1974-1976: QdL – la grande avventura

III edizione giugno 2024

La prima pagina del n. 1; editoriale di Silverio Corvisieri con la immancabile “verità rivoluzionaria”, la lotta dura e gli studenti – sotto ho incollato una gustosa vignetta di Alfredo Chiappori sulla inconcludenza di Ugo La Malfa, considerato il Grillo Parlante della politica italiana, ripresa da pag. 4

Avanguardia Operaia voleva decollare a livello nazionale e per raggiungere l’obiettivo serviva un quotidiano. Non conosco gli aspetti organizzativi e di pianificazione e mi auguro che, prima o poi, qualcuno li espliciti: i finanziamenti, la struttura, la selezione dei redattori, l’acquisto della grafica Effeti, la organizzazione della distribuzione, la amministrazione.

Oskian mi chiamò e mi disse che avevano pensato a me come caposervizio interni. Così, dopo alterne vicende, qualche permesso e qualche malattia, che mi consentirono di essere della partita sin dall’inizio, mi licenziai dallo scuola nell’anno in cui stavo per passare di ruolo. Bruna non era proprio entusiasta, ma almeno avevamo la sicurezza del suo posto di assistente sociale in Ospedale. Era una avventura, lo sapevamo; ma in quegli anni siamo vissuti tutti di scelte di vita e di avventure.

A partire dal 2023, grazie al lavoro prezioso di Furio Petrossi, e ai soldi raccolti tramite sottoscrizioni, esiste un sito in cui si trovano le annate del quotidiano oltre ai numeri della rivista teorica. Ho dato anche una mano a preparare, per alcuni mesi, i percorsi di lettura, ma soprattutto ho sfogliato quelle pagine e sono riemersi ricordi che giacevano sopiti quando scrissi la prima versione di questo articolo. Dunque, nella terza edizione si trovano tante cose nuove e persone che avevo dimenticato.

una proposta dopo l’amaro distacco dalla Fisica

Avevo già fatto la scelta di non rimanere in Univesità perché sarei stato più utile altrove. Durante il servizio militare, il mio posto di tecnico universitario di II categoria, avventizio, in prova, su fondi CNR sino ad esaurimento dei fondi, era stato trasformato, ope legis, in un posto di ruolo e, poiché mi ero laureato sarebbe diventato di I categoria e dunque avrei potuto iniziare la carriera universitaria dal di dentro.

Le cattedre erano due operanti in un unico gruppo di ricerca: quella del professor Occhialini (fisica dello spazio) e quella della moglie Connie Dilworth (radioattività), la stessa dove operava Gianni degli Antoni che si apprestava a far decollare l’Informatica e che era partito dalla elettronica, strumento indispensabile per la costruzione dei rivelatori che venivano messi nei palloni sonda e poi nei satelliti.

Il professor Occhialini mi chiamò e mi chiese cosa volevo fare. Risposi così: la fisica mi piace, ma la politica mi piace di più ed intendo essere onesto con lei; credo che finirei per trascurare la fisica. Diedi le dimissioni e ci lasciammo da buoni amici. Con tutto lo studio che ci misi dopo, vi renderete conto che mi è rimasto un po’ di rammarico per quella scelta. Basta guardare il mio corso di fisica che sta a questo stesso indirizzo: lì dentro ci sono io, la parte più vera e più profonda di me, quella che cerca la verità e non si stanca di esercitare il pensiero critico.

l’avventura ha inizio

Ma mi piace cambiare, sono un inquieto, ogni 5-10 anni devo fare altro, e fu così che andai al Quotidiano dopo soli tre anni di insegnamento. E’ stata una esperienza bellissima e molto logorante sul piano esistenziale. Infatti, alla fine di essa, ho deciso che era più gratificante parlare a 20 studenti guardandoli in faccia, invece di scrivere editoriali per ventimila compagni da cui ero lontano e che finivano per essere una specie di realtà virtuale.

Il 25 novembre 1974, un lunedì, iniziò l’avventura; il primo numero andò in edicola il 26. Per essere precisi ci avevamo lavorato per tutta la settimana precedente producendo due o tre numeri zero di cui l’ultimo arrivò sino alla tipografia.

Avevamo uno dei primissimi impianti di fotocomposizione. gli articoli, battuti a macchina, venivano ribattuti da delle tastieriste e si produceva un nastro perforato, un computer lo leggeva e produceva le strisciate (stampe su carta lucida) sia degli articoli sia dei titoli. Si applicavano le strisciate su un foglio già diviso nelle 8 colonne facendo l’assemblaggio delle pagine. Il compositore, con un redattore a turno, seguiva il menabò preparato dai grafici e, lavorando con le forbici per eliminare le eccedenze, produceva la pagina; da essa seguivano la pellicola e infine le lastre di alluminio per la roto-offset.

Una delle regole del giornalismo, che in un quotidiano è fondamentale è quella delle 5 W: Who, What, When, Where, Why (chi, cosa, quando, dove, perché). E per noi era fondamentale oltre che per dare una buona comunicazione perché se c’era da tagliare in tipografia, il redattore tagliava la fine, sicuro che non ci sarebbe stato nulla che non si potesse eliminare.

Silverio in una foto di allora

Il Direttore era Silverio Corvisieri, originario di Ponza ma trapiantato a Roma. Silverio nella redazione originaria era l’unico giornalista professionista. Dopo aver lavorato all’Unità, aveva poi diretto (insieme a Lucio Colletti) uno dei giornali rivoluzionari del 68, la Sinistra, diventato famoso per un numero in cui si insegnava a costruire la bottiglia molotov.

Corvisieri, tra i padri fondatori di AO, era sempre con un piede dentro e uno fuori, era appassionato di storia del movimento operaio e in particolare delle sue sfumature di sinistra e negli anni ha scritto diversi libri. Venne convinto a venire a Milano; si trovò casa per lui e la famiglia e fu lui ad insegnarci i primi rudimenti del giornalismo.

L’idea che avevamo in testa tutti era quella di tentare di fare un giornale completo e non un secondo giornale tutto politico; il formato era tabloid grande, 8 pagine di 8 colonne, due delle quali (cultura, spettacolo e inchieste) erano prefabbricate e coordinate da Severino Cesari, Silvano Piccardi, Attilio Mangano e Umberto Tartari. La stessa cosa avveniva per le pagine monotematiche legate al lavoro di massa (fabbriche, scuola, sociale) e in quel caso se ne occupavano i responsabili delle commissioni nazionali. Le pagine prefabbricate consentivano alla tipografia di lavorare anche di mattina, lasciando al pomeriggio sera la composizione di quelle fresche.

le pagine prefabbricate (cultura, inchieste e spettacolo)

Severino, di gran lunga il più colto tra noi, fu quelllo che se ne occupò con maggiore continuità. Veniva da Perugia ed aveva sempre un’aria malaticcia, un po’ di tosse e un bel sorriso.

Quando nel 1981 andai a fare gli esami di maturità a Roma fui ospite per quasi un mese nella sua casa di Roma condivisa con Gigi Sullo (entrambi lavoravano ormai al Manifesto dopo la rottura nella nostra redazione).

Attilio, con la scusa che insegnava nei corsi serali, poteva fornirci gratis la sua presenza, veniva in redazione alle 14 e ci restava sino alle 20 dopo che i redattori, verso le 17:30 se ne andavano. Ha dato un contributo molto importante e se ne trova traccia nel libro “la generazione che ha perso” in cui Fabrizio Billi dedica un saggio proprio al suo lavoro di cultura politica nelle pagine del quotidiano.

Attilio, appassionato come Silverio di storia del movumento operaio, interveniva su tutte le tematiche riguardanti il comunismo e sfornava recensioni a raffica. Nella intervista per la storia di AO ricorda scherzosamente che, per questa ragione, lo si consuderava il Suslov di Avanguardia Operaia.

Umberto, già laureato in Fisica e ricercatore nel gruppo di Fisica dei plasmi, si è occupato di tutta la prima fase facendo anche il caporedattore prima di tornare, dopo i primi mesi, a fare ricerca universitaria. La sua presenza in redazione era del tutto naturale visto che, sin fal 68, era stato lui ad occuparsi del lavoro di organizzazione della rivista teorica e credo anche dei quaderni. Se sfogliate il quotidiano vedrete che scrive raramente e, quando lo fa, è per dare elementi di orientamento su problematiche di politica o cultura generale su cui non c’era ancora una posizione definita.

Silvano Piccardi in scena con Ottavia Piccolo, un’altra amica e sostenitrice del QdL

Se si sfogliano le pagine culturali del 74 e del 75 balza all’occhio la presenza costante di Silvano Piccardi, attore teatrale, regista, doppiatore, esponente di punta dei Circoli la Comune che, sul QdL, interviene quasi ogni giorno con una recensione, vuoi di cinema, vuoi di presentazione di eventi o compagnie teatrali.

Silvano che aveva mosso i primi passi nel teatro sin da bambino era già famoso e senza spocchia faceva il suo lavoro di recensore. Era un onore e un piacere averlo tra noi anche perché era molto simpatico.

Sempre nella prima fase, nella stanza a destra dopo il centralino e prima dell’ufficio del direttore, c’è stata la presenza di Peppino d’Alfonso, uno dei compagni di chimica della prima generazione e che era stato la colonna portante, anzi di più, del quindicinale divenuto poi settimanale. Ce lo racconta direttamente lui nell’articolo dedicato al ricordo di Michele Randazzo. Eravamo un bel gruppo di parvenu e dunque all’inizio la presenza di una struttura forte di coordinamento dei redattori era indispensabile. Anche Peppino, come Umberto, dopo qualche mese se ne è tornato all’Università.

La produzione dei pezzi che davano vita alle pagine culturali veniva compiuta da una rete di collaboratori nazionali e l’assemblaggio aveva luogo nella stanza 1 (la stessa dove stavano Peppino e Umberto). Secondo me quel lavoro era eccessivamente elitario, da sinistra culturale (o forse io ero un po’ troppo provincial-brianzolo) e, quando la direzione operativa passò nelle mie mani, il giornale incominciò a parlare di televisione, anche in prima pagina, grazie alla collaborazione di un compagno (Sergio Lentati) che, di mestiere, produceva i Caroselli e si firmava Baal.

Leonardo Coen e Sartana

Per il resto la struttura era quella tradizionale di un quotidiano; redazione organizzata in servizi con tre redattori per ogni area: interni, economia e sindacato, cronaca-costume,  esteri oltre ad un giornalista un po’ underground rispetto al nostro essere prima militanti rivoluzionari e poi giornalisti: Leonardo Coen.

Leo lavorava fuori dalla struttura fissa del giornale e un po’ lo invidiavamo perché poteva fare l’inviato. Non facendo parte di AO si poteva permettere di fare il pierino di turno prescindendo dalle regole ferre della organizzazione. Così potè occuparsi di sport e di costume, oltre che insistere perché il giornale non si piegasse troppo alle esigenze della politica. La sua presenza era stata uno dei paletti posti da Silverio nei confronti della segreteria, nell’ambito della sua autonomia di direttore.

Si firmava Leos Valentin e nel numero 1 propone un servizio da Palermo dal titolo Fustigare carusi è lecito: a parlarne, invece, si va dentro, a proposito di bizzarre sentenze della magistratura siciliana. Nel primo mese è presente con un articolo al giorno su tematiche di cronaca e costume.

L’altro acquisto di Silverio era il figlio di Gianni Brera, Carlo (1946-1994), un po’ anarchico, che scriveva dei corsivi dissacranti firmandosi Sartana. Leo ci lasciò quando Scalfari fondò la Repubblica e ci è rimasto, come inviato speciale, per tutta la vita professionale sino alla pensione, mentre Carlo Brera ha continuato con noi anche dopo che Silverio ha lasciato il quotidiano.

sartana 28 novembre 1974

via Bonghi 4 – planimetria e apparati tecnici

La planimetria l’ho preparata fidandomi della memoria e vedo che, per esempio, ho dimenticato i bagni che ci stavano di sicuro.

Il desiderio di avere un quotidiano era cresciuto più veloce delle gambe e così, per almeno un anno, abbiamo fatto un quotidiano senza avere le telescriventi ma le agenzie le andavano a prendere i nostri baldi fattorini Nicola (Nicolosi) e Gigi (Gerosa) che, per tutta la mattina e nel primo pomeriggio, in tram o in motorino, facevano la spola tra via Bonghi (a metà di corso san Gottardo) e il palazzo della stampa in piazza Cavour a prendere le copie dell’Ansa e della Adnkronos.

Ho sempre pensato che quella di non acquistare la telescrivente fosse una scelta demenziale della serie tanto dobbiamo fare la rivoluzione. Poi, per fortuna, il papà di Franco Calamida, Leonida, che era stato compagno di lotta antifascista di Adriano Olivetti, riuscì a procurare gratis le telescriventi e ci sembrò di rinascere. Sicuramente rinacque Nicola che incominciò a fare una vita più normale, mentre Gigi collaborò con i grafici per poi passare in redazione agli esteri.

Olivetti Lettera 22, una per ogni redattore

A proposito di Olivetti, quella nella foto era la nostra compagna inseparabile. Gli articoli si scrivevano su fogli di carta formato A4  (simile a quella da ciclostile)  con un riquadro bordeaux  da 65 battute per 30 righe e nella parte alta le informazioni di riconoscimento del pezzo (per la tipografia).

Era la cartella standard del QdL che faceva da unità di misura per ogni operazione. La mia Olivetti, a differenza di altri redattori che se la sono tenuta in conto stipendi non pagati, è rimasta in redazione quando me ne sono andato intorno a novembre del 76. Tanto, dal 72 possedevo una Adler che aveva come caratteristica di avere caratteri più grandi. Ci ho scritto i due saggi per politica comunista oltre che le recensioni per il quotidiano che preparavo da casa.

i personaggi e i luoghi della redazione

Stanza 1 – di tutto un po’

Umberto Tartari a fisica in occasione del 40° del movimento di Scienze

Umberto Tartari (caporedattore) c’era all’inizio ma poi, per ragioni di carriera universitaria, è tornato a fare il fisico dei plasmi. Così, dopo la sua partenza e per un breve periodo, ho dovuto fare sia il caposervizio interni sia il caporedattore: quello che rivede gli articoli, fa i titoli, dà i consigli e prende le decisioni se c’è da cambiare il menabò.

Umberto aveva svolto un ruolo chiave, sin dall’inizio, nelle pubblicazioni di AO, nella rivista teorica e nel settimanale. Non ho mai capito come mai non fosse stato coinvolto più a fondo; probabilmente aveva deciso di tenere il piede in Università e occuparsi di fisica cosa che ha effettivamente fatto.

Come ho già detto, in questo locale abbastanza grande si facevano le pagine prefabbricate e lo si usava anche per ricevere le persone di passaggio data la sua vicinanza all’ingresso. Ad un certo punto ci si spostò Mario Gamba per seguire la terza pagina mentre il suo posto agli esteri fu preso da Gigi Gerosa.

Stanza 2 – il direttore

ci stava Silverio e, dopo la sua autodimissione improvvisa, che non ci è stata mai spiegata, ma che aveva a che fare con una diversa sensibilità politica e con differenze di linea rispetto all’approccio leninista canonico, mi ci sono trasferito io. Facevo il vicedirettore insieme a Massimo Gorla, mentre, formalmente il direttore era il segretario politico Aurelio Campi.

Massimo arrivava tardi la mattina a giornale già impostato, aveva tante cose da fare, spesso non c’era per via dei contatti con l’estero, e dunque non riusciva a stare dentro la finestra temporale degli impegni connessi alla fabbricazione di un quotidiano, anche perché, a pranzo, ci dava dentro e quindi la digestione risultava lunga. La definizione, che gli hanno appioppato dopo la morte, di gentiluomo comunista gli calza a pennello.

Mario Pucci a casa mia nel 2016; abitiamo entrambi in Toscana, lui a Firenze e io nella Maremma senese. Mario al quotidiano seguiva la politica milanese e la pagina regionale lombarda.

Sembra incredibile ma le dimissioni di Corvisieri nel dicembre del 75 arrivarono come un fulmine a ciel sereno, non ci furono spiegate e lui non le motivò con la sua redazione. Nel suo libro del novembre 76, I senzaMao, ne parla diffusamente e si capisce che dietro c’erano una frattura caratteriale e politica con il gruppo dirigente di AO di origini milanesi.

La sua interpretazione è che i contrasti fossero profondi e che lui sbagliò, in più di una occasione, a non esplicitarli. Fatto sta che, da un giorno all’altro, mi ritrovai a dirigere il quotidiano.

C’erano una scrivania, il telefono azzurro (quello con i tasti per i trasferimenti di chiamata), una poltrona e delle sedie su cui si appoggiavano a turno i sederi di tutti i redattori, per un consiglio o per scambiare una opinione. Ci entrava continuamente la segretaria di redazione (Carla) per gli appuntamenti, mentre le redazioni locali (Roma, Venezia, Torino e Napoli) si facevano vive telefonicamente.

E’ stato da allora che ho iniziato ad odiare il telefono e non mi sono più riconciliato, come ben sa chi mi chiama e, spesso, se sto facendo altro, mi trova un po’ sgarbato. Di certo mi piaccioni di più le e-mail,  le leggi con calma quando decidi tu e non quando ti parte il beep. Utilizzo anche Whatsapp, dopo una telefonata, per brevi messaggi a lettura immediata o per trasmettere documenti, dopo che ho concordato la cosa. Odio nella maniera più totale i messaggi vocali che sono la negazione della comunicazione bidirezionale.

Tra le 14 e le 15:30 mi ero ritagliato il tempo per scrivere i pezzi (per gli interni o gli editoriali) e regolarmente, in piena concentrazione mentale, squillava il telefono che ti obbligava a resettare il cervello; finivi la telefonata, davi le disposizioni conseguenti, ti riconcentravi e lui suonava un’altra volta.

Stanza 3 – segreteria di redazione

Carla al centralino di via Bonghi

Carla Rampi era le segretaria di redazione e coordinava il lavoro delle compagne che si occupavano della sbobinatura dei pezzi delle redazioni locali (tefefonata, registrazione, ascolto in cuffia e comandi a pedale per battere a macchina).

Le telefonate, a volte diventavano troppo lunghe con i corrisponedenti logorroici e il centralino aveva la disposizione, dopo un certo tempo, di interrompere causa chiamata urgente in arrivo.

Ad un certo punto è comparso anche una specie di scanner-fax puzzolente e rumoroso che, se non ricordo male, veniva usato dalle redazioni di Roma e Torino. Una parte degli articoli (Napoli e Venezia) venivano anche prelevati dai fattorini direttamente ai treni in stazione Centrale nella modalità fuori-sacco. Poi c’erano quelli che scrivevano a mano (come Campi e Calamida) e allora c’era anche il problema della interpretazione dello scritto.

Carla è arrivata al QdL sin dalla fase preparatoria, studiava biologia, e mi racconta che, all’inizio al tempo dei numeri zero, la situazione era di grande casino. Conferma che, secondo lei, era stata fatta una accelerazione eccessiva per uscire. Per fortuna, ad un certo punto, prima del numero 1, comparve Felice Chilanti (partigiano, giornalista e scrittore che nel 74 aveva 60 anni) a dare una mano sul come si fa un giornale partendo da zero. La sua collaborazione fu preziosa.

Aveva un rapporto molto stretto con Silverio e ogni tanto in pausa pranzo andava a casa sua a dare una mano alla figlia nel fare i compiti. Mi ha raccontato di una volta in cui si aspettava un editoriale di Campi che non arrivava; era già passata l’ora di chiusura e Silverio le aveva dato un editoriale di ricambio; se non arriva pubblica questo. Campi era in ritardo, ci fu un braccio di ferro, qualche minaccia, ma alla fine la ebbe vinta lei perché i tempi di chiusura non aspettano nemmeno il segretario politico.

Sempre sul piano dei ricordi dà il palmares della simpatia a Vittorio Rieser e Massimo Gorla e quello della serietà organizzaiva e disponibilità ad Umberto Tartari.

Marco Orilia e Carla Rampi festeggiano il 25 aprile del 2024 con una risottata antifascista

Era lei ad occuparsi della organizzazione della giornata, degli apparati tecnici, dei rapporti con le redazioni e con la tipografia. Il suo era un ruolo fondamentale per fare materialmente il quotidiano. A partire da una certa data, si aggiunse al suo fianco Michela Maffezzoni che poi si sarebbe sposata con Cippone (Luigi Cipriani) e che ora ne cura la Fondazione.

Carla si è sposata con Marco Orilia, un compagno del movimento di Biologia che al quotidiano ha seguito la diffusione e poi è passato a Repubblica a seguire la produzione degli inserti e delle pubblicazioni speciali. Una coppia del QdL che è rimasta insieme e che vive nel biellese continuando a testimoniare i valori rimasti in piedi.

Stanza 4 – centralino e reception

Era il cuore pulsante per le chiamate in ingresso (gestiva anche la amministrazione che stava al piano di sotto). Si entrava da un portoncino in legno visibile nella foto con Carla e sul davanti c’erano un paio di poltrone per i visitatori in attesa.

Stanza 5 – fotografi, grafici, sala riunioni

Adiacente alla parete del centralino c’era l’archivio fotografico mentre la camera oscura e le attrezzature stavano al piano di sotto di fianco alla amministrazione. I nostri due fotografi Nereo Pederzolli ed Emilio Tremolada erano bravissimi e li ricordo con affetto, in particolare Nereo Pederzolli, gioviale e sorridente che ha poi fatto il giornalista televisivo per la Rai regionale trentina e che nell’estate del 76, in occasione del terremoto in Friuli, ha fatto l’inviato speciale.

Nel sito del quotidiano è disponibile un link che vi consente di accedere all’archivio fotografico del giornale donato al sistema bibliotecario parmense nel quale, purtroppo, mancano foto interne al giornale (i luoghi, le persone, …)

Una buona parte del locale era occupato dai tavoloni su cui i grafici (Saverio Falcone e Tille Bortolotti) preparavano i menabò in scala 1:1 dopo la riunione di redazione e passavano poi ad assegnare, in righe, le dimensioni dei pezzi e le colonne dei titoli.

Era la sala grande, con sulla parete a sud anche un cenno di biblioteca e lì, la mattina verso le 10:30, facevamo la riunione a cui partecipavano obbligatoriamente i capiservizio, ma che era aperta a tutti i redattori. Ovviamente presiedeva il direttore che, come i capiservizio e Carla, aveva già letto il pacco dei quotidiani, visto le Ansa della notte e parlato con le redazioni locali.

Si faceva una rapida valutazione del giornale del giorno prima (con i buchi legati al fatto che chiudevamo in redazione alle 17:30 e in tipografia alle 19) e poi si ragionava sul da farsi. In riunione il direttore avanzava delle proposte per la prima pagina con particolare attenzione ad apertura, spalla ed editoriale e, in questa fase si ascoltavano i pareri e le proposte dei capiservizio con scelte eventuali di cambiamento. Carla ricorda che Silverio aveva un chiodo fisso: dovete essere rossi ed esperti. Rossi perchè siamo così, ma esperti perché le notizie vanno sempre controllate almeno un paio di volte.

A questo punto la palla passava ai grafici mentre la riunione proseguiva e si dava una presentazione di massima di tutte le pagine di ogni settore. Alla fine Tille e Saverio ricevevano dei foglietti riepilogativi e passavano alla preparazione dei menabò di ogni pagina mentre nelle stanze di redazione si iniziava a lavorare.

Come Viviamo – Tille Bortolotti, Isabella Cherubini, Ida Farè

Tille, sposata con Ettore Mazzotti, era una persona molto gentile, affascinante, femminista e ben presto insieme ad altre compagne della redazione mise in piedi una rubrica di costume ad orientamento femminista.

Saverio, moro, simpatico e con un bel barbone, dopo il quotidiano ha fatto tutt’altro. E’ diventato uno psicanalista di scuola Junghiana.

Stanza 6: costume, giovani, scuola, pagina Lombardia

Qui operava la parte un po’ frikkettona della redazione grazie alla presenza di due compagne poco propense all’inquadramento: Ida Farè (1938-2018) e Giovanna Pajetta che essendo l’ultimogenita di Giancarlo Pajetta era, caratterialmente, l’esatto contrario del padre.

QdL 5/12/74 il primo articolo di Ida

Ida ci educava al punto di vista delle donne, non capivi mai dove volesse andare a parare, ma alla fine ti rendevi conto che aveva ragione. Oltre a metterci la testa e il cuore, ci ha messo anche tanto del suo, privandosi di numerosi appartamenti di proprietà per fare il giornale. Se sfogliate il giornale dall’inizio incontrate i suoi articoli quasi in ogni numero (cronaca politica, femminismo, cronaca sociale, editoriali e commenti).

I suoi articoli erano spesso corredati da vignette fumetto che esprimevano il dramma della condizione femminile. Leggetevi il ricordo che ne fece Lorenzo Baldi nell’estate del 2018 in occasione della sua morte in per Ida.

Giovanna era il nostro agente nella nuova frontiera del proletariato giovanile e di tutto ciò che non rientrava propriamente nel punto di vista di una organizzazione leninista in termini di costume, sesso, omosessualità, droga, proletariato giovanile. Le aperture del QdL e della commissione cultura diretta da Vincenzo Vita non furono indolori nel gruppo dirigente leninista dentro AO come testimonia lo stesso Vincenzo Vita in “volevamo cambiare il mondo“. Silverio li copriva; aveva una maggiore apertura verso le tematiche emergenti ma comunque entro i canoni del socialismo come si vede da questo titolo per il festival del proletariato giovanile.

Nella stanza numero 6, nel tempo ci hanno lavorato, in periodi diversi, anche Roy De Gioia, Giovanni Lanzone, Emilio Genovesi e Piervito Antoniazzi, visto che la scuola non aveva un suo luogo fisico.

La scuola era costantemente presente nelle pagine del quotidiano sia per gli eventi milanesi e delle altre città, sia perché il quotidiano faceva da luogo di elaborazione e trasmissione della evoluzione di linea politica. Piervito, che lavorava anche agli interni, ad un certo punto si trasferì alla redazione della radio Canale 96.

Scorrendo le annate del 75 e del 76 si ha l’impressione di una passione generosa e della difficoltà ad elaborare una linea che non fosse quella del contro. Esemblare la posizione di opposizione ai decreti delegati in nome della democrazia diretta. Una linea che funzionò nella fase aslta delle lotte e fu destinata, sul piano strategico, alla sconfitta. D’altra parte quello era il nostro DNA.

un giovane Piervito Antoniazzi al tavolo di lavoro

C’erano poi Lorenzo Baldi e Mario Pucci che, dopo le vittoriose elezioni milanesi del 75, seguivano l’attività della nuova giunta di sinistra a Milano e il lavoro del nostro gruppo consiliare con Emilio Molinari. Fu uno di loro ad innescare, involontariamente, l’incidente diplomatico e sindacale che determinò una visita del servizio d’ordine per difendere l’onore offeso dei nostri dirigenti proletari e poi la dimissione della quasi totalità della redazione in risposta ad una richiesta di licenziamento.

Ne ha scritto su Pensieri in libertà il Lorenzo Baldi in da Avanguardia Operaia al Quotidiano dei Lavoratori.

Stanza 7: Economia e sindacato (lotte proletarie)

Grazia Longoni in una foto recente

All’economia e sindacato c’erano Grazia Longoni (detta Lella), che aveva già lavorato al settimanale, Liliana Belletti (1953-2023) e Carlo Parietti (1950-2022), un torinese neoacquisto con la passione per l’economia.

Carlo, dopo una parentesi al PDUP, è passato all’ufficio stampa della CGIL e quindi alla direzione del sindacato europeo dei quadri. Lella è divenuta professionista nel 77 ed ha proseguito per 40 anni la attività giornalistica.

Liliana, sempre sorridente, dopo il QdL, è passata alla scuola e con Grazia ha lavorato alla casa delle donne di Milano mettendosi in luce per battaglie legate al riconoscimento delle coppie lesbo che la riguardavano direttamente.

C’è poi un quarto redattore che ha lungamente lavorato sui temi della economia, in particolare di quella internazionale e che prima di andarsene a metà del 76 era passato agli esteri facendo lunghi reportage dalla rivoluzione portoghese: Alessandro Fugnoli. Alessandro. filosofo di formazione, se ne andò perché non reggeva più gli stipendi bassi e a singhiozzo e in questi anni è diventato uno dei maître à penser sui temi della economia internazionale e della gestione dei fondi.

Se andate al febbraio 75, troverete 4 pezzi suoi piuttosto significativi e, in qualche misura, estranei ad articoli da quotidiano della sinistra rivoluzionaria perché le sue erano analisi documentate in cui c’era poco spazio per la ideologia e per il pistolotto sulla lotta di classe.

4 articoli di Alessandro tra le pagine di economia e quelle di esteri nel febbraio 1975

Nella stanza 7 si lavorava su due livelli: il rapporto quotidiano con la commissione fabbriche ed il movimento dei CUB. Era inevitabile che ci fossero la supervisione di Cippone e i contributi di Franco Calamida e di Vittorio Rieser. Sin dall’inizio ci fu il tentativo di introdurre le problematiche della economia dentro il quadro della lotta di classe. I due ambiti, per ovvie ragioni, comunicavano poco tra di loro ed equivalevano a due servizi distinti con pagine diverse (la 4 e la 5) che ogni tanto si sovrapponevano.

Nella pagina economia e sindacato si affacciavano anche i diversi responsabili delle lotte sociali, da Cippino a Sandro Barzaghi a Claudia Sorlini che, pur non lavorando in redazione, in particolare nel 75 e nel 76 erano costantemente presenti sulle pagine del giornale (occupazione delle case, autoriduzione delle bollette, mercatini rossi, …).

Lella e Liliana, per ovvie ragioni legate al cosiddetto lavoro di massa di AO in giri per l’Italia dedicavano una parte consistente del loro lavoro al rapporto con le redazioni locali in particolare Torino, Napoli, Venezia-Verona.

Stanza 8: servizio interni

Ettore Mazzotti ad un convegno di politica economica sulle prospettive Italia-Cina

Il mio lavoro al quotidiano è incominciato qui insieme ad Ettore Mazzotti (1948), Franco Vernice (1952-2019) e Pierluigi Sullo (1951) e dunque mi scuserete se li ricordo uno per uno.

Ettore, marito di Tille, proveniva dal settimanale, aveva operato alla controinchiesta che portò al pamphlet La Strage di Stato e ora dirige diverse iniziative editoriali nel gruppo di Milano Finanza.

Come tutti quelli che hanno cambiato radicalmente strada, nella sua biografia non c’è traccia del passato ed ho faticato a trovare in rete sue immagini o qualche notizia di carattere biografico. Ha sempre la stessa faccia.

Franco Vernice

Franco Vernice, dopo la esperienza al QdL in cui aveva maturato tutti i piccoli segreti del lavoro sulla giudiziaria (passava tutte le mattine in tribunale e il pool dei cronisti faceva gruppo), dopo la crisi del dicembre 76, è passato alla Repubblica facendo l’inviato e continuando ad occuparsi di giudiziaria.

Per il tribunale di Milano, dalla strage di piazza Fontana in poi, di roba ne è passata tanta. Il gruppo dei cronisti giudiziari era una realtà ben organizzata; ci si divideva il lavoro e poi si condividevano le informazioni.

Frank Cimini

Muoveva i primi passi giornalistici, con interessi per la giudiziaria anche Frank Cimini che però, in quel periodo lavorarava ancora nelle ferrovie. Dopo il QdL ha lungamente lavorato per Il Mattino di Napoli e mi chiedevo come potessero sopportarlo (establishment versus anarchia).

Negli anni è diventato il riferimento nazionale per le problematiche di cronaca giudiziaria con posizioni che oscillano tra il garantismo di matrice radicale e un sottofondo anarchico-libertario che lo mette costantemente contro le istituzioni.

Ci sentiamo a colpi di like sui social network e leggo sempre con interesse i suoi articoli su tematiche garantiste e i post che iniziano sempre e costantemente con la sua parola d’ordine buongiorno stocazzo.

Gigi Sullo era il mio prediletto. Come racconta nella biografia-intervista rilasciata per la preparazione alla storia di AO, ha avuto una infanzia complicata e sofferta, di cui si parlava anche allora (la morte del papà poliziotto quando lui era giovane), Treviglio, la Statale, il rapporto controverso con Edo Ronchi (che avevo anche io) e che determinò il suo invio al quotidiano. Non ricordavo che, nel 75, Silverio lo inviòa Roma ad organizzare la nascente redazione romana.

Gigi Sullo a fine anni 80 al Manifesto

Io e lui ci occupavamo di politica interna con all’inizio una certa gerarchia anche nella collocazione dei pezzi: editoriali al direttore, commenti e articoli di prima pagina io e tutto il resto lui. Gigi era acuto e scriveva molto bene. mi piacevano la intelligenza e la cultura e a cui, nel momento in cui decisi di iscrivermi al PCI, sentii il bisogno di scrivere una lettera per spiegare le mie ragioni (lui era ormai a Roma al Manifesto).

Politicamente le nostre strade si sono divise; si orientò verso tematiche di tipo mondialista e i relativi movimenti che finirono per farlo divenire eterodosso anche rispetto al Manifesto,  in cui aveva svolto incarichi di direzione, mentre io, ormai fuori dal giornalismo e dalla politica attiva mi orientavo alle scienze dure, alla razionalità scientifica e alle problematiche di funzionamento della scuola.

Oltre che di politica in senso stretto, mi occupavo di questione cattolica e questione democristiana in senso ampio. In proposito, dopo aver guardato un po’ di numeri della raccolta 75 e 76 ho trovato conferma di una cosa che temevo: ero analitico nel cogliere differenze e specificità, ma poi, in ossequio alla linea secondo cui il Moloch democristiano, era il nemico principale, nostro e del movimento operaio finivo per applicare la tesi secondo cui sono tutti uguali: Moro è un po’ diverso, ma in fondo in fondo è come Fanfani e tutti e due difendono gli interessi del grande capitale.

Il servizio interni si occupava anche di rivedere e mettere in pagina tutte le questioni legate al movimento di democratizzazione delle forze armate sia sul versante dei soldati di leva sia su quello, moilto importante cui facemmo da cassa di risonanza, dei sottufficiali, in particolare dell’aeronautica.

Gli articoli, per ovvie ragioni di sicurezza, erano firmati in maniera generica (i soldati della caserma …) e da due compagni, il responsabile della commissione problemi dello stato Alberto Madricardo, che si firmava Piero Bonetti e un compagno di Pinerolo Franco Milanesi che seguiva il nord ovest. Alberto, nelle interviste fatte come lavoro preparatorio al libro sulla storia di AO, racconta di un divertente qui pro quo con la redazione che ne smascherò l’alias. Qualcuno pensò che Bonetti era il nome vero e Madricardo l’alias e così ad un certo punto un suo articolo comparve con i suoi dati veri. Gli articoli che riguardano l’esercito sono tra i 15 e i 20 al mese (lotte, processi, lettere, comunicati, servizi, …).

Stanza 9: servizio esteri

Quello degli esteri era un servizio speciale per diversi motivi: i redattori in senso stretto erano solo due, ma dietro di loro stava Massimo Gorla con la sua fitta rete di contatti in tutto il mondo, rete costruita negli anni in cui stava nel segretariato internazionale dell IV internazionale con sede a Parigi.

Astrit Dakli esperto di esteri ha lavorato 30 anni al manifesto facendo il corrispondente da Mosca negli anni speciali dell’URSS; Mario Gamba addetto agli esteri ma grande esperto di musica

Così, mentre Astrit Dakli (1948-2016) e Mario Gamba facevano il lavoro sporco dello star dietro agli avvenimenti della politica estera mondiale (Germania, Medio Oriente, Indocina, Spagna, …) documentandosi e producendo servizi, contemporaneamente alla stanza degli esteri arrrivavano con continuità corrispondenze ed inchieste prodotte sul posto.

Miguel Angel Garcia (1939-2023)  era certamente il più prolifico sulla America Latina e in particolare sulla Argentina, sua terra d’origine che aveva lasciato per l’Italia nel 1973 dopo una notevole esperienza politica con forze di orientamento socialista di sinistra. La sua presenza nelle pagine del quotidiano delle origini è imponente.

Un altro corrispondente, questa volta nel senso proprio del termine, è quello dalla Francia, Dominique Ferrero che cerca di seguire gli avvenimenti del suo paese e ne dà conto agli italiani. Ci sono corrispondenti da altri paesi (Inghilterra, Germania, Grecia, …) ma si tratta di collaborazioni meno sistematiche, solitamente siglate. I reportage dalla Spagna, e in particolare da Barcellona, sono sempre frutto di un mix di professionalità; le notizie arrivavano scritte o via telefono dai compagni di Bandera Roja e venivano poi trasformate in articoli in redazione.

Burchett a colloquio con Ho Chi Minh

A partire dal 75 e poi nel 76 prendono spazio le vicende portoghesi (con una serie di belle corrispondenze di Alessandro Fugnoli e un’altra di Chantal Personè, la moglie di Renzo Rossellini) e quelle indocinesi in cui si mescolano pubblicazioni di comunicati e documenti originali con i servizi speciali di Wilfred Burchett (1911-1983) un giornalista australiano che visse per un certo periodo con i vietcong e anche qualche reportage frutto di viaggi in Cina.

Ad un certo punto Mario si spostò verso le problematiche culturali e musicali (la sua passione) e il suo posto in redazione venne preso da Gigi Gerosa, già fattorino.

Stanza 10: Segreteria Nazionale

la segreteria nazionale si era riservata una stanza distinta dalla sede di via Vetere e, in questa stanza facevamo anche piccole riunioni di vario genere quando c’era bisogno di ragionare con calma. Ci giravano a turno, Rieser, Calamida, Vinci, Oskian-Campi, Sorlini, Vita, Lanzone.

le redazioni locali

Quando a fine 1976 diedi l’esame orale di giornalismo una delle domande che mi  fecero riguardava le fonti e il controllo delle fonti e io risposi che il nostro era un giornale un po’ diverso dalla stampa borghese, le nostre fonti erano i movimenti e i compagni che ci stavano dentro non solo come giornalisti.  Intendevo riferirmi ai corrispondenti e alle redazioni locali.

Le redazioni vere e proprie (cioè in cui operava più di una persona e con continuità) erano: Napoli, Roma, Torino e Venezia. Dagli altri capoluoghi di regione operavano dei corrispondenti che si facevano vivi in maniera random.

Se sfogliate le annate vedrete che alcune redazioni pubblicano sino a 4 o 5 pezzi al giorno oltre ai servizi speciali (pagine a tema).

A Napoli c’erano Guido Piccoli a coordinare il lavoro di AO e alcuni compagni che muovevano i primi passi. Nel 75 ci sono articoli dei due fratelli Ruotolo, Francesco e Guido e ad un certo punto compare R. di Francesco; penso fosse lo pseudonimo anagrammato di Francesco Ruotolo; era una macchina da guerra in termini di produzione, uno o due pezzi tutti i giorni dalla cronaca locale alla politica nazionale e si spostava anche come inviato a Roma e al Sud.

Ma da Napoli scriveva anche con grande continuità Giacomo Fiore. I temi erano il degrado della città, la politica amministrativa verso le giunte rosse, il movimento dei disoccupati organizzati, le politiche per il mezzogiorno.

A Roma c’era una vera e propria redazione con  sede  propria presso la casa di produzione di Renzo Rossellini, la Gaumont. C’erano due Paole (Ottaviani e Sacerdoti), Livia Sansone e altri di cui non ricordo il nome.La redazione romana lavorava su Roma, sulla politica nazionale dando una mano agli interni, sulle lotte sociali e sul sindacale (Livia era l’alter ego di Carlo Parietti a Milano).

Gianni Boscolo in una immagine da giornalista impegnato sul fronte ambientale

A Torino la redazione era coordinata da Gianni Boscolo (1946-2024), recentemente scomparso, che nella vita ha fatto il giornalista impegnato sul fronte naturalistico e ambientale. La redazione era composta da 3 o 4 persone e seguiva oltre a tutte le problematiche del gruppo Fiat le vicende della città dal punto di vista sociale.

La redazione di Venezia lavorava più a singhiozzo e lo stesso vale per quella veronese; nel resto d’Italia, non avevamo persone a tempo pieno ed erano i singoli compagni a farsi vivi con  la redazione per raccontare quel che succedeva di importante.

La giornata

La mattinata, dopo la riunione di redazione, si concludeva impostando i pezzi; in ogni stanza si svolgevano delle mini riunioni, mentre alcuni privilegiati (della cronaca, degli interni e del sindacale) potevano andare in giro per la città a fare i cronisti e li li ho sempre invidiati.

Si staccava dall’una alle due e mezza: panino nella latteria di sotto, oppure pranzo al ristorante con cui ci eravamo convenzionati. Il titolare era abruzzese  e facevano la pasta alla chitarra. Ricordo un dolce, la goccia d’oro, che la proprietaria del ristorante, che era veneta, chiamava coglioncini degli angeli perché sull’esterno di un mezzo cilindro con meringa e creme varie erano depositati tanti piccoli bigné.

Si pranzasse in Latteria o al Ristorante, era d’obbligo la partita a carte: scopone, tressette o briscola a chiamata e poi si tornava su a scrivere sino alle 17:30. Quando sono venuto via dal Quotidiano, ero ingrassato di quasi 10 chili: vita sregolata e sedentarietà.

Non c’era teletrasmissione e quindi i pezzi andavano in tipografia (a ponte Sesto di Rozzano) con i fattorini e alle 17:30, a turno ci andava anche un redattore che rimaneva sino alla partenza della rotativa.

Quando facevo il direttore gli articoli della prima pagina venivano rivisti da me mentre i capiservizio curavano quelli delle pagine interne. Alle 18:30 il giornale era definitivamente chiuso per consentire ai corrieri (compagni alla guida di Fiat Ducato e Ford  Transit) di andare a Roma, Torino, Venezia e Napoli, tutte le notti, con ogni tempo.

Questo della chiusura anticipata è sempre stato un limite nella capacità del Quotidiano di essere un quotidiano vero. Era normale, rispetto alla stampa nazionale, toppare le aperture e tornare sopra a certi avvenimenti con un giorno di ritardo. Sarebbe servita la teletrasmissione e una doppia tipografia, come fece il Manifesto con la apertura di una tipografia a Milano aggiuntiva rispetto a quella di Roma.

qualche momento speciali

gioia di vivere e lotta di classe

A settembre del 1975 Silverio decide di scoperchiare il pentolone del personale che è politico. Titolo del suo articolo Gioia di vivere e lotta di classe, leggetelo Lo fa nel suo stile in parte fortemente innovativo e contemporaneamente con la necessità di metterci una buona dose di leninismo, che non guasta mai. Nel suo libello I senzamao pubblicato nell’autunno del 76 quando ormai aveva rotto con AO e DP, ma stava in Parlamento, aggiungerà anche una serie di elementi di natura autobiografica che lo avevano messo in crisi (il femminismo, il rapporto con la moglie, …).

la pagina 1 e la 6 di quel giorno

Nella immagine si vede che l’apertura del giornale la fa Alessandro Fugnoli sul Portogallo ma, in taglio basso. c’è il suo editoriale che occuperà poi tutta la sesta pagina accompagnato da due citazioni che faranno epoca:

  • grigia è la teoria e verde l’albero della vita” chi l’ha detto. Marcuse? – No Vladimiro Ilic Lenin
  • L’energia rivoluzionaria è inesauribile soltanto se è basata sulla coscienza di classe e se tiene conto della soggettività

Non basta in un box in alto a destra c’è una poesia di Majakowskj: La mania delle riunioni.

Mi viene in mente un passaggio del suo applauditissimo intervento al IV congresso, intervento che aveva lasciato un po’ freddino il resto del gruppo dirigente: Non sarà possibile la vittoria della rivoluzione socialista fino a quando milioni e milioni di donne, al noto intervistatore della Tv che chiede che cos vogliono in cambio del fustino di detersivo, non risponderanno che vogliono un mitra.

Silverio era così, spumeggiante e un po’ vanitoso; amava indorare le sue svolte politiche con una bella spruzzata di teoria. In questo caso era visibilmente a disagio rispetto alla esperienza milanese (un romano che non si integrava) e alla fine se ne tornò a Roma non prima di essersi scontrato in segreteria nazionale con Vinci e Campi (lo racconta con tutti i dettagli in I senza Mao). Al giornale non ne sapevamo nulla, ma all’improvviso tra la fine del del 75 e l’inizio del 76, mi ritrovai a dirigere il giornale.

la morte di Giannino Zibecchi

Giannino Zibecchi morto, a terra con la testa fracassata da un blindato salito sul marciapiede

Il 17 aprile del 75 Ettore Mazzotti e Franco Vernice rientrarono in redazione sconvolti con in mano i documenti di Giannino Zibecchi la cui testa era stata appena schiacciata da un blindato dei carabinieri nel corso degli incidenti successivi al tentativo di assalto alla sede fascista di via Mancini; erano emozionati e spaventati. La manifestazione era stata indetta per protestare contro l’assassinio, per mano fascista di Claudio Varalli.

La sede di via Mancini era stata data alle fiamme e ad un certo punto partì, in corso XXII marzo il carosello delle Jeep dei carabinieri scatenati alla ricerca del morto.

Ettore Mazzotti che era presente ne fa una cronaca dettagliatissima che vi invito a leggere, con Giannino che si arrampica su un palo e quando salta gù viene prima investito e poi gli ripassano sopra. Pochi giorni dopo la sinistra rivoluzionaria celebrò il 25 aprile con una grandiosa manifestazione cui parteciparono, in divisa, centinaia di soldati democratici. Alla manifestazione del 25 aprile mia moglie Bruna correva sventolando una grande bandiera rossa e intanto dentro di lei cresceva Daniela che sarebbe nata a fine dicembre

Nel corso del 75 a Milano ci furono manifestazioni poderose, anche per festeggiare la vittoria dei Vietnamiti e la presa di Saigon; ci furono le occupazioni delle case promosse dall’Unione Inquilini, le autoriduzioni, il movimento dei soldati, le lotte di fabbrica contro le ristritturazioni e per i contratti aziendali, il tentativo di costruire l’unità sindacale dal basso.

Ci presentammo alle elezioni amministrative in diverse regioni con la sigla Democrazia Proletaria, utilizzata per la prima volta e con un curioso simbolo, quello della falce e tenaglia. il risultato fu lusinghiero. Furono le elezioni della grande avanzata comunista che portò alla formazione di giunte di sinstra in gran parte d’Italia.

A maggio ci fu il festival del proletariato giovanile a Parco Lambro con Giovanna Pajetta inviata e partecipante; la situazione si ripetè l’anno succesivo mentre esplodeva il movimento delle donne e noi avevamo la fortuna di avere Ida Farè in redazione che ci spiazzava con le sue considerazioni fuori dagli schemi

Per la redazione i mesi di luglio e di agosto del 75 e del 76 furono momenti di grande crescita nella solidarietà reciproca. Si facevano le ferie scaglionate e chi restava in servizio nel mese di agosto faceva vita comune, anche la sera, andando per trani; ricordo le serate alla bocciofila Martesana lungo il viale Monza; tiravamo tardi perché ci piaceva stare insieme.

Tra il 75 e il 76 ci siamo messi a fare i bambini: io e Bruna, Ettore Mazzotti e Tille Bortolotti, Grazia Longoni e Giorgio Gorli, Vanghelis Oskian e Claudia Sorlini. Ida, sempre all’Avanguardia, aveva iniziato prima, anche con Massimo Gorla.

Verso la fine

Non più puttane, non più gonne, finalmente siamo donne

Nel corso del 1976 ci furono delle rotture all’interno del gruppo dirigente, e ne tratterò le capitolo dedicato alla parabola di AO.

Quelle rotture ebbero un riflesso all’interno della redazione, considerata di destra e fatta oggetto di richieste di licenziamento, messa sotto tutela e persino di due visite da parte del servizio d’ordine.

Ma torniamo a giugno del 76, eravamo tutti molto stressati e cercavamo di capire perché, con tutto quel po’ po’ di movimenti, alla fine le masse votarono PCI.  Le prime pagine di quei quattro giorni, quello delle elezioni e i successivi sono indicative.

Le aperture di sabato, domenica, martedì e mercoledì – da mercoledì ci si rende conto che qualcosa, per noi, non ha funzionato

Sabato e domenica 19 e 20 giugno c’è l’invito a votare DP e al governo delle sinistre; martedì prosegue l’avanzata a sinistra come nel 75, mercoledì si sottolinea che i voti a sinistra sono 3 milioni in più di quelli alla Dc.

Per noi fu una una mazzata, prendemmo qualche deputato, ma il risultato fu un quarto di quanto ci aspettavamo sulla base delle lotte sociali e dei risultati ottenuti. Andarono in parlamento Castellina, Gorla, Mimmo Pinto e Corvisieri (entrato per la rinuncia di Vittorio Foa).  Le masse popolari ci ringraziavano delle case, delle autoriduzioni, delle battaglie di democrazia, ma in cabina votarono PCI. Come vedete dalla immagine sul giornale di mercoledì c’è un inizio di riflessione da parte di Vittorio Rieser: indicazioni per un bilancio critico.

Invece di ragionare si scelse la strada del rafforzamento del volontarismo. Credo che una riflessione, da parte di quelli che sono rimasti a gestire poi una lenta agonia, andrebbe fatta.

Butto lì qualche ipotesi sulla vita stentata del Quotidiano dei Lavoratori. All’inizio fu un eccesso di volontarismo; bisognava prendere quel treno anche se non si era ancora raggiunta una massa critica. Si pensò, da buoni comunisti rivoluzionari, che il fatto di avere a disposizione risorse umane illimitate consentisse di fare qualsiasi cosa. Pensate alla mancanza della teletrasmissione sostituita dai furgoni, alla mancanza delle telescriventi perché tanto il nostro è un giornale diverso, al quasi immediato ritardo nel pagamento dei compagni della redazione, della tipografia e della distribuzione che stringevano i denti e continuavano a lavorare.

la espulsione di Bertasi, Crippa e Spotti

Nel corso del 75 avvenne quella che reputo una grande ingiustizia, da parte del gruppo dirigente alto, la supersegreteria (Oskian, Vinci, Gorla). Furono espulsi con ignominia due compagni che avevano curato il finanziamento e l’amministrazione e che avevano osato mettere in discussione talune scelte: erano Flavio Crippa e Pietro Spotti (1951-2024), due cari amici di vecchissima data, due persone pulite e serie che avevano osato chiedere dei chiarimenti ed osservare che una parte del danaro ricavato da compagni che si erano venduti le case, era stato speso malamente.

Con loro venne radiato Maurizio Bertasi. Grazie all’archivio messo a disposizione da Luigi Vinci presso la fondazione Marco Pezzi sono disponibili i documenti che consentono di risalire ai contenuti della vicenda: lettera alla segreteria di Crippa, Spotti e Bertasi, verbale (steso da Umberto Tartari) di una riunione tra i i tre e la segreteria allargata ai membri del C.C. Manca purtroppo il verbale della riunione di Comitato Centrale che approvò le espulsioni.

I loro rilievi riguardavano la scelta di essere partiti troppo presto, la mancanza di una programmazione, questioni riguardanti la diffusione e gli approvvigionamenti della carta e soprattutto una errata valutazione del valore e delle prospettive della tipografia.

I tre tennero duro nei loro rilievi e furono passati per le armi in senso metaforico; carogne, traditori, controrivoluzionari. Nella miglior tradizione della storia del comunismo siamo tutti rimasti a disagio, ma zitti. Approfitto per scusarmi con loro in maniera pubblica; avevo la massima fiducia in Oskian-Campi e mi fidavo della sua versione e ho avallato, pur non partecipando direttamente, quella decisione.

Chi li accusava, dopo neanche un anno, si è trovato a farsi i processi reciproci come se, certe cose, non fossero già avvenute in quella rivoluzione a cui ci appellavamo tutti con nostalgia vantando il nostro antistalinismo. Gli antistalinisti si comportarono da stalinisti e quel modo di passare sui corpi e sulle anime dei compagni, mi fa ancora male.

Mi piacerebbe che chi ne fu coinvolto direttamente, su entrambi i fronti, esponesse la sua verità. La decisione venne presa in un Comitato Centrale in cui non ero presente, ma dopo la pubblicazione della prima versione di questo capitolo, si è almeno aperta una discussione (ne trovate ampia traccia nei commenti sotto l’articolo).

la scelta di andarmene

Me ne andai dal Quotidiano a novembre del 76 dopo che, nel mese di agosto, avevo osato raccontare sul giornale come era andata la discussione nel Comitato Centrale seguito alla sconfitta elettorale. Fu un articolo in tre puntate (lo trovate qui Perché ho votato contro al Comitato Centrale). Era dedicato:

  • al racconto di quel C.C.
  • ai problemi di strategia per la sinistra rivoluzionaria
  • alla questione relativa alla costruzione del Partito (con chi e per fare cosa), con le annesse e connesse divisioni tra le organizzazioni rivoluzionarie e dentro i gruppi dirigenti

Al rientro dalle ferie venni processato in Ufficio Politico per delitto di lesa maestà e mi venne paracadutato in affiancamento un dirigente di provata fede Vittorio Borelli (di Verona) che non sapeva nemmeno cosa fosse un giornale. Fu una coesistenza impossibile durata all’incirca un mese. Nello stesso periodo esplose anche il caso Corvisieri (dimissionario da Avanguardia Operaia con lettera su Lotta Continua) e per il quale venne richiesta la radiazione.

Quando me ne andai, ero logorato sul piano fisico ed esistenziale, deciso a cambiare vita. Tornai in redazione una sola volta, il 16 dicembre del 76. Mi ero alzato alle 4:30 per rispettare gli orari di mia figlia di 11 mesi che si addormentava presto e si svegliava prestissimo.

Ero in cucina e ascoltai alla radio la notizia della sparatoria avvenuta nella notte che portò alla morte di Walter Alasia e di due funzionari di polizia; uno era il padre di un nostro compagno, l’altro un esponente dei movimenti di democratizzazione del corpo. Walter lo avevo conosciuto bene all’ITIS di Sesto (dove insegnavo) quando stava passando da Gioventù Aclista a Lotta Continua (nel 1973).

Era la prova provata che le BR non erano un gruppo di provocatori ma una parte del nostro album di famiglia (come aveva scritto la Rossanda). Ritornai in via Bonghi e scrissi  un editoriale per ragionare su questi aspetti. E’ l’unico numero del QdL che ho conservato, ma ora è tutto disponibile e lo potete leggere qui.

crisi nella redazione

Di lì a poco la crisi precipitò. Non venivano pagati gli stipendi e ci furono richieste di licenziamento politico. Prima, come racconta Gigi Sullo nelle interviste fatte in preparazione della storia di AO, ci fu la irruzione in redazione del servizio d’ordine con gli impermeabili lunghi e le chiavi Hazet. Ormai la crisi si avvitava su sestessa ed era sfuggita di mano.

Nel corso di una delle riunioni che tenemmo per decidere il da farsi, mi fu chiesto di mettere in piedi una rivista di orientamento politico culturale. Ci riunivamo a casa di Ida e c’era l’80% della redazione centrale e dei collaboratori che gravitavano su Milano. Non me la sentii di mettermi alla testa perché quel mondo in cui avevo creduto. Lo trovavo ormai tremendamente distante da me e la vicenda di Walter aveva contribuito a farmi decidere..

Alla fine, quando fu confermata la richiesta di licenziamento di Lorenzo Baldi, si dimise quasi l’intera redazione. Tutta la vicenda la trovate raccontata nei nuneri di fine dicembre 1976 del QdL con tantoi di comunicati e coinferenze stampa.

Nel corso del 77 quando ripresi a studiare la fisica, la matematica, la storia e la filosfia della scienza, ripensai  molte volte alla nostra esperienza dal 68 in poi. Mi resi conto che non aveva avuto senso scrivere di tutto, dalla politica interna, alla questione palestinese, alle trame nere, pretendendo di avere la verità in tasca.

Fu per questo che la pausa di riflessione che mi ero preso e che, nella idea iniziale, prevedeva di tornare al Manifesto per mettere in piedi una grande redazione milanese, non si realizzò mai. Meglio lavorare con i giovani in formazione, farli appassionare al senso critico e studiare.

Sentivo il bisogno di cambiare vita e di cambiare mestiere mentre si faceva strada l’idea che il problema non fosse lo scontro tra destra e la sinistra dentro AO, ma che la prospettiva rivoluzionaria che avevamo sognato era, appunto, un sogno e che ci servisse il pessimismo della ragione perché di ottimismo della volontà ne avevamo messo fin troppo.


La pagina con l’indice della mia autobiografia da cui potete scegliere i capitoli da leggere


 




il mio Sergio Zavoli – di Vincenzo Vita

Sergio Zavoli è stato un genio.

Sì, un genio, come lui del resto amava definire il suo amico Federico Fellini. Entrambi legati a Rimini, ma poi andati altrove, pur mantenendo intatta quella particolare cifra romagnola: sognatrice, un po’ malinconica, attenta -però- alle cose di questa terra.

Per esempio, andare a pranzo o a cena con Zavoli era quasi una forma di educazione sentimentale. Sentirlo parlare di tutto, tra una portata e l’altra (menù sempre completo), era una delle gioie che i numerosi incontri regalavano.

Si usciva ogni volta, al di là della conversazione, con l’idea di cos’è lo stile, laddove la perfezione della sintassi e della grammatica ne era il sintomo evidente. Cura dei vocaboli come espressione di una cura seria, alta dei pensieri.

La parola è sacra, diceva riprendendo il collega di rime Mario Luzi. Giornalista di radio, televisione e carta stampata (dai tg, ai gr, al Mattino di Napoli), tra gli ideatori dei talk con il celeberrimo Processo alla tappa e con le diverse edizioni ne’ corrive ne’ supine del rotocalco Tv7, presidente della Rai e della piccola sorella di S.Marino, scrittore e poeta. Non solo. Parlamentare e protagonista del dibattito politico.

Di sinistra e a sinistra, sempre. Nella sfera dell’attività pubblica si segnala, non secondariamente, la conduzione (dal 2009 al 2013) della commissione parlamentare di vigilanza. E quest’ultima fu rianimata attraverso cicli seminariali sui temi della comunicazione aperti a personalità rilevanti e significative della cultura italiana. Quei materiali utilissimi sono, tra l’altro, disponibili presso la biblioteca del senato, di cui fu da ultimo il riferimento.

Anzi. Un rammarico rimase proprio il non essere riuscito a portare avanti una particolare (e probabilmente inedita) ricerca sui parlamentari giornalisti della storia repubblicana.

Zavoli si era ritirato, sorretto dalla compagna recentemente sposata e dalla amatissima figlia. Purtroppo, gli acciacchi e la pandemia hanno interrotto le frequentazioni, ma non le affettuosissime telefonate. Cronista sempre, il giorno e la notte, Zavoli chiedeva valutazioni e notizie sul mondo politico, sulla Rai, sulle innovazioni tecnologiche che lo affascinavano, benché fosse così lontano dalle leggi ferree (e sgradevoli) dell’istantaneità.

Ecco. Il tempo del suo lavoro era un tempo accurato, pignolo e magari lungo. Probabilmente, la comunanza con Fellini gli aveva inculcato la struttura narrativa -ineguagliabile- del prototipo cinematografico: sceneggiatura , scenografia, campi di ripresa, voci, luci, sequenza delle inquadrature, montaggio.

Per questo, il modello inconfondibile che lo faceva assomigliare all’altro fuoriclasse -Enzo Biagi- ha fatto scuola e gli attribuisce il titolo di Maestro. Nel Pantheon del giornalismo e della scrittura radiotelevisiva stanno numerose pietre preziose. Da Nascita di una dittatura a La notte della Repubblica ad alcuni pezzi da brivido come il dialogo con la suora di clausura o il servizio sull’ex manicomio di Gorizia con le testimonianze delle persone in cura assistite da un giovane Franco Basaglia.

Parole miste a silenzi. Riusciva a mettere a suo agio con una naturale autorevolezza figure restie alla rappresentazione mediatica: da Paolo VI, a Schweitzer, a Von Braun ad Amedeo Bordiga. Già, il duro contestatore di Gramsci non voleva rilasciare interviste. Tuttavia, cedette di fronte al cantore appassionato e colto del ciclismo, di cui Bordiga era tifosissimo.

Che dire ancora. Non basterebbe un romanzo. Zavoli è stato un esploratore, nella versione compiuta che ne ha fornito Marc Auge’. La curiosità fu la scintilla fin da bambino, quando disegnò su un foglio una pagina di giornale incompleta. Il resto era da trovare.

Zavoli era assai preoccupato per come va il mondo dell’epoca di Trump e degli attacchi alla libertà di informazione, per la cui difesa ha speso una vita. La vita di un socialista di Dio, che ora si sta intervistando proprio con Dio.




toccata e fuga al Manifesto – di Lorenzo Baldi

Dopo la dimissione in massa dal Quotidiano dei Lavoratori mi trovai così, di punto in bianco, trasferito a Roma, in via Tomacelli, nella redazione de Il Manifesto, insieme ad una pattuglia di redattori del quotidiano.

Una nuova avventura nella capitale della politica (Milano, si diceva allora, era la capitale morale), in una scuola di giornalismo dove i compagni di banco si chiamavano (anche) Lucia Annunziata e Gianni Riotta, per citare quelli che hanno avuto la carriera più visibile. E Stefano Bonilli che, più o meno 10 anni dopo, fonderà il Gambero Rosso, prima supplemento del “Manifesto” e poi testata autonoma e all’origine del movimento slow food.

Ero a Roma da pochi giorni, quando Luciano Lama fu contestato all’Università La Sapienza, dando il via nell’inverno del 1977, al movimento che da quell’anno prese nome. La vicenda produsse grande impressione e discussioni accese, in una redazione che stava a cavallo tra il mondo della sinistra riformista e quello dei movimenti. Quell’episodio mi rafforzò nell’idea che l’esperienza della sinistra rivoluzionaria si fosse esaurita e che bisognasse approdare ad una prospettiva esplicitamente democratica e riformista. Era stata la politica a spingermi verso il giornalismo, non il contrario, e nella nuova sinistra – così la chiamavano a “Il Manifesto” – non mi sentivo più a casa.

A Roma, noi ex del Quotidiano non abbiamo fatto gruppo a parte, penso per integrarci più facilmente con i nuovi colleghi. Abbiamo cominciato subito a scrivere e a firmare gli articoli e non ricordo particolari problemi di adattamento. Sono stato ospite di Lidia Menapace e Rina Gagliardi: Mi offrirono una stanza nel loro appartamento, in attesa di una sistemazione definitiva e le ricordo con affetto. Di Rina Gagliardi, qualche mese prima che  se ne andasse troppo presto (2010) ho letto un articolo d10 anni prima: raccontava dei primi giorni di raccolta differenziata a Roma e della differenza tra il teorizzarla, come aveva sempre fatto, e praticarla ogni giorno. Mi ritrovai in ogni dettaglio.

Ho partecipato alle dolcezze della vita capitolina, niente cappotto d’inverno, un invito a cena su un terrazzino sopra piazza Navona e scampagnate ai Castelli, la domenica. Ogni tanto, mi concedevo un pranzo da Cesaretto o, Fiaschetteria Beltramme, la trattoria, frequentata da artisti e intellettuali, che aveva quasi adottato gli squattrinati giovani redattori del “Manifesto". Nel 1980 rischiò di chiudere e per salvarla si mobilitò l’intellettualità italiana, con in testa Mario Soldati.

Il taxi era obbligatorio la sera, perché i mezzi pubblici si fermavano quando i romani non avevano ancora cenato ma, alla mattina, andavo in redazione con l’autobus ed era meno affollato di quelli milanesi. Ai miei occhi di giargiana, come direbbe il Milanese imbruttito (abitante della città metropolitana che risiede fuori dalla circonvallazione), svizzero per parte di madre, recentemente cresciuto alla scuola di un fisico brianzolo, il metodo di lavoro appariva un po’ strano: la riunione di redazione era un dibattito sulla grande politica, più che sul giornale di oggi, poi si scendeva al bar per un caffè: lì Valentino Parlato organizzava il lavoro. Fino a metà pomeriggio, nessuno scriveva una riga, finché il caporedattore non dichiarava lo stato di emergenza. E qualche collega, assai promettente, scriveva e ragionava benissimo, ma si paralizzava davanti al compito di estrarre dall’Ansa una “breve”.

Anche “il Manifesto” era all’avanguardia della tecnologia, più del Qdl. Si impiegavano tecnologie di riconoscimento ottico dei caratteri, per trasferire i dattiloscritti nella fotocomposizione (non sempre funzionava a puntino, ma era vero high tech, a quel tempo), le lastre venivano create quasi contemporaneamente a Roma e a Milano, con un processo di teletrasmissione delle patinate (un fax ante-litteram, di grandi dimensioni).

In questo modo il giornale poteva “chiudere” più tardi e i percorsi stradali dei fattorini addetti alla distribuzione erano più corti. I giornali dell’estrema sinistra furono all’avanguardia delle tecnologie, forse perché era più facile investire una grossa donazione che sostenerne le spese giorno per giorno; e anche perché non avevano problemi sindacali in redazione e pochi in tipografia.

A “Il Manifesto”, per la prima volta, toccai con mano cosa fosse la politica parlamentare, con l’infaticabile Luciana Castellina che, quando non viaggiava, andava avanti e indietro dalla Camera dei deputati alla redazione per tenerci al corrente. Si dedicava anche a smussare gli spigoli tra le forti personalità del gruppo dei fondatori, soprattutto tra Lucio Magri e Rossana Rossanda. Quest’ultima impersonava bene la differenza tra intellettuali che avevano traversato un bel pezzo di storia del movimento comunista e il nostro tentativo impossibile di ricostruire da zero attraverso un ritorno alle origini. Lucio Magri, invece, in quel momento, era abbastanza lontano dal quotidiano, impegnato sul fronte del Pdup.

Ricavai anche l’impressione che, umanamente, i fondatori del “Manifesto” avessero lasciato organizzativamente il Pci ma, anche per ragioni generazionali, umanamente appartenessero ancora al mondo dei militanti comunisti più che alla “nuova sinistra”.

A differenza del Quotidiano dei Lavoratori, “Il Manifesto” faceva parte dell’establishment giornalistico romano e aveva dei doveri di cortesia istituzionale, anche su argomenti del tutto irrilevanti dal punto di vista politico-culturale: non si poteva mancare, per esempio, alla presentazione di una nuova moneta coniata dalla Zecca di Stato per il mercato collezionistico.

Mi colpirono molto, nel mio spirito un po’ puritano, anche i salotti romani che rappresentavano bene il concetto di ceto politico, da “Il Manifesto” fino all’estremo opposto dell’ “arco costituzionale”; e uno stile mondano simile a ciò che Tom Wolfe, già da qualche anno, chiamava radical-chic. Una percezione che, non molti anni dopo e in tutt’altro contesto, comincerà a circolare nel discorso politico.

Insomma, con la testa già nel Pci e la pancia che faticava ad ambientarsi, dopo un mese circa, presi il treno e tornai a Saronno. Dove mi attesero due genitori disorientati dal mio percorso a zig-zag e l’ostracismo dei vecchi compagni di AO: circolava in città un documento scritto, di molte cartelle, che mi attribuiva, in perfetto stile emme-elle (un vizio dal quale AO era, generalmente, immune), deviazioni piccolo borghesi contratte fin da piccolo e la pretesa di occuparmi in modo intellettualistico (ohibò!) di troppi argomenti diversi. In modo più fastidioso, molti, per anni, traversarono la strada per non incontrarmi. Ormai, ci siamo perdonati reciprocamente e c’erano quasi tutti quando, un anno fa, gli amici saronnesi hanno organizzato, loro invitando noi, la festa per il mio matrimonio con la stessa compagna di allora.

Scrissi ancora qualcosa su “Il Manifesto”, da Milano, dove la redazione era coordinata da Michelangelo Notarianni e i redattori erano Tiziana Majolo, Lidia Campagnano, Ida Farè, Sandro Ruotolo e Mario Gamba. Mario, dopo aver lasciato “Il Manifesto” nell’82, si occuperà professionalmente di critica musicale e, dal ’95, lavorerà poi al Tg3. Ma, per me, era ormai venuto il momento di chiamare il capogruppo del Pci saronnese e proporgli la mia domanda di adesione, di assolvere il servizio militare e inventarmi un altro lavoro, fuori dal giornalismo e dalla politica professionale. E questa è un’altra storia che, in parte, vi ho già raccontato.


Questo articolo è il seguito di: da Avanguardia Operaia al Quotidiano dei Lavoratori – di Lorenzo Baldi


 




da Avanguardia Operaia al Quotidiano dei Lavoratori – di Lorenzo Baldi

In Avanguardia Operaia sono arrivato nel 1971, con la confluenza del Collettivo lavoratori studenti di Saronno. Fu importante la presenza di alcuni studenti del Movimento di Scienze milanese, in particolare Alfredo Ponzini e Giampiero Banfi, divenuto professore di Fisica a Pavia, purtroppo scomparso nel 2002 a soli 56 anni e, affiancati da altri studenti universitari, molti dei quali di formazione cattolica.

Giampiero era tanto alto che ti doleva il collo a guardarlo negli occhi e le sue doti intellettuali erano nella stessa scala. Nella sua città natale si pensava che avesse la testa nelle nuvole e, curiosamente, sceglieva sempre, proprio lui, ragazze di statura sotto la media. Ci aiutò ad avviare i contatti con l’organizzazione e subito dopo si trasferì a Pavia, dove insegnava all’Università.

Avevo degli amici in quella provincia, riuscii a reclutarli e gli diedi così una mano a costruire l’organizzazione nella roccaforte lombarda di Lotta continua. Una sera d’inverno ero a casa sua a Pavia e persi l’autobus per Milano. Con la sua 500 Fiat che lo conteneva a malapena, inseguimmo il torpedone nella nebbia, quella che oggi non c’è più.  Di rado ho trovato qualcuno che andasse forte in macchina anche più di me, ma il pullman lo presi alla Certosa!

Ci introdusse ai rituali dell’organizzazione Attilio Mangano, una bella testa che ci insegnò come i bolscevichi si dessero del lei, tanto per misurare un punto di partenza un po’ distante dalla gioia di vivere che Silverio Corvisieri voleva abbinare alla lotta di classe. Insieme ad un gruppo di compagni, l’anno prima, avevo fatto crescere il movimento degli studenti medi e portavamo in eredità una realtà di massa piuttosto rilevante, destinata a crescere ancora. C’era un lavoro consolidato nelle fabbriche e un’attività di quartiere e nei piccoli centri limitrofi. Numericamente, dopo Monza, eravamo la seconda realtà più importante di AO in Lombardia, a parte Milano città.

Partecipavo alla Commissione regionale scuola, prima con Roberto Biorcio, poi con Alberto Garlandini, e cominciavo ad occuparmi di far crescere l’adesione ai Comitati di base studenteschi in tutta la provincia di Varese. Sotto la spinta decisa degli organismi regionali e nazionali, cercavamo di espandere la nostra influenza in tutta la provincia e, avendo già iniziato il lavoro con gli studenti, mi trovai ad essere l’uomo giusto al posto giusto.

Sostituii l’amatissima, ma troppo borghese, Moto Guzzi V7 con una capiente Dyane 6 e, sotto l’ala protettrice di Roberto Ceresoli, cominciai a girare la provincia giorno e notte, con uno stipendio part time. Roberto aveva parecchi anni più di noi, un fisico imponente, coltivato in gioventù praticando pugilato e culturismo, e divideva il mondo in provinciali e parigini, ispirandosi forse al cosmopolitismo di Massimo Gorla. Aveva un grande spirito pratico e interessi vastissimi, in cima ai quali stavano la politica e le ragazze. Tenne a battesimo il Centro Sociale Santa Marta e le sue giovani star, Jo Squillo (che ne ha fatta, di strada fino alla moda) e Roberto Camerini. Più tardi, quando iniziò il “riflusso” fu un pioniere del turismo politico-ricreativo verso Cuba.

Tornando alla provincia di Varese, tenevo collegati i gruppi che stavano crescendo a Busto Arsizio, Sesto Calende, Varese, nei comuni del lago. Cresceva l’intervento nelle scuole e nelle fabbriche; roba grossa, come Montedison, SIAI Marchetti, Agusta, dove Roberto Lovison costruì un Cub e un intervento nel sindacato di prima grandezza, prima di diventare uno dei più grandi esperti nella manutenzione degli elicotteri civili.

Si distribuiva il settimanale, si tenevano molte riunioni e si partecipava alle manifestazioni a Varese città, cercando di contrastare lo strapotere locale del Gruppo Gramsci, che tanta parte (poco conosciuta) ha avuto nel sorgere dell’ “autonomia”, dal ’77 in poi. Per qesto si cammellava su Varese da tutta la provincia, ciò che imponeva un grande contributo di risorse organizzative ai compagni di Saronno, capitanati da Giuseppe Uboldi, un ex seminarista, professore di filosofia, ma fin troppo concreto in politica. Si creò un conflitto molto aspro tra il localismo saronnese e la spinta a coprire l’intero territorio ed essere presenti nel capoluogo, un conflitto tra “apertura” e “chiusura” come se ne vedono tanti anche oggi. Il regionale tagliò il nodo di Gordio, separando l’organizzazione saronnese dal resto della provincia, della quale continuai ad occuparmi.

Quando mi fu proposto di andare al Quotidiano, la federazione – si chiamava così, ormai si ragionava da piccolo partito – di Varese (meno Saronno) era cresciuta da 20 a 80 militanti in poco più di un anno. Avevo, di fatto, rinunciato agli studi universitari ed ero stato eletto nel comitato centrale. Inoltre collaboravo a Politica Comunista con articoli sulla scuola e, con Roberto Ceresoli e Vincenzo Vita, alla neonata commissione cultura. Mi è rimasto il dubbio che la chiamata al Quotidiano avesse a che fare coll’ecclesiastico promoveatur ut amoveatur, per allentare le tensioni in provincia di Varese.

il Quotidiano dei Lavoratori

Arrivai in via Ruggero Bonghi nell’autunno del 1975, un po’ frastornato dagli impegni e dai cambiamenti degli ultimi anni, e mi adoperai, con Mario Pucci, a far decollare la pagina milanese-lombarda del Quotidiano, una virata verso la cronaca piuttosto inusuale nel panorama della stampa della sinistra rivoluzionaria su cui aveva insistito il vice, ma direttore di fatto, Claudio Cereda.

Il mio compagno di banco sapeva unire, come non sempre accade, capacità professionali e relazioni umane. Aveva una bambina molto piccolo che dormiva poco e portava in giro per Milano in macchina la notte, per farlo addormentare. Perciò, gli pesavano particolarmente le visite notturne in tipografia (a Ponte Sesto di Rozzano): la nostra pagina si stampava solo per l’edizione milanese e chiudeva più tardi; a noi due toccava, a turno, anche il compito di controllarla e modificarla, se non avevamo rispettato a puntino gli spazi attribuiti dai grafici.

La tipografia del quotidiano era attrezzata con un sistema di fotocomposizione che stampava le colonne di testo e i titoli su strisce di carta speciale che venivano incollate con la cera su un menabò con la gabbia grafica del giornale. I testi erano inseriti in un terminale computerizzato e si potevano regolare corpo e spaziatura dei caratteri per rispettare meglio l’impaginazione prevista dai grafici. Era un sistema molto avanzato per allora e lo era ancora di più per una tipografia delle dimensioni della nostra. Questa esperienza mi è stata molto utile più tardi, nella mia carriera professionale fuori dalla politica.

Contemporaneamente al lavoro in cronaca variavo un po’ con recensioni di libri e film. Era un obbligo sociale recensire Porci con le ali e mi impegnai in una colta polemica con Vincenzo Vita, mettendo a paragone Novecento di Bertolucci (che piaceva a me) e La Recita di Angelopoulos (del quale Vincenzo era un fan).

Claudio Cereda, che assorbiva più di tutti le tensioni che nascevano nel gruppo dirigente di AO, e tra questo e la redazione del Quotidiano, soffriva un po’ di stomaco e ci era grato quando gli facevamo compagnia nei suoi pasti frugali in latteria, con partita a carte obbligatoria (le latterie “di una volta” ora si citano molto ma quella era un po’ triste e non mi fa nostalgia).

Mario Gamba, con la testa nella redazione esteri ed il cuore nella musica, ha avuto un ruolo importante nell’introdurmi al jazz contemporaneo, che ho ripreso ad ascoltare con attenzione proprio in questi ultimi anni. Severino Cesari aveva appeso dietro la scrivania una formula matematica che aveva a che fare con l’entropia e i suoi discorsi erano sempre tanto interessanti quanto complicati.

Arriviamo all’estate del 1976. Dopo 8 anni di battaglie, la sinistra rivoluzionaria si presenta (più o meno) unita alle elezioni politiche  e ottiene l’1,52%, 1/22 del risultato del Pci, 1/30 tondo dei voti presi dall’intera sinistra. Passiamo luglio e agosto in redazione, occupandoci molto del disastro della diossina, a Seveso. Ida Farè, sempre proiettata al futuro, dopo il femminismo si era lanciata nell’ambientalismo ed era la nostra inviata speciale sui luoghi del disastro ambientale. Franco Vernice (un altro che ci ha lasciato troppo presto dopo aver passato una intera vita a La Repubblica) scrisse un articolo difendendo il diritto del carcerato all’evasione (con destrezza) e ne uscì una bella discussione sul garantismo, un tema sempre a doppio taglio nella sinistra comunista. Cominciammo anche a riflettere sul senso politico della batosta elettorale, degli errori commessi, sulla debolezza degli apparati teorici che utilizzavamo.

Il contrasto sulla direzione da intraprendere si aggiunse ai temi di scontro passati, sul femminismo, sulla condizione giovanile e sugli eccessi imperdonabili del nostro servizio d’ordine nel corso dell’anno passato, dei quali si intuiva qualcosa e si parlava sottovoce, senza scendere in dettagli.

La differenziazione, in redazione, prese anche una piega antropologica: ci sembrava che la linea di frattura tra i fautori dell’unificazione col Pdup e quelli di un rafforzamento identitario di Ao ne nascondesse un’altra, di tipo culturale: da una parte, pensavamo, ci sono quelli come noi, curiosi, aperti al nuovo, dall’altra parte, invece, si guardava sempre vicino e si pensava in termini di identità e organizzazione, rifiutando i cambiamenti.

Nel mese di agosto scorrazzammo più volte in una Milano deserta per raggiungere, dalla lontana via Bonghi, il ristorante promosso dal Comune al Castello Sforzesco, un’iniziativa molto popolare della nuova giunta di sinistra che aprì la stagione ininterrotta delle manifestazioni estive. Pagare il conto era un problema, perché di stipendi, al quotidiano, in un anno e qualche mese ne avrò visti due o tre. Si andava stringendo una solidarietà umana e politica tra noi redattori, che avrebbe giocato un ruolo importante nei mesi seguenti.

il fattaccio e la rottura

La redazione del Quotidiano ospitava una sala riunioni riservata alla Segreteria nazionale; i suoi componenti transitavano spesso in via Bonghi. Nei primi tempi, quando le tensioni erano meno evidenti, prevaleva la curiosità, la possibilità di farmi un’idea dei tipi umani, cosa quasi impossibile durante riunioni e assemblee. Ma coll’evolversi della situazione, una parte della segreteria cominciò a identificare la redazione come un contraltare pericoloso. Per l’altra parte eravamo un vantaggio, una voce letta ogni giorno dai militanti; ma eravamo anche molto radicali e poco controllabili giorno per giorno.

Di fatto, rispondevamo a due editori diversi: si sentiva sempre più una presenza occhiuta, che non faceva del bene alla qualità del lavoro e, come si vedrà tra poco, poteva determinare incidenti imprevisti nei rapporti interni ad AO.

Quando Claudio Cereda manifestò pubblicamente il suo dissenso, con i tre articoli Perché ho votato contro al comitato centrale fui incaricato di governare il traffico sulla pagina che, da allora, quasi tutti i giorni il giornale dedicava al dibattito politico interno. Ricevevo e conservavo i dattiloscritti in un cassetto e, secondo un metodo da manuale Cencelli, man mano li preparavo per la stampa e li titolavo. Mi trovai quindi esposto, in uno snodo delicato del lavoro redazionale, ormai semi-commissariato da Vittorio Borrelli, ma questo non mi creò mai problemi. Nel frattempo Cereda, disgustato dalla piega presa dal gruppo dirigente, si era dimesso dalla direzione e se ne era andato.

Il fattaccio accadde quasi per caso, quando a Milano ci fu una manifestazione dei “Circoli giovanili” (presto sarebbero diventati gli “autonomi”) che contestava la politica culturale della giunta e proponeva l’autoriduzione del biglietto dei cinema. Emilio Molinari, storico dirigente di Ao e dei Cub, consigliere comunale eletto nel 75, scrisse una lettera aperta al Sindaco Tognoli, criticando la programmazione intellettualistica delle sale di proprietà (edilizia, non gestionale) del Comune.

Sulla questione si erano dette molte cose che non condividevo, da parte del Pci, del QdL (con l’articolo di un nuovo adepto, Carlo Ceccon, imposto in redazione per contrastare, sui temi giovanili, Giovanna Pajetta) e anche di Emilio. Era il 21 novembre ’76 e pubblicai, a mia volta, una lettera al Quotidiano, proprio per non coinvolgere la redazione in un parere personale. Paragonavo tra loro le tre posizioni che non mi piacevano e definivo quella di Emilio una versione di sinistra della lotta al culturame di scelbiana memoria.

Ho riletto i documenti e non si trattava di un attacco personale all’arma bianca, ma di un ragionamento articolato. Forse, non avrei dovuto prendermela così duramente proprio con Emilio Molinari che certo non era un campione di astiosità e settarismo. E c’era di mezzo anche una questione generazionale. Per me, Mario Scelba stava nei libri, ma per Emilio era storia di vita vissuta e manifestazioni operaie, neppur così lontane. Perciò, anche se molto in ritardo, per questo aspetto voglio chiedergli scusa.

L’episodio ebbe riscontro immediato nell’apertura di un dibattito sul rapporto tra giornale e organizzazione e, dopo un mese esatto trovò la sua conclusione. Il 18-19 gennaio 1977 il Comitato Centrale decise, senza dibattito, il mio allontanamento dalla redazione. A un certo punto era accaduto anche che il servizio d’ordine accerchiasse la sede del giornale (quel giorno fui consigliato di starmene a casa).

Nei giorni precedenti si era instaurato un braccio di ferro tra la quasi totalità della redazione e la segreteria Nazionale. In un incontro con l’Ufficio Politico, il collettivo redazionale chiese di riconsiderare la decisione, ma il 21 dicembre un mio articolo venne bloccato in tipografia. Così, 22 redattori e collaboratori del Quotidiano rassegnarono le dimissioni. Dopo la conferenza stampa, tenuta presso la libreria Sapere di piazza Vetra, della vicenda si occupò anche il “Corrierone”. Ida Farè, che aveva contribuito con gran parte dei suoi averi alla nascita del Qdl, fu tra le più accese in mio sostegno, e quanto le sarà costato! La solidarietà nei miei confronti fu corale e commovente.

“il Manifesto” offrì ad alcuni di noi di lavorare nella redazione romana, mentre la componente di Ao che propendeva per unificarsi col Pdup accelerò i tempi. Trascorse un periodo di contatti che si sovrappose ai tempi della lotta politica interna ad AO. Così intorno alla fine di febbraio del 77 partirono per Roma, oltre a me, Pier Luigi Sullo, Carlo Parietti, Severino Cesari, Astrit Dakli, Mario Gamba, e Giovanna Pajetta mentre, della vecchia guardia rimasero al giornale Grazia Longoni, Liliana Belletti (del sindacale) e i fotografi.


Nel prossimo articolo la esperienza di Lorenzo Baldi al Manifesto


Per la storia del Quotidiano dei lavoratori leggere anche (di Claudio Cereda)

1974-1976: gli anni del Quotidiano (la grande avventura)

1974-1976: la Parabola di AO


 

 

 




per Ida – di Lorenzo Baldi

Forse in tanti non lo sanno e, con il passare degli anni, certe cose si dimenticano; ma se il Quotidiano dei Lavoratori è esistito è anche grazie alla generosità con cui Ida si è spogliata delle sue case in nome di un progetto in cui credeva. Lo hanno fatto anche altri, ma lei in maniera particolarmente importante.

Ho chiesto a Lorenzo Baldi, che ieri è stato presente al suo funerale, di raccontarcela per come tutti noi che abbiamo lavorato al suo fianco l'abbiamo percepita, con il suo modo di essere fuori dalle efficienze e dal volontarismo con cui facevamo politica. Se c'era lei potevi star sicuro che l'ordine del giorno sarebbe saltato perché c'era qualche cosa di importante a cui non avevamo pensato.(c.c.)

Ho saputo della morte di Ida Farè da Facebook. Le esequie si sono tenute presso la chiesa di San Pietro in Sala, a Milano. Un’antica parrocchia, a 5 chiilometri da Sant’Ambrogio, sorta nell’ XI secolo, periferica e contadina. È stata ricostruita e ingrandita cinque volte – per le crescenti esigenze del culto – fino all’assetto attuale che data del 1924. Ida, che abitava a poche decine di metri, recentemente la frequentava.

Da laico non anticlericale non mi sottraggo ai riti religiosi ed ho sviluppato una curiosa sensibilità liturgica, apprezzando così la cerimonia di addio (candele di cera, scelta delle letture, canti non tradizionali e non banali, un’omelia rispettosa dei fedeli come dei molti laici convenuti). Da apprendista sociologo, come tutti siamo in queste occasioni, ho condiviso il rito con persone di ogni età, femministe storiche e giovani ex studenti, signore eleganti e streghe in eterno ritorno, addette alla cura colorate, intellettuali nella loro età migliore.

Ho conosciuto Ida Farè nel 1975, quando cominciai a scrivere sul Quotidiano dei Lavoratori, alla cui nascita diede un contributo decisivo e molto, molto concreto. Ero un pischello di provincia e lei una gran donna, milanese e adulta, con dei figli non più nella culla. Mi metteva un po’ di soggezione.

Avanguardia Operaia mancava del guizzo surreale degli emme-elle, sognanti sulla copertina de “La Cina” (roba che neanche Photoshop); e mancava anche di quel radicalismo sfrontato e, perchè no, spontaneo, che rendeva simpatica Lotta Continua. Mi vien da dire che è il destino del riformismo ambrosiano, tanta concretezza e poco glamour, tolta la parentesi della Milano da bere. Fatto sta che, con molte lodevoli eccezioni, si tendeva un po’ al compito ben eseguito, al commento che sovrasta la notizia (anche per ragioni di organico: gli inviati costano), ad una stretta correlazione tra la “linea“ e la cronaca politica.

Ida no, lei non rischiava mai di essere noiosa o, men che meno, scontata: faceva irruzione nella riunione di redazione con un gonnellone lungo, con le calze a striscie colorate, con una proposta di articolo, (quasi mai un argomento canonico con un approccio normale) e, con il suo entusiasmo e la sua capacità di comunicare, alla fine quell’articolo, quel taglio, sembravano assolutamente necessari, anche a Claudio Cereda.  Il giorno dopo, quando si commentava il lavoro fatto, il suo articolo era invariabilmente tra le parti meglio riuscite del giornale.

Al QdL c’era un’isola di tendenza freak: Giovanna Pajetta, che nel settembre 75 scrisse memorabili report dal festival del proletariato giovanile di Licola, Mario Gamba che si occupava seriamente di esteri e coltivava un privato amore per la musica jazz (possibilmente free, lo ringrazio ancor oggi per avermi introdotto all’ascolto di Muhal Richard Abrams e Anthony Braxton).  Ida, a prima vista, apparteneva a questo quadrante antropologico, ma non si lasciava ingabbiare in valutazioni semplificate: giovanilisti vs. tradizionalisti, avanguardia vs. pop, classe vs. genere. Forse, per l’esperienza di una vita più matura, per una soggettività che non accettava di essere analizzata (e, quindi, suddivisa), tirava dritta per la sua strada, rispondendo ai fatti che la interrogavano.

Anche se la “Fenomenologia di Mike Buongiorno” di Umberto Eco data dal 1961, credo che Ida Farè sia stata tra i primissimi giornalisti italiani a coniugare, sul campo, “alto” e “basso”, cultura accademica e cultura popolare, scienze umane e vita quotidiana, raccontando i fatti della vita in  chiave politica, illuminata dalla cultura della differenza.

Era facile vedere in lei, in modo iconico e riunite in instabile equilibrio, la Pasionaria e la Femminista: spesso, però, ti spiazzava con un solidissimo principio di realtà, sostenendo tesi ardite, non per estremismo e complessa costruzione intellettuale, ma perché teneva fermo un buon senso decisamente ancorato alla terra e non sempre compatibile con lo spirito dei tempi.

L’ultima volta, ci siamo visti nella redazione milanese del Manifesto, mentre io scrivevo le mie ultime righe per la nuova sinistra e lei stava per intraprendere una professione diversa dal giornalismo, al Politecnico di Milano. Seguendo a distanza i suoi libri, le sue interviste e le sue ricerche, mi è sembrato di re-incontrare ogni volta quel fantastico equilibrio tra radicalismo e realtà, che tanto ci manca, soprattutto oggi.
 




Dal Vietnam a Cuba – (7) La permagricoltura di Roberto Ceriani

Il secondo progetto che visitiamo è una fattoria agricola condotta dalla famiglia Casimiro. Anche qui, come previsto fin dall’inizio, diamo volentieri 25 euro a testa per sostenere il progetto. Da quel poco che ho capito, non avendo alcuna competenza in campo agricolo, è un progetto di agricoltura biologica altamente innovativo, mirato all’autosufficienza alimentare ed energetica.

Ci accoglie il capofamiglia (un po’ padre-padrone) che ci spiega la storia della sua azienda famigliare, le scelte operate, l’impostazione culturale e il grande valore che attribuisce alla famiglia, intesa sia come risorsa fondamentale del progetto, sia come garanzia per il futuro. Il signor Casimiro ci racconta la sua storia personale, intrecciata con quella delle crisi economiche cubane degli anni ’90. Spiega le sue scelte progettuali come scelte obbligate ma, al contempo, rivolte al futuro. E’ piuttosto convincente, anche se nel linguaggio e nel modo di parlare traspare una leggera impostazione ideologica, quasi un cenno di “integralismo biologico”.

Al progetto lavorano le figlie che, a differenza del padre, hanno studiato scienze agricole e dell’alimentazione; le ragazze integrano il lavoro manuale con una notevole competenza scientifica. Altri figli sono invece avvocati ed esperti di economia. Tutti i figli, in modi diversi, contribuiscono alla riuscita e all’estensione di questo progetto di vita collettiva.

Grazie a queste risorse l’azienda famigliare ha contatti internazionali e i figli viaggiano in Europa per presentare l’iniziativa, che non si limita alla sola coltivazione ma si sviluppa anche su numerosi piani energetici ed economici.

In particolare Leidy, la figlia maggiore, è la prima donna cubana a conquistare il dottorato in Agroecologia presso l'Università di Matanza. L’integrazione fra le competenze tradizionali e l’innovazione tecnologica non invasiva è il segreto del successo di questo progetto, che sta diventando un modello anche per altre piccole attività agricole in più continenti. Qui è venuto Carlo Petrini, fondatore di Slow Food. Qui vengono giovani da vari Paesi a fare stage di lavoro e il quotidiano La Repubblica ha dedicato un intero articolo a questa esperienza innovativa.

In questa azienda l’acqua viene estratta dal suolo con una pompa eolica, esiste un forno solare e si produce in autonomia il biogas necessario per la vita famigliare e per la produzione agricola. Inoltre, grazie alla progettazione intelligente di una figlia esperta in architettura, vengono autocostruite alcune case rotonde, a forma di trullo, adeguate al clima locale e in grado di sopportare gli uragani. Esiste persino una piccola piscina riscaldata a biogas, soprannominata la Jacuzzi dell’agricoltore.

QUALCHE DUBBIO

Nonostante la mia incompetenza in ambito agricolo, ho l’impressione che l’accento sull’autosufficienza del progetto Permagricoltura sia un po’ eccessivo e contraddittorio con alcune giuste scelte tecnologiche operate. Infatti la figlia ci mostra un bellissimo PowerPoint aziendale, usando un TV digitale integrato con un ottimo PC, quindi apprezzo la scelta di non isolarsi in un modello superato di vita contadina, ma mi domando come facciano a mangiare le migliaia di persone che hanno prodotto quel televisore digitale, visto che l’agricoltura “biologica” garantisce sì l’autosufficienza alla famiglia, ma esporta solo una quantità limitata di prodotti agricoli.

Non sono in grado di esprimere giudizi su questo progetto, tuttavia mi rimane qualche dubbio, per non dire sospetto, sull’eccessivo entusiasmo espresso dai supporter nostrani per tutto quanto viene considerato “biologico” (parola che mi sembra usata spesso fuori luogo). Queste esperienze avanzate di “agricoltura alternativa” (?) mi sembrano ottimi laboratori sperimentali, ma proprio in quanto laboratori non possono essere considerati a priori come alternative all’agricoltura intensiva.

Ho invece l’impressione che troppi europei tendano a demonizzare l’agricoltura intensiva, guardando a quella “biologica” come se potesse essere un’alternativa generalizzata. Se così fosse non capisco perché, quando la percentuale di agricoltori era molto maggiore di quella attuale, per vari millenni l’umanità abbia sofferto la fame. Le carestie erano il compagno quotidiano della vecchia agricoltura “biologica”, che oltretutto era possibile solo in terre assolate, fertili e ben irrigate, proprio come quella dell’azienda che stiamo visitando. Ma veramente qualcuno crede che si possano nutrire 7 miliardi di individui, dalla Siberia ai deserti, senza ricorrere ai fertilizzanti chimici?

Sarò un po’ rozzo, ma per me agricoltura intensiva significa dare da mangiare (male) a quasi tutti, mentre agricoltura biologica significa dare da mangiare (bene) solo ad alcuni. Pretendere di generalizzare l’agricoltura biologica mi sembra compatibile solo con l’eliminazione di qualche miliardo di individui, ma vedo alcune difficoltà nel realizzarla.

Mi domando se per 7 miliardi di individui sia meglio mangiare pane di plastica o non mangiare nulla mentre guardano qualche milione di privilegiati che mangiano kamut biologico. In fondo è per rispondere a questa domanda che il nostro Belpaese dalla terra fertile ha subìto nei secoli decine di invasioni straniere. Non credo che intere popolazioni abbiano invaso l’Italia per vedere il Colosseo; anzi, se la nostra terra non fosse stata così fertile nessuno avrebbe avuto neanche il tempo di costruire il Colosseo!

Ero nato su un pianeta con 2,5 miliardi di persone. I miei dubbi sulla possibilità di generalizzare le esperienze di agricoltura biologica derivano anche dal fare parte della prima generazione nella storia che ha visto triplicare la popolazione dell’umanità. Prima di noi un’esperienza simile era stata vissuta solo da Adamo, ma a quel tempo non c’era carenza alimentare, anzi le mele abbondavano fin troppo…

 




Dal Vietnam a Cuba – (6) le case – di Roberto Ceriani

In campagna quasi tutte le case hanno un solo piano, probabilmente senza fondamenta. Molte case sembrano autocostruite e raramente superano il piano terreno. Sopra ai muri c’è direttamente il tetto che coincide con il terrazzo, dove sono ospitati lo stendibiancheria, il serbatoio per l’acqua, un complicato groviglio di fili elettrici presi da un ancor più complicato groviglio che attraversa le strade, e tutto quanto non trova spazio nel piccolo appartamento.

In città, invece, le case sono più alte. A parte alcuni palazzoni moderni dell’Havana (fra cui qualche orribile mostro edilizio sovietico che sembra importato direttamente dalla Siberia), nella parte vecchia delle città dominano case vecchie di architettura coloniale, di 2-4 piani.

Molte di queste case sono piuttosto belle, ma quasi tutte sono fatiscenti, in pessimo stato di abbandono. Dopo la rivoluzione del 1959 ogni famiglia ha avuto diritto a una casa, una sola; poteva arrivare dalla confisca di chi aveva più case o dall’alloggio abbandonato da chi fuggiva all’estero. La proprietà restava dello Stato, quindi la manutenzione è mancata per oltre mezzo secolo. Solo ora che le case iniziano a diventare private sono in corso timidi tentativi di ristrutturazione, ma ci vorranno decenni e soldi.

Oggi esiste un mercato immobiliare semiufficiale. In teoria un proprietario potrebbe vendere la sua casa solo a un parente, ma esistono vari mezzi semiufficiali per aggirare la regola; nascono agenzie di mediazione, dotate anche di siti web visibili a tutti, che riescono con vari trucchi a permettere transazioni immobiliari inventando parenti nei modi più fantasiosi.

L’idea base è sempre quella: inizio a fare un’attività non proprio legale ma che non dà fastidio a nessuno, creo un’esigenza e un mercato fra conoscenti, espando l’iniziativa fra amici degli amici. Se tutto funziona bene prima o poi qualcuno legalizzerà quello che sto facendo; forse è una delle tante strade di superamento del socialismo, certo non la peggiore.

LE CASE VISTE DA DENTRO

A Cuba l’alloggio per turisti è essenzialmente limitato a due possibilità: hotel e Casas Particulares. Si trovano hotel equivalenti ai nostri 4-5 stelle, ma mancano quelli per il turismo economico. Suppliscono le Casas Particulares, alloggi privati autorizzati dal governo a ospitare turisti, identificati da uno strano simbolo blu sul portone.

Il servizio è ben regolamentato: l’ospite viene registrato su un registro ufficiale e ha diritto a un’abbondante prima colazione. Le camere hanno il bagno riservato, ma in tutta Cuba vale una regola: gli scarichi sono difettosi quindi non bisogna mai buttare la carta igienica nel w.c. Gli appositi cestini sono presenti ovunque, ma è meglio non chiedere dove andrà a finire il contenuto.

In teoria il proprietario non potrebbe offrire anche la cena, ma la trasgressione è la regola. Gli alloggi sono puliti (anche le strade urbane ed extraurbane lo sono) e ristrutturati abbastanza bene; alcuni sono veramente buoni, altri appena accettabili. La cucaracha, grande, marrone e con le ali, è un optional possibile.

Vivere nelle case è un ottimo metodo per conoscere la vita dei cubani. Trovi la TV accesa 24 ore al giorno, dove vedi programmi identici ai nostri: talkshow, musica, TG, intrattenimento… forse c’è un po’ meno pubblicità. I mobili sono di legno pesante e spostare le sedie è impresa da body building. In tutte le case ci sono almeno due sedie a dondolo; possono trovarsi in soggiorno o fuori, ma in città il concetto di fuori va precisato meglio. C’è il fuori di un micro patio racchiuso fra l’ingresso e la strada e c’è il fuori di un terrazzo circondato da muri, tubi e cavi elettrici, avvolto ai lati e sovrastato da una robusta grata che lascia vedere il cielo solo a quadretti.

L’ingresso della casa porta direttamente dalla strada al salotto-soggiorno, dove pesanti soprammobili di ceramica o di vetro competono per lo spazio con le foto di famiglia onnipresenti su muri, comodini e tavoli. Le poche piastrelle rimaste libere sono spesso occupate da una moto, più raramente da una bici, che viene parcheggiata in salotto per evitare furti in strada. A volte rimane anche spazio sufficiente per stare in piedi.

UNA PARTICOLARE CASA PARTICULARE

Come quasi tutte le Casas Particulares, anche questa è pulita e accogliente, ma chi ci accoglie questa volta non è il proprietario. La casa appartiene a una donna spagnola che vive nel Paese Basco e viene a Cuba raramente. Il gestore è un dipendente salariato per fare questo lavoro. Probabilmente non si tratta di una condizione pienamente legale, ma rientra pienamente nell’arte di arrangiarsi, per il gestore, e nella tendenza a sfruttare le risorse in modo semilegale, per la proprietaria.

Il gestore è un uomo simpatico e istruito. Ci spiega che proviene da una famiglia povera con nove fratelli, che non avrebbero mai potuto permettersi di studiare. Ci tiene però a precisare che, grazie alla rivoluzione, tutti hanno studiato e ora un suo fratello è medico, un altro è economista e così via. Lui fino a pochi anni fa era direttore di un negozio statale, ma ha optato per questo nuovo lavoro di gestore sia perché il salario era troppo basso, sia perché gli venivano attribuite eccessive responsabilità.

Gli chiedo se può vendermi un piccolo adattatore elettrico, necessario per caricare un telefonino europeo usando le prese cubane che adottano il modello USA. Lo chiedevo ingenuamente, convinto che lui sapesse dove trovarne subito un duplicato, ma mi risponde che quell’aggeggio era stato portato apposta dalla Spagna e che non se ne trova uno simile in tutta la città. Resto sbalordito: era solo un banale adattatore da quattro soldi, che da noi si trova da qualsiasi elettricista.

Alla fine della conversazione il gestore va a prendere alcune rose rosse e le regala alle donne del gruppo. Era l’8 marzo.

 




Dal Vietnam a Cuba – (5) Elezioni & Internet – di Roberto Ceriani

Domenica 11 marzo a Cuba è giornata di elezioni per scegliere i rappresentanti all’assemblea nazionale, che il 19 aprile eleggeranno il presidente del Consiglio di Stato e del Consiglio dei Ministri. Sarà la prima volta in 60 anni che il presidente non si chiamerà Castro; Raul, che aveva preso il posto di Fidel nel 2006, a 86 anni si dimetterà.

Lo stesso giorno entra in vigore l’ora legale; in alcune chiese i rintocchi delle campane sono aggiornati, mentre in altre se ne conta uno di troppo. La stessa confusione si fa con gli orologi da polso, quindi l’orario di apertura dei seggi ne risente un po’, ma il clima è di festa e tutto si supera.

Le elezioni si tengono nelle scuole, dove la gente si reca ai seggi ben vestita. Fuori da ogni scuola c’è l’elenco dei candidati, comprensivo di fotografia, curriculum e proposte che farà se verrà eletto. Nei seggi che ho visto la maggior parte dei candidati sono di genere femminile. L’elettore può esprimere quante preferenze vuole e, se si trova in una città diversa dalla propria, può votare per i candidati locali. Il controllo per evitare doppie votazioni è debole: si farà dopo il voto su un registro nazionale e il trasgressore verrà sgridato, ma il doppio voto rimarrà valido.

Mi piace la possibilità di votare anche in un’altra città. Penso ai collegi elettorali di casa nostra e mi domando cosa significhi votare il rappresentante del quartiere in cui dormo. E’ una cosa bizzarra; già la capisco poco con i consiglieri condominiali, figuriamoci con i parlamentari! Se poi il giorno delle elezioni mi trovo altrove non posso neanche votare. Forse aveva senso in una società agricola, ma oggi siamo su un altro pianeta. Con gli strumenti telematici potremmo votare in qualsiasi parte del mondo per candidati che si trovano ovunque. Non capisco perché è così importante sapere dove dormo di solito e, come se non bastasse, dover garantire che la sera delle elezioni vado a dormire proprio dove ho la residenza. Mah?

A Cuba i seggi elettorali sono presidiati dai bambini! Mi spiego meglio: c’è un tavolo con tre persone addette alle operazioni di riconoscimento dell’elettore e alla consegna delle schede, ma poi l’elettore raggiunge l’urna, che si trova poco distante, e la trova presidiata da due bambini di 10-11 anni, uno per ogni lato.
I bambini, probabilmente facendo i turni con i compagni di scuola, indossano la divisa scolastica perfettamente stirata e aspettano in piedi l’elettore, molto compiti nel loro importante ruolo civile. Quando l’elettore inserisce la scheda nell’urna i bambini si mettono sull’attenti e gridano a voce alta, all’unisono, la frase “Ha votato!”. E’ una cerimonia un po’ strana, ma sembra di alto valore simbolico ed educativo, sia per i bambini sia per gli adulti.

Provo a immaginare cosa accadrebbe da noi se si facesse una cosa simile: proteste di massa contro l’uso delle divise scolastiche, genitori impegnati a filmare tutta la scena litigando con gli altri genitori, avvocati per difendere la privacy dei bambini, bambini sdraiati per terra a consultare lo smartphone mentre giocano con la PlayStation, madri che portano la merenda al pupo impedendogli di mangiare quella offerta dal seggio perché contiene olio di palma, padri che fanno ricorso al TAR per la violenza subìta dai figli…

INTERNET

Non sembra che a Cuba esista una censura su Internet, però praticamente Internet non esiste. In rari punti della città, di solito nella piazza centrale, si vedono decine di ragazzi seduti per terra con il telefonino in mano, segno evidente che lì c’è un’antenna WiFi, magari nascosta fra i rami di un albero. Questi capannelli di giovani internauti creano rare oasi di silenzio in un Paese in cui la musica esce da ogni casa e da ogni auto; un Paese in cui la gente parla con il vicino alzando i decibel vocali come se tutti fossero sordi.

Per connetterti al web occorre avere acquistato una card con appositi codici; costa circa un euro e permette di connettersi per 60 minuti, anche distribuiti in più sessioni. La lentezza della connessione fa scaricare rapidamente la scheda, quindi occorre comperarne un’altra, ma i venditori ufficiali sono rari. Ci pensano i bagarini a offrirti tessere a prezzo aumentato.

Oltre che fragile e soggetta a frequenti cadute, la connessione Internet è anche poco sicura. Te lo ricorda l’implacabile Google che ti fa apparire un messaggio di “protezione” (un po’ come i protettori prosseneti…) che dice più o meno: “Stai usando una connessione insicura quindi mi rifiuto di scaricarti la posta”. Non ti dice “Ti informo che esiste un rischio, ma sei libero di fare come ti pare”. No, Google decide al tuo posto e tu resti senza la posta. Viene voglia di prenderlo a calci nel Google!

L’arretratezza tecnologica di Cuba si vede anche dal numero ridottissimo di Bancomat. Ne ho visto solo uno in tutto il viaggio, mentre in Vietnam ce n’erano centinaia in città e decine in campagna. Non parliamo poi dall’uso quasi inesistente della Carta di Credito, ma su questo è complice l’embargo imposto dall’onnipresente Trumpistan, la cui assenza spesso lo rende ancor più invadente.




Dal Vietnam a Cuba – (3) il teatro spontaneo, i Tainos, la Santeria – di Roberto Ceriani

Il primo progetto sostenuto dal viaggio ci porta a visitare il Teatro espontaneo de l’Havana (improvvisazione teatrale). Una performance è disponibile su YouTube.

E’ una compagnia teatrale interdisciplinare, composta da musicisti, attori e psicologi. Loro si definiscono un laboratorio psicodrammatico per il recupero della spontaneità. Il format di improvvisazione prevede che una persona (attore o spettatore) racconti qualche cosa, un fatto accadutogli, un’emozione, un desiderio… e subito gli attori rappresentano quanto detto tramite espressioni visuali, posizioni corporee, scene di gruppo e, più raramente, anche parole.

I temi trattati solitamente riguardano disagi individuali o sociali legati ai temi più vari: AIDS, sessualità, condizioni economiche, disparità di genere, mutamenti socio-economici, desideri individuali e collettivi, ecc. Il primo impatto con il teatro è un po’ destabilizzante. Ti senti obbligato a dire qualche cosa senza averci pensato prima, ma il ghiaccio viene rotto dagli attori stessi che fanno la prima mossa. Ognuno inizia a raccontare qualche cosa di personale che gli altri attori non conoscono prima.

L’ambiente non è un vero teatro, ma una casa con un locale abbastanza grande da poter ospitare sia la scena, sia 20-25 spettatori seduti per terra o su sgabelli improvvisati.
Sul palco, o meglio sul pavimento utilizzato come palco, ci son quattro attori, tre donne e un uomo. Ai lati si trovano due suonatori-improvvisatori, una donna alla tastiera e un ragazzo ai fiati. C’è poi, fuori scena, una donna di colore con funzione di narratrice; se fossero in due o tre diremmo che c’è anche il coro.

Il tutto si svolge al piano terreno, con porte e finestre aperte verso la strada. A un certo punto davanti alla casa si ferma una macchina della polizia. L’attrice più giovane, una ragazza minuta sui 20 anni, si spaventa e fa un passo indietro, quasi come a cercare protezione in mezzo ai compagni di scena. La ragazza approfitta della situazione per raccontare una sua angoscia di questi giorni: aveva avuto una relazione con un cittadino straniero e la storia era poi finita, ma questo evento aveva sollecitato i sospetti della polizia che ha iniziato a perseguitarla con vari interrogatori accusandola di prostituzione.

Mentre la macchina della polizia si allontana gli attori raccontano quanto appena ascoltato con un insieme complesso di espressioni corporee e movimenti di gruppo che sembrano una composizione statuaria in lento movimento. La scena è molto forte, intensa ed emozionante. La giovane attrice partecipa con le lacrime agli occhi, avvolta dai corpi degli altri che la circondano fino quasi a nasconderla alla vista degli spettatori.

Provo un’emozione intensa che mi fa sentire vicinissimo a quella piccola ragazza, tanto debole quanto coraggiosa. Alla fine dello spettacolo la abbraccio e le dico che lei è più forte della polizia; mi risponde che è vero, perché i poliziotti sono tristi e lei no.

Quando è il mio turno di parlare racconto che quel mattino stavo fotografando una strada della città, quando vedo sporgere una mano che mi chiama dal piccolo finestrino di una casa. Mi avvicino un po’ perplesso e vedo dietro alla grata metallica il volto di una donna anziana che a gesti mi chiede di farle una fotografia. Provo ad accontentarla, ma lei mi ferma e mi indica di aspettare un momento. Sparisce e poi ritorna con in mano qualche cosa che non capisco cosa sia. Apre il pacchetto e con orgoglio distende dalla finestra una bandiera di Cuba: voleva una foto con la sua bandiera.

Gli attori riproducono la scena, trasformando la mano che mi richiamava in un richiamo lontano che ricorda il saluto della moglie di un marinaio mentre vede il marito allontanarsi in mezzo al mare.

Al termine dello spettacolo rimaniamo a lungo a parlare con gli attori. L’unico attore maschio accenna anche lui a un brutto trattamento subito dalla polizia, parlando di persecuzione omofoba.
E’ stata una serata straordinaria. Ognuno di noi ha dato ben volentieri i 25 euro previsti come sostegno a questo teatro, impegnato a portare la sua esperienza artistica nelle più diverse situazioni di disagio sociale. Disagi che certamente non mancano in questa isola baciata dal sole, ma violentata dagli uragani e dai governi.

I TAINOS E GLI SCHIAVI

Quando Colombo arrivò a Cuba nel 1492 trovò la popolazione dei Tainos e li descrisse come uno strano popolo che non conosceva il conflitto. In effetti, a parte un po’ di rivalità con i Caribe che abitavano altre parti dell’isola, prima dei Conquistadores europei nessuno rompeva le balle ai Tainos.

Dei 200.000 Tainos che prima di Colombo abitavano Cuba (anzi, l’isola Hispaniola), secondo Bartolomeo de Las Casas nel 1508 ne restavano vivi solo 60.000. Pochi anni dopo, nel 1531, se ne contavano circa 600. Oggi non è rimasta traccia di questo sfortunato popolo. Lo sterminio era dovuto alla spasmodica ricerca dell’oro, che induceva gli spagnoli a bruciare i villaggi Taino per trovare l’oro che, secondo loro, nascondevano.

E’ vero che l’isola di Cuba non ha miniere d’oro, ma i poveri spagnoli non lo sapevano quindi, se non lo trovavano, era chiaramente perché i Tainos lo nascondevano (un po’ come le armi chimiche di Saddam Hussein o le bombe nucleari iraniane. Se sei armato va bene, ma se non lo sei ti uccido perché fingi di non esserlo…).

Ecco così legittimato lo sterminio dei Tainos tramite uccisioni, diffusione di malattie e rapimenti vari. Oltretutto le Sacre Scritture erano state chiare: gli evangelizzatori avevano portato il Verbo in tutto il mondo. Se loro non erano cattolici era solo per una loro grave decisione colpevole, quindi ucciderli era una punizione meritata (…e poi dicono che l’ISIS si è inventato un metodo!).

In realtà allo sterminio dei Tainos hanno dato una mano anche loro stessi. Nell’estremo Est di Cuba c’è il fiume Yumuri, scavato nell’omonimo canyon, dove abbiamo fatto il bagno in mezzo a una fitta foresta. Yumuri è una parola che discende dallo spagnolo “Yo muero” (io muoio) e ricorda l’abitudine dei Tainos sopravvissuti di scalare le rocce del canyon per poi buttarsi giù, preferendo la morte a una vita da schiavi. Già, perché i colonizzatori spagnoli avevano bisogno di schiavi per coltivare la terra e quegli ingrati di Tainos, invece di ringraziarli come datori di lavoro, si suicidavano inaugurando le prime palestre di bungee jumping.

A questo punto cosa potevano fare i poveri spagnoli? Importare schiavi dall’Africa, obviously! E’ vero che lo schiavismo africano non è una bella cosa, ma in fondo era tutta colpa dei Tainos! Anche gli schiavi africani però non capivano quanto erano fortunati e, nel 1791, si ribellarono nell’isola di Haiti, proprio di fronte a Cuba. Scapparono in migliaia verso Cuba e ancora oggi nella parte est dell’isola gli abitanti hanno la pelle più scura di quelli dell’ovest; le 50 sfumature di marrone della pelle dei cubani riescono ancora oggi a battere i dettagli cromatici di PhotoShop.

LA SANTERIA

La cultura cubana ancora oggi risente molto della cultura originale africana importata dagli schiavi rubati alle loro terre dal ‘500 in poi per lavorare nei campi cubani, proprietà autodichiarata dei colonizzatori spagnoli. Gli spagnoli però erano anche ottimi educatori: con le buone o con le cattive spiegavano agli schiavi che le loro religioni animiste erano sbagliate e li invitavano, magari un po’ rudemente, ad accogliere la Verità dell’unica religione ammissibile.

Purtroppo però gli schiavi avevano la testa un po’ dura, quindi fingevano di aderire alla nuova Verità, nascondendo le loro credenze religiose sotto nuove spoglie. Nasceva così un insieme sincretico di pseudo-religioni ibride fra riti istituzionali cattolici e tradizioni animiste. Al tutto si aggiungono poi le varie sette protestanti importate dal Nord America, dando così luogo a una varietà di riti, credenze e tradizioni sufficiente a mettere in difficoltà anche il miglior antropologo.

Uno di questi prodotti sincretici è la Santeria, termine dispregiativo con cui gli spagnoli indicavano il modo in cui gli schiavi pregavano i santi cattolici. In realtà i furbi schiavi fingevano di pregarli, per evitare la condanna a morte, ma dietro queste esibizioni di cattolicesimo superficiale nascondevano la continuazione dei riti animisti africani (un po’ come i mafiosi nostrani molto devoti alla Madonna, che nascondono il loro vero credo sotto riti superficiali in cui non credono).

La Santeria esiste anche oggi. Una sera siamo capitati per caso a fianco di una casa al cui piano terra era in corso un rito santerico. Richiamati dalla forte musica che stordiva e ipnotizzava la gente che cantava in modo ossessivo, ci siamo avvicinati con grande prudenza, convinti di venire respinti come estranei.

E’ stata invece una sorpresa imbarazzante venire invitati all’interno della stanza, una normale stanza di pochi metri quadrati, al cui interno cantavano una cinquantina di uomini e donne con tamburi e altri strumenti tradizionali. Il rumore era assordante e il clima molto eccitato, ma l’invito non aveva nulla di “evangelizzante”; esternava solo la voglia dei presenti di farci conoscere quello che stavano facendo con tanto impegno, passione e convinzione.

Fra i comportamenti di queste religioni simil-cristiane c’è il rito di purificazione che per un intero anno impone ad alcuni volontari di vestirsi totalmente di bianco. Ogni tanto si vedono per strada uomini o donne vestiti di bianco, con scarpe e calze bianche e, spesso, anche ombrello bianco. Per un anno intero questi purificandi non possono mangiare alcuni alimenti proibiti e non possono toccare direttamente un altro essere umano. Nei negozi toccano la merce mentre il venditore non la tocca e nessuno può stringere loro la mano. Sarò forse un po’ superficiale, ma vedendo alcune belle ragazze vestite così (ma anche alcuni ragazzi) penso che stiano dilapidando un patrimonio dell’umanità…




protezione civile e giornalismo tv

Non so quanti di voi hanno visto la puntata di "in mezz'ora" dell'Annunziata, domenica pomeriggio.

Ecco, avevo proprio bisogno di qualcuno che mi facesse girare le palle. In sintesi una messa sotto accusa della Protezione Civile (PC) nella figura del suo capo Curcio.

Se abbiamo una cosa buona in Italia, non mi stancherò mai di dirlo, è quella struttura. Ma no, non basta mai nulla, non basta che in poche ore dopo un sisma, una nevicata, si mobilitino mezzi e uomini da mezza Italia, no è colpa della PC se non si era preparati ad affrontare una nevicata eccezionale (l'ultima è stata 50 anni fa), come se la PC fosse una specie di esercito con una rigida catena di comando, come se Curcio fosse responsabile di ogni turbina non utilizzata al meglio, di ogni funzionario pubblico con responsabilità (Sindaco, Capo di provincia, responsabile dell'ENEL) nella catena.

La signora non capisce che se a Chieti ci sono spazzaneve senza catene la responsabilità non è della PC ma di un sindaco che non verifica il contratto che ha fatto con un privato. Se l'allarme per l'hotel Rigopiano è partito in ritardo è colpa della PC non magari della catena decisionale tra carabinieri, sindaco e prefetto.

Ma cosa crede la gente? Che una struttura che per oggetto l'eccezionalità, sia pronta ad affrontare ogni emergenza come un ufficio postale a distribuire la posta ogni giorno? Ma qualcuno prova mai a pensare cosa vuol dire gestire insieme 4 scosse di grado superiore a 5 Richter nel bel mezzo di una nevicata con punte oltre i 2 m?

La PC non ha centinaia di migliaia di dipendenti che passano il tempo davanti a una stufetta e si scuotono solo quando accade l'emergenza. No. Una struttura così non ce l'ha nessun paese al mondo. E' un sistema di coordinamento che coinvolge: prefetture, comuni, forze armate, polizia, vigili del fuoco, moltissime organizzazioni di volontariato e deve essere capace di mobilitare queste forze di fronte a qualunque evento, in qualunque parte d'Italia.

Quindi reca in sé tutti i bachi che ci sono in ognuna di queste strutture, amplificate dal coordinamento multilaterale. Se si vuole dare la colpa a qualcuno, si ricerca l'autore della mancanza sul fatto specifico, non si spara sulla struttura. Se si vogliono i colpevoli sono distribuiti in 70 anni di democrazia, in 64 governi, in tutte le amministrazioni comunali, provinciali e regionali ecc, ecc. E qualunque populista dica che queste cose si risolvono con la bacchetta magica è solo un poveretto incapace di avere una visione attuale della realtà o è in mala fede.

Viva la protezione civile e le migliaia di persone che si stanno ammazzando di lavoro per aiutare chi soffre o è in difficoltà.

E adesso spunta la diga di Campotosto "a rischio di eventi tipo Vajont". Io mi chiedo se il presidente della commissione grandi rischi abbia la testa a posto.

Con ordine: essendomi occupato della sciagura del Vajont (solo 44 anni fa), posso dire che quell'evento fu ben prevedibile. La frana che si attivò con l'allagamento progressivo del bacino, continuò per svariati anni, prima di precipitare, e fu tanto studiata che si disponeva dei grafici che dimostravano l'accelerazione degli spostamenti nel tempo.

Non se ne tenne conto, si fecero simulazioni "truccate" per dimostrare che l'evento non poteva essere disastroso e finì come sappiamo.

A Campotosto non vi sono frane segnalate e anche se in geologia non si può mai escludere nulla al 100%, non vi sono elementi per asserire che vi sia un rischio attuale. Diverso è il fatto che la zona sia in prossimità dell'ultima serie di epicentri e che vi siano numerose faglie, di cui almeno una attiva, in prossimità del bacino.

La diga viene monitorata e non presenta segni di cedimenti o fratture. Ma il problema grande è in questa situazione di caccia alle streghe, irresponsabilmente accentuata dai media, che il responsabile della commissione grandi rischi rilasci un'intervista di questo tipo.

Se c'è un problema va allertata la protezione civile e vanno dati ordini di sgombro o di intensificazione del monitoraggio e preparati piani di evacuazione, tenendo conto delle difficoltà dovute all'emergenza neve. Altrimenti si taccia e si eviti di creare inutili allarmi non seguiti da alcuna operatività.

Comunque il secondo colpevole di questa nuova ondata di panico è ancora una volta il sistema mediatico che, invece di approfondire, aumenta il panico con titoli tipo "Campotosto come il Vajont?". Oh avessi visto uno andare a intervistare uno dell' ENEL e chiedere "quali sono i protocolli di monitoraggio?", che è l'unica cosa che conta.