo. Essi erravano certo su parecchi punti essenziali: con la loro intolleranza, con la loro fede nella statizzazione, con la loro tendenza alla centralizzazione e alle misure amministrative. Ma, se bisognava combatterli con libertà di spirito e in spirito di libertà, era con loro, tra loro.

La Ceka e l'intolleranza: una necessità e un grande rischio per il partito che cerca di cavarsela attraverso il controllo dei vertici. Si tratta di un apparato parallelo con la sua logica, i suoi uomini e la sua autonomia. Gorkij è l'uomo a cui ci si rivolge per le manifeste illegalità e, quasi sempre ce la fa ad intervenire, ma Serge cita alcuni esempi in cui si arriva troppo tardi e il caso limite si ha quando Lenin e Zinov'ev si muovono per l'abolizione della pena di morte, ma ciu penserà la Ceka nel tempo tra la decisione e la sua applicazione a sistemare quelli che, ritiene, debbano essere sistemati. Serge ritiene che il ruolo della Ceka e la gestione della insurrezione di Kronstad siano stati gli elementi di una progressiva deriva totalitaria che porterà la rivoluzione alla sconfitta.

Già la Ceka - commissione straordinaria di repressione della controrivoluzione, della speculazione e della diserzione - arrestava in massa i sospetti, aveva tendenza a decidere da sé la loro sorte, sotto il controllo formale del partito, in realtà all'insaputa di chiunque. Essa diventava uno Stato nello Stato, coperta dal segreto di guerra e da procedure misteriose.

Il partito si sforzava di mettere alla sua testa uomini incorruttibili, come l'ex forzato Dzerzinskij, idealista probo, implacabile e cavalleresco, dal profilo emaciato di inquisitore, fronte alta, naso ossuto, barbetta ispida, un volto tutto stanchezza e durezza. Ma il partito aveva pochi uomini di quella tempra e molte Ceka; queste selezionavano poco a poco il loro personale in virtù dell'inclinazione psicologica.

Si consacravano volentieri e ostinatamente a questo lavoro di difesa interna solo caratteri sospettosi, astiosi, duri, sadici. Vecchi complessi di inferiorità sociale, ricordi di umiliazioni e di sofferenze nelle prigioni dello zar li rendevano intrattabili e, con il rapido influsso della deformazione professionale, le Ceka formavano inevitabilmente dei depravati, inclini a vedere la cospirazione in ogni cosa e a vivere essi stessi in seno a una cospirazione permanente. Considero la creazione delle Ceka come uno degli errori più gravi, più inconcepibili che commisero nel 1918 i bolscevichi quando i complotti, il blocco e gli interventi stranieri fecero perdere loro la testa.

Eppure era chiaro che dei tribunali rivoluzionari, funzionanti in piena luce - il che non esclude le porte chiuse in casi particolari con ammissione della difesa, avrebbero avuto la stessa efficacia, con assai minori abusi e depravazione. Era proprio necessario ritornare a procedimenti di inquisizione? All'inizio del 1919 le Ceka si difendevano male contro la perversione psicologica e la corruzione. Dzerzinskij - lo so - le considerava mezze marce e non vedeva altra soluzione che il fucilare i peggiori cekisti e abolire appena possibile la pena di morte... E il terrore tuttavia continuava perché il Partito intero viveva con la giusta certezza intima di essere massacrato in caso di sconfitta; e la sconfitta era possibile da una settimana all'altra...

A metà di gennaio del 1920 Dzerzinskij, d'accordo con Lenin e Trockij, propose l'abolizione della pena di morte nel paese, a esclusione delle zone di operazioni militari. Il decreto fu adottato dal governo e firmato da Lenin, presidente del Consiglio dei Commissari del popolo, il 17 gennaio. Da qualche giorno le prigioni, stipate di sospetti, vivevano in una atmosfera di attesa febbrile. Esse seppero immediatamente la buona notizia, la fine del terrore! Il decreto non era ancora apparso nei giornali. Il 18 o il 19, a Smolny, dei compagni mi raccontarono a mezza voce la tragedia della notte - di cui mai si parlò a voce alta. Mentre i giornali stampavano il decreto, le Ceka di Mosca e di Pietrogrado liquidavano i loro depositi. I sospetti, portati via di notte a carrettate, fuori della città, venivano fucilati a mucchi. Quanti? A Pietrogrado, tra centocinquanta e duecento, a Mosca, si dice, tra i due e i trecento.

Diveniva evidente - per me e per altri - che la soppressione della Ceka, il ristabilimento di tribunali regolari e dei diritti della difesa erano ormai una condizione della salvezza interna della rivoluzione. Ma non potevamo farci assolutamente nulla. L'Ufficio politico allora formato da Lenin, Trockij, Zinov'ev, Kamenev, Rykov e Bucharin - se non erro - si poneva la questione senza osare risolverla, in preda esso stesso, non ne dubito, a una certa psicosi di paura e di implacabile autorità.

A parziale giustificazione Serge dedica alcune pagine alla descrizione del funzionamento e della pervasività dell'Ochrana, la vecchia polizia segreta zarista; è lui ad occuparsi direttamente dell'archivio con quarantamila fascicoli di agenti provocatori di cui solo tremila smascherati ed è da quella esperienza che Serge pubblicherà il suo libello sulla vigilanza rivoluzionaria che, nei primi anni 70, pubblicammo tramite la CLUED.

Il II congresso dell'internazionale comunista: nell'estate del 1920 si apre il 2° congresso dell'internazionale che può essere considerato il primo vero congresso con 37 delegazioni straniere e con la elaborazione, su proposta di Lenin, dei 21 punti cui i partiti dovevano sottostare per poter aderire (è il congresso che determinerà la rottura nei partiti socialisti dell'occidente). Serge per via della conoscenza delle lingue ha modo di interagire con le diverse delegazioni e conoscere più da vicino il Gotha dei rivoluzionari di tutto il mondo e Lenin. Ne traccia le caratteristiche in pagine molto interessanti sugli aspetti umani a partire da Lenin di cui decsrive il modo di argomentare e il tipo di linguaggio:

Nessuna posa, la semplicità in persona. Abitava ancora, al Cremlino, un appartamentino dei domestici del palazzo. L'inverno precedente anche lui era stato senza riscaldamento. Quando andava dal barbiere faceva il turno, trovando indecente che gli si cedesse il posto. Una vecchia domestica faceva le pulizie e teneva in ordine i suoi vestiti. Sapeva di essere il primo cervello del partito e recentemente non aveva trovato migliore minaccia di quella di dare le dimissioni dal Comitato centrale per appellarsi ai militanti di base! Voleva per sé una popolarità di tribuno, ratificata dalle masse, senza apparato né cerimoniale. Nei suoi modi e nel suo contegno, neppure il minimo indizio di gusto dell'autorità; delle esigenze da tecnico serio che vuole che il lavoro si faccia, si faccia bene e a tempo; la volontà dichiarata di far rispettare le nuove istituzioni, quand'anche fossero deboli fino al punto di essere semplicemente simboliche.

Pietrogrado ha rischiato di essere occupata dai polacchi e dalla controrivoluzione ed è stata salvata dall'impegno e dalle capacità organizzative e militari di Trotckij quando sia Lenin sia Bucharin la davano per perduta; il sogno di una rivoluzione in Occidente, condizione indispensabile per salvare la Russia rivoluzionaria sembra svanire. Si approssimano anni duri e l'ennesima necessità di stringere i denti (prima il comunismo di guerra e poi la NEP).

Quel sentimento del pericolo interno, del pericolo che era in noi stessi, nel carattere e nello spirito del bolscevismo vittorioso, devo dire che lo avevo a un grado acuto. Ero continuamente lacerato dal contrasto tra la teoria ammessa e la realtà, dall'intolleranza crescente, dal servilismo crescente di molti funzionari, dalla loro spinta verso il privilegio.

Quanto al terribile giacobinismo della rivoluzione russa, esso mi pareva ineluttabile. Vedevo nella formazione, parimenti ineluttabile, del nuovo Stato rivoluzionario che cominciava a rinnegare tutte le sue promesse iniziali, un immenso pericolo. Lo Stato mi appariva come uno strumento di guerra e non di organizzazione della produzione. Tutto si compiva sotto pena di morte; giacché la disfatta sarebbe stata per noi, per le nostre aspirazioni, per la nuova giustizia annunciata, per la nuova economia collettiva nascente, null'altro che la morte - e poi, che sarebbe avvenuto? Concepivo la rivoluzione come un vasto sacrificio necessario all'avvenire; e nulla mi pareva più essenziale che di mantenervi o ritrovarvi lo spirito di libertà.


Siamo solo al III capitolo e la recensione si va facendo lunga. Non intendo trasformarla in una telenovela e dunque nella seconda puntata non procederò per capitoli ma per temi: il comunismo di guerra e la NEP, Serge inviato in Europa per conto della III internazionale, le lotte all'interno del PCUS, il testamento politico poco prima dell'arresto, il sistema inquisitorio – il carcere – la deportazione, il giudizio sul sistema sovietico ai tempi di Stalin e la differenziazione rispetto al trotkismo, noterelle sull'antifascismo ai tempi della guerra di Spagna e dei fronti popolari, considerazioni finali dal Messico.


Victor Serge

Memorie di un rivoluzionario (1901-1941)

Editore E/O pagine 440 16 €

 


(1 – continua)

 


Di Victor Serge trovate qui la recensione al suo romanzo più bello, dedicato ai processi scaturiti dall'assassinio di Kirov – Il caso Tulaev

 




Il caso Tulaev – di Victor Serge (recensione)

Victor Serge (Viktor L'vovič Kibal'čič Bruxelles 1890 – Città del Messico 1947) è un rivoluzionario e scrittore nato in Belgio da profughi russi antizaristi che ha avuto una esistenza all'insegna dell'impegno politico rivoluzionario in Francia, in Spagna, in URSS, poi in giro per l'Europa per conto della III internazionale, poi di nuovo in URSS dove è stato arrestato e confinato perché si era schierato con la opposizione di sinistra, dopo essere stato liberato ed espulso per effetto delle pressioni internazionali è tornato in Francia e poi in Messico dove è morto di infarto, in povertà, su un taxi (ma gli ambienti anarchici sostengono che sia stato assassinato da Vittorio Vidali per conto di Stalin).

Da un certo momento in poi della sua vita si è dedicato ai libri: romanzi contro il totalitarismo e scritti di riflessione sulla esperienza rivoluzionaria in Russia di cui fu un protagonista. Questa vita personale ricca e complessa è descritta nella sua autobiografia Memorie di un rivoluzionario un libro affascinante per la descrizione delle pieghe e della complessità dell'animo umano attraverso la storia di una vita.

Ma qui vi voglio parlare di un romanzo scritto tra il 1940 e il 1942 prima in Francia e poi in Messico e dedicato al clima di sospetto e terrore in URSS culminato nei tre processi di Mosca con cui vennero eliminati fisicamente quasi tutti i membri della vecchia guardia bolscevica prima prendendo spunto dall'attentato a Rykov e poi nel delirio della lotta alle opposizioni di destra e di sinistra.

Quando Serge scrive, quei processi, quegli annientamenti psicologici, quelle fucilazioni ci sono già state, ma in Europa non se ne parla e Serge anticipa tematiche sul totalitarismo e sul regime criminale di Stalin che diventeranno oggetto di discussione e riflessione solo a partire dalla seconda metà degli anni 50 (inclusi i gulag).

La forza del libro sta nella realtà romanzata che consente di ripercorrere le storie personali, di descrivere la vita nelle città e nelle campagne, di analizzare la struttura sociale della realtà sovietica, di raccontare la struttura di un sistema totalitario gigantesco in cui si mischiano un po' di fatalismo, la convinzione di essere nel giusto, il bisogno di tutelarsi diffamando e agendo con prudenza, la capacità di tener duro perché è meglio sbagliare con il partito che avere ragione da soli.

Prendo dal frontespizio del libro: Mosca 1938. Il giovane Kostja uccide Tulaev, membro del comitato centrale del Partito Comunista. In seguito all’attentato, la polizia segreta organizza la ricerca non tanto dell’esecutore materiale, quanto dei responsabili morali che, con il loro atteggiamento critico dello stalinismo, avrebbero contribuito a creare il clima in cui è maturato il delitto. Cinque sono i colpevoli designati: l’intellettuale Rublev, l’alto commissario di polizia Erchov, il contadino-soldato Makeev, il vecchio bolscevico Kondriatiev e il trockista irriducibile Ryjik.

Ci sono i 5 imputati, il giovane assassino omicida per un raptus per lui inspiegabile e inspiegato, il mondo dei giudici governato da un vecchio rivoluzionario che si è adeguato al sistema Popov e c'è persino il capo Stalin che interviene in diversi momenti interagendo con alcuni dei protagonisti.

Nei 10 capitoli possiamo distinguere due fasi: il fatto e l'inquadramento dei personaggi, il loro ruolo, le loro miserie, l'ascesa e la caduta in disgrazia mentre nella seconda parte viene tessuto il filo delle imputazioni:

I Le comete nascono di notte
II Le spade della giustizia sono cieche
III Gli uomini accerchiati
IV Costruire vuol dire perire
V Viaggio attraverso la sconfitta
VI Ognuno s’annega a modo suo
VII La valle dell’oblio
VIII La via dell’oro
IX Che la purezza sia tradimento
X Lo slittamento della banchisa continuava…

Serge traccia uno spaccato della società sovietica, ai vertici con l'apparato repressivo e poliziesco e alla periferia con la vita nelle città (in primo luogo Mosca), quella nei colchoz, i piani che vengono continuamente disattesi e rifatti, quella della Russia profonda a nord del circolo polare o est degli Urali. Incombe una strana paura mista alla fiducia: ci sarà la guerra e dunque bisogna stringersi intorno al partito, le cose che non vanno si vedono ma non possono nemmeno essere pensate, perché il solo pensarle sarebbe indice di cedimento oltre che di rischi.

Il sistema repressivo è molto diverso da quello dei totalitarismi nazifascisti. C'è una specie di dispotismo garantista: sarai fucilato in quanto traditore, ma lo stato socialista ti accudisce, ti garantisce prigioni tutto sommato decenti, ti nutre, hai accesso ai libri e allo scrivere perché il punto di arrivo deve essere la confessione. Non si sa di cosa e non lo sanno nemmeno gli inquirenti.

Ti danno del lei e ti chiamano cittadino ora che non sei più compagno. Sarebbe bello che Rublev, Erchov e Makeev fossero parte di un grande complotto ordito contro il partito, ma vengono a mancare quelli che erano stati pensati come i due capisaldi: il vecchio bolscevico Kondratiev e il trotkista Ryjk.

Kondratev al ritorno da una missione nella Spagna repubblicana (che sta soccombendo ai franchisti) si rivolge direttamente a Stalin per denunciare l'agonia della repubblica dovuta alla mancanza di armi e di sostegno oltre che la insensatezza della persecuzione degli anarchici e dei trotkisti. E' l'unico che si rapporta a Stalin dalla forza del suo passato e Stalin accetta di discutere con lui di solitudine, dello stato del partito, lo premia depennandolo dal libro nero degli inquirenti e lo manda nell'estremo oriiente ad occuparsi di controllo delle miniere d'oro.

Ryjik si trova da anni deportato in un'isola del Mar Bianco in un luogo dove si campa di misera pesca con reti dell'800 e dove però arriva l'ordine di rientro a Mosca. Un viaggio lungo, prima su una slitta con le renne, poi a piedi e su treni via via più efficienti man mano che ci si avvicina a Mosca e la verità sul rientro si svela. Non è la fine dell'esiilio ma una nuova imputazione. Ryjik nel carcere finale dove tutto è asettico e dove la preoccupazione principale degli inquirenti è che l'imputato confessi, chieda perdono e, soprattutto non si ammazzi, ingaggia la sua sfida e riuscirà a morire praticando la non violenza.

Ho preferito non tediarvi con le citazioni. Gustatevi il racconto e riflettete sul mancato rapporto tra il popolo russo e la democrazia. Un tema attuale anche ai tempi di Putin.


Il caso Tulaev

Victor Serge

Fazi Editore Pagine:428 Codice isbn:9788893252584 Prezzo € 18 Prezzo E-Book € 6.99


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Volevamo cambiare il mondo – storia di Avanguardia Operaia – recensione

Il libro lo ha inventato e voluto Giovanna Moruzzi che, nella storia di Avanguardia Operaia, è stata importante per due ragioni: una delle prime militanti del corso di laurea in chimica a Milano, la moglie di uno dei dirigenti della prima ora prematuramente scomparso, Michele Randazzo, il dirigente dal volto umano.

Quando sono approdato ad AO, ed eravamo all'inizio, c'erano due dirigenti indiscussi, per storia personale ed esperienza, Massimo Gorla e Luigi Vinci e due astri nascenti Vanghelis Oskian e Michele Randazzo. Il primo sarebbe diventato segretario nazionale nel 1974, l'altro ebbe invece, per me inaspettatamente, una parabola più contenuta, pur avendo fatto in quegli anni il funzionario ed essendosi occupato in funzione direttiva e operativa degli organi di stampa, in particolare del settimanale. Perché Michele non sia diventato uno dei leader nazionali di AO è una cosa che non ho mai capito. Ora lui non c'è più e considero il grande lavoro messo in campo da Giovanna un modo per ricordarlo nella maniera giusta.

Avanguardia Operaia, fedele al modello leninista che stava nel suo DNA non ha mai messo in mostra i suoi dirigenti privilegiando il lavoro collettivo ben evidenziato dal fatto che nemmeno la rivista teorica bimestrale (una trentina di numeri di Avanguardia operaia e una decina di Politica Comunista) reca, accanto ai saggi, il riferimento all'autore.

Il quadro muta dal 1975, quando AO si è data un quotidiano e, finalmente nel numero 1/75 di Politica Comunista appare un comitato di redazione e gli articoli sono firmati dall'autore che, in qualche modo, se ne assume la responsabilità. Facevo parte di quella redazione e ricordo che non si trattò di un parto indolore (il lavoro collettivo, la linea, …).

Mi aspettavo che il libro sulla storia della organizzazione contenesse, oltre a quanto c'è, almeno altri quattro capitoli (bisognerà scriverli) dedicati rispettivamente:

  • alla evoluzione della linea politica dal 1968 al 1976 perché di cambiamenti ce ne sono stati tanti sia in riferimento all'idea di processo rivoluzionario, sia nella definizione degli obiettivi e degli strumenti organizzativi per il lavoro di massa. Avanguardia Operaia ha avuto il suo congresso Lione, si tratta del quarto congresso dell'ottobre 74, il primo in cui si affronta il tema Italia nella sua interezza, quello in cui si strutturano gli organismi dirigenti, quello dopo la campagna sul divorzio, quello del quotidiano che andrà in edicola un mese dopo.

C'è stato poi lo scontro interno al gruppo dirigente iniziato nei primi mesi del 76 ed esploso dopo l'esito delle elezioni politiche, prima al Quotidiano e poi nella intera organizzazione con differenziazioni politiche che faticavano ad esplicitarsi. In proposito ho espresso più volte il mio punto di vista (1974-1976: la Parabola di AO) e, su questo stesso sito, trovate l'articolo in tre puntate che diede il via alle danze (perché ho votato contro al Comitato Centrale

  • alla struttura della organizzazione (cellule, sezioni, federazioni, comitati regionali, comitato centrale, ufficio politico, segreteria, segretario politico) e alla costruzione del gruppo dirigente man mano che AO si trasformava da gruppo milanese ad organizzazione nazionale. Come era la vita nelle cellule? Come avveniva il passaggio da candidato a militante? Come erano le norme di sicurezza? Come funzionavano gli organismi dirigenti di federazione? Che rapporto avevano con le commissioni di settore? Di cosa discuteva il Comitato Centrale e con quale frequenza lo faceva? Qual era il ruolo dell'Ufficio Politico e con quale frequenza si riuniva? Con quale livello di dettaglio si discuteva di politica in segreteria?

Come è avvenuto il distacco di Silverio Corvisieri dirigente della prima ora, fondatore e direttore del QdL, deputato (si veda in proposito il suo libello I senzaMao). Sarebbe bello che si generalizzasse l'abitudine alla autobiografia sia in riferimento alle lotte sia in riferimento alla storia di AO (1972-1974: La federazione di Monza e Brianza di AO (e non solo). La storia delle organizzazioni politiche, oltre che con i saggi storici, si fa anche con il racconto e basta pensare, per quanto riguarda la storia del PCI, ai libri di Amendola ("una scelta di vita"), Teresa Noce o Camilla Ravera o più recentemente ai lavori di Napolitano, Ingrao e della Rossanda.

  • ai rapporti con le organizzazioni rivoluzionarie su scala europea e mondiale che venivano seguiti direttamente da Massimo Gorla con particolare riferimento a Spagna, Francia e ai movimenti di liberazione e di lotta antimperialista.

Gorla prima di lasciare la IV internazionale aveva fatto parte del suo segretariato internazionale e, oltre a se stesso, aveva portato ad AO un fittissima rete di rapporti sia personali sia politici e la discussione di queste relazioni era parte integrante dello sviluppo della linea politica si parlasse della lotta al franchismo in Spagna o di questione palestinese.

Nella prima metà degli anni 70 fu addirittura organizzata, dopo i fatti del Cile, una grandiosa manifestazione a MIlano con una nutritissima partecipazione dei francesi di Revolution e della Ligue. Ricordo nel 1969 un convegno di più giorni sulle strategie rivoluzionarie in Europa con gli esponenti di Revolution e compagni delle Commisiona Obreras di Barcellona, con i francesi, figli dell'illuminismo che pretendevano di dare la linea a tutti.  

  • aglli strumenti della informazione e della comunicazione con le loro ragion d'essere, dinamiche e implicazioni sulla storia di AO (la rivista, il quindicinale poi divenuto settimanale, il quotidiano).

Come veniva prodotta la rivista che all'inizio fu l'unico strumento di indirizzo politico e di espansione nazionale di AO? Esisteva una redazione? Chi vagliava i contenuti dei Quaderni di Avanguardia Operaia dei primissimi anni 70 (la concezione del partito, lotta di classe nella scuola, i CUB, Lotta Continua), Come venne presa la decisione di fare un quindicinale di agitazione? Come funzionava la redazione? Qualche notizia si potrà estrarre, quando saranno pubblicate, dalla intervista a Peppino D'Alfonso.

Come si arrivò al QdL? Quali furono le implicazioni amministrative e di finanziamento? Quale fu la storia del Quotidiano? Nella mia autobiografia ho dedicato un capitolo a 1974-1976: gli anni del Quotidiano (la grande avventura)

Per Avanguardia Operaia il lavoro di massa  è sempre stato parte essenziale della sua ragion d'essere e dunque è stato giusto metterlo al centro della nostra storia: il lavoro operaio e la storia-evoluzione dei CUB, l'intervento nella scuola e nelle Università, il terreno delle lotte sociali con al suo centro il tema della casa e la lotta al carovita, il fronte della cultura, dell'arte e delle radio libere, il lavoro politico nelle forze armate e nelle istituzioni dello stato.

A questi segmenti del lavoro politico si sono poi aggiunti il tema della differenza femminile e, con una impostazione bizzarra ad essere generosi, l'antifascismo militante e la organizzazione del servizio d'ordine mentre, per ragioni redazionali è rimasto fuori un saggio, originariamente previsto e citato nella sua introduzione da Giovanna Moruzzi, dedicato al movimento dei lavoratori studenti che a Milano giocò un ruolo importantissimo nel reclutamento di operai e nella apertura di nuovi ambiti di intervento organizzato.

Dietro il libro c'è un lavoro durato quasi 3 anni e che si è centrato intorno alle interviste a un centinaio di militanti e dirigenti le cui dichiarazioni, per un verso hanno fatto da collante alla stesura in senso proprio del libro, mentre per l'altro verso verranno messe in linea sul sito della fondazione Marco Pezzi a Bologna. Già ora è disponibile l'elenco degli intervistati all'indirizzo: http://www.comune.bologna.it/iperbole/asnsmp/interviste.html

Pochi lo sanno ma da qualche tempo sono disponibili in rete i numeri di Avanguardia Operaia mensile e di Politica comunista grazie al lavoro della associazione memoria in movimento.

L'operazione di scrivere una storia di AO è riuscita solo in parte perché la scelta di costruire la storia di un'organizzazione con la metodologia dei settori di intervento porta con sè il rischio di far mancare lo scheletro intorno a cui il lavoro di massa si esplica (il progetto politico). Si è trattato di una scelta singolare per una organizzazione che mentre ha sempre fatto del lavoro di massa uno dei suoi elementi di vanto, sin dall'inizio ha sostenuto che il problema principale, il senso di quanto si andava facendo, era quello di creare le condizioni che facessero nascere il partito rivoluzionario secondo il modello leninista dell'avanguardia della classe operaia (nomen omen) pur senza porsi come mosca cocchiera di tale processo. Comunque, finalmente il dado è tratto e si tratta ora di continuare sulla buona strada.

I contributi relativi ai diversi settori del lavoro di massa sono certamente interessanti e cito in particolare quello di Franco Calamida dedicato ai Cub e al lavoro di fabbrica e quello, del tutto eccezionale per la freschezza del racconto e la innovazione, di Vincenzo Vita sul fronte della cultura, dell'arte e della comunicazione.

Lodevole il tentativo di fare una cronologia della storia di AO, ma ci sono parecchie lacune e incongruenze. Per esempio, ad un certo punto si dà notizia, aprile 76, del declassamento di Aurelio Campi da segretario politico a coordinatore della segreteria (era stato accusato di personalismo nella conduzione del partito) e si fanno i nomi dei membri della segreteria (Roberto Biorcio, Aurelio Campi, Vittorio Borelli, Corrado Brigo, Emilio Molinari, Vittorio Rieser, Luigi Vinci) ma nulla si dice della nomina di Campi (Oskian) al IV congresso e delle caratteristiche delle segreterie precedenti.

I movimenti, la nuova sinistra e Avanguardia Operaia – di Roberto Biorcio

Roberto Biorcio viene dall'allevamento del Movimento Studentesco di Scienze a Milano ed è stato uno dei primi a laurearsi (1969) continuando poi ad occuparsi di scuola in ambito nazionale.

Ci presenta una storia della organizzazione scritta in maniera unitaria attraverso la scelta di far parlare le interviste e dunque ne esce una storia di AO dalle origini all'epilogo del 77 in cui gli avvenimenti scorrono secondo l'asse dei tempi e delle problematiche. Si ha la impressione che problemi ce ne siano stati ma che tutto abbia filato in maniera  piuttosto lineare nonostante gli alti e bassi del lavoro di massa, la competizione tra le organizzazioni rivoluzionarie, il flop del 1976. Il militante medio di AO, qualsiasi scelta abbia fatto dopo, è orgoglioso di averne fatto parte e ce lo dice.

Interessante, proprio perché viene da lui, una affermazione di Luigoi Vinci: "Un altro nostro limite era che non siamo stati in grado di coniugare i movimenti rivendicativi con un’idea di riforma degli assetti istituzionali del paese. Noi a questo non pensavamo proprio, noi pensavamo all’insurrezione". Si aprirebbe qui la discusssione sulle questioni di linea politica che hanno portato poi ad una divaricazione all'interno del gruppo dirigente. 

Soffiava un vento generoso – I Comitati unitari di base e le lotte operaie – di Franco Calamida

Franco Calamida è stato un protagonista della epopea dei CUB, del movimento dei tecnici (faceva l'ingegnere alla Philips) e del lavoro sindacale dentro AO. Amico e compagno d'armi di Vittorio Rieser, uno pensava e l'altro scriveva e viceversa, è stato anche deputato ed era la persona più idonea a scrivere il racconto del lavoro di AO nelle fabbriche dagli esordi del 68, alle grandii iniziative di rilevanza nazionale dei CUB sino alla fase finale del sindacato dei Consigli.

Molto si è scritto su quella stagione di lotte, analisi approfondite, acute elaborazioni, spesso segnate dalla convinzione che per studiare le formiche non bisogna essere una formica. Ebbene: le pagine che seguono sono “scritte” dalle formiche. Oggi, passato mezzo secolo raccontano le loro storie, che tutte insieme rappresentano una parte significativa della storia della classe operaia e della più grande rivolta sociale del dopoguerra nel nostro paese.

Il contributo di Calamida è particolarmente prezioso perché, nonostante i limiti che sempre possono venire da un collage, consente di ripercorrere la storia del movimento dei CUB e dei suoi problemi (quarto sindacato?, democrazia assembleare, sindacato dei consigli, coordinamento nazionale e parole d'ordine, …).

Il movimento degli studenti e la nuova sinistra – di Marco Paolini

Nulla di nuovo sotto il sole. Mi sarei aspettato che questo capitolo venisse scritto da una delle persone che in AO si sono occupate di scuola a livello dirigenziale: Roberto Biorcio, Vittorio Sforza, Emilio Genovesi (scomparso proprio in questi giorni), Piervito Antoniazzi e soprattutto Giovanni Lanzone.

Nella storia del movimento degli studenti, componente ex AO, ci sono infatti due livelli:

  • il primo è quello del racconto su come è andata, si tratta del terreno della autobiografia in cui ciascuno racconta le sue verità parziali, espone i suoi ricordi e, attraverso la storia fatta ad episodi, ci dà una immagine del movimento.

Ancora recentemente lo ha fatto Alvaro Ricotti 1968 la prima occupazione del Molinari ma potete trovare qui una serie di altre testimonianze per quanto riguarda il Movimento Studentesco di Scienze

  • il secondo livello ha a che fare con una necessaria riflessione sui fortissimi limiti di economicismo e di rivendicazionismo che hanno caratterizzato la linea di AO sulla scuola (la selezione meritocratica e quella sociale) e per quello sarebbe stato necessario il contributo di qualcuno dei dirigenti che ho citato in premessa.

Giusto citare il quaderno numero 2 di AO, ma forse 50 anni dopo, era il caso di valutarne i fortissimi limiti. Sarebbe servita un'idea di scuola all'altezza di un progetto rivoluzionario e invece ci limitavamo a balbettare di funzionari del capitale su questioni di scienza e di tecnologia. Abbiamo avuto tra i nostri militanti e simpatizzanti fior fiore di docenti universitari e non ne abbiamo sentito il punto di vista. Abbiamo dato una mano in termini di idee e di uomini alla nascita della facoltà di Scienze della Informazione e tutto ciò non è diventato progetto o proposta. Molti nostri compagni insegnanti sono stati maestri di educazione alla libertà, al senso critico e al rigore degli studi e questo è lotta per il socialismo.

Dal germe del femminismo all’esplosione del movimento delle donne – di Grazia Longoni

Lella Longoni, dopo le necessarie premesse alle due grandi battaglie per il divorzio e per l'aborto, si concentra su ciò che accadde a partire dal 75 con l'esplosione del femminismo ed è un peccato non aver potuto disporre della testimonianza di una delle figure che hanno fatto il femminismo a Milano: Ida Farè, la compagna che ti spiazzava sempre e, alla fine, dovevi darle ragione.

Comunque bello e interessante il contributo di Grazia Longoni che descrive sia l'evoluzione sia le contraddizioni.

La politica sul territorio e le lotte sociali – di Claudio Madricardo

L'intervento sulle questioni della casa e della lotta al carovita fa parte della seconda fase del lavoro politico di AO, quella che inizia nel 1974 e si è trattato, dal punto di vista della incidenza sociale e dei risultati acquisiti, di un elemento paragonabile per importanza a quello dei CUB.

Il saggio di Claudio Madricardo ce lo racconta muovendosi sui due piani del lavoro interno, coordinato da Claudia Sorlini, e su quello della organizzazione concreta delle lotte e dei risultati ottenuti da Milano a Roma, da Firenze a Torino, da Verona a Venezia.

Autoriduzione degli affitti, occupazione delle case sfitte, fondazione dell'Unione Inquilini, autoriduzione delle bollette, lotta al carovita, mercatini rossi, capacità di interagire con gli enti locali, capacità di trattare. Grandi risultati in un bellissimo racconto ed è in questo lavoro poilitico-sociale che vanno ricercate le ragioni del grande risultato ottenuto alle elezioni comunali del 1975.

Avanguardia Operaia e la politica nella cultura – di Vincenzo Vita

Il contributo di Vincenzo Vita (classe 1952) è bello da leggere e ti rinfranca nella convinzione di essere stato, tra tanti errori, dalla parte giusta. Vincenzo, nel gruppo dirigente del dopo quarto congresso, era uno dei giovani, anzi dei giovanissimi. A 22 anni diventa responsabile nazionale della cultura e di tutti noi è quello che ha fatto più carriera sia in parlamento sia nei governi occupandosi delle tematiche della comunicazione. 

Divenni responsabile del settore culturale nel 1974, troppo giovane forse per assumere un incarico così delicato. Ma eravamo in un altro periodo storico, in cui il tempo correva a un ritmo molto anticipato. Comunque, di una stagione turbinosa e intensa mantengo un ricordo bellissimo. Fu, insieme, un romanzo di formazione e un’educazione sentimentale. Anzi. Il periodo lungo il quale ebbi un’opportunità e una gratificazione impreviste mi costrinse a immergermi in un universo che è rimasto il cuore della mia militanza politica anche nelle esperienze successive.

Non mi sogno nemmeno di riassumere un contributo che è tutto da leggere. Vincenzo ci porta dentro una dimensione della politica che è tutto il contrario di una immagine di Avanguardia Operaia come un gruppo serio, troppo serio, al punto di apparire grigio (i famosi professorini di AO).

La “linea” di Ao si potrebbe riassumere così: non cultura, bensì lavoro culturale; riforme del cinema, della musica e del teatro con una forte presenza della sfera pubblica; circuiti statali e regionali per rendere possibili la distribuzione e la diffusione dei “prototipi” altrimenti condannati alla marginalità; valorizzazione della cultura proletaria e operaia piuttosto che di una generica cultura popolare; pieno appoggio alle esperienze alternative.

Cutura in senso stretto, teoria politica, teatro, cinema, circoli La Comune, mostra di Venezia, radio libere, proletariato giovanile, Vincenzo Vita salta di qua e di là, innova e organizza.

Basti l'elenco dei membri della commissione con cui opera: Silvano Piccardi, Roberto Cerasoli, Mirella Villa, Giancarlo Majorino, Francesca Carmi, Antonello Catacchio, Egidio Bertazzoni, Augusto Ciuffini, Paola Sacerdoti, Francesco Saponaro, Yvonne Giannini, Pamela Villoresi, Ottavia a Renzo e Isabella Rossellini, Giandomenico Curi, Lou Leone, Chantal Personè, Ottavia Piccolo, Patrizia Wachter, Michele Conforti, Carlo Infante, Enrico Gusberti, Orietta Rossi, Enrico Grandoni, Antonio Pinelli, Fiorella De Cindio, Luca e Geraldina Santini, Bruno Garbuglia, Marco Mele, Antonia Piazza, Susanna Cerboni, Rino Arbia, Mimmo De Maria, Luciano Meldolesi, Lino Del Fra, Paolo Isaja, Guido Albonetti, Elio Matarazzo, Franco Prattico, Paolo Petta, Antonio Malaschini, Fabrizio Laurenti, Alberto Lonardi e Paolo Battimelli.

Tutto da leggere.

L’antifascismo e il Servizio d’ordine – di Paolo Miggiano

Su questo argomento, per sua natura delicato, sono state fatte alcune gravi leggerezzenella scelta di affidare un tema così delicato a uno che ne parla come se venisse da Marte. Ho ben presente il libro autobiografico con punte di spontaneismo militarista Sognavamo cavalli selvaggi di Luca Visentini.  Ma una cosa è l'autobiografia di un giovane un po' troppo esuberante e un'altra un saggio di valutazione della attività antifascista di AO e del suo servizio d'ordine in cui si sostengono tesi e progetti politici secondo cui l'unica cosa che differenzierebbe AO dai gruoppi terroristi sarebbe solo il non uso delle armi da fuoco.

E' un succedersi di attacchi e contrattacchi; la sinistra rivoluzionaria che, come abbiamo visto nei due artcoli sulla cultura e sulle lotte sociali sta facendo il suo mestiere viene descritta come una banda di invasati. Ai tempi della strage di Brescia ero segretario regionale lombardo di AO, membro del Comitato Centrale e dell'Ufficio politico, dalla primavera del 75 ho fatto parte della segreteria nazionale e devo essermi distratto perché dell'80% delle tesi sostenute in questo articolo non sapevo nulla. E non aggiungo altro salvo un dettaglio lessicale. In questo articolo la sinistra rivoluzionaria, per ben 15 volte, viene citata come l'ultrasinistra. 

L’intervento politico nelle forze armate – di Alberto Madricardo

L'ultimo dei saggi che compongono il libro è scritto da chi di queste cose si è occupato lungamente passando dalla fase iniziale dei primi anni 70 quando si trattava di resistere alla distruzione della personalità, organizzata tramite autoritarismo e insensatezza, alla fase successiva in cui il movimento per la democratizzazione si è strutturato e in cui un peso via via crescente viene assunto dal movimento dei sottufficiali e dagli stessi militari di carriera.

Di nuovo una contro storia su vicende di cui si sa poco e che hanno visto Avanguardia Operaia prima e Democrazia Proletaria poi attive e con un ruolo dirigente.


Roberto Biorcio e Matteo Pucciarelli

Volevamo Cambiare il Mondo – Storia di Avanguardia Operaia (1968-1977)

Ed. Mimesis pag. 300 20 €


 




Destra, sinistra, modo di produzione – Giovanni Cominelli

L’articolo di sabato 1 agosto sui partiti e il modo di produzione, che aveva al centro il concetto marxiano di “coscienza enorme”, ha acceso  tra alcuni lettori una discussione/contestazione “filosofica” e persino “filologica” più ampia sui fondamenti della politica e della distinzione – ancora utile o ormai disutile? – tra destra e sinistra. Poiché i lettori hanno, a volte, ragione, ho ritenuto utile precisare meglio alcuni temi.

Intanto, sul ricorso a Marx. L’opinione di chi scrive è che il materialismo storico fornisca un approccio analitico tuttora valido. Nell’ambiente dei credenti (Sant'Alessandro.org), lettori di questo giornale, il termine “materialismo” viene talora associato ad una metafisica atea e materialistica. In realtà, il “materialismo storico” afferma semplicemente che la forza propulsiva e generativa della civilizzazione umana è l’intreccio tra forze produttive e rapporti di produzione: “Il modo di produzione della vita condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita”.

Depurato dalle superfetazioni successive del Diamat – il materialismo dialettico sovietico, cui il gesuita Gustavo A. Wetter dedicò un acuto libro con lo stesso titolo, pubblicato da Einaudi (vale a dire dal PCI) nel 1947 – e dall’antropologia metafisica marxiana, aggiornato con le più raffinate metodologie della “storia profonda” e della “longue durée”, il materialismo storico resta un prisma fondamentale per leggere il presente.

Il concetto di “coscienza enorme”, con il quale Marx interpreta il suo tempo e il futuro del capitalismo e, più in generale, quello della civilizzazione umana, appare in uno dei sette quaderni manoscritti del 1857/58, pubblicati postumi a Mosca nel 1939-41 con il titolo “Grundrisse der Kritik der politischen Ökonomie”.

Il lemma “Bewusstsein” – l’essere consapevole – non indica soltanto una dimensione gnoseologica – una dilatazione delle capacità conoscitive e delle conoscenze fattuali – ma descrive la nuova struttura ontologica determinata dall’applicazione massiccia delle scienze e della tecnologia alla produzione. La “coscienza enorme” è, in effetti, un salto ontologico dell’individuo e della civiltà umana.

Probabilmente  Marx userebbe oggi i termini che sono stati usati dopo di lui da Nietzsche, da Teilhard de Chardin e, in anni recenti, dai transumanisti, quali Ray Kurxweil: Super-uomo, Noosfera, Singularity… Poteva forse meglio usare i lemmi “Verstand” o “Geist”, ma si sarebbe trattato di espressioni troppo hegeliane per i gusti del grande Karl.

Quale che sia l’espressione più congrua per nominare ciò che, oggi, l’intreccio tra forze produttive e rapporti di produzione sta generando, è certo che da questa “coscienza enorme” si deve partire per comprendere le persone, la società, la civilizzazione e, dunque, la politica mondiale e nazionale, e, dunque, anche la possibile distinzione tra destra e sinistra.

Secondo Marx, l’intreccio capitalistico di forze produttive e rapporti di produzione era destinato all’implosione per due ragioni:

  • perché il capitalismo era roso nel suo nòcciolo dall’inesorabile caduta tendenziale del saggio di profitto;
  • perché il proletariato, soggettivamente organizzato come Movimento operaio, grazie alle categorie immarcescibili del socialismo scientifico, avrebbe sopraffatto con la forza politico-statale i proprietari privati dei mezzi di produzione, avrebbe socializzato/statalizzato le forze produttive, avrebbe dato un enorme impulso al loro sviluppo.

Nella competizione per la generazione della “coscienza enorme”, il Movimento operaio mondiale, organizzato nelle Internazionali, avrebbe sopraffatto la borghesia capitalistica e costruito la civiltà a venire. Il socialismo sarebbe stato solo una fase di transizione intermedia verso il comunismo, verso la società del “a ciascuno secondo i suoi bisogni”, la società dell’umanesimo plenario, la Terza Età dello Spirito di Gioachino da Fiore. L’intreccio marxiano di metafisica messianica di origine ebraica e di ottimismo antropologico di origine pelagiana, evoluzionista e positivista non è bastato. Tanto che qualcuno ha cominciato a pensare che il modo di produzione capitalistico avesse… i secoli contati.

Secondo la Scuola di Francoforte e secondo gli operaisti alla Mario Tronti o alla Toni Negri – si veda il libro Empire – il capitalismo ha talmente inglobato le forze produttive da abolire la contraddizione con i rapporti di produzione e da neutralizzare lo stesso proletariato e il suo Movimento operaio, politico e sindacale.

Se un soggetto alternativo alla borghesia capitalistica può nascere, esso può sorgere solo nelle periferie sociali, dagli slums delle megalopoli del Terzo mondo e, qui in Occidente, dalla nuova classe operaia, razza “pagana” non controllabile dalla Chiesa dei partiti e dei sindacati operai.

Insomma: gli “ultimi” del Vangelo trasformati nel nuovo soggetto politico rivoluzionario. E’ ciò che ha fatto, infine, la teologia della liberazione. Da queste teorie sono nati l’insurrezionalismo, il guerrilismo, il partito armato.

Secondo i riformisti socialdemocratici, invece, tanto valeva, di fronte all’“eternità del capitalismo”, scendere a patti con il Capitale; se non era possibile il controllo politico pubblico della produzione della ricchezza, si poteva/doveva trattare duramente circa la distribuzione della ricchezza. E’ stato il modello socialdemocratico del secondo dopoguerra. Il fatto è che il modo di produzione capitalistico, nonostante crisi, catastrofi belliche, disastri ambientali ha tenuto in mano la barra dello sviluppo. Lo segnala da ultimo un libro di Rainer Zitelmann.

Il sapere scientifico e tecnologico è divenuto la forza produttiva principale e appare saldamente sotto il controllo delle multinazionali della conoscenza e dell’Infosfera, da Google, ad Amazon, a Facebook….

Già nel 1995 il Rapporto europeo di Edith Cresson, intitolato “Insegnare e apprendere. Verso la società conoscitiva.”, aveva richiamato l’attenzione dell’opinione pubblica, della politica e dei governi sui “tre choc” cui stavamo andando incontro: la società dell’informazione, lo sviluppo della civiltà scientifica e tecnologica, la globalizzazione.

Oggi, è evidente che l’economia della conoscenza cammina sulle gambe dell’ingegneria genetica – fino alla creazione dell’uomo in laboratorio – dell’Intelligenza artificiale, della Robotica, delle bio-nanotecnologie.

Che cosa c’entra tutto ciò con la politica divisa in destra e sinistra? E’ evidente che la posta in gioco della politica diviene “la coscienza enorme” o “la Noosfera” o la potenziale “Singularity”… Cioè il futuro della civiltà umana, cioè l’umanità degli uomini.

Ha ancora senso, di fronte a tali scenari, il costituirsi della politica in destra e sinistra? La risposta sta nella storia, giacché il contenuto noetico di questi concetti è dato dall’itinerario che li ha costituiti. Da quanto è nato il concetto di sinistra – dovuto alla casuale e storica collocazione a sinistra nell’emiciclo parlamentare inglese dell’ala liberal-progressista borghese Whig – esso ha sempre avuto come contenuto l’idea di progresso – il progresso come fine, scrisse Comte –  di promozione della filosofia, della scienza, dell’innovazione tecnologica e di relazioni sociali fondate sulla dignità umana e sulla libertà.

Si potrebbe dire: promozione delle forze produttive contro i rapporti sociali di produzione che le contenevano, le bloccavano, le scoraggiavano. Sinistra come liberazione. Alle spalle stavano le idee di liberazione/redenzione umana e di universalismo, che il Cristianesimo ha immesso nella storia, con il passaggio dal Dio etnico ebraico al Dio di tutti.

Si può discutere con Feuerbach se sia stata la nuova antropologia filosofica ellenistica a generare la nuova teologia o viceversa, in ogni caso è di lì che parte l’idea della redimibilità umana e della storia aperta, anticiclica. La storia umana è pensata come la storia dell’ominizzazione della natura e dell’umanità stessa, sottratta alla lotta animale tra gli uomini.

L’uomo è pensato come processo infinito di autorealizzazione, di fioritura umana, di eudaimonia. In Teilhard de Chardin non è l’ultimo stadio: oltre la Noosfera si accede ad una sfera più grande, che ricomprende la prima: è la Cristo-sfera. Questa antropologia e filosofia della storia di origine cristiana hanno registrato significative oscillazioni “eretiche” tra pelagianesimo, gnosticismo cataro e messianismo.

La sinistra, per parte sua, è stata messianica e pelagiana; quella bolscevica anche catara.  La destra, viceversa, si è sempre qualificata per la conservazione dei rapporti sociali esistenti, sia quando era Nobiltà e Clero sia quando, da un certo punto storico in avanti, divenne la Borghesia, già vittoriosa contro il modo di produzione feudale, che difendeva come eterni i rapporti sociali di produzione capitalistici contro il nuovo arrivato, il proletariato e il Movimento operaio.

La descrizione di una Destra e di una Sinistra storiche, con ruoli stabili garantiti in commedia, risponde alla realtà attuale delle due? Non pare più!  La ragione è che la Politica ha perso la rappresentanza delle forze produttive e dei rapporti di produzione e si è attestata sulla distribuzione nazionale/territoriale delle risorse, che gli Stati e i governi nazionali riescono a contrattare con le potenze economiche globali e nazionali.

Se il compound dell’economia della conoscenza è fatto di Ingegneria genetica, Intelligenza artificiale, Robotica, Bio-nanotecnologie, Infosfera e Globalizzazione, qual è l’economia politica della destra e della sinistra e quali i percorsi possibili dell’ominizzazione?

Destra e sinistra hanno abbandonato il conflitto storico sul modo di produzione, ripiegando sulla distribuzione in economia e sull’etica in ominizzazione. Si tratta di un abbandono del campo per impotenza. Confliggono, in economia, sui destinatari sociali della distribuzione; in etica, tra l’affermazione dei valori tradizionali – Dio, Patria, Famiglia – e valori globalistici.

E la sinistra e il capitalismo? L’idea di cambiarlo per via politico-statale è fallito. Tuttavia, il modo di produzione capitalistico non è l’ultimo grido della storia umana. Ma, come per i passaggi precedenti dei modi di produzione, ciò che genera il cambiamento dei rapporti di produzione è la potenza dell’innovazione tecnologica e delle forze produttive emergenti, la cui vittoria sui vecchi rapporti di produzione che le bloccano può essere accelerata dall’assunzione di una rappresentanza culturale e politica riflessiva delle nuove forze produttive.

E’ così, d’altronde, che la borghesia ha sconfitto le forze feudali: con la scienza, con la tecnologia, con la filosofia. Al momento esistono forze sociali crescenti nel compound sopra citato. Forse la sinistra dovrebbe incominciare a parlare con loro.

 




virus – la grande sfida (recensione)

L'ho preso ieri, l'ho letto a volo e lo recensisco subito.

Il libro è scritto per essere letto dai non addetti ai lavori e si imparano un sacco di cose sulla storia delle pandemie. Si scopre che siamo una massa di ignoranti, io per primo, e si capisce come mai all'inizio c'è stata una grande sottovalutazione.

Non pretendete di trovare le risposte alle notizie che stavano sui giornali di ieri perché, rispetto alla cronaca, siamo fermi ai primi casi Codogno, ma Burioni è un facile profeta, ci spiega come funziona il caso del contagio con i virus (capitoli 2 e 6) ed è impietoso nel sottolineare che si tratta di uno di quelli più difficili da combattere per via della contagiosità in fase asintomatica. Non è una cosa da poco; altre gravi epidemie di tipo virale, con elevate incidenze di letalità, sono state sconfitte perché sostanzialmente consentivano di avere contagiati sintomatici e dunque facilmente isolabili ed individuabili.

Con il Covid19 non è così; è meno letale di Ebola o della SARS ma molto più contagioso.

Il primo capitolo ci racconta come è partita e Burioni mette subito i piedi nel piatto: "Un elemento importantissimo di questa nuova infezione è l’incubazione, cioè il periodo privo di sintomi che va dal momento in cui il paziente si infetta al momento in cui sviluppa la malattia conclamata. Nel caso dell’influenza questo lasso di tempo è brevissimo (un giorno), invece per COVID-19 la situazione è del tutto diversa: dura tipicamente cinque o sei giorni, che possono arrivare fino a dieci-dodici. La cosa è tutt’altro che irrilevante, dato che rende poco efficace il tentativo di bloccare la diffusione della malattia misurando la temperatura dei viaggiatori negli aeroporti o nelle stazioni ferroviarie: possiamo benissimo trovarci in presenza di un paziente che è stato appena infettato, è in perfetta salute durante il periodo di incubazione e solo una volta arrivato a destinazione svilupperà la malattia, contagiando gli altri."

La lettura è una buona occasione per avere notizie sia sul funzionamento dei virus (cap. 4 con tante informazioni su DNA e RNA necessarie per orientarsi tra i diversi tipi di virus) sia per ripercorrere la storia della umanità e delle sue epidemie con tante notizie sulla genesi, sulla loro evoluzione, sulle vittime e sulla loro sconfitta.

Sì ma ci sarà il vaccino… Burioni non è molto fiducioso nè sui tempi nè sulla efficacia. E dunque state casa.

1. Cronache da Wuhan
2. Contatto e contagio
3. La peste, il flagello dell’umanità
4. Il virus e l’ospite
5. Epidemia: quando è il virus a vincere
6. Spillover
7. L’esplosione dell’influenza spagnola
8. Contenere l’Ebola
9. Disinnescare l’HIV
10. Sorpresi dalla SARS
11. Il mondo al tempo del coronavirus


Virus, la grande sfida. Dal coronavirus alla peste: come la scienza può salvare l'umanità
Roberto Burioni

Editore: Rizzoli Collana: Saggi italiani In commercio dal: 10 marzo 2020 Pagine: 240 p., Rilegato
prezzo 15 € – kindle ed epub 10 €


 




che fine ha fatto il 68? – recensione di Claudio Cereda

Verso la fine della sua introduzione, a proposito dei contributi di quei 23 coraggiosi che si sono cimentati nella impresa di mettere per iscritto, in poche cartelle, un pezzo importante della loro vita, il curatore del libro Giovanni Cominelli scrive:

la storia del mondo non è descrivibile come un progetto; non è teleologica; ... La storia accade a caso, gli individui in parte vi si adattano, in parte vi si ribellano, ne producono qualche frammento che si combina o confligge con quello di altri. La sfida che ne nasce: rinunciare all’Assoluto, senza tuttavia diventare cinici o nichilisti. Sì, lo dobbiamo confessare, abbiamo raggiunto, non tutti, le sponde di «un pensiero politico modesto» – così lo definisce Albert Camus, nei suoi saggi pubblicati postumi, nel 1965 – «liberato di ogni messianismo e sgombro della nostalgia del paradiso terrestre». Così, alla fine della parabola sul fondo resta «solo» l’umanesimo radicale. Scrive Marx: «essere radicali significa andare alla radice; ora, la radice è l’uomo stesso».

Il mio consiglio, per apprezzarla appieno, è di leggere la introduzione solo alla fine.

E' la prima volta che mi capita di recensire una cosa di cui sono parte e provo un po' di imbarazzo. Quando qualche mese fa Giovanni Cominelli mi accennò all'idea di fare qualcosa di diverso per il cinquantenario mi trovai completamente d'accordo con l'idea di mettere l'autobiografia al centro della attenzione, perché raccontare è sempre meglio di giudicare e/o catalogare.

Quello che si capisce è che 50 anni fa eravamo persone diverse (e lo siamo ancora), ma messe dentro uno stesso contenitore ne veniva fuori un magma in ebollizione. In questo contenitore, in cui come apprendisti stregoni sognavamo di ribaltare il pianeta, avevamo tante finestre sul mondo che ci consentivano di arricchire il dibattito tra di noi, di scoprire che il mondo che volevamo rimettere a posto era maledettamente complicato e con molte sfaccettature. Da quelle finestre lasciavamo l'Università per tornare ai nostri territori di provenienza, alle nostre associazioni culturali, ai collettivi politici di territorio, alle famiglie, quanto mai diverse.

A fine dicembre 2017, Cominelli ci ha mandato una mail con associata una proposta di strutturazione della biografia di ciascuno: come mai sei capitato lì, che responsabilità hai avuto, dopo cosa hai fatto, quello che hai fatto pensi che possa aver lasciato una traccia in termini di eredità, cosa pensi di quello che sta succedendo?

Le persone che scrivono hanno operato in tutta Italia; per ragioni generazionali la loro collocazione nel decennio 68/77 non incomincia sempre con l'anno del cinquantenario, presentano retroterra socio-familiari che vanno dal mondo comunista a quello cattolico, dal punto di vista della collocazione politica nel decennio appartengono in ordine di frequenza al Movimento Studentesco delle Facoltà umanistiche della Statale di Milano (poi Movimento Lavoratori per il Socialismo), ad Avanguardia Operaia, a Lotta Continua; nessuno di loro (con l'eccezione di Cofferati ha fatto carriera politica); nella vita si sono ripartiti tra il mondo della scuola, quello dell'Università, quello del giornalismo, quello delle nuove professioni (come nel caso di Mannheimer o di Lanzone).

Segnalo la presenza di un testimone del movimento dei CUB (comitati unitari di base), Emilio Molinari, che poi sulla scena milanese e lombarda ha svolto il ruolo di profeta disarmato di una prospettiva altra rispetto alla evoluzione del quadro politico. Emilio, perché Molinari era Emilio, anzi l'Emilio, detto alla lombarda, ci racconta in presa diretta la nascita dei CUB.

I 23, ai tempi non li ho conosciuti tutti, ma quello che scrivono ci parla di vite interessanti meritevoli di essere raccontate. C'è chi ha scelto di rimanere sui tre anni accademici dal 67 al 69 che caratterizzano la fase più originale del 68 (io sono tra questi) e chi (la maggioranza) dovendo rispondere alle ultime domande poste da Cominelli (quelle sulla eredità), ha raccontato di sè in relazione agli anni 70 nella scuola e nella società. Mi scuseranno quelli che non cito, ma 23 sono davvero tanti. Questa è una piccola selezione.


Piervito Antoniazzi come tutti quelli che arrivano dal cattolicesimo sociale ne ha fatte di tutti colori anche se, negli anni caldi, ha fatto il responsabile nazionale degli studenti medi di AO.

Che dire del ’68? Ha diffuso una critica dei ruoli gerarchici, ha contestato la loro «autosufficienza», ma insieme ha creato l’illusione di una società «senza autorità». Mi sento «sessantottino» nella ricerca dell’impossibile, nella passione per le fasi di «statu nascenti». Sento che «il personale è politico», ma non credo più che basti la buona volontà e credo che «i doveri» vadano rivalutati.
Mi appassionava allora un motto di Bertolt Brecht: «Cambiate la società e, quando l’avrete cambiata, cambiate la società cambiata». A questo sono rimasto fedele. Preferisco costruire più che gestire. Ma, come diceva il mio «maestro» Bepi Tomai, grande dirigente aclista, con tipica espressione milanese, «forse noi siamo della linea ciula…»


Sergio Cofferati non ha bisogno di presentazioni ma qui ci racconta dei suoi primi anni alla Pirelli quando faceva la doppia militanza sindacale e politica (nel MS), del ruolo professionale di analista tempi e metodi («Sanguetta») inviso ai compagni del CUB e che, nel comitato paritetico per il cottimo, si relaziona con il potente segretario della sezione di fabbrica del PCI  Ruggero Bonalumi (amendoliano): Insomma in quello stabilimento il «rivoluzionario» faceva le tabelle di cottimo e il «riformista » gliele contestava tutte. E la direzione impazziva perché non trovava il bandolo di quella matassa.

La mia generazione era animata da vere passioni e dalla ricerca di valori che le rendessero pratiche di militanza politica, sindacale o sociale. Valori condivisi con tanti altri giovani in tante altre parti del mondo. Si militava e si lottava sempre guardando lontano, nessuna delle nostre vicende veniva affrontata senza averla collocata in un contesto largo e internazionale. E si stava nsieme con gioia pensando a un futuro migliore per quelli che sarebbero venuti dopo. Oggi non è più così. La miseria dell’individualismo domina, la solidarietà è bene sempre più raro. E politica è parola che respinge. Certo non bisogna arrendersi mai, ma guai a non rendersi conto di quello che si muove intorno a noi. Vorrei solo ritrovare non l’energia, ormai persa per sempre, ma la gioia di «fare» con gli altri


Nando Dalla Chiesa era il figlio del generale, confesso di considerarmi una singolare combinazione di tre «S». S come Sbirro, S come Sessantottino, S come Sociologo. Arriva al pensionato della Bocconi nel 67 e fino ad allora era sempre vissuto in caserma. Un Sessantotto particolare, dunque. Rivoluzionario, ma con l’idea che lo Stato sarebbe stato meglio cambiarlo dall’interno. Durante quegli anni avevo soprattutto maturato un’irresistibile voglia di conoscere e capire il mondo.

È lungo e ricco il repertorio che giunge dalla gioventù. A ripensarlo oggi non appare poi così polveroso, purché lo si depuri dei toni ideologici e delle saccenterie, che furono infi nite. Così, benché di quel periodo provi idiosincrasia verso la dimensione ideologica e dottrinaria o verso l’intolleranza culturale, che ancora ciclicamente tornano a noi vestite a nuovo, mi vado accorgendo di come il Sessantotto abbia messo a disposizione dell’ultima parte della mia vita un pozzo di valore inestimabile. Non una divisa da miles gloriosus, ma un deposito prezioso di orientamenti e di principi


Vincenzo Gaudiano è un napoletano e il 68 lo incontra quando inizia la IV ginnasio; ci racconta del carattere un po' settario del nascente movimento, dei fascisti egemoni negli istituti tecnici, ed è da una riflessione contro il settarismo che decide di aderire al MLS.

Ai giovani di oggi vorrei innanzitutto trasmettere il fascino terribile di un’esperienza che ti cambia la vita. Le eredità, soprattutto quando sono collettive, sono terribilmente pesanti da portare. Mi piacerebbe aiutare le giovani generazioni di adesso a non addormentare il proprio istinto alla ribellione, che è connaturato alla condizione giovanile, ma anche a non accontentarsi di risposte semplici. In una società sempre più complessa non esistono risposte semplici ai problemi. Questo forse fu uno degli errori più grandi che commettemmo. Noi, che pure eravamo l’annuncio della società complessa, pensammo di risolvere i problemi con le categorie e le risposte della società precedente.


Anche se non ci vediamo da una vita con Giovanni Lanzone, dopo il 68, ho passato una parte importante della metà anni 70 quando stavamo nella segreteria nazionale di AO, io per via del Quotidiano e lui come responsabile nazionale scuola. E' sempre stato un fine intellettuale e in questo libro puntualizza molte cose importanti sul 68 la cosa più generosa del mondo.

Non ci provo nemmeno a riassumere il suo contributo (da leggere) che si incentra su tre considerazioni: la crescita del desiderio, il cambiamento strutturale del mondo che spiazza la sinistra tradizionale e rivoluzionaria, il ruolo del design e del design italiano nel ridefinire il concetto di merce (disegnare nuovi concetti per una vita nuova).


Renato Mannheimer è un altro dei bocconiani del MLS.poi passato al PCI (ma con una divertente parentesi iniziale in Servire il Popolo che racconta con gustosi particolari) ed è uno di quelli che descrivono il 68 con le sue pulsioni e le sue quotidianità. Durante le occupazioni si dormiva nei corridoi e nelle aule dell’Università, con brandine e sacchi a pelo portati da casa. Erano occasioni di riunioni e di dibattiti incessanti, ma anche di incontri più ravvicinati e più personali. Nascevano amicizie e amori, che in alcuni casi sarebbero durati tutta la vita.

A livello dei singoli coinvolti in diversi modi e con diversa intensità,il ’68 ha rappresentato la scoperta della dimensione della politica per un’intera generazione o per buona parte di essa. Tanti giovani hanno compreso i valori del sociale e dell’impegno individuale per migliorarlo, la necessità di valutare il mondo e di leggere la realtà sociale da un punto di vista diverso da quello consueto. E di agire per mutarla. Non tutti, negli anni successivi, sono rimasti di sinistra – e meno ancora di estrema sinistra – ma per la gran parte hanno conservato la spinta ideale e l’approccio critico che il ’68 aveva acceso in loro.


Non sono tutte rose e fiori e Ugo Volli, oggi ordinario di Filosofia della Comunicazione a Torino affonda il coltello, in chiave autocritica, piuttosto in profondità:

come tutti ho nostalgia della mia giovinezza, dei suoi desideri e delle sue passioni. Ma credo che gli anni passati a giocare all’«esercito popolare» (dove senza saperlo eravamo un po’ come i ragazzi della via Pal), a mettere in scena una rivoluzione inesistente, a masticare demagogia e concetti arretrati e falsi nel villaggetto chiuso dell’università, siano stati tempo perso. Anzi peggio, che siano stato un danno alla vita personale di chi vi partecipò e soprattutto a quella del Paese.


Come ho scritto in premessa ho scelto di parlare dei due o tre anni cruciali con qualche riferimento al prima, cioè al chi ero quando quella storia è incominciata. Volevo parlare di alcune cose del Movimento di Scienze che ho visto solo a Scienze, del fatto che eravamo molto orgogliosi di saper parlare a tutti, del fatto che il gruppo dirigente del movimento era fatto dai migliori di ogni corso, del fatto che da noi non si è mai parlato di abbassare livello e qualità degli studi, del fatto che amavamo la scienza e vivevamo la contraddizione tra l'amore e il tema della non neutralità.

Non ho allargato all'intero decennio per due ragioni: mi sentivo in difficoltà a condensare in poche righe la storia di una vita; si tratta di una esperienza troppo ricca di eventi e di fasi per raccontarla in dieci cartelle; già solo il racconto della nascita dei gruppi e del piegarsi del movimento studentesco ad altri fini ne avrebbe richieste altrettante. La seconda ragione è che in chiave autobiografica quel lavoro lo avevo già fatto un anno fa e lo trovate qui. Ci sono alcuni capitoli che riguardano quegli anni e parlano di cose specifiche come il servizio militare nel 70/71, l'impegno a costruire AO in Brianza, l'esperienza del Quotidiano dei Lavoratori, il bilancio negativo sulla parabola di AO a fine 1976 e sulla sua sostanziale implosione, la scelta di dedicarmi con passione al mondo della scuola e all'insegnamento critico della matematica e soprattutto della fisica (e almeno di quello rimane un manuale storico critico e attento ai fondamenti disponibile qui).

Tra un paio di settimane, sabato 26 maggio, noi del Movimento Studentesco di Scienze (e dintorni) ci ritroviamo a Fisica per il nostro cinquantenario. Abbiamo scelto di non fare nessun bilancio/rievocazione; non saremmo stati in grado di farlo, non avevamo voglia di dividerci, come sarebbe accaduto con una discussione sui perché … visto che abbiamo seguito strade diverse; abbiamo scelto di fare una breve assemblea di ricordi/suggestioni e poi dedicare un tempo adeguato per la dimensione affettiva, per il gusto di rivedersi in maniera gradevole e con il sorriso. Più amici che reduci.


Chi sono questi 23?

  • Pier Vito Antoniazzi, classe 1953, Milano, il suo 68 è iniziato al ginnasio, responsabile studenti medi di AO, forti frequentazioni con il cristiuanesimo sociale, attualmente PD
  • Luisa Bertolini, classe 1953, il suo 68 è iniziato al ginnasio, filosofia Milano, MLS, insegna storia e filosofia a Bolzano
  • Maurizio Carrara, classe 1954, Bergamo, architettura Milano, inizia alle superiori a Bergamo in contatto con MLS, attualmente PD, presidente Pio Albergo TRivulzio
  • Claudio Cereda, classe 1946, Villasanta, Fisica Milano, MS di Scienze, poi AO, dirige il QdL, dal 77 PCI, poi PD (problematico), docente di Matematica e Fisica nei Licei poi DS, ora pensionato a Siena
  • Sergio Cofferati, classe 1948, tecnico in Pirelli, prima LS poi PCI, poi dirigente CGIL sino a segretario generale, deputato europeo L&U
  • Nando Dalla Chiesa classe 1949, Milano Bocconi, MLS, poi anima libera nella sinistra, sociologo, saggista, professore universitario
  • Fiorella Farinelli, classe 1943, laureata a Pisa nel 43 tra i fondatori de Il Potere Operaio di Pisa, poi LC, docente e quindi sindacalista CGIL scuola, dirigente al MIUR
  • Franco Fabbri, classe 1949, iscritto a Scienze ma aderente al MLS, tra i fondatori ed animatori degli Stormy Six, attualmente docente al Conservatorio diu Parma e all'Università di MIlano
  • Vincenzo Gaudiano, classe 1955, movimento studentesco medi Napoli, MLS, poi PCI, amministratore locale
  • Giovanni Lanzone, classe 1947, filosofia Milano, responsabile scuola di AO, poi PDUP, giornalista, esperto di innovazione sui temi del made in Italy
  • Renato Mannheimer, classe 1948, Movimento Bocconi, poi Servire il Popolo, MLS, PCI, esperto di sociologia della politica, giornalista e sondaggista
  • Antonella Masi, classe 1950, Bari, laurea in storia/antropologia, MLS e poi movimento delle donne, impegnata nel sociale, gestisce una piccola imporesa di produzione biologica in Puglia
  • Emiliio Molinari classe 1939, tecnico alla Borletti di Milano, animatore del movimento dei CUB, responsabile nazionale fabbriche di AO, DP, consigliere regionale, Verdi, senatore per un mandato, impegnato sui temi della partecipazione e dell'ambientalismo
  • Rita Pavan, classe 1957, conosce il movimento giovanissima all' ITC, aderisce al MLS, impegnata nella CISL dall'80 diventa funzionario sindacale, attualmente segretaria CISL Monza-Brianza-Lecco
  •  Luciano Pero, classe 1945, uno dei tre espulsi della Cattolica di Milano (Capanna, Pero, Spada), filosofia, docente di organizzazione al Politecnico, Intesa e cattolicesimo sociale, poi LC, con cui rompe nel 72 (delitto Calabresi), si occupa di organizzazione di impresa e di sociologia del lavoro.
  • Antonio Pioletti, clase 1945, Siracusa, ordinario di Filologia romanza a Catania, ha guidato il MS catranese in raccordo con quello della Statale di Milano, redattore di Giovane Critica, Falce e Martello, Servire il Popolo, MLS quindi impegno socio culturale
  • Ulianova Radice, classe 1954, di famiglia radicalmente comunista, incontra il movimento al Manzoni di Milano, poi Filosofia con adesione al MLS, dagli anni 90 lavora con Gabriele Nissim nella ricerca sui Giusti.
  • Danilo Taino, Cremona, classe 1955, movimento studentesco dei medi, poi MLS, laurea in Architettura, giornalista professionista a Reporter, Mondo Economico, Corriere della Sera (corrispondente dall'estero)
  • Silverio Tomeo, classe 1951, incontra il 68 a Lecce tra gli studenti medi, incontra la politica quando il padre poliziotto lo spedisce a fare il militare alla Cecchignola, ritorna in Puglia e opera nel circolo Lenin con successiva adesione al MLS, saggista
  • Alberto Toscano, classe 1948, pendolare da Novara, incontra il 68 a Scienze Politiche e vive tutta la fase iniziale del movimento in Statale, dal 73 iniziano i primi dubbi e nel 74 lascia il MLS, inizia a lavorare nel settore editoriale poi passa al giornalismo; vive ed opera a Parigi
  • Gian Gabriele Vertova, classe 1944, Bergamo, dirigente della FUCI, laurea in lettere in Cattolica nel 68, opera nei movimenti socioculturali del mondo cattolico bergamasco aperti a sinistra passando per il MPL e poi per DP, nell'era prodiana è stato vicesindaco di Bergamo
  • Sergio Vicario, classe 1948, laurea in Economia in Cattolica nel 1972; ha partecipato con compiti di responsabilità al lavoro del MLS sino a maturare una riflessione che lo porta al momento dello scioglimento ad aderire a posizioni popperiane sulla società aperta. E' stato tra i promotori dell'appello dei sessantottini per il sì al referndum costituzionale; si occupa di non profit
  • Ugo Volli, classe 1948, professore ordinario di filosofoia della comunicazione a Torino, filosofia, di famiglia comunista arriva a Milano da Trieste, ci racconta in chiave autocritica la sua esperienza di movimento           

Che fine ha fatto il '68? Fu vera gloria
Curatore: G. Cominelli
Editore: Guerini e Associati Anno edizione: 2018 In commercio dal: 03/05/2018 Pagine: 224 € 21.50


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L’arte della matematica e la cultura classica – recensione di Lino Di Martino

Nel confronto tra Simone Weil – André Weil si può riconoscere una dibattito che attraversa ancora oggi la matematica?

Su richiesta dell’adorata sorella, André cerca di rispondere da matematico professionale (ma anche intellettuale universale) come lui faccia matematica, e perché. Simone, di fatto abbastanza digiuna di matematica, ma filosofa avvertita ed esigente, cerca come sempre verità assolute… Veramente interessante… Guarda caso, il confronto si accende sull’antica questione della commensurabilità/incommensurabilità fra grandezze (o se si vuole sulla teoria delle proporzioni) centrale nella matematica greca.

André teorico dei numeri vi vede il fallimento dei pitagorici, Simone al contrario, se ho capito bene, ci vede una vittoria, una specie di via verso l’assoluto mistico… Può sembrare obsoleto e irrilevante discutere oggi sui numeri reali irrazionali, ma non è così, se si vede la vecchia polemica come indizio di un confronto generale: Greci versus Babilonesi e Persiani, Geometria versus Algebra.

Indiscutibilmente l’Algebra non è Greca, e per Platone Dio è un Geometra eternamente all’opera. E l’algebra, tramite il salvataggio di copisti arabi, si è sviluppata solo a partire dal Rinascimento conquistando ampie praterie a partire da Cartesio, passando per Eulero e Lagrange, fino a Weierstrass e a quello che la vulgata chiama algebrizzazione dell’analisi matematica (espressione infelice).

E’ comunque notevole che nel suo sviluppo l’algebra abbia sempre rivestito un triplice ruolo, quello di strumento formale e computazionale per la risoluzione di problemi sempre più ardui, quello di strumento rigoristico e fondazionale, e quello di disciplina multiforme e autonoma.

Parallelamente si è sviluppata grandiosamente la geometria, o meglio sarebbe dire le geometrie, da Moebius a Riemann a Klein, ai geometri italiani del secondo ottocento e primo novecento, quella scuola italiana che faceva geometria a tutto tondo, usando in sostanza la sola teoria delle equazioni algebriche per studiare superficie e varietà, sempre più complesse e multiformi. E qui vorrei aprire una parentesi.

Anche in queste lettere alla sorella, seppure in modo molto soft, emerge la visione della matematica di Weil, che è la visione del gruppo Bourbaki, di cui André è membro fondatore. Una visione globale, vicina ma non identica al programma formalista di Hilbert. La preoccupazione fondamentale di Bourbaki era soprattutto’ francese’.

Falcidiata dalla guerra mondiale la generazione post-Poincaré (i tedeschi al contrario avevano lasciato i giovani matematici a casa!), restava un’analisi matematica obsoleta à la Goursat, e una geometria altrettanto arretrata. I bourbakisti si proposero di rifondare l’edificio matematico, e in particolare le geometrie e l’analisi, su basi algebriche e topologiche.

Non erano molto interessati alla questione dei fondamenti: gli bastava il fortino insiemistico di Zermelo Fraenkel. Erano working mathematicians, e se il monumentale Trattato degli Elementi, pensato all’inizio come novello Euclide, appare come un freddo distillato di cristallina purezza, era perché era chiaro al gruppo Bourbaki che ci poteva entrare solo matematica morta, cioè quelle parti fondanti dell’edificio sufficientemente solide e mature.

Per questo, anche molto tempo dopo aver abbandonato l’ambizioso progetto del ‘nuovo Euclide’, e, per usare le parole di Jean Dieudonné, uno dei più indefessi scribi del gruppo, il Trattato andava considerato solo un ‘toolkit for working matématicians’ e non entrava nel trattato, fra molte altre cose, la teoria dei gruppi e in particolare dei gruppi finiti, considerata a lungo ‘di nicchia’ e comunque ‘work in progress’.

Ma i membri del gruppo, individualmente, erano appunto working mathématicians, e svolgevano un amplissimo spettro di ricerche innovative. Non è qui il luogo di citarle in esteso: ma basti pensare allo sviluppo della teoria dei gruppi algebrici e dei gruppi di Lie, che nei tardi anni di Bourbaki trovarono persino spazio in volumi del Trattato e sono ancora un punto di riferimento.

Ma veniamo al punctum dolens della Geometria. Dice la vulgata che Bourbaki fosse ostile e sottostimasse la geometria, e con essa il potere della sintesi, delle immagini e dell’intuizione. La provocazione condensata nello slogan bourbakista Abbasso Euclide, è considerato una prova in merito. Ma si dimentica che l’obiettivo era in realtà il dominio di un insegnamento arido e desueto della geometria euclidea nel piano e nello spazio, farcito di esercizi spesso artificiosi e privi di sbocchi. Nella mia esperienza di studente medio e liceale, ricordo con abominio la lettura pedante dell’Enriques-Amaldi.

D’altra parte, l’incipit del Trattato suonava: ‘Depuis les Grecs, Mathématiques veut dire démonstration’. I bourbakisti da questo punto di vista si ritenevano in tutto e per tutto eredi di Euclide, dell’impostazione assiomatica e della teoria della dimostrazione fondate dai Greci.

Il punto era che l’impalcatura su cui si reggeva la pur grande geometria italiana era malferma. Se ne rese conto Zariski quando visitò da giovane Roma, e da quella visita fu spinto con altri a costruire l’Algebra commutativa, sul cui scheletro si sarebbero sviluppati i più sofisticati rivestimenti geometrici. Accanto all’algebra propriamente detta (commutativa e omologica), un altro pilastro fondante sarebbe stata la Topologia (algebrica e differenziale).

Quanto in Bourbaki (forse non proprio in Weil) fosse assillante lo studio rinnovato delle geometrie è provato ad esempio dai lavori di Chevalley, di Serre, e soprattutto dall’opera grandiosa di Grothendieck, cui fece da ostetrico proprio Dieudonné con i Fondements de Géométrie Algébrique.

E’ un fatto comunque che alcune correnti della matematica attuale si proclamavano fortemente antibourbakiste. Si va dai logici che rimproverano la scarsissima attenzione ai fondamenti (fra l’altro, Bourbaki ignora Godel), ai geometri più legati alla storia peraltro nobile dei metodi della geometria sintetica o dediti stricto sensu alla geometria differenziale e alle sue applicazioni (a buon titolo peraltro, e francamente non vedo questa gran distanza dai metodi e strumenti bourbakisti…). Per arrivare alla matematica ‘senza insiemi’ (al più ‘insiemi variabili’): la teoria delle categorie, cara 40/50 anni fa ai materialisti dialettici non mainstream (ahimè), oggi peraltro parecchio addomesticata ed evoluta, fino a diventare uno strumento tecnico indispensabile e prezioso e.g. nella coomologia dei gruppi, nella teoria algebrica dei numeri e in teoria di Galois).

E infine veniamo alla pedagogia, che contempla il fallimento del bourbakismo nell’insegnamento della matematica nella scuola primaria e secondaria. Il vecchio Euclide in pillole (senza nessuna apertura alla filosofia e alla scienza) e la vecchia algebretta, sostituito in peggio dalla ’neomatematica’, una parodia del formalismo e dell’astrazione… Verissimo. Succede però che i realisti siano spesso tragicamente più realisti del re. Ho avuto occasione (per circostanze non legate a meriti miei, per carità) di chiacchierare su questi argomenti con persone del calibro di Serre, Tits o Borel, e posso assicurare che avevano in orrore la ‘presa del potere’ di Bourbaki nella scuola, prima in Francia e poi altrove. La consideravano un maleficio imputabile più a ‘filosofi, psicologi e pedagoghi’ che a veri matematici…

Comunque sia, molta acqua è passata sotto i ponti , e oggi i problemi dell’insegnamento della matematica nelle scuole sono di diversa natura e anche più seri. Il problema è la deriva verso una didattica della matematica senza dimostrazioni, fatta di quiz e routines computazionali (persino in università, con i corsi precotti di Calculus). Qui devo fare una confessione: non sono state solo le lettere dei Weil a spingermi a queste affrettate riflessioni, ma l’ottimo libro appena uscito da Mondadori ‘Perché la cultura classica . La risposta di un non classicista’ dell’amico matematico Lucio Russo (autore non dimenticato della ‘Rivoluzione dimenticata’ e di molto altro).

Ne suggerisco caldamente la lettura, anche e soprattutto agli insegnanti! Concordo fortemente con le analisi e le proposte di Russo. Con la sua critica radicale delle tendenze che si avviano a prevalere con la forza delle lobbies psico-pedagogiche armate dalle burocrazie ministeriali. Solo, mi è parso parziale e un po’ sbrigativo l’atteggiamento e il giudizio verso l’esperienza bourbakista.

Degli errori e fallimenti di quei tentativi non credo siano soprattutto imputabili i bourbakisti ‘veri’, ma certi adepti troppo zelanti e superficiali. Naturalmente Russo dice molto altro e molto di più. Io sono però di quelli che pensano che i matematici professionali di oggi, quelli che prendono le medaglie Fields e risolvono problemi profondi e complessi, lo sappiano o no, siedono sulle spalle di Bourbaki, e vivono nel mondo cui Weil e i suoi sodali, nel bene e nel male, ci hanno introdotto.

P.S. Sul modo di descrivere l’analisi e in particolare la teoria dell’integrazione nel Trattato, riconosco (lo dico da non-specialista) che la scelta dell’approccio si presta a critiche ben note…


L' arte della matematica
Simone Weil, André Weil
Editore: Adelphi Collana: Piccola biblioteca Adelphi Anno edizione: 2018 Pagine: 192 €14


Perché la cultura classica. La risposta di un non classicista
Lucio Russo
Editore: Mondadori Collana: Orizzonti Anno edizione: 2018 Pagine: 225 p., Rilegato €19


 




Nick Bostrom – Superintelligenza – di Daniele Marini

Raramente ho letto qualcosa di così confuso e male impostato sul tema dell’intelligenza artificiale e sui suoi sviluppi potenziali, come in questo libro. Bostrom ha purtroppo avuto, negli scorsi anni e anche recentemente, una forte influenza nella diffusione dell’idea che l’Intelligenza Artificiale (I.A.) possa un giorno sfuggirci di mano. Una lettura critica di questo testo è quindi essenziale.

Cosa non mi piace di quest’opera?
Prima di tutto il fatto che è scritta da una persona che apparentemente ha una significativa formazione filosofica e nelle neuroscienze accanto a una formazione in fisica. Questa formazione interdisciplinare non emerge se non sul piano puramente tecnico. Quel che manca interamente è l’apporto filosofico o per meglio dire degli aspetti meno materiali della natura umana.

La nozione di intelligenza che emerge è un qualcosa che è dato al più dal lungo processo di selezione naturale e che si manifesta come capacità umana di pensiero. Ma dov’è la natura sociale? Dov’è la relazione tra uomo e natura? Nessuno mi convincerà mai che il pensiero umano si manifesti in totale autonomia e indipendenza dal suo rapporto con la natura e con altre persone. Soprattutto in quest’opera una parola, e con essa il concetto associato, manca completamente: l’interazione. Eppure nel campo delle scienze cognitive e delle neuroscienze molti ricercatori, purtroppo da pochi anni, stanno considerando l’interazione come un fattore essenziale per la costituzione e l’espressione dei processi cognitivi. Interazione tra esseri umani e interazione con l’ambiente naturale. Del resto l’intelligenza si è storicamente caratterizzata per la capacità umana di modificare la natura e l’ambiente.

Ma veniamo ad alcuni punti specifici.

Bostrom definisce sinteticamente la superintelligenza “come qualunque intelletto che superi di molto le prestazioni cognitive degli esseri umani in quasi tutti i domini di interesse”. Quanta vaghezza! Tuttavia questa definizione gli torna utile per esaminare alcune vie attraverso cui si possa creare superintelligenza. E queste vie sono:

  • l’intelligenza artificiale, definita come la creazione di macchine capaci di apprendere, di affrontare l’incertezza e la probabilità, la “capacità di estrarre concetti da dati sensoriali o da condizioni interne, e sfruttare i concetti estratti per creare rappresentazioni combinatorie e flessibili da usare nel ragionamento logico e intuitivo”. Immagina che si possano mettere in atto processi evolutivi che portino a questi risultati ma al contempo dichiara che “le risorse computazionali necessarie solo per riprodurre i processi evolutivi che hanno portato alla intelligenza di livello umano sulla Terra sono notevolmente al di fuori della nostra portata”.

Peccato che non dica nulla su quali potrebbero essere i processi evolutivi significativi per l’emergere dell’intelligenza. Si dedica quindi a elencare possibili strade, citando reti neurali, programmazione genetici e tante altre tecniche che gli esperti di I.A. hanno messo in campo in quasi 70 anni. Nella introduzione aveva peraltro chiaramente individuato la natura di questi metodi che si limitano a risolvere, anche se grande efficienza e accuratezza, solo problemi di classificazione.

Ecco, mi sarei aspettato da un ricercatore con formazione filosofica e di neuroscienze che mettesse in luce l’enorme limite che c’è in sistemi di I.A. capaci solo di classificare. Che ruolo gioca la classificazione nella formazione dei concetti in una conoscenza scientifica? I concetti emergono solo dalla classificazione? E come mai nella nostra esperienza di apprendimento scopriamo che la metafora costituisce lo strumento più potente per far emergere la concettualizzazione? Ma la metafora è anche una delle forme principali con cui si attua l’interazione umana sul piano del linguaggio, ed è qui che si apre la voragine della vaghezza dell’approccio di Bostrom. Lo scambio metaforico tra individui e gruppi di individui è la premessa per l’instaurarsi di narrazioni che a loro volta attivano processi emotivi. Ma in un altro momento Bostrom esclude di avere interesse sulle emozioni, che vede soltanto come motivazioni che potrebbero essere realizzate con algoritmi specifici nelle macchine di I.A. .

  • la emulazione globale del cervello. Qui Bostrom si spinge a fare l’ingegnere. Racconta come si potrebbe costruire un modello fedele delle connessioni neurali di un cervello umano parendo da un cadavere cristallizzato e ottenerne una copia artificiale che incorpora nelle connessioni neurali minuziosamente riprodotte l’intelligenza di questo individuo comprendente esperienze e ricordi. Il tutto partendo da tecniche di scansione ad alta risoluzione ed algoritmi di estrazione della rete di connessione estratta da milioni di immagini del cervello sezionato, a loro volta riportate in strutture neurali descritte da algoritmi.

Siamo ormai nel dominio della follia di Fankenstein! Teniamo in vitro il cervello, mettiamolo in una soluzione fisiologica e osserviamolo … Molto più credibile l’idea di Matrix, che fa vivere i protagonisti in un mondo virtuale ma facendo in modo che l’intero loro sistema neurale, incluse le terminazioni sensoriali, venga sottoposto agli stimoli dell’ambiente. Questa idea rivela una impostazione epistemologica perfettamente riduzionista: c’è solo il materiale biologico organizzato in neuroni e tessuti. L’unico limite che vede Bostrom è nella tecnologia, ancora priva della potenza di calcolo adeguata. Riduzionismo biologico e meccanicismo. Mi spiace usare gli –ismi per “denunciare” l’errore di Bostrom, ma non c’è altra via.

  • La terza via che esplora Bostrom è la cognizione biologica. E qui si dilunga ma la sostanza è metter in piedi un bel programma eugenetico basato sulla selezione guidata dallo studio del DNA e attuata con forme di fecondazione artificiale per creare il superuomo superintelligente. Che novità! Ma ci crede al punto da ritenere che questa potrebbe essere la via più efficace per avere nell’arco di 5-6 generazioni individui dotati di superintelligenza.
  • La quarta via consiste nella creazione di interfacce cervello computer. Qui Bostrom vede limiti nella criticità di creare protesi invasive, tipo sonde o microchip nel cervello, anche se riconosce che interfacce del genere possono agevolare il recupero di funzioni assenti (cecità, sordità, disabilità motorie o verbali). Peccato che non tenga in considerazioni un’ampia gamma di studi e ricerche sulla rilevazione dell’attività cerebrale elettrica (EEG) che hanno dimostrato di permettere di rilevare stati emotivi e addirittura cosa stia pensando il soggetto rispetto a una gamma di stimoli limitati (ad esempio scegliere da una serie di fotografie quella che sta osservando a un dato momento. Esperimenti che si sono spinti con relativo successo anche ad esplorare forme di teletrasmissione di azioni che un soggetto compie, attuando sul cervello destinatario una stimolazione magnetica trasmessa a distanza e che riproduce la distribuzione dell’attività elettrica del cervello sorgente.

Naturalmente sarei in mala fede se dicessi, a questo punto, che Bostrom crede veramente a queste cose (non si capisce se ci crede o si tratta di esperimenti mentali). In realtà le quattro vie che elenca servono a Bostrom per valutare il grado di rischio di uno sviluppo della superintelligenza che perseguisse queste possibili strade. Alcune strade secondo Bostrom sono particolarmente rischiose in quanto i progressi graduali potrebbe mascherare l’approssimarsi del momento in cui la macchina superintelligente diviene talmente autonoma da progredire senza più alcun intervento umano.

Dal mio punto di vista, tuttavia, mancando una analisi approfondita a realmente critica degli aspetti che Bostrom trascura, ho l’assoluta certezza che una macchina superintelligente non vedrà mai la luce. L’assenza degli aspetti di interazione interpersonale e tra uomo e natura, l’assenza delle emozioni che caratterizzano la natura umana e che ne dominano le scelte, mascherano completamente la comprensione di cosa sia l’intelligenza e come sia possibile imitarla con metodi artificiali.

Proseguendo la lettura il senso del lavoro di Bostrom diviene via via più chiaro. Nel terzo capitolo discute delle possibili forme di superintelligenza. Bostrom individua queste forme:

  • superintelligenza di grande velocità. Immaginando una velocità di 3-4 ordini di grandezza superiore mette in luce paradossi relativistici. Anche qui nasce però una illogicità: Bostrom immagina che la mente superveloce digitale interagisca con il mondo ma non si pone alcun problema al riguardo. E’ come se desse per scontato o di nessun interesse l’interazione con il mondo. Riconosce peraltro che non è concepibile una mente accelerata umana.
  • superintelligenza collettiva. Esempio di intelligenza collettiva è una comunità di lavoratori che operano su un unico progetto (es. costruzione edile, progettazione di una navetta spaziale ecc.). Parlare di superintelligenza partendo da questi esempi secondo Bostrom non è appropriato, in quanto i problemi di coordinamento non permettono di superare il grado di intelligenza collettiva oggi possibile. Ma osserva che dal Pleistocene a oggi la popolazione mondiale è cresciuta di 1000 volte, e conclude che l’intelligenza collettiva contemporanea può essere considerata una superintelligenza rispetto a quella del Pleistocene. Prendendo in considerazione una popolazione mondiale più numerosa e sistemi di comunicazione molto più efficaci di quelli attuali Bostrom immagina una superintelligenza collettiva che potrebbe contare qualche centinaio di migliaia di intelletti superiori. Tutta questa discussione ha un vago sapore di fantascienza. Infatti manca di approfondire il senso del lavoro collettivo e collaborativo, che sono in effetti le vere componenti dell’intelligenza umana. Ma questo a Bostrom sfugge.
  • superintelligenza di qualità. E qui siamo nella più totale vaghezza. Bostrom non è in grado di proporre alcuna sensata ipotesi di intelligenza qualitativamente superiore a quella umana corrente. Si domanda se possano esistere talenti non espressi ma non sa darsi la risposta, salvo immaginare intelligenze prive di qualità di quella che consideriamo l’intelligenza umana, come, ad esempio, l’assenza della capacità del linguaggio. E quindi?

Bostrom conclude il capitolo osservando che se una intelligenza digitale possedesse maggiore velocità, potesse sfruttare forme collettive evitandone gli svantaggi dovuti ad esempio allo scadente coordinamento, e possedesse qualità, peraltro al momento ignote, si potrebbe arrivare a una superintelligenza digitale. A chi legge queste note trarre qualche conclusione.

Bostrom dà ormai per scontato che le macchine arriveranno a esplicitare un intelligenza almeno equivalente a quella umana, pur non avendo avuto la capacità di dimostrare questo assunto, visto che ha accuratamente evitato di affrontare i fondamentali problemi della interazione umana e della interazione uomo-natura.

Nel quarto capitolo prova ad analizzare quanto tempo ci vorrebbe per passare da una intelligenza digitale di livello umano a una superintelligenza, esplora cioè la cinetica di una esplosione di intelligenza. E qui si lancia in ragionamenti di tipo matematico partendo da una relazione che legherebbe il tasso di variazione di intelligenza al rapporto tra il potere di ottimizzazione e la resistenza. Il potere di ottimizzazione sarebbe lo sforzo di progettazione per accrescere la qualità dell’intelligenza e la resistenza sarebbe la difficoltà alla introduzione delle tecniche ideate con la progettazione. La cosa curiosa è che con questa equazione si arriva a una curva di sviluppo che ha una crescita che, superata una qualche soglia, molto rapidamente non solo diventa esponenziale ma a un certo punto viaggia quasi verticalmente all’infinito. Qui ritengo che siamo in presenza di un uso abusivo della matematica. Siamo cioè nel pieno dominio della fantascienza.

A questo punto, poco meno di metà del testo, ho smesso di leggere e mi son limitato a sfogliare le pagine, in verità non mi interessa per niente la fantascienza. O per meglio dire mi interessa se è narrata in forma letteraria, cosa qui del tutto assente. Quindi tranquillizzatevi: il futuro dominato dalle macchine è, se mai ci sarà, molto molto molto lontano e sicuramente figure fantasiose come Bostrom non daranno alcun significativo contributo.


Superintelligenza. Tendenze, pericoli, strategie
Nick Bostrom
Editore: Bollati Boringhieri Collana: Saggi. Filosofia Anno edizione: 2018
Pagine: 522 p.  28€ versione ebook 11 €


Nick Bostrom (Helsingborg, Svezia, 1973), laureato in filosofia, fisica e neuroscienze computazionali, è docente alla Oxford University, dove dirige il Future of Humanity Institute, da lui fondato; un centro di ricerca interdisciplinare che permette a un gruppo di matematici, filosofi e scienziati eccezionali di pensare alle priorità globali e alle grandi questioni dell'umanità. Sempre a Oxford, dirige anche lo Strategic Artificial Intelligence Research Center. Bostrom è autore di più di 200 pubblicazioni specialistiche e di diversi libri, tra i quali Anthropic Bias (2002), Global Catastrophic Risks (2008) e Human Enhancement (2009). Superintelligenza. Tendenze, pericoli, strategie – bestseller del New York Times – è il suo primo libro tradotto in italiano.


 




Avanti – Matteo Renzi – recensione

Chissa se Matteo Renzi si è posto il problema nella scelta del titolo. Il giornale del Partito Socialista Italiano era l'Avanti! con il punto esclamativo che iniziò le pubblicazioni nel 1896 riprendendo il nome dall'organo dei socialdemocratici tedeschi. Si pensava allora all'ascesa inevitabile delle classi lavoratrici con una visione positivistico-ottimistica, mentre Matteo Renzi, più di un secolo dopo prende atto del fatto che il secolo breve ha cambiato il mondo, le dinamiche e le prospettive. Dunque Avanti è riferito all'Italia, Avanti con l'Italia, proviamo a dare una mano nella direzione giusta perché l'Italia non si ferma.

Matteo Renzi si racconta dopo la legnata del referendum e dalla lettura di questo libro esco con le stesse certezze e gli stessi dubbi che avevo prima di iniziare la lettura, però mi è piaciuto.

Le risposte ai denigratori del giorno dopo giorno, a quelli della serie è un contaballe, è uno sbruffone, è un pallone gonfiato, ci sono tutte, ma anche dopo il racconto-riflessione della sconfitta molti italiani continuano a vederlo come il nemico pubblico numero uno e a farci sopra l'ironia.

Il libro ci racconta le motivazioni di una politica, le pulsioni dell'anima che spingono a ricominciare, i riferimenti culturali eterogenei che ti consentono di dire che non è un cattolico democratico di derivazione democristiana, non è un figlio della socialdemocrazia, non è un liberal socialista, non è certamente un post comunista, non è un figlio di tanta famiglia destinato ad emergere per ragioni dinastiche, non è stato messo lì dai poteri di forti. Ci trovi dentro tante di quelle cose ma quella eterogeneità ti fa pensare a qualcosa di nuovo e basta riflettere sul fatto che, dopo tante chiacchiere a sinistra, è un segretario proveniente dalla Margherita a portare la scialuppa degli eredi del Pci nella famiglia del socialismo europeo.

Ecco, direi di partire dai poteri forti; questi gli sono estranei tanto quanto i salotti romani e le burocrazie giuridico-culodipietra di certi ambienti ministeriali. Quando ha incominciato gli era estraneo un po' tutto di ciò che i politici di lungo corso amano frequentare e il il suo carattere di rinnovamento (che ha avuto il suo culmine con il boom delle elezioni europee) nasce da qui. L'unica certezza che viene fuori ad ogni piè sospinto è l'eredità dello scoutismo, un modo di concepire la vita a partire dalle piccole cose e dagli stili di vita.

Il libro è formato da una premessa e cinque parti parti: Una storia strana 1. Ieri 2. I mille giorni 3. A testa alta nel mondo 4. Il futuro della sinistra 5. Domani – e ognuna di esse è caratterizzata da un mix di aneddoti, retroscena svelati, riflessioni, considerazioni strategiche. Per quanto riguarda gli aneddoti e i retroscena ho trovato particolarmente gustosi quelli che hanno a che fare con la rottura del Patto del Nazzareno in occasione della elezione di Mattarella (con gli accordi tra Barlusconi, D'Alema (rieccolo) e la sinistra del PD), quelli sui rapporti con i leader europei, i rapporti all'interno della famiglia e il ruolo della moglie Agnese, il rapporto controverso con il padre, i riferimenti al nonno Adone quando si ricostruisce la vicenda dello stai sereno ad Enrico Letta, o il primo ministro di uno dei paesi europei importanti del Nord Europa, quelli che ironizzano sul carattere un po' levantino degli Italiani che, dopo un buongiorno e buonasera, gli presenta la prima raccomandazione made in Consiglio Europeo.


Sono nipote di un sensale. Mio nonno Adone, orfano da quando aveva sei anni e dunque costretto a lavorare fin da bambino per mantenere i fratellini, vendeva animali nella Toscana contadina del primo dopoguerra. Il suo insegnamento resta scolpito nella mia testa: “Quando dai la mano a qualcuno, quello vale più di un contratto. Non c’era bisogno di notaio ai nostri tempi, Pippo”. Mi chiamava Pippo, mio nonno. E adesso che ci penso non ho mai saputo il perché.


Mentre leggevo ho postato su Facebook alcuni passi che mi sembravano significativi e ci ritorno sopra incominciando con l'Europa insipida degli euroburocrati. E' del tutto evidente che non ce la farà Matteo Renzi da solo, che non ce la farà quel che resta della socialdemocrazia, ma è altrettanto evidente che bisogna ritornare ai princìpi ispiratori, alla forza e credibilità dei paesi che l'hanno messa in piedi e, se devo metterci un po' del mio, bisognerebbe avere un po' più di coraggio e di innovazione nel guardare alla Russia perché se ragioniamo in chiave mondiale c'è un problema di massa critica (ci siamo imbarcati i parenti poveri dell'ex impero sovietico in funzione di frenatori e non affrontiamo il problema della grande madre Russia con il suo terriorio, le sue risorse, la sua storia e la sua cultura).


La nostra posizione è chiara: siamo dalla parte dell’Europa, il più grande progetto mai realizzato nella storia delle istituzioni universali. Ma non ci piace un modo di procedere che sta rendendo il Vecchio continente più simile a una macchina burocratica che non al grande sogno dei padri fondatori. “Europa sì, ma non così,” diciamo sintetizzando.

Contrastiamo la visione euroscettica dei populisti, visione sbagliata e sballata. Ma siamo altresì persuasi che il principale aiuto ai populisti arrivi dagli eurodogmatici, quelli per cui se lo dice un funzionario di Bruxelles allora è la verità, punto. Capita a tutti i grandi progetti dispersi dopo anni nelle secche della quotidianità. E capita, come scriveva un esponente della Scapigliatura milanese, Carlo Dossi, in Note azzurre, che “l’utopia di un secolo spesso diviene l’idea volgare del secolo seguente”. Non è volgare l’Europa dei tecnocrati: è semplicemente insipida, perde il suo sapore. Ecco perché c’è un grande bisogno di occuparsi del rilancio continentale almeno quanto ci occupiamo del bilancio nazionale. Perché di qui passa il futuro.

Quando arrivo al primo Consiglio europeo sono reduce da qualche incontro con i colleghi del Partito socialista europeo, ma di fatto non conosco nessuno. Ho una visione incantata delle istituzioni europee, un amore profondo per i grandi statisti che hanno costruito l’Europa; ben presto, però, realizzo che se Adenauer, De Gasperi e Schuman potessero vedere il livello micragnoso delle discussioni sulla redazione del testo dei documenti, non dico che diventerebbero euroscettici, ma certo qualche domanda se la farebbero. Passiamo intere giornate a litigare sulle virgole di una dichiarazione finale che leggeranno meno persone di quante hanno contribuito a scriverla. Sono limature di testo che servono a orientare conferenze stampa post-riunioni del tutto inutili se non a giustificare il viaggio – doveroso – della stampa. Ma nel 99% dei casi la montagna non partorisce nemmeno il proverbiale topolino: produce solo aria fritta, che gira nella bolla autoreferenziale del Palazzo Justus Lipsius.


Renzi insiste testardamente nel difendere la necessità di stare dentro questo PD che crea, e gli crea, tanti problemi e lo fa pur nella consapevolezza che bisogna cambiare numerosi moduli e modelli organizzativi. Se ne è discusso in occasione del recente congresso e a suo tempo ho detto la mia Il mio congresso del PD.

Renzi è persona nata dentro le tecnologie della informazione e della comunicazione e dunque, con tutti i loro limiti, pensa ai social network come a qualcosa dentro cui bisogna stare e saperli utilizzare bene. Un partito che sappia riscoprire gli SMS ricordando che quell'acronimo significa anche la solidarietà delle Società di Mutuo Soccorso. Dunque il PD ci stia dentro, la partita è importante ma non la si gioca solo lì. La constatazione è fin troppo ovvia, ma la mia esperienza è che oggi quel grande elefante che si chiama PD ha bisogno di essere frustato, di imparare a correre, di saper leggere di più e meglio la modernità, di saper vedere che è giusto ciò ciò che è giusto e non che è giusto ciò che è targato con il marchio PD-DOP. Se si vuole vincere la sfida l'elefante si deve trasformare in un cavallo berbero e occorrono dei fantini che sappiano montare a pelo se occorre (stasera qui a Siena c'è il Palio).


Sull’organizzazione: il Pd ha un tessuto di relazioni sul territorio che è unico in Italia e ha pochissimi equivalenti a livello europeo. Sono migliaia di circoli, feste, eventi, volantinaggi. Sono migliaia di persone e volontari, perché la politica è fatta con il sangue e con l’anima, non con le alchimie di qualche addetto ai lavori che con le piccole polemiche quotidiane cerca di distruggere i sogni di milioni di persone. Tuttavia, dobbiamo essere capaci di coinvolgere di più e meglio la nostra gente.

I nostri circoli devono essere le bocciofile del Ventunesimo secolo: luoghi di incontri e relazioni umane. Perché poi, alla fine, questo è ciò che conta davvero. Viviamo un’epoca in cui siamo connessi con tutti ma rischiamo di non essere amici di nessuno. Del resto, l’emergenza di dover combattere “la solitudine del cittadino globale” era una delle più interessanti riflessioni di Zygmunt Bauman all’inizio di questo secolo. Siamo così vicini sui social, ma le grandi città hanno sempre meno spazi fisici che permettano di incontrarsi. Abbiamo bisogno di luoghi che diano gambe all’anima, dove ci si possa parlare, non solo scambiare file. Abbiamo bisogno di recuperare il patrimonio delle Sms, acronimo che, per i più giovani, sta per messaggino telefonico (a dirla tutta già sorpassato), ma che per molti della vecchia guardia indica le Società di mutuo soccorso.

Abbiamo bisogno di iniziative sul territorio: dalle tradizionali Feste dell’Unità alle magliette gialle inventate dal Pd milanese per ripulire la città, e poi esportate in tante altre città, a cominciare da Roma e Napoli, abbiamo bisogno di fare volontariato, di segnare una presenza in mezzo alla gente. Abbiamo bisogno di stare insieme, condividendo non solo gli status altrui sui social ma soprattutto gli stati d’animo reali, vivendo le stesse esperienze degli altri compagni di strada. Riportare i cittadini ad avvicinarsi alla politica e riportare la politica ad avvicinarsi ai cittadini: questo il compito dell’organizzazione di un partito pensante del Ventunesimo secolo. Di un partito chcerchi di tenere insieme non i capicorrente sempre più lontani dalla realtà, abituati a comandare nel modello partitico asfittico degli ultimi anni, ma i cittadini. Che scelga di uscire dal recinto dell’autoreferenzialità per immergersi nei problemi reali delle persone.

E questo deve essere fatto coinvolgendo il mondo del sociale, del terzo settore, in un processo osmotico che Tom Benetollo, storico presidente dell’Arci, descriveva così in uno dei suoi ultimi interventi: “Il cuore pulsante del processo di rinnovamento della politica deve stare nel sociale. I soggetti centrali devono essere sociali. Quando sottolineate che da bocciofila abbiamo fatto diventare l’Arci motore del movimento per la pace e contro il liberismo è come se sottovalutaste il ruolo importante delle bocciofile come luoghi di socialità”.

Era il 2004, io avevo appena lasciato l’esperienza associativa dentro lo scoutismo cattolico per il primo impegno diretto in politica alla guida della Provincia di Firenze. Quel dibattito, così forte allora nel mondo sociale, è più vivo che mai oggi, quasi quindici anni dopo.

Ma nel frattempo – fuori – è cambiato il mondo. E soprattutto il mondo della comunicazione digitale. I social cambiano la modalità di gestione della comunicazione politica lasciando spesso scatenare gli istinti peggiori di singole persone, che vivono il commento sulla piazza virtuale di Facebook o Twitter come il proprio sfogatoio personale, o veicolando addirittura raffinate strategie di comunicazione gestite da realtà straniere. Dopo il primissimo entusiasmo per internet siamo entrati in una fase nella quale sembra che i social network siano la causa di tutti i mali della democrazia, della quale minerebbero le basi a colpi di gruppi chiusi e fake news. Ovviamente, nessuno sottovaluta questi rischi e noi stessi avremmo dovuto denunciare per tempo l’incredibile sfilza di attacchi ricevuti, non solo dall’Italia, durante la campagna elettorale per il referendum. Ma prima di fasciarsi la testa e di rassegnarsi all’inesorabile declino della civiltà così come l’abbiamo conosciuta finora, però, a me sembra valga la pena di fare qualche ragionamento in più e avere una reazione meno superficiale.

Innanzitutto va detto che il lamento per i danni irreversibili che una nuova tecnologia è destinata aintrodurre nella società non è un fenomeno nuovo, ma ha alle spalle almeno duemila anni di storia. Quando la scrittura iniziò a propagarsi nelle città-stato dell’antica Grecia, Platone – tra gli altri – si preoccupò per il declino della cultura orale e per gli effetti sulla memoria degli uomini. Se avessero accettato di affidare i loro ricordi e le loro conoscenze a un supporto esterno, le persone non avrebbero più avuto bisogno di imparare e di ricordare nulla, e la loro cultura ne avrebbe inevitabilmente risentito.

Una polemica che ricorda quasi alla lettera gli argomenti di chi, oggi, sostiene che Google ci renda stupidi e ignoranti. Anche durante le ultime elezioni americane è esplosa la polemica sul ruolo dei social network nel propagare informazioni false. È vero che alcuni dati fanno oggettivamente riflettere. La notizia più condivisa negli Usa della campagna 2016 per la Casa Bianca era un falso: il presunto appoggio di papa Francesco a Donald Trump. E se si mettono in fila le dieci notizie false più condivise in rete durante la campagna elettorale, si vede che sono state molto più diffuse delle dieci notizie vere più condivise.

Generatori di falsi, fabbricatori di odio sono peraltro presenti anche in Italia, con una potenza di fuoco non banale. Eppure continua a non convincermi – e non mi convincerà mai, credo – l’ardita tesi secondo cui i social media siano la tomba della democrazia. Dobbiamo separare il segnale dal rumore, secondo le tesi di Nate Silver, e non considerare una minaccia per i diritti dell’uomo uno strumento che dà la possibilità a tutti di esprimersi con molta più facilità e rapidità rispetto al passato. Pensandoci bene, i media e la politica sono sempre stati “social”.

In un libro straordinario – la cui lettura mi è stata suggerita da Giuliano da Empoli, una delle personalità più brillanti che accompagna da anni il mio lavoro – che si intitola I tweet di Cicerone, Tom Standage ha

ricostruito i primi duemila anni di storia dei social media. Partendo dall’intreccio di letture, discorsi pubblici e voci di corridoio che costituivano l’ecosistema informativo nel quale si muovevano Cicerone e gli altri protagonisti della politica nell’antica Roma. I mezzi di comunicazione, dice Standage, sono sempre stati sociali ed è solo a partire dalla metà del Diciannovesimo secolo che è comparsa la categoria dei mass media i quali, anziché essere basati sulla diffusione orizzontale, trasmettono il loro messaggio dall’alto albasso. L’avvento dei mass media ha segnato un progresso decisivo in termini di diffusione dell’informazione e della cultura, ma ha anche permesso l’affermazione dei regimi totalitari del Ventesimo secolo: il fascismo, il nazismo e il comunismo.

Ecco perché ci andrei piano con le accuse ai social media di rappresentare una minaccia per l’umanità. La verità è che ci troviamo davanti a un ecosistema nuovo, molto complesso, nel quale dobbiamo imparare a muoverci se vogliamo essere in grado di difendere i nostri valori e le nostre idee. In questo mondo scegliamo di stare dalla parte del buon senso e della riflessione pacata, senza rincorrere i like. Senza trasformare le pagine di Facebook in una sorta di curva sud delle emozioni dove vince – ovviamente – chi la spara più grossa


Nelle diverse pagine del libro Matteo Renzi cerca di rispondere alle domande che lo scrittore Alessandro Baricco gli pose in diverse occasioni: “Ma mi spieghi perché vuoi continuare a giocare in quello stadio lì? … Tu sei una squadra che vince in casa, sempre. In trasferta, quasi dappertutto. C’è un unico stadio in cui la tua squadra perde. È lo stadio del Pd. Mi spieghi perché ti incaponisci a giocare sempre lì?”.

Le argomentazioni sono quelle della lealtà, della fiducia nel popolo delle primarie, una specie di tormentone che salta fuori nei momenti di crisi, ma la domanda è legittima: siamo sicuri che non sia opportuno passare la mano, prepararsi ad una fase di opposizione che sia anche di costruzione di una cosa nuova. Se ne è discusso dopo l'esito del referendum, poi è prevalsa un'altra cosa, la stessa pur se con nomi e forme diverse: la continuità di governo con Gentiloni, il senso di responsabilità, la continuità di una storia, … Fatta la scelta è inevitabile andare all'appuntamento con le elezioni della primavera 2018, quelle alla scadenza naturale della legislatura.

Nell'ultimo capitolo, domani, Renzi ci parla del dopo congresso, della scelta di riprovarci in nome dell'Italia:


Uscire da un luogo di potere senza nulla: è un’esperienza che un uomo dovrebbe provare almeno una volta nella vita. Niente indennità, niente immunità, niente vitalizio. Uscire dal palazzo riconoscenti per ciò che è stato, perché noi siamo della corrente di quelli che dicono grazie quando se ne vanno, non di quelli che mettono il broncio perché hanno un comodo capro espiatorio da individuare. Tornare tra la gente accompagnati dal coraggio e dalla voglia di non abbandonare l’Italia alla rassegnazione. Dal desiderio di rimettersi in marcia, in cammino, come se fosse il giorno uno, con la stessa fame di sempre.

Sono esperienze che andrebbero provate, ma non credete a chi vi dice che sono facili. In tanti ti vedono vulnerabile, ferito, senza difese. Gli avversari sentono l’odore del sangue e si buttano a capofitto. Giustamente, direi. È il loro mestiere, sono i tuoi avversari: “Approfittiamone,” è il loro messaggio, “poi se quello torna lo conosci come è fatto”. Ma se dagli avversari questo te lo aspetti, sono gli amici a volte a sorprenderti. Quante volte nei capannelli in Transatlantico parlamentari e cronisti ti danno per bollito, finito, politicamente morto. Quante volte persino qualche deputato a te vicino sussurra dubbi, diffonde pessimismo, esprime sconforto.

Dopo il referendum e la decisione di dimettermi dalla guida del governo e del partito, però, ho passato mesi che non auguro nemmeno agli avversari più accaniti. Uno straordinario stress test per il carattere.

Una caccia all’uomo senza esclusione di colpi sul fronte politico, giudiziario, mediatico e personale si abbatte su di me, e ancor prima di riuscire a domandarmi se davvero merito tutto quest’odio devo reagire, riprendermi, ripartire. Sul fronte politico, si consuma una scissione costruita a mente fredda con l’unico obiettivo di farmi fuori. Chiedo il congresso e rilanciano con una conferenza programmatica. Offro la conferenza programmatica e vogliono le primarie. Vado alle primarie e loro fanno la scissione. E quando vinco le primarie, comunque dal giorno dopo riparte il film di chi vorrebbe ignorare il giudizio espresso da due milioni di cittadini.

Sul fronte giudiziario, pezzi dell’apparato statale vengono accusati di costruire prove false con l’unico obiettivo di coinvolgermi in un presunto scandalo e di arrestare mio padre, che nel frattempo viene pedinato come un camorrista mentre va agli incontri di lavoro. Temo che non sia ancora sufficientemente chiara la gravità dello scandalo: rappresentanti delle istituzioni che lavorano per manipolare prove contro di te e la tua famiglia. E lo fanno mentre sei alla guida del governo della Repubblica! Qualcuno prima o poi chiamerà questa cosa con il suo nome: atto eversivo. Mi sembra importante che resti agli atti lo stupore prima ancora che l’amarezza, perché la gravità di questi fatti non può scorrere via nell’indifferenza.

Sul fronte della comunicazione, si scatena un assalto alla diligenza finalizzato a mettere in discussione i risultati ottenuti nei mille giorni del mio governo. Subito dopo le dimissioni, parte il ritornello nauseante del “bisogna mettere in sicurezza i conti”, salvo poi scoprire che le cose vanno molto meglio di come sono state raccontate, e che abbiamo lasciato un gruzzolo di denaro da investire e decine di riforme che producono nel paese crescita e fiducia. Nei mesi scorsi ho letto e sentito dire che, per colpa dei nostri debiti, il governo Gentiloni avrebbe dovuto aumentare l’Iva e il prezzo della benzina e introdurre una tassa sullo zucchero. Alla fine si è scoperto che non solo non c’erano buchi di bilancio, ma addirittura era a disposizione un tesoretto, parola orrenda ma chiara, di 47 miliardi di euro da spendere in investimenti.

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Quello che tra gli addetti ai lavori ancora in tanti, troppi, non hanno colto è che io non vivo affatto ossessionato dall’idea di tornare a Palazzo Chigi. Tornerò? Non tornerò? Fra un anno? Fra tre? Chi lo sa. A quarantadue anni, questo è l’ultimo dei miei pensieri. E comunque lo decideranno gli elettori, non gli editorialisti. I voti degli italiani, non i veti dei partitini. Ciò che davvero mi assilla è che c’è ancora un futuro da scrivere, una pagina bianca di idee per l’Italia tutta da completare, e vorrei che questa fosse considerata la priorità per il paese. Il problema non è cosa farò io da grande, ma cosa farà l’Italia.

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La politica è bellissima. Ma se sei un uomo pubblico devi rendere conto di tutto quello che fai, non hai il diritto di trascurare nessuno, non puoi dirti: ok, adesso stacco per un po’. Volevo solo vivere, fuori, per i fatti miei, dopo mille giorni intensi a Palazzo Chigi e dopo dieci anni di servizio a Firenze. E volevo un po’ di tranquillità, prendermi qualche weekend per leggere dei libri, tornare al cinema, o più semplicemente preparare il triathlon. Cosa che comunque – costi quel che costi – prima o poi farò.

E allora diciamolo, chi ce l’ha fatto fare. Una impressionante mobilitazione delle ore post-referendarie. È uno tsunami di affetto inatteso nei toni e nelle quantità. La gente ci ferma a scuola, in strada, al supermercato, fuori dalla chiesa. Oltre ventimila email il cui succo è: “Tu non hai il diritto di decidere da solo di mollare. Perché, che tu ne sia o meno consapevole, ormai rappresenti anche noi. I desideri che abbiamo per i nostri figli. Non puoi decidere il tuo futuro da solo”.


Non so se ce la farà, inizio a pensare che servirà un altro scossone e che che quelli che scendono e risalgono sull'autobus perché sono interessati alla politica che ti fa campare di politica sarebbe opportuno non farli risalire. I conti economici e quelli sociali iniziano a promettere bene ma se non si fa una seria scelta, di tipo maggioritario nel paese (intendo un patto per la democrazia tra l'area del PD e le forze politiche del centro destra moderato), per mettere all'angolo il populismo non se ne esce. Restano alcuni mesi e vediamo ciò che succede ma lascitemi concludere con quella che per qualcuno sarà una bestemmia mentre, per me, è una constatazione positiva è dai tempi del Craxi statista che l'Italia non aveva più un leader politico all'altezza del suo rilancio interno e internazionale. E io sono dalla sua parte.

Naturalmente si parla di tanto altro: dei migranti, degli 80 euro, della legislazione sul lavoro, dei giovani, della scuola … comprate il libro e leggete.


Matteo Renzi

Avanti – Perché l'Italia non si ferma

Feltrinelli, 2017 240 pag, 16 € disponibile anche in ebook