Che cosa sono le BR – recensione

intervista ad Alberto Franceschini

Non intendo proporre una sit-com intitolata le BR. Con la intervista al secondo dei padri-fondatori; considero esaurito l’argomento perchè l’Italia è ormai un’altra cosa, chi doveva pagare ha pagato, chi poteva parlare e spiegare lo ha fatto, oppure è stato zitto oppure ha peccato per omissione; però è comunque bene che alcune cose si sappiano e tra queste alcune che riguardano l’assassino di Moro, Mario Moretti.

La intervista a Franceschini è del 2004, lui è uscito di galera nel 1998 da dissociato, si è fatto 24 anni di galera e ha usufruito di qualche sconto di pena dovuto alla dissociazione (era stato arrestato insieme a Curcio attraverso l’infiltrato Girotto-frate-mitra).Il libro è fatto di due parti:

  • l’infanzia e l’adolescenza di Franceschini, la storia del gruppo di Reggio Emilia (detto dell’appartamento perché aveva sede in un appartamento nel centro storico di Reggio) formatosi a partire dal 67 intorno alla FGCI reggiana. Sul gruppo dell’appartamento consiglio di leggere la recensione al film-documentario Il sol dell’avvenire sceneggiato da Fasanella che contiene anche il link per visualizzarlo su YouTube.
  • La storia di Franceschini nelle BR dal 70 al 74 in libertà e successivamente da detenuto osservatore critico della leadeship di Mario Moretti. Nei suoi  confronti e in quelli del suo mentore Corrado Simioni, Franceschini oscilla tra un giudizio di critica di militarismo e il sospetto che si tratti di infiltrati del giro dei servizi segreti (tra CIA e KGB).

Reggio Emilia, l’adolescenza la radicalizzazione della FGCI e la lotta armata

Alberto Franceschini viene da una famiglia operaia con un nonno Andrea (classe 1887) tra i fondatori del PCdI, confinato con Secchia e Pertini, partigiano nelle SAP. Dopo la liberazione la famiglia fece da custode della Camera del Lavoro di Reggio mentre il nonno, vedovo, si innamorò di una ragazza del Casino di Reggio la sposò ed ebbe una figlia (una zia più giovane di Alberto).

Di questa famiglia tutta PCI c’è il ricordo della vertenza per non pagare il canone RAI della radio, perché loro ascoltavano solo le trasmissioni in italiano di radio Praga e radio Mosca e mi viene in mente che alla metà degli anni 60 anche io smanettavo con una radio ad onde corte con cui la sera ascoltavo radio Praga e radio Tirana (c’era un po’ di emozione nell’ascoltare la internazionale nell’etere).

Alberto è attivo sin da giovanissimo, a 13 anni è in piazza alla manifestazionbe per le Reggiane che finirà con i morti di Reggio Emilia. Ci racconta di una FGCI con 12 mila iscritti su 150 mila abitanti, delle prime lotte contro lo sfruttamento da parte delle aziende della Lega delle cooperative  e della maturazione di posizoioni antimperialiste e anti Nato cresciute intorno alla guerra del Vietnam.

C’è però un elemento di differenza rispetto alle pulsioni della meglio gioventù, questi giovani si raccordano con gli ex partigiani e ben presto iniziano a ragionare di lotta armata andando a raccattare le armi nascoste sull’Appennino. In proposito viene citato nei dettagli un episodio riguardante una partita di Sten ancora imballati nei sacchi con cui erano stati paracadutati. La Luger che si vede nella foto del primo rapimento BR, quello di Idalgo Macchiarini gliela aveva data il suo segretario di sezione che nel primo dopoguerra era fuggito in Cecoslovacchia in quanto imputato di avere giusiziato il direttore delle Reggiane. A partire dal 67 iniziano ad andare in montagna ad esercitarsi a sparare.

Pian piano la situazione con il partito si fa tesa; si è formato il gruppo dell’appartamento in cui si ritrova il filone guevarista proveniente dalla FGCI, psiuppini, anarchici ma anche gruppi del neonato dissenso cattolico. In questa occasione Franceschini conosce Corrado Corghi, ex segretario regionale della DC, esponente del dissenso cattolico e di quei settori che guardano a Camillo Torres e alla lotta armata in America Latina.

Corrado Corghi, ben introdotto negli ambienti vaticani e amico di Fidel Castro farà da mediatore con il Vaticano e con Cuba per garantire l’espatrio di quelli della banda XXII ottobre che avrebbero dovuto essere liberati in cambio della liberazione del giudice Mario Sossi (primo sequestro importante con detenzione del reapito, organizzato da Curcio e Franceschini nel 74). La liberazione saltò per la opposizione del Procuratore Generale Coco che si rifiutò di firmare la scarcerazione e per questo, due anni dopo venne trucidato insieme alla sua scorta dalla colonna genovese delle BR.

Il partito, per controllare il gruppo, propone di pagare l’affitto, ma quelli dell’appartamento si fanno un vanto di operare in proprio, lavoretti, contributi da Feltrinelli e più avanti anche le prime rapine. Il segretario della commissione federale di controllo, già comandante della brigata del nonno, propone a due dei leader (tra cui Franceschini) di prendere unm anno sabbatico e di andare a Mosca all’università Lomonosov a seguire corsi di marxismo-leninismo; i due rifiutano e si arriva alla rottura.

Pian piano il gruppo dell’appartamento cresce e diventa famoso nel mondo della contestazione e così arrivano i pellegrinaggi perché quella realtà fa gola: arriva De Mori del Cub Pirelli, arriva Curcio, arrivano Magri e la Castellina in giro a costruire la rete del Manifesto (il resoconto di questo incontro è esilarante).

Lucio Magri e Luciana Castellina. Stavano girando l’Italia per reclutare gente dal Pci. E vennero anche da noi perché eravamo già conosciuti come il «gruppo di Reggio». Ci  esposero le loro tesi, noi li ascoltammo. Poi, finita l’assemblea, verso l’una, io e Gallinari  rimanemmo a chiacchierare con loro. Magri me lo ricordo benissimo per un particolare: eravamo a dicembre e lui era abbronzatissimo. Gli dicemmo che non avevamo capito bene quali fossero le sue posizioni e gli chiedemmo di spiegarci che cosa pensava della lotta armata.
Magri tergiversava, o non aveva le idee molto chiare, o forse aveva paura di sbilanciarsi. Allora gli dicemmo fuori dai denti che noi, la rivoluzione, la stavamo organizzando sul serio. Lui ci guardò come stralunato, poi gli caddero le braccia e disse: «Ma allora, se voi volete fare veramente queste cose, io me ne torno a sciare». «Tu tornerai a sciare», gli rispose serissimo Gallinari, «non noi». E Magri non si fece più vivo.

La fondazione delle BR e uno strano personaggio

Franceschini viene radiato dal PCI nel dicembre del 69 ma nel corso dell’estate a Chiavari si è costituito, per azione di Renato Curcio e Corrado Simioni, il Collettivo Politico Metropolitano.

Corrado Simioni (1934-2008) ha avuto dei trascorsi nel PSI da cui è stato radiato per indegnità morale, è uno studioso di Pirandello e in quel momento lavora alla Mondadori. E’ lui a recarsi a Reggio per mandare in porto l’operazione recuperodei dirigenti dell’appartamento (hanno obiettivi comuni: “la lotta armata, la rivoluzione, la clandestinità“.

Mentre Renato era il leader da assemblea, molto comunicativo, capace di infiammare la gente, Simioni era l’opposto: di poche parole, riflessivo, non ci teneva a mettersi in mostra, ad apparire. Erano molto solidali, rapporti anche di complicità. Come se si fossero divisi i compiti: a Renato il ruolo pubblico, a Corrado quello più discreto della cura delle relazioni.
Immediatamente non si avvertiva la sensazione che uno fosse più importante dell’altro. Però, quando cominciavi a parlare con Simioni, ti accorgevi che era molto colto e che  usava la sua cultura come uno strumento di potere sugli altri. Alla fine ti rimaneva l’impressione che il vero capo del Cpm fosse lui, non Curcio

Simioni ha le relazioni con i movimenti rivoluzionari in giro per il mondo (e questo, dopo il suo trasferimento a Parigi sarà l’elemento caratterizzante). Il CPM ruota intorno ad alcuni padri fondatori: un pezzo di CUB Pirelli, Duccio Berio e Vanni Mulinaris (da sociologia di Trento), Italo Saugo (legato a Feltrinelli), un gruppo di ingegneri IBM controllati da Simioni, il gruppo dei tecnici della Siemens tra cui Mario Moretti.

Renato era il personaggio pubblico: interveniva nelle assemblee, incontrava i leader degli altri gruppi che si stavano formando, insomma era quello che faceva politica alla luce  del sole. Simioni, invece, operava sempre dietro le quinte. Lui doveva rimanere coperto perché stava preparando il passaggio alla lotta armata, stava organizzando la rete logistica, le strutture clandestine. Si sapeva che c’era chi stava facendo questo lavoro, e che questo era Simioni. Tant’è che il Cpm, già allora, era in grado di esprimere una capacità militare durante i cortei.

Il gruppo controllato da Simioni è soprannominato delle zie rosse perché è composto prevalentemente da donne e ne fa parte Mara Cagol. Le zie rosse si occupano di servizio d’ordine attivo durante i cortei. E’ già in questa fase che avvengono le prime incrinature tra Curcio-Franceschini e Simioni.

Franceschini è colpito dalla scarsa trasparenza di Simioni  che pretende di mettere alla prova i compagni mentre poco o nulla si sa di lui che gira in Maserati perché un vero rivoluzionario non deve destare sospetti   (come vive, quali sono le sue entrate, quali sonoi i suoi rapporti con i GAP di Feltrinelli).

Scheda tutti i militanti con un questionario dettagliato ai limiti della patologia. Questi questionari saranno poi consegnati ad un ex partigiano comunista emigrato in Cecoslovacchia per sfuggire ad una condanna per omicidio ai tempi della Volante Rossa. L’ex partigiano viene presentato a Mara da Simioni che di lui si fida. Più tardi, dopo che Simioni si è trasferito in Francia con Berio e Mulinaris, emergerà che Roberto Dotti (era a lui che avrebbe dovuto rivolgersi nel caso in cui avesse avuto bisogno di soldi o di altri aiuti) era legato alla associazione di Edgardo Sogno e Franceschini quando lo scopre si chiede anche se in realtà non fosse rimasto legato al KGB.

Il 2 settembre del 70 una italiana e un profugo greco saltano per aria (difetto del timer, stesso tipo di quello di Feltrinelli) mentre si stanno recando all’ambasciata americana di Atene per un attentato dimostrativo.

Alla lettura del giornale Simioni sbianca, dichiara che l’attentato l’ha organizzato lui e che la donna era una delle sue amanti. Curcio è allibito e la cosa più grave è che emerge che al posto della donna avrebbe dovuto esserci Mara che però si era rifiutata. Simioni non si limita a quello:

Scoprì sino in fondo le sue carte. Rilanciò proponendoci di compiere due attentati, che lui aveva già preparato. Voleva che uccidessimo due ufficiali della Nato, a Napoli, durante una visita di Nixon in Italia. E poi che ammazzassimo anche Junio Valerio Borghese, durante un comizio che il leader di Avanguardia nazionale aveva programmato in una piazza di Trento… Secondo lui, quelle azioni di altissimo livello militare sarebbero servite a «innalzare il livello dello scontro», costringendo la sinistra extraparlamentare a misurarsi su un nuovo terreno. L’effetto sarebbe stato che i pacifisti e gli opportunisti sarebbero stati spazzati via; mentre i veri rivoluzionari si sarebbero forgiati nello scontro. Nel frattempo, noi avremmo costruito l’organizzazione clandestina in cui sarebbero confluiti i rivoluzionari di tutta la sinistra.

Franceschini e Curcio si rendono conto che molte cose non quadrano (il libro è ricco di altri dettagli) e decidono di interrompere i rapporti. La rottura è verticale sia nel gruppo dell’appartamento sia tra i milanesi. Tra gli altri se ne vanno Prospero Gallinari e Mario Moretti (quest’ultimo in maniera ambigua). Ad onor del vero Moretti, ufficialmente se ne va in polemica con Simioni e lo sostiene in maniera netta nella su intervista rilasciata a Rossana Rossanda (Brigate Rosse: una storia italiana – Mario Moretti (recensione).

Si forma il gruppo dei superclan (abbreviazione di superclandestini) e sull’altro versante nascono le BR. Il superclan non riesce a combinare nulla e pian piano gli esponenti di Sinistra Proletaria che erano andati con Simioni tornano all’ovile mentre Simioni, Mulinaris e Berio vanno in Francia dove metteranno in piedi una organizzazione che si occuperà di coordinamento di organizzazioni rivoluzionarie in giro per il mondo (Spagna, Palestina, Irlanda, America Latina) e resterà sempre il dubbio di legami con i servizi segreti (Mossad, CIA, KGB).

Un dato interessante è che dei tre protagonisti del superclan non ci sono immagini in rete; l’unica immagine di Simioni è quella in eveidenza con l’Abbè Pierre in visita a Giovanni Paolo II. Rimane in tutto il libro l’ipotesi che Mario Moretti avesse una impostazione poco politica e militarista di suo o che sia stato eterodiretto da quelli del superclan (segnalo in proposito il capitolo 10, le stranezze di Moretti).

Il rapimento Sossi (1974)

So tratta della prima operazione importante delle BR (dopo i mini attentati alle auto dei capetti di fabbrica o i rapimenti mordi e fuggi). L’operazione è molto complessa e viene gestita da Franceschini con responsabilità diretta e da un esecutivo in cui sono presenti oltre a lui Curcio, Cagol e Moretti.

Il racconto della vicenda è molto dettagliato: la cattura, il trasferimento nell’alessandrino, gli interrogatori e le ammissioni da parte di Sossi, la presenza di un infiltrato scoperto a posteriori, le trattative con il coinvolgimento del vaticano, la svolta negativa allo scambio con il gruppo della XXII ottobre imposta da Coco, il rischio imminente di una strage pianificata dal ministro degli interni Taviani, le paure di Sossi.

Non c’è tempo da perdere; Moretti, sostenitore della linea di uccisione di Sossi (secondo lo stesso schema che applicherà nel caso Moro, resta in minoranza nell’esecutivo e Sossi viene camuffato e liberato su sua richiesta a Milano in modo che possa tornare a Genova in treno e consegnarsi alla Finanza (gli unici di cui si fida). L’accusa congiunta di Curcio e di Franceschini a Moretti è che non sia in grado di gestire politicamente le situazioni, che pecchi di militarismo e che vada estromesso dall’esecutivo.

la cattura dei capi storici e il rapimento e assassinio di Moro

Nel giro di pochi anni si susseguono la cattura di Curcio e Franceschini (settembre 74) grazie alla infiltrazione di Silvano Girotto (frate mitra) in un contesto in cui emergono ombre di leggerezza o peggio nei confronti di Moretti, la liberazione di Curcio dal carcere di Casale (febbraio 75) con una azione militare condotta da Mara Cagol, il rapimento Gancia  e la sua liberazione alla cascina Spiotta con uno scontro armato in cui muore un carabiniere e successivamente viene uccisa Mara Cagol (giugno 75).

La versione di Franceschini e delle BR diceche Mara è stata giustiziata con una calibro 22 da un carabiniere in borghese che le spara un colpo all’ascella da distanza ravvicinata mentre lei ha le mani alzate in segno di resa. C’è un testimone oculare (il brigatista fuggito e nascosto nei dintorni che non sarà identificato ma darà la sua versione alle BR).

Allo stesso modo (con l’intenzione di uccidere) fu programmato l’arresto di Giorgio Semeria (marzo 76) con tentativo di uccisione per coprire chi lo aveva venduto.  Semeria avrebbe dovuto diventare il nuovo capo delle BR dopo il nuovo arresto di Curcio. In questo contesto le nubi si addensano su Moretti (Curcio e Semeria lo accusando di essere una spia) e nel libro si trovano i fatti e le circostanze.

Ovviamente la stessa domanda io la posi a Renato. E lui mi raccontò un episodio relativo al suo secondo arresto. Dopo la nostra cattura alla stazione di Pinerolo, Renato infatti era riuscito a evadere, ma quasi un anno dopo lo avevano ripreso.
Era una domenica, il giorno in cui era stato catturato la seconda volta. ll giovedì precedente aveva avuto una riunione di esecutivo piuttosto tesa con Semeria – in quel momento ancora in libertà – e Moretti. Terminata la riunione, Moretti disse che era stanco e che non aveva voglia di tornare a Genova, dove viveva in quel periodo; perciò chiese a Renato se poteva fermarsi a dormire da lui. Renato rispose di no, non sarebbe stato prudente: la regola della compartimentazione imponeva che nessuno sapesse dove dormivano gli altri. Moretti insistette e, alla fine, Curdo se lo portò a casa. Tre giorni dopo, la domenica, Renato fu arrestato nel suo appartamento insieme a Nadia Mantovani.

Moretti diventa il capo delle BR e inizia la fase sanguinaria della organizzazione. Dapprima la uccisione di Coco e della sua scorta (giugno 76) e via verso il caso Moro

Gallinari era stato arrestato alla fine del 1974. Nel 1 976 era imputato con noi nel primo processo al nucleo storico delle Br. E fu lui a leggere in aula il comunicato di rivendicazione dell’omicidio Coco. Poi, sospeso il processo, nessuno di noi tornò nel carcere di provenienza, ci trasferirono tutti in prigioni di massima sicurezza. Tutti, tranne Gallinari, che tornò a Treviso, un altro carcere-albergo come quello di Casale
Monferrato. E infatti, nel gennaio 1977, riuscì a evadere. Nelle sue memorie, pubblicate dopo la sua morte, Taviani rivela che consentirono a Gallinari di evadere perché, seguendo lui, volevano prendere Moretti. Solo che, Moretti, non lo presero. … Comunque, dopo l’evasione da Treviso, Gallinari entrò subito nell’esecutivo e divenne il braccio destro di Moretti. A quel punto, con due dei suoi uomini al vertice delle Br, il disegno di Simioni poteva dirsi davvero compiuto.

Al termine del sequestro Moro alcuni dei protagonisti arrestati finiscono in carcere e Curcio li spazzola:

Noi continuavamo a chiedere a quelli fuori: ma Moro che cosa ha detto? E loro continuavano a ripetere che non aveva detto niente di interessante. Poi, però, arrestano Bonisoli e Azzolini, nell’ottobre 1 978 scoprono il covo di via Montenevoso a Milano, trovano il «memoriale» di Moro e noi leggiamo tutto sulla «Repubblica». A quel punto ci arrabbiamo. Durante l’ora d’aria, all’Asinara, Curdo prende da parte Bonisoli e Azzolini e li strapazza: «Ma come, ci avevate detto che Moro non aveva parlato ! Se aveste pubblicato anche solo un decimo delle cose che abbiamo letto sulla «Repubblica», sarebbe scoppiato un tale casino ! Siete dei deficienti totali, oppure avete in testa qualche altra cosa?».

E si sta parlando solo delle confessioni di Moro depurate da Moretti, quelle integrali saranno scoperte anni dopo nel tramezzo murato di via Monte Nevoso.

Dalla lettura della intervista di Franceschini non si può concludere che Moretti fosse una spia o che invece fosse eterodiretto dai capi del Superclan che stavano a Parigi e che il suo militarismo, oltre che da elementi caratteriali fosse figlio di quel rapporto.


Che cosa sono le BR. Le radici, la nascita, la storia, il presente
Giovanni Fasanella , Alberto Franceschini
Rizzoli – Pubblicazione: 5 Maggio 2004 ISBN: 8817002348 Pagine: 240 12 €





A viso aperto – intervista di Mario Scialoja a Renato Curcio

Si tratta di un libro datato (marzo 1993) ma che ha il pregio di ripercorrere l’esistenza di Renato Curcio dalla nascita alla uscita dal carcere dopo 24 anni nello stiel della intervista che consente la trattazione breve e diretta delle diverse questioni e me lo sono letto nell’ambito del percorso di analisi biografica dei capi dell BR alla ricerca di motivazioni, pulsioni e diversità. Il tutto è stato innescato dalla morte di Barbara Balzerani che, come Renato Curcio è stata una esponente di primo piano delle BR, non pentita, non dissociata ma nemmeno irriducibile.

Curcio è stato il padre fondatore, non è stato mai convolto direttmente in omicidi, ha gestito tutta la fase iniziale di sviluppo della organizzazione e da subito dopo l’uccisione della moglie ha vissuto l’evoluzione della politica delle BR dalla propaganda armata, agli omicidi, al sequestro Moro, alla gestione Moretti che non condivideva sino alla disfatta..

La sua vicenda personale è quella di un figlio di ragazza-madre. Il padre, il fratello del regista Luigi Zampa, molla la madre incinta e dunque i suoi primi anni di vita avvengono tra disagio e miseria con ricordi felici tra le valli valdesi e la imposizione di una scuola superiore (perito chimico) scelta perché gli negarono il liceo artistico. Al termine delle superiori R.C. molla la madre a Sanremo e se ne va a Genova vivendo di espodienti nel centro storico finchè, ormai alle sogle della vita da barbone alcolista qualcuno gli parla della facoltà di sociologia a Trento. Ci va e grazie ai voti con cui si era diplomato riesce ad avere borsa e collegio universitario.

Gli anni di Trento sono raccontati con entusiasmo sia per le aperture culturali (alle scienze umane) sia per le figure di docenti importanti (da Alberoni a Prodi ad Andreatta), sia per i compagni di sodalizio studentesco (da Marco Boato a Marianella Sclavi, da Mauro Rostagno alla futura moglie Margherita Cagol). Sono anni in cui Curcio si batte per garantire la autonomia della nuova facoltà entrando a contatto con l’establishment democristiano ed in quegli anni si sposa con Margherita il 1° agosto del 69 alle 5 del mattino presso l’eremo di San Romedio. E’ previsto un viaggio di nozze all’insegna della avventura ma in quei giorni avviene l’incontro con De Mori del Cub Pirelli (” Col senno di poi posso dire che l’incontro con questo personaggio grintoso e trasognato segnò per me una nuova discontinuità radicale. Voglio dire che il suo discorso mi spinse sul sentiero che, nel giro di due anni, mi portò alle Brigate rosse.”).

Il libro è tutto da leggere ed è impensabile fare qui il riassunto. Mi limito ad evidenziare i punti salienti:

  • fondazione del Collettivo Politico Metropolitano intorno ai tecnici della Siemens (tra cui Mario Moretti) e ad una delle componenti del Cub Pirelli (l’altra con Mosca e Cipriani strizzava lì’occhio alla nascente Avanguardia Operaia
  • trasformazione del CPM in Sinistra Proletaria (convegno di Chiavari): “Uno dei problemi da affrontare era quello «dell’organizzazione della forza»: così avviammo un’intricata discussione sul ruolo e i metodi del servizio d’ordine, ossia di quel nucleo duro d’azione che ogni gruppo extraparlamentare aveva creato nel proprio interno. E nel documento elaborato al convegno di Chiavari, il cosiddetto «Libretto giallo», parlando dell’autonomia operaia introducemmo per la prima volta una riflessione sull’ipotesi della lotta armata.”
  • settembre 70 (convegno di Pecorile) ci si avvia verso la fondazione delle BR e si discute del tema della forza e si inizia a bruciare le auto dei capetti. Inizia un rapporto personale tra Curcio e Feltrinelli (che ha organizzato i GAP raccogliendo vecchi partigiani delusi, gira il mondo e racconta di America Latina
  • marzo 72 sequestro per poche ore di Macchiarini e precedenti esperienze di rapine per acquisire soldi ma soprattutto esperienze di controllo delle operazioni; Sul cartello, sotto la sigla Brigate rosse, avevamo scritto: «Mordi e fuggi. Niente resterà impunito. Colpiscine uno per educarne cento. Tutto il potere al popolo armato». Dopo il rapimento Macchiarini, che dura poche ore, il gruppo dirigente viene braccato dalla polizia e inizia la clandestinità.IL gruppo delle BR (12 persone) lascia MIlano e si sposta a Mirafiori. Margherita ed io ci saremmo trasferiti a Torino, mentre Franceschini e Bertolazzi, dopo aver rintracciato Moretti che risultava ancora disperso, dovevano provare a rimettere in piedi l’organizzazione a Milano.
  • febbraio 73 rapimento del sindacalista Cisnal Labate che viene interrogato sui meccanismi usati dalle dirigenza Fiat per il controllo operaio tramite capi, cepetti, sindacato giallo e ricatti. Labate viene ammanettato ad un lampione mentre le BR volantinano tra il giubilo degli operai. Il consenso delle BR tra gli operai radicalizzati a Milano come a Torino cresce e si rafforza con il successivo rapimento e interrogatorio di Amerio.
  • Il 18 aprile del 74 con una azione preparata da Curcio, Cagol, Franceschini, Bonavita, Ognibene, Ferrari e il supporto della neonata colonna genovese viene sequestrato il giudice Sossi un pm con trascorsi neofascisti e che era stato in prima linea nel processo a Rossi e a quyelli della banda feltrinelliana del XXII ottobre. Si era in piena campagna referendaria sul divorzio e ho bene in mente lo sconcerto che ci colse. Ci era sembrata una vera provocazione pensata per dare supporto ai fascisti e alla DC fanfaniana.”Gli sviluppi del sequestro Sossi sono piuttosto noti. Lui, pavido e impaurito, collaborò in pieno, raccontò dei loschi traffici di Umberto Catalano, capo della squadra politica della Questura di Genova e uomo di mano di Paolo Emilio Taviani, delle inchieste insabbiate, dei processi politicizzati e truccati, delle oscure manovre attorno al rapimento del ricco genovese Gianfranco Gadolla..” La richiesta è quella di liberare quelli della XXII ottobre e sembra cosa fatta con il consenso della Corte d’Appello sùdi Genova  quando il Procuratore Generale di Genova Coco si oppone e non firma e le BR rilasciano comunque Sossi. Nello stesso periodo (a giugno) nel corso di una azione nella sede MSI di Padova tesa a ricercare elementi sulla strage di Brescia da parte della nascente colonna veneta avviene il primo fatto di sangue. Come conseguenza di un fallo di reazione vengono uccisi due militanti missini. Curcio racconta la cosa coin sconcerto “L’azione di via Zabarella non aveva niente a che vedere con ciò che le Br stavano facendo, non rientrava nei nostri piani. Noi ormai puntavamo al «cuore dello Stato», cioè alla Democrazia cristiana. Non vedevamo più nei fascisti un pericolo reale ed anzi contestavamo a quelle parti di movimento ancora impegnate nel cosiddetto «antifascismo militante» di essere fuorviate da una cultura post-bellica, tutto sommato di comodo, arretrata e mascheratrice…. I morti di via Zabarella, come ho detto, li considerai subito un disastro politico, un errore molto grave. L’idea di uccidere consapevolmente in quel periodo la escludevo: ritenevo che per il nostro tipo di organizzazione sarebbe stato un passo controproducente e negativo. Devo però ammettere in tutta sincerità che nell’ottica dello sviluppo della lotta armata il fatto che vi potessero essere dei morti, sia fatti da noi che fatti a noi, era un’eventualità che avevo senz’altro accettata. In piena coerenza con il pensiero e l’esperienza del marxismo rivoluzionario, anche io ero convinto che il prezzo della morte, per quanto tragico, fosse una necessità nel passaggio a una società senza oppressione… Decidemmo così di scrivere un documento il cui succo era questo: l’azione di Padova è delle Br, ma non è stata programmata dall’organizzazione perché la nostra linea politica è un’altra; non poniamo al centro della nostra attenzione i fascisti e tanto meno sosteniamo che vanno ammazzati; i fascisti non sono il vero nemico e, se anche avessero qualcosa a che vedere con la strage di Brescia, il loro ruolo non può essere che secondario; la responsabilità di questo tipo di stragi va ricercata anzitutto all’interno dello Stato. L’elemento paradossale della intera vicenda è che dei 30 anni complessivi di condanne che Curcio si è preso 16 riguardano il concorso morale in questo evento.
  • Curcio viene arrestato nel settembre 74 insieme a Franceschini grazie alla azione dell’infiltrato Silvano Girotto (frate mitra) e sarà liberato dal carcere di Casale grazie ad una azione militare guidata dalla moglie nel febbraio del 75 (non entra nei dettagli ma sia rispetto a questo evento, sia rispetto al periodo dell’Asinara, ricorda che durante i colloqui riuscivano a far passare sia informazioni sia esplosivi). “Quell’azione può anche essere considerata sotto l’aspetto personale e romantico, ma in sostanza è stata un’azione politica in applicazione di uno dei principi cardine della lotta armata: la liberazione dei prigionieri.” Dopo l’evasione Curcio va a Milano lavora con Walter Alasia e in quel contesto emergono i primi contrasti interni al gruppo dirigente tra una visione più movimentista (la sua) e una che propone agli insoddisfatti di lasciare il movimento ed entrare nelle BR.
  • Nel giugno del 75 le BR, preso atto che la organizzazione costa molto (appartamenti e mantenimento dei regolari, come vengono chiamati clandestini) e che i proventi delle rapine non bastano tentano il colpo grosso con il rapimento di uno deui rampolli della Gancia. Durante la gestione delle trattative qualcosa va storto, per mancato rispetto delle norme che si erano stabilite e i carabinieri che perlustravano le campagne della zona arrivano alla cascina, ci sono due conflitti a fuoco, nel primo muore un carabiniere enel secondo viene uccisa Mara Cagol (sul tema ci sarà una grande polemica perché la Cagol risulta uccisa da un colpo entrato dalla ascella sinistra, come se avesse le mani alzate, ma Curcio non ne fa cenno). “La morte di Margherita, mia moglie, una nostra compagna, una capo colonna, e anche la morte di un carabiniere, padre di famiglia: questo l’epilogo drammatico di un’operazione che avevamo studiato in modo da evitare lo scontro a fuoco. Il grave fallimento ci portò a una durissima autocritica, ma anche alla presa di coscienza che continuare per la nostra strada significava accettare in concreto – e non solo come ipotesi astratta – il peso della morte, sia nel nostro campo che in quello avversario.”
  • Il 18 febbraio del 76 Curcio viene arrestato a Milano a causa della leggerezza di un brigatista che aveva lasciato l’auto con le targhe false in sosta vietata e da lì in poi la storia delle BR cambia.
  • Curcio riceve la notizia del rapimento Moro in carcere a Torino: “Debbo dire che percepii subito un dislivello molto forte tra le capacità politiche delle Brigate rosse che agivano all’esterno e i problemi politici che un’azione così rilevante avrebbe posto. Ebbi la netta sensazione che l’azione compiuta rappresentasse un passo più lungo della gamba….capii che con Moro veniva ad essere colpito un vasto disegno politico in atto nel paese e che quell’iniziativa avrebbe avuto delle conseguenze politiche più gravi di quelle poliziesche.”.

Il gruppo dirigente storico assume una posizione del tipo noi siamo in carcere e si tratta di una operazione pensata e gestita da chi sta fuori, approviamo ma teniamo distinti ruoli e responsabilità. Curcio si augura che possa andare come nel caso Sossi, anche se si rende conto che si tratta di una cosa più grossa:” Nel caso del giudice Sossi il nostro scopo non era stato quello di uccidere un uomo, ma di realizzare un’ azione di propaganda dimostrando la nostra capacità di tenere un prigioniero per quindici giorni e guadagnare una grande popolarità. E scegliemmo di restituire il giudice vivo anche se lo Stato con i suoi inganni fece di tutto per favorire un epilogo tragico. In quell’occasione sapemmo reagire senza intransigenza e stupidità, facendo prevalere la ragione politica. Con Moro la decisione non dipendeva più da me. La logica delle Br si era irrigidita, la loro ottica era cambiata. Non avevo nessuna certezza… e, di fronte a un evento clamoroso come il sequestro di Moro, ci sarà ben qualcuno in Italia capace di ragionare e di escogitare una soluzione accettabile; magari una contropartita indiretta e non immediatamente percepibile, come la liberazione di qualche guerrigliero in qualche parte del mondo.”

  • Il capitolo dedicato al caso Moro è interessante e ricco di notizie riguardanti la discussione interna eseguita ex post (colloqui tra Curcio e Moretti) e tutta la fase della trattativa con interventi esterni di vario tipo (esemplare quelloi di Franca Rame) in cui il nucleo storico mantiene ferma la posizione: noi non possiamo far nulla e siamo militanti disciplinati di una organizzazione.

“È stata una scelta tragicamente distruttiva per l’organizzazione che in quel momento non aveva la forza politica di gestire un fatto di quella portata. Certamente, il non aver valutato sin dall’inizio l’eventualità di potersi trovare di fronte a un atteggiamento di chiusura totale, che avrebbe comportato la scelta semi-obbligata di uccidere il prigioniero, è stato sintomo di scarsissima lungimiranza strategica da parte dei compagni che hanno programmato il sequestro. Personalmente, di fronte alla notizia della morte di Moro sono stato preso da vero sconforto. Intanto perché verificavo che l’intuizione avuta inizialmente, cioè che le Br avevano messo in piedi un’azione al di sopra delle loro capacità politiche, era perfettamente esatta. Poi, perché cominciai a capire che anche gli effetti organizzativo-militari della vicenda sarebbero stati disastrosi.

Si apre una discussione destinata a durare mesi; si è sbagliato? Cosa si potrà fare in futuro? Le BR sono finite?  “Questo io non solo l’ho pensato subito, ma l’ho anche scritto. Appena ricevuta la notizia del ritrovamento del cadavere in via Caetani, durante le ore d’aria nel carcere di Torino, con Franceschini, Bertolazzi e gli altri compagni del vecchio nucleo, aprii una discussione che si fece sempre più tesa, durò mesi e sfociò in un incrociarsi di documenti…. Il succo, a volerla dire brevemente, era questo: le Brigate rosse sono finite; la loro storia si chiude con questa azione che porta a un livello estremo delle pratiche politico-militari di una fase precedente, quella della propaganda armata. A questo livello estremo, che in realtà rappresenta un vero salto di qualità, le risposte dell’opinione pubblica, dello Stato italiano, delle forze internazionali, non possono essere più quelle di prima. E le Br non sono nate, non sono preparate, non sono organizzate per affrontare un nuovo livello di scontro di questo genere. Non si tratta di adattarsi a una nuova situazione di scontro militare, ma di chiudere la storia della nostra organizzazione”

Questo è quello che Curcio pensa e che non corrisponde all’atteggiamento pubblico. A Torino è in corso il processo e il gruppo storico deve dire la sua;  “Avevo concordato con gli altri di citare una frase di Lenin. Scandendo bene le parole e sforzandomi di apparire calmo recitai: «La morte di un nemico di classe è il più alto atto di umanità possibile in una società divisa in classi…». Si trattava evidentemente di un rito autorassicurante, di un escamotage per affrontare quel momento difficilissimo. C’era in noi la consapevolezza di essere di fronte alla fine di un’esperienza storica, ma in quelle poche ore era stato impossibile definire un discorso preciso con cui sintetizzare i nostri giudizi e la nostra analisi. I carabinieri non mi fecero finire di parlare. Entrarono nella gabbia, mi sollevarono di peso e mi buttarono fuori dall’aula. .

  • Il penultimo capitolo (senza abiura) è dedicato alla esposizione della posizione di quel gruppo di brigatisti che non si sono pentiti nè dissociati. Non credo che sia corretto chiamarli irriducibili. Si tratta di cittadini italiani che hanno fatto una esperienza che, personalmente giudico aberrante, in primo luogo per la scia di sangue che ha caratterizzato la organizzazione che hanno fondato, che hanno pagato con il carcere la loro scelta e hanno deciso di non usufruire di sconti premiali. Questo è stato il loro modo di essere coerenti e di dichiararsi comunque insoddisfatti e avversari della società democratica e delle sue istituzioni. Per questa ragione termino questo articolo riprendendo ampie citazioni da senza abiura.

Una volta andata in porto la legge sulla dissociazione, si è aperto uno spazio nuovo e chiaro per coloro che, come me, non intendevano usufruirne. Certo, in quel momento fui costretto, come tutti, ad interrogarmi. «Si tratta solo di prendere le distanze da un fenomeno che non c’è più», suggeriva qualcuno. Ma c’era quella richiesta di abiura del proprio passato che galleggiava nell’aria. Non era possibile far finta di non vedere che la legge voleva anche l’umiliazione di chi sottoscriveva la propria «dissociazione».

Molti compagni si adattarono all’idea che quell’umiliazione, in un mondo in cui lo sfascio dell’ideologia era ormai pressoché totale, non fosse un prezzo eccessivo. Dopo tutto qualche vantaggio ne sarebbe venuto, eccome! E presto un po’ tutti avrebbero dimenticato ogni cosa. Valeva la pena insistere nell’intransigente coerenza? Vari amici mi invitarono, discretamente, ad essere pragmatico. A «cogliere l’occasione». Ma in quei giorni stavo leggendo Roland Barthes. Una sua domanda amara mi colpì: in nome di quale presente abbiamo il diritto di giudicare il nostro passato? …Perché mai avrei dovuto «dissociarmi» da quelli che erano stati giorni certamente tragici e spietati, ma anche autentici in ogni loro respiro? Perché avrei dovuto «abiurare» un passato che avevo vissuto con tutto me stesso? Il carcere era forse il luogo ideale per tentare anche un primo, provvisorio, bilancio? Preferii affrontare, rimanendo integro, i tempi difficili che sarebbero seguiti. Difficili non tanto per la durezza del regime carcerario, ma perché, uno dopo l’altro, ho visto distaccarsi e dissociarsi molti di quei compagni con i quali avevo condiviso speranze di mutamento, dure esperienze, momenti di gioia e una grande sconfitta. Difficili perché la società che ha amministrato la vittoria non ha avuto la forza di essere generosa con i vinti più di quanto non è stata con se stessa.

la dissociazione

Detto questo, ho almeno due critiche teoriche da fare alla dissociazione. La prima è politica. II dissociato rinnega l’esperienza compiuta senza saperla oltrepassare e riduce la complessità sociale dei moti sovversivi a un fatto giuridico di cui parlare con il linguaggio di un azzeccagarbugli. Il dissociato è in realtà un associato: nel senso che si associa a una precisa linea politica, quella dell’ex Pci, fondata sull’esorcizzazione della storia. II Pci ha sempre negato l’esistenza di uno spazio politico alla sua sinistra criminalizzando ogni forma di lotta esso producesse. E, nel promuovere la dissociazione, ha continuato ad essere conseguente con tale posizione facendo di tutto per evitare che si potesse parlare in modo libero e approfondito della storia degli anni ’70. Che è appunto una storia della sinistra di classe e degli spazi aperti alla sinistra del Partito comunista.

La seconda critica è più culturale. È sorprendente la facilità con cui, per varare il disegno di legge sulla dissociazione, si è buttata a mare la conquista borghese della libertà di pensiero. La legge infatti chiedeva che venissero «pronunciate» parole di abiura: là dove la cultura giuridica occidentale ha sempre riconosciuto all’imputato il diritto al silenzio. Un diritto che è un fatto di civiltà tanto quanto il diritto alla libera parola. E così, chi, come me, non ha voluto pronunciare l’abiura è stato pesantemente punito. Punito per il suo silenzio. È il ritorno ai processi alle streghe.

obiettivo irraggiungibile

Poco dopo il sequestro Moro, nei primissimi anni ’80. Fu allora che l’esperienza armata cominciò ad essere messa in crisi proprio da quel sistema dei partiti contro il quale ci eravamo battuti. Capii che la nostra lotta non era stata capace di scalfire quel blocco monolitico, anche se diversificato, di potere. E la vicenda Moro è stata il primo segnale forte di questa realtà. L’accordo strettissimo tra Dc e Pci che si realizzò in quel momento diede il segno della capacità del blocco politico di compattarsi contro le pulsioni del sociale.

Le Brigate rosse furono incapaci di far fronte a quella situazione. E cominciò a pesare la contraddizione che le ha portate all’estinzione: da una parte, l’accumulazione degli organici «militari» e, dall’altra, l’incapacità di individuare il punto su cui fare leva per intaccare il sistema politico da colpire.

Vorrei però che sia ben chiara una cosa. Io avevo avuto grandi responsabilità nella creazione del fenomeno armato e facevo parte di un’organizzazione che non era una squadra di bocce, dalla quale tirarsi fuori come se niente fosse. Non è che di punto in bianco potevo convincermi di una certa cosa e dire con disinvoltura: «Guardate ragazzi, io adesso la penso in un altro modo e quindi vi saluto e me ne vado». Credo di non dover spendere molte parole per spiegare che da parte mia sarebbe stata una buffonata irresponsabile.

… Non si poteva – non si possono – mollare le persone che in questa storia sono state implicate e che sono andate a finire in galera. Io considererò chiuso il mio conto con le Brigate rosse nel momento in cui avrò la gioia di vedere fuori dal carcere e rientrati dall’esilio tutti i compagni coinvolti nell’avventura degli anni ’70.

i morti e la pietas

Curcio espone una tesi assolutoria che mi capita di incontrare sui social quando si toccano determinate tematiche. Sul piano della esperienza personale li posso capire, ma sull’altro piatto della bilancia ci sono i morti. C’è stata una dichiarazione di guerra e lo stato per difendere la democrazia ha fatto ricorso a tutte le sue armi, in qualche momento agendo border line per stato di necessità.

Quanti morti hanno fatto gli errori, ben più gravi, delle generazioni dei nostri padri e dei nostri nonni?  Non è con un conteggio di questo tipo che si possono fare dei bilanci. Il pregio delle rivoluzioni mancate è quello di non avere il difetto delle rivoluzioni riuscite: in qualche modo tutte le rivoluzioni riuscite hanno tradito le loro promesse, mentre quelle mancate possono tradire solo le analisi che le hanno mosse. Una colpa che, tutto sommato, mi sembra meno grave.

D’altra parte, la generosità con cui una fetta della mia generazione si è gettata nella rischiosa avventura politico-ideologica rappresenta un valore positivo che, a un certo punto, dovrà esserci riconosciuto. Voglio dirlo senza pudori: io oggi ho una grande pietas nei confronti di me stesso e della mia generazione sconfitta…

… A me e alla mia generazione non è stato lasciato nessuno spazio per vivere quell’immaginario che portavamo con noi al momento del nostro ingresso nella società. Non abbiamo potuto vivere nel modo in cui ci sarebbe piaciuto perché la generazione precedente ha brutalmente bloccato il nostro cammino chiedendoci di sacrificare la nostra differenza o morire. Così alcuni sono morti con le armi in pugno, molti con l’eroina nelle vene, la maggioranza è vissuta ammazzando dentro di sé il suo desiderio di mutamento.

… Quanto alla nostra specifica sconfitta, quella delle Br, si tratta di una sconfitta che, lo ripeto, avevo cominciato a vedere alla fine degli anni ’70 e ho riconosciuto pubblicamente nel 1986. Certo, per molti compagni l’idea della fine delle Brigate rosse risultava intollerabile. Per me, invece, procedere per discontinuità non era affatto un’esperienza nuova. Nell’86, infatti, non feci altro che ripetere un tipo di comportamento che avevo già tenuto nel ’70: chiudere formalmente, con una chiara decisione, un’esperienza che si trascinava per forza d’inerzia ed era ormai inesorabilmente condannata.

perché non hanno accettato la proposta della chiusura politica della sovversione anni 70?

Non so se la paura può essere una chiave di lettura adeguata. Personalmente colgo nella loro assenza un moto più sordido e profondo. Qualcosa che non riguarda in modo specifico il loro rapporto con il fenomeno armato degli anni ’70, ma viene da modelli più lontani e fa parte di una malformazione congenita della società italiana. Nel nostro paese, in cui è mancata una rivoluzione borghese e non vi è stata neppure una vera rivoluzione industriale, gli intellettuali sono rimasti subordinati al potere del «Principe», cioè ai partiti politici. Hanno mantenuto la vocazione a farsi chierici ed ancelle. Triste eredità di una cultura marchiata dal Machiavelli, veleno sottile che devitalizza alla radice ogni azzardo del pensiero divergente.

Quando, nella Francia dei primi anni ’70, il governo mise fuori legge il gruppo della Gauche Prolétarienne, molti intellettuali, Sartre in testa, scesero a distribuire «La Cause du Peuple», il giornale bandito. «Se volete soffocare ogni voce, ogni utopia, che intende esprimere modelli diversi di società, arrestate anche noi», dissero in buona sostanza. Fu, ne sono certo, una grande lezione e, soprattutto, un intervento provvidenziale per la società francese: perché quell’area di intellettuali rappresentò un cuscinetto di tolleranza, un ammortizzatore sociale, tra le rigidità del potere politico e le tensioni rinnovatrici e sovversive dei movimenti più estremi. Qualcosa che in Italia non è esistito.

… Perché questo ostentato silenzio dei nostri intellettuali sull’esperienza eversiva brigatista? Perché questa difficoltà clamorosa di tutta la sinistra ad affrontare una discussione sugli anni ’70? La mia risposta l’ho data. Sarebbe interessante conoscere le risposte di Rossanda e dei pochissimi disposti a prestare orecchio alle nostre grida nel deserto.

… Gli uomini del potere hanno sempre risposto che la lotta armata non è stata un fatto politico, ma criminale. Cossiga, bisogna riconoscerlo, ha invece avuto il coraggio di proporre una lettura più sincera e approfondita, premessa indispensabile per aprire quella discussione seria sugli anni ’70 che sinora nessuno, tra i politici e gli intellettuali, ha voluto…. Personalmente, non riconosco ad alcun potere l’autorità e il diritto di chiedere abiure. E mi stupisco che lo abbia fatto un laico come l’ex ministro Guardasigilli socialista. Oggi, alle soglie del duemila. Cossiga è poi venuto a trovarti a Rebibbia il 25 novembre ’92: mi ha confessato che l’incontro è stato «drammatico, nel senso ellenico del termine» e che sei un uomo per il quale lui nutre «molta stima». Che significato ha avuto quel colloquio e cosa vi siete detti? Dal mio punto di vista una certa «drammaticità» quell’incontro l’ha avuta, in quanto si è trattato di un faccia a faccia tra due sconfitti. Cossiga si presentava, in un certo senso, come colui che non era riuscito a portare avanti il suo tentativo di compiere un atto concreto che permetta il superamento di una fase della storia sociale italiana. Io gli ero di fronte sconfitto nella qualità di ex leader delle Brigate rosse e di inascoltato predicatore della necessità di affrontare l’assunzione di una responsabilità politica collettiva per la storia degli anni ’70.


A viso aperto. Memorie e desideri del fondatore delle Brigate Rosse. Intervista di Mario Scialoja
Renato Curcio, Mario Scialoja
Mondadori, 1993 228 pagine, € 14,98 ISBN 8804367032


Questo libro ha 30 anni. Lo recensisco, nell’ambito delle polemiche sulla morte di Barbara Balzerani e sulla commemorazione che qualcuno ne ha fatto sfidando la congiura del silenzio. Di certe persone che sono state in carcere a lungo espiando la loro condanna non si deve parlare, devono essere dei “morti viventi” sia da vivi sia da morti.
E’ la storia di Renato Curcio raccontata da lui stesso: dalla infanzia alla fondazione delle BR, dalle proime azioni di propaganda armata all’esito innescato dalla strage di via Fani e dall’aver alzato il tiro senza prevederne le conseguenze.
Ho sempre osteggiato le BR, anche quando ero un dirigente della sinistra rivoluzionaria senza nasconderne l’origine leninista da scheggia impazzita. Nel 77 mi sono iscritto al PCI quando il mondo della sovversione si stava trasformando in un “mare di merda”. L’ho fatto ritenendo che la difesa delle istituzioni dello stato democratico andasse messa al primo posto e non ho cambiato idea.
Mi auguro che il diritto alla esistenza di coloro che sbagliarono e che hanno pagato non venga tributato post mortem.




Dolore e Furore – Sergio Luzzatto

Dolore e furore è un testo di quasi 800 pagine che segna, a parer mio, una svolta nella pubblicistica sul terrorismo rosso italiano. Si tratta di una svolta perché l’approccio è da storico e con taglio abbastanza distaccato sia che si parli dei terroristi sia che si parli delle istituzioni dello stato.

Si tratta di un bel lavoro fatto da uno storico italiano, originario di Genova ma che vive e lavora negli Usa, frutto di un grande lavoro di documentazione sui materiali disponibili, di ricerca diretta e di interviste a molti dei protagonisti (comprimari e/o protagonisti, condannati e/o rimasti nell’ombra).

Tutta la prima parte è dedicata all’analisi della infanzia di Riccardo Dura e al contesto sociale e culturale della Genova dei primi anni 60 (gli emarginati, le istituzioni per i minori come la terribile navescuola-collegio Garaventa, le fabbriche in quella che era, con MIlano e Torino, la capitale dell’industria italiana, il mondo cattolico tra il cardinale Siri e don Gallo, la sinistra rivoluzionaria dominata da Lotta Continua e diretta da Andrea Marcenaro, il mondo della Università con Faina e Fenzi, cui si aggiungerà il cognato Senzani, l’avvocato Arnaldi, alla fine suicida, il chirurgo figlio del sindaco comunista della liberazione Gelasio Adamoli.

Sulla personalità di Dura segnalo la lunga lettera che Riccardo scrive alla madre durante il servizio militare, una sorta di lettura del sè tra costruzione del carattere, timidezza, critica alla madre che non gli ha consentito di crescere.

Sulla personalità di Dura segnalo la lunga lettera che Riccardo scrive alla madre durante il servizio militare, una sorta di lettura del sè tra costruzione del carattere, timidezza, critica alla madre che non gli ha consentito di crescere.

La madre è la responsabile di due ricoveri in Ospedale psichiatrico e poi del confinamento sulla Garaventa, la nave scuola-collegio dalle regole severissime ancorata nel porto di Genova su cui Riccardo passa la sua adoloscenza prima di incominciare ad imbarcarsi.

Si imbarcherà sino al 75 quando entrerà in clandestinità. Le BR a Genova nascono dall’azione di semina da parte di Mario Moretti e Rocco Micaletto come si faceva anche nella sinistra rivoluzionaria: una città era considerata strategica e si inviavano compagni capaci e affidabili a impiantare il lavoro politico.  Nel nostro caso il terreno di coltura è dato dal disfacimento della sinistra rivoluzionaria, in particolare di Lotta Continua e il promoter è un docente universitario di Storia, Faina che poi, in rotta con le BR formerà una sua organizzazione terroristica in polemica con le BR sul modello di organizzazione (Azione Rivoluzionaria).

Si passa dalla XXII ottobre, la banda di Rossi filiazione dei GAP di Feltrinelli al sequestro Sossi (nel 74)i, all’omicidio di Coco e della sua scorta (nel 76), a quello di Guido Rossa (nel 79), ai numerosi attentati ai Carabinieri di cui è protagonista il capocolonna (l’ignoto Dura entrato nelle BR), sino alla irruzione e uccisione di 4 BR tra cui Dura che sarà riconosciuto come tale dalle BR solo dopo che Andrea Marcenaro che ne aveva riconosciuto il cadavere minaccerà di renderne nota l’identità. La scoperta del covo fa parte delle informazioni provenienti dalle confessioni a Dalla Chiesa di Patrizio Peci.

Dura, senza se e senza ma, è il respnsabile diretto dell’assassinio di Guido Rossa che originariamente avreebbe dovuto essere gambizzato. Così fu, ma Dura intervenne a fare due colpi di grazia non previsti. I due colpi di grazia che segnarono l’inizio della fine delle BR a Genova. Secondo una testimonianza diretta di Enrico Fenzi, Riccardo Dura che entro la colonna veniva soprannominato Pol Pot ebbe modo di dichiarargli: «Io, se mai vinceremo, non voglio cariche, onori, nulla. Voglio solo che mi sia dato l’incarico di far fuori i nemici, tutti quelli che devono essere fatti fuori. Sarà un duro lavoro, perché saranno svariati e svariati milioni di persone che andranno eliminate. Ecco, io questo vorrei fare, dopo».

Perché Dura lascia LC ed entra nelle BR? Come diventa un capo? Come si modifica la sua personalità sino a trasformarsi in una spietata macchina da guerra. Alcune cose si capiscono altre no, ma certamente la repressione della fase adolescenziale aveva prodotto un carattere chiuso, freddo al limite della spietatezza. Non si spiega altrimenti l’uccisione di Guido Rossa su cui le stesse BR dovettero poi impostare una sorta di autocritica per eccesso di zelo dovuta ad un fallo di reazionbe da parte dell’operaio comunista.

Dopo la uccisione di Dura la colonna genovese, ormai semidistrutta, viene ereditata dai cognati Fenzi e Senzani e la parte finale del libro riguarda la ascesa di Senzani che prenderà il posto ell’arrestato Marioi Moretti (fronte delle carceri, assassinio del fratello di Patrizio Peci, rapimento Cirillo).

Decisamente da leggere e la lettura mi ha fatto venir voglia di indagare la riflessione sul sè che ha fatto il padre fondatore Renato Curci (alla prossima)


Sergio Luzzatto

Dolore e Furore – una storia delle Brigate Rosse

Einaudi Storia pp. LII – 708 € 38,00 ISBN 9788806256746


 




Imma Tataranni sostituto procuratore

Ho visto su Rai Play le due stagioni per un totale di 14 episodi di due ore ciascuno: la Basilicata e Matera, la magistratura inquirente e la polizia giudiziaria, il mondo della provincia meridionale tra libere professioni e istituzioni dello stato, una donna forte e dalla intelligenza fuori dal comune, abiti improponibili cambiati in continuazione, un incedere da caporal maggiore, la mafia e il contiguo mondo degli affari, i problemi di famiglia tra anziani e adolescenti in crescita, l'immigrazione e le adozioni, uno spaccato dell'Italia con i suoi problemi e le sue contraddizioni.

La Rai ha fatto una operazione controcorrente rispetto alle soap opera e alle false rappresentazioni delle TV berlusconiane che, in questi anni, hanno cambiato in profondità il modo di essere e di pensare degli Italiani e che la RAI stessa ha introeiettato (si veda per esempio Un passo dal cielo), Vediamone insieme gli aspetti principali.

La magistratura inquirente che in questi anni, un po' per colpa sua (eccesso di potere, elasticità delle regole in base alle convenienze, irresponsabilità, delirio di onnipotenza), un po' per le caratteristiche del nostro sistema giuridico e procedurale, ha visto il suo indice di gradimento in progressiva discesa ne esce bene perché la procura viene vista dal di dentro con i suoi aspetti umani, con il rapporto di scontro-collaborazione con cancellieri e i carabinieri, con le esitazioni e le intuizioni. Insomma non va sempre tutto bene ma alla fine la giustizia, guidata dalla intelligenza, vince.

Nel disegnare i personaggi il genere femminile predomina in genere su quello maschile: le donne sono più vispe, le nonne sono sagge anche quando perdono lucidità; gli uomini sono troppo impulsivi e sbagliano spesso con la eccezione del marito di Imma che, essendo a fianco di un caporal maggiore, viene disegnato con una inversione dei ruoli, casalingo, pacato, saggio, sensibile, sempre disposto a comprendere e pazientare, che sa ma tace.

Il procuratore capo ha il senso del potere e dei rapporti istituzionali in una città di provincia, ma sa scegliere, sa decidere, ha una moglie rimasta a Napoli e vive a Matera con un figlio adottivo di pelle scura con tutte le caratteristiche del giovane che, in altri contesti, avrebbe fatto il 68 (impulsivo ma saggio e deputato a controllare Valentina, la figlia di Imma).

Il collaboratori di Imma sono l'amica cancelliera, esitante, sensibile tormentata dal volere una vita tranquilla e la voglia di trasgressione e il giovane maresciallo Calogiuri innamorato di Imma ma conscio dei suoi doveri istituzionali verso una capa a cui dà comunque del lei e la chiama dottoressa.

Il marito di Imma, Pietro de Ruggeri, impiegato tecnico in Regione è inamorato della moglie ma sogna un rapporto più paritario e vorrebbe rompere con il tran tran della vita impiegatizia (il jazz, un locale per spettacoli, il sax, …) somatizza il suo rapporto di subalternità. E' interpretato da Massimiliano Gallo e con Vanessa Scalera (Imma) ha interpretato magnificamente una versione ciinematografica di Filomena Marturano (visione consigliata su Rai Play proprio per la efficacia interpretativa di entrambi).

Nei diversi episodi si parla di mafia, di immigrazione, di badanti, di RSA, di rifiuti tossici, di cordate di speciulatori, di immigrazione e la soluzione dei diversi casi, grazie alla grinta e intelligenza di Imma non è mai banale.

 

 




dai libri alla TV

Non so se sia un segno dell'età, ma ultimamente mi sto dedicando più alla visione delle serie TV che ai libri e alla carta stampata in genere e, dopo questa indigestione ho deciso di farci sopra qualche ragionamento.

Ho iniziato con la visualizzazione della lunghissima serie di Un passo dal cielo che inizialmente sembrava essere l'occasione per gialli leggeri in un contesto ambientale di alta montagna e di rapporto con la natura (forestale, arrampicatori, veterinari, lupi, cavalli, la palafitta sul lago di Braies). Sin dall'inizio era presente un po' di clima da fotoromanzo e poi, man mano, questo clima da fotoromanzo ha preso il sopravvento al punto che nella fase calda degli amori contrastati tra la fotomodella spagnola e il vice questore Nappi utilizzavo la apposita funzione di avanzamento di 10 s per saltare le mielose ed inutili parti sdolcinate.

Poi, con la trasformazione del corpo forestale dello stato in carabinieri forestali e con la sostituzione dei protagonisti la parte ambientale si è sempre più ridotta e un passo dal cielo è diventato un fotoromanzo movie pieno zeppo di pubblicità più o meno occulte dall'Alto Adige al Cadore. Buon per loro, ma la settima stagione, attualmente in corso mi è bastata per 10' e ho chiuso nonostante parti piacevoli legate alla interpretazione di Janniello e alla saggezza proverbiale di Huber.

In precedenza mi sono guardato le vicende del commissario Nardone della mobile di Milano (l'inventore della squadra mobile) per una immersione nella Milano anni 50 e ho ritrovato tratti di cronaca della mia infanzia a partire dall'infame quotidiano del pomeriggio  La Notte che anche mio papà acquistava e che dunque vedevo girare per casa. Uno spaccato interessante del come vivevamo e chi eravamo.

Su suggerimento di mia moglie sono passato alla serie del vicequestore Schiavone. I romanzi di Manzini, editi da Sellerio, me li ero letti in sequenza un paio d'anni fa ed ero rimasto affascinato sia dalla sceneggiatura (che ben si prestava ad una traduzione televisiva), sia dai personaggi comprimari (i collaboratori alla questura di Aosta e gli amici malavitosi romani), sia dal protagonista un intelligente e moderno Robin Hood con una visione di cosa sia giusto netta e schematica che porta un servitore dello stato a vivere costantemente dentro e fuori dai vincoli della legge.

Intelligenza, acume, sentimento, contrasto tra cultura del nord e mondo romano, complessità e contraddizione del mondo del ministero degli interni, figure femminili interessanti e affascinanti, a partire dal fantasma della moglie Marina che fa da psicoanalista di Rocco, sdoganamento della Marijuana, un medico legale assolutamente unico (Fumagalli), una bella figura di PM, in parte condizionato da Rocco ma ligio al suo essere magistrato e che, dunque, non fa sconti.

La serie di Schiavone, bella, nulla toglie alla necessità e utilità di leggere gli originali cartacei. Ora sono alle prese con la Basilicata di Imma Tataranni, altro bel personaggio in cui la intelligenza si mischia con una interpretazione femminile fuori dal comune (tra ruoli di magistrato, madre, moglie e figlia). Vi saprò dire.

PS. sulla app di RaiPlay la pubblicità è davvero fastidiosa; va beh all'inizio e alla fine, ma la intromissione anche se metti in pausa o sbagli un tap è eccessiva. Si può ovviare usando il browser, munito di blocco della pubblicità non solo sul PC ma anche sullo smartphone.

 

 




Severino Cesari (1951-2017) “con molta cura” – di Lorenzo Baldi

“Si tratta adesso di fare tutto e ogni cosa
con mente ordinata e calma,
anzi no, si tratta di fare selvaggiamente:
con amorosa, ordinata, selvaggia-mente.”

1975, via Ruggero Bonghi a Milano, redazione del Quotidiano dei Lavoratori: Severino Cesari, con Silvano Piccardi, Attilio Mangano e Umberto Tartari, curava le pagine culturali. Veniva dall’Umbria e mentre quasi tutti eravamo motivati prevalentemente dalla politica, Severino già si stava formando come intellettuale di professione. Quando, nel 1977, in molti ci trasferimmo al Manifesto, credo si sia trovato subito a suo agio, in un ambiente che dava certamente più valore alle virtù che gli appartenevano e vivendo in una città più vicina alla sua terra.

Dalla primavera di quell’anno non ci siamo più visti nè sentiti, ma l’evolversi della sua carriera nel mondo dell’editoria non poteva sfuggire a chi si tenesse ragionevolmente informato: dall’edizione domenicale del Manifesto, all’intervista a Giulio Einaudi per Theoria, fino alla fondazione e alla rapida cresicita della collana Einaudi – Stile Libero con Paolo Repetti, che offrirà un coté sperimentale all’ “istituzione” libraria torinese e la rimetterà in contatto con il mercato dei lettori più giovani: pubblicando, nei suoi primi 20 anni un migliaio di titoli, per 1.700.000 copie vendute. Non male, in un mercato italiano dove la tiratura media si aggira attorno a 4.000 copie. Insomma, Severino Cesari è stato uno dei più importanti editor sulla scena italiana del libro.

Nel 2017, la notizia della morte. Senza che mi fossi mai imbattuto nella sua intuizione finale, due anni di scrittura su Facebook per condividere la malattia e la Cura con amici e followers sempre più numerosi; e condividere anche i mille pensieri e momenti di una vita ormai difficile, ma mai “minore”, che continuava tra libri, incontri e quotidianità. Diventando egli stesso autore di quelle contaminazioni tra letteratura e altri linguaggi contemporanei che aveva ricercato e promosso con la sua attività editoriale, decidendo di rivedere e organizzare i suoi post in un volume: un lavoro che, per pochissimo, non gli fu concesso di portare, personalmente, a compimento. E al tempo stesso vivendo, attraverso la comunità virtuale, una compagnia che, di solito, al malato grave viene meno, a causa del suo pudore e della paura degli altri:

“È proprio da stupidi non saper ringraziare, aggiungo.
Quanto ti perdi.
Cinquecento persone che ti dicono: tu sei importante per me, questa cosa che hai scritto è stata stamattina importante per me, non è stata inutile, dunque anche io sono importante per te, è una relazione, dunque forse non lo sai ma abbiamo cominciato a  tessere un legame che fa entrambi meno deboli – ed è la prova che siamo vivi, e ci saranno altri risvegli ogni giorno, per tutti noi.
Avete ragione.
Dico grazie a ciascuna, a ciascuno di voi, dal profondo del cuore.”

Il libro, in fondo una raccolta di post molto curata, appare a prima vista come un patchwork nel quale affiorano, come le creste d’onda di un mare in subbuglio, i temi fondamentali del racconto.

Prima di tutto la malattia,

la Cura e la vita quotidiana, tante volte disciolta in un calvario di ricoveri e farmaci (che sono, anche, un po’ veleni), altrettante riconquistata e avidamente vissuta in ogni dettaglio. Della malattia il lettore ricostruisce gradualmente il quadro, attraverso una serie di flashback che partono da un sogno premonitore che costituisce l’incipit. Una sequenza impressionante di circostanze avverse, che parte dal trapianto di un rene, poi un’ ischemia recuperata parzialmente attraverso sofisticate tecniche fisioterapiche, per approdare al tumore e alle complicanze cardiovascolari che ne ostacolano la terapia.

La Cura si presenta come un mondo sfaccettato. Le cliniche, innanzitutto, un’ “Adelphi” che fa il suo lavoro ma – si intuisce – un po’ inospitale e “Quantico”, invece, che combatte al suo fianco. Quantico è una grande base dei Marines, in territorio americano, ed ospita l’accademia del Federal Bureau; è anche il titolo di una serie Tv.

I farmaci poi, ai quali sono attribuiti nomi fantastici, come Foruncolatumimab o Pierinotukano:

Prima di far colazione ho fatto la prima delle tre iniezioni quotidiane di insulina Amarone per il diabete, poi a pranzo la seconda. Sempre al mattino ho preso la nuova pillola Caoscalmo per il cuore, quella della mattina, poi il solito cocktail di    cortisone, gastroprotettore, antiipertensivi, calcio, acido folico, i nomi glieli risparmio, per un totale di dodici pillole e pillolette, poi il Ripijamose, questo lo so, solo in caso di nausea, ma come le ho detto ce l’avevo, ma il Ripijamose non è    proprio bastato. La nitroglicerina cerotto me l’avete tolta appena passato l’allarme-stretto angina, l’antibiotico quotidiano Cipensoio-mix lo prendevo solo per il Pierinotukano e me l’avete sospeso, poi a sera devo fare l’iniezione di eparina Sinedie e la notturna di insulina Amarone, la quarta, quella a rilascio lento che serve per la notte, questi due ovviamente aspetto stanotte, dopo la telefonata. Tutto qui.

La medicina (come la politica) è infarcita di termini militari: combattere, strategia, invasione. Ma è auspicabile un paradigma alternativo:

Si deve intervenire per prima cosa sul problema più importante, che adesso è il cuore, e questo permetterà di accogliere - stavo per dire “affrontare”, ma piantiamola con questo linguaggio militaresco - di accogliere quindi la stessa terapia  oncologica…

Perché

“Si accetta, di essere ammalati e di curarsi. Non ci si contrappone, come a un nemico. Ma quale nemico, se fa parte di me, come tutto il resto.”

E, quindi, prendersi cura: gli altri di te, tu di te stesso e di chi si prende cura di te:

“La malattia non conta, la cura è tutto, e chi mette l’anima perché io possa fare la  cura, e forse a volte dispera e certamente prega, e io sono lontano dal ricambiare, dal prendermi cura a mia volta.
Non fare alcun male, mai più.
Io sono la cura.
Noi siamo la cura.
La cura sono queste pagine che scrivo.
La cura è questa gioia, questa gratitudine, questa chiarezza dopo il torpore e l’indistinto.”

E un dubbio, piano piano, fa breccia nel lettore: che nella Cura di ogni giorno si ritrovi la meticolosa e maieutica cura del libro, nella relazione tra lo scrittore, l’editore ed il pubblico.

Una parvenza di normalità nella vita quotidiana si riconquista cento volte al termine dei cicli di terapia, dopo gli esami di controllo, nella misura delle cose che si riescono a fare ogni giorno: aprire il tappo di una bottiglia d’acqua, allacciare un bottone, le piante sul balcone, il gatto Ortensietti, la raccolta differenziata, le passeggiate terapeutiche, qualche giorno di vacanza al mare; il cappuccino di soja al bar (ma, una tantum, trasgredire con quello di latte vaccino), le mazzancolle al mercato, un calice di Lacrima di Morro d’Alba, i vincisgrassa e il frittino della trattoria Monti, in compagnia di un amico.

Gli incontri, dunque, quando sono possibili:

“Se avete nella mente una folla imprevista di incontri dal giorno appena passato, ma il giorno appena passato non esiste, esiste solo il giorno di oggi e quegli incontri, quelle amicizie sono qui oggi, ci sono per sempre, vecchie o nuove o sempre nuove, vivono con voi.”

Poi lo sguardo alle origini.

Una vecchia foto, a un matrimonio, che rievoca la madre, il padre, i fratelli, i compagni di giochi, la campagna dove i nonni coltivavano il tabacco e lo essicavano in essicatoi giganteschi, come quelli che

“Alberto Burri molti anni più tardi (…) trasformò in opere d’arte, perché già lo erano.”

Nel pieno della Cura, l’occasione di festeggiare il compleanno del fratello Giampiero con tutta la famiglia e con la mamma Lina che li lascerà sei mesi più tardi:

“… Le feste, bene festeggiarle una a una - se appena si può. Noi l’abbiamo fatto, e un po’ di quei giorni lontani con Nazareno e la Nunzia sono tornati, insieme ai giorni che nemmeno sono arrivati.
Quelli che maturano ora.
Una ghirlanda di giorni, senza fine perché ogni giorno è l’unico giorno, da mattina a sera.
Io sono rimasto contadino.”

Finalmente gli amati libri e i loro autori.

Tra i classici, il Melville di Moby Dick, la prima volta letto nella traduzione di Cesare Pavese, la seconda in quella di Ottavio Fatica del 2015:

“Così è accaduto che, nella mia unica vita, io abbia riletto Moby-Dick o la balena con  sorpresa e stupore e ne abbia tratto la certezza, pagina dopo pagina, che un libro così sconvolgente e rivelatore non l’avevo mai letto, e che valeva la pena, oh sì, valeva la pena davvero perché siamo fatti sì della materia dei sogni, ma anche dei libri che leggiamo e che ci rendono più reali, più veri.”

Poi, di Michail Bulgakov, “Il Maestro e Margherita”, nella traduzione di Vera Dridso per Einaudi, pubblicato nel 1967:

“Conviene leggere e rileggere, convinti che le parole hanno un potere, uno dei momenti più gioiosi energetici e ridenti che l’intera letteratura del mondo ci abbia  mai regalato: quando Margherita diventa una strega, cavalcando la scopa-spazzola, nel Maestro e Margherita di Michail Bulgakov. Libro ben caro a tutte, a tutti noi – in ricordo di quel che tutti un tempo selvaggiamente siamo stati, streghe e stregoni.

Un libro che lo accompagna lungo la malattia, dalle prime pagine fino agli ultimi giorni:

“Ciò che non dice la versione emendata che circola del gran libro di Michail  Bulgakov – quella che si trova in tutte le librerie del mondo – è però che quel    “vicolo”, così appariva a Margherita, non era l’Arbat ma una strada dell’Esquilino, e che la bella Margherita non si era dimenticata di me.

No, non si era affatto dimenticata.

Margherita non si dimentica di nessuno di noi se noi non la dimentichiamo.

Il resto della storia lo trovate, se proprio volete, nella versione non emendata del gran libro di Michail Bulgakov, che non circola in libreria.
Se però proprio la cercate, la trovate.
Su nel cielo.
Se poi non la trovate, scrivetela voi.”

Rilke tradotto da Giaime Pintor (l’attenzione quasi ossessiva alle traduzioni) e pubblicato nel 1966, a cura di Franco Fortini:

“Ogni nuova lettrice, ogni nuovo lettore scopra da sé la ricchezza inesauribile di questo libro privo di autore, che non ha niente di organico se non l’appartenenza al mondo dei minerali, delle cose, composto raccogliendo in volume il fiume vivo di una  ricerca, poetica filologica e personale, interrotta dalla morte.”

Conrad (Joseph Conrad, Un sorriso della sorte. Storia di porto, in Fra terra e mare, traduzione di Daniel Russo, Einaudi 2016):

“Usando senza alcun pudore la differenza tra “trama manifesta”, o esibita, o palese (overt plot) e “trama nascosta” (covert plot) Giuseppe Sertoli, gran lettore di Conrad, nella lunga e bellissima prefazione al volume Einaudi, smonta delicatamente, implacabilmente questa pretesa o schermo dell’autore e ci rivela con minuziosa analisi il segreto sotteso ai tre racconti, che ne fanno oltretutto quasi capitoli affascinanti di un unico libro, per la gioia perenne e ora rinnovata di noi lettori. Ah,    godersi davvero Conrad!
La nuova, pregevole traduzione di Daniel Russo contribuisce al piacere di immergersi in questo libro marino-terrestre e nei suoi conradiani segreti, che non rivelerò.”

E poi gli autori pubblicati nel corso della sua lunga – purtroppo non lunghissima – carriera e, spesso, diventati anche amici personali.

Niccolò Ammaniti, che scrive un racconto per “Gioventù cannibale”, una raccolta pubblicata nel primo anno di “Stile Libero” e continua a pubblicare i suoi romanzi in questa collana. E soprattutto la sua “Anna” e l’orgoglio per le molte traduzioni in tutto il mondo:

“Forse è proprio la nostra, la leggenda che Niccolò ci tramanda, che Anna ha appena cominciato a raccontarci, è quella delle ragazze e dei ragazzi di oggi ma è anche la   nostra, di noi che ragazzi non siamo. Nel suo concentrato di assoluta presenza, di integrità oltre ogni paura e speranza, mai disposta a chiudere gli occhi perché sa che è quella, non voler vedere, l’anticamera della morte, mentre lei cerca cerca e ancora cerca la vita, Anna appartiene a tutti, Anna è tutti noi.
… La vita non ci appartiene, ci attraversa” scrive Niccolò Ammaniti.”

Simona Vinci e “La prima verità”, uno degli ultimi libri curati da Severino, alla cui presetazione romana riesce a partecipare in persona, presso la “Libreria Libri & Bar Pallotta”:

“Ecco allora oggi un passaggio che particolarmente amo, dal libro inesauribile di Simona Vinci:
“Ogni volta che una presenza bussa alla mia porta, mi faccio da parte per accoglierla e ascoltare ciò che ha da dirmi. La scrittura in fondo è questo: lasciar entrare le voci di quelli che hanno qualcosa da dire, non importa da dove vengano e da quando vengano. Ogni storia di ogni singolo essere umano, se raccontata e ascoltata da qualcuno è declinata al tempo presente.
Anche perché c’è un’altra cosa nella quale io credo: certi ricordi vengono dal futuro”.

Maurizio De Giovanni con “Pane per i bastardi di Pizzofalcone”:

“Questo impegno totale di cervello e cuore che mi ha richiesto questo libro ultimo, questo Pane che segna una nuova stagione nel mondo per questa mia creatura, per i Bastardi, aveva senso? Avrà un senso per il lettore la lettrice che aprirà alla fine il libro e sentirà sprigionarsi quell’odore di pane ben lievitato, appena sfornato, quel profumo nell’alba?
O lo sento solo io, quell’odore?”.

Una presentazione cui la malattia gli impedirà di assistere, al contrario della presentazione della serie Tv ispirata allo stesso ciclo poliziesco, i cui personaggi gli sono sembrati

“Diversi perché li avevamo per la prima volta visti e incontrati di persona e non più   soltanto immaginati, ma portavano con sé, ci era sembrato guardandoli, la stessa voglia di riscatto che tutti proviamo, nelle nostre esistenze povere e smaglianti, perennemente appese e perennemente a rischio. Ci era sembrato portassero la  stessa verità, la stessa voce, quella dei sentimenti di una città e di ogni città.”

Giorgio Faletti che, prima di lui, ha attraversato la malattia fino ad una morte prematura, e al quale si rivolge così:

“Hai voglia a cercarlo chissà dove, il segreto del tuo successo.
Unica vera regola allora: se faccio, se decido di fare, se decidete di fare una cosa, quale che sia, anche ricominciare da zero quando siete un premio Nobel, e volete invece provare a intagliare figurine in legno, o a sperimentare ricette, fatelo comunque con assoluto rigore e disciplina. Studiando le regole, facendone tesoro prima, e forgiandone infine di vostre, ma solo quando vi sarete impadroniti di quelle che esistono. A quel punto, qualunque terreno avrete scelto, arriverete lo stesso al gran mare, alla Cosa maiuscola che vi troverete a scoprire condivisa da tanti altri.”

E, ancora, molti altri che qui non c’è spazio per citare e per raccontare come sono raccontati.

E poi la politica.

Cos’è rimasto di quella che doveva essere una passione originaria, parallela alla letteratura, se l’ha portato da Perugia fino a quella stanza di via Ruggero Bonghi che ora ricorda solo per aver favorito l’incontro col poeta Giancarlo Majorino:

“Negli anni 1975 e 1976 conobbi nella Capitale del Nord, dove lavoravo a un foglio chiamato “Quotidiano dei lavoratori”, Giancarlo Majorino. Ragionavamo di tutto e naturalmente di libri, ammiravo in lui una concisione tagliente e, va da sé, ironica, le sue parole uscivano con una strana morbida e quasi involontaria cautela, quasi fossero esplosivi delicati, da maneggiare, istintivamente, con cura.”

Un ricordo affettuoso di Rossana Rossanda, attraverso la rilettura de “La Posizione” di Franco Fortini:

“Ma io voglio dedicare questa lettura mattutina di un poeta molto amato a una persona che molto ama Franco Fortini, Rossana Rossanda: amica che penso spesso e con il desiderio sempre più vivo di tornare a un colloquio che per me fa parte della vita, che per circostanze della vita si è per un momento interrotto e che oggi so di poter riprendere, un  dono che so di poter raccogliere, come una promessa che so oggi di poter mantenere. L’occasione è tutta in quelle poche parole cariche di una misteriosa allegria prorompente fino all’impudicizia, che forse sono la chiave    nemmeno tanto segreta di questa poesia: “Oh, essere vivi ci è caro”.

Una posizione etica intransigente sulle migrazioni:

“Le migrazioni sono la grande ferita, il grande dolore, possono diventare non solo la  grande misericordia ma la grande occasione del nostro tempo.
I muri sono la morte, ma sono già macerie.
Briciole nella corrente.
In quella corrente che scorre sotto i nostri occhi i morti di freddo e stenti nei tir d’Europa, che sorpassiamo ignari in autostrada.
La stessa corrente spolpa in sussurri i morti fratelli nel mare. 


I muri sono la morte e l’illusione della permanenza, l’illusione stessa di un mondo    stabile, che non è esistito mai.
Illusione di stabilità e permanenza sono i muri grandi di filo spinato tagliente come i muri più piccoli, interiori, prodotti alla nostra mente, che non ci fanno scorgere la   nostra stessa impermanenza, l’instabilità che è fondamento, la precarietà la  mutevolezza infinita dell’anima che è nostra sola ricchezza e, nell’instabilità, paradossale conforto e sicurezza.”

Sulle guerre:

“Mosul, le donne curde che sfidano l’Isis al fronte: Un proiettile sempre pronto in caso di cattura.”
Foto da guardare in silenzio, pensando che la vita ci ha dato innumerevoli privilegi, compreso quello di pensare sul serio che stiamo vivendo in un mare di guai nel nostro orticello “sempre più rimpicciolito, e che le cose importanti ce le dicono i talk show.”

Sulla criminalità organizzata:

“Oggi espongo bene aperto, davanti alle file degli altri, il libro più prezioso che ho, sopravvissuto a tutti i traslochi, alle perdite. Si chiama Cose di Cosa Nostra ed è scritto da Giovanni Falcone con Marcelle Padovani. Lo pubblicò Rizzoli con una bella  e sobria copertina di Antonella Caldirola giocata su pochi elementi: fondo bianco, in   rosso il nome degli autori in alto, bianca e nera l’immagine siciliana al centro, in nero   il titolo in basso. In quarta di copertina, un primo piano, sempre in bianco e nero, di Giovanni Falcone di profilo che risponde a un intervistatore, gli occhiali sul naso, seduto a un lungo tavolo affollatissimo di persone e carte, sovrastato da un anello di fotografi.
Ci sono le dediche, molto sobrie: non conoscevo di persona né Falcone né Padovani e fu gentilezza loro mandarmi il libro, per le pagine culturali del “manifesto”, che    curavo.”

E, per quel che testimoniano la conduzione di “Stile Libero” e anche un’intervista che circola su YouTube ( https://www.youtube.com/watch?v=YoGZXZCEmCg e https://www.youtube.com/watch?v=NNbROBtVuhI ), un bel recupero dei valori d’ impresa:

“Libri & Bar Pallotta.
La libreria più triviale del mondo, perché sta all’incrocio.
Nel trivium.
Ma forse voi già avete in mente di farne una per conto vostro, di librerie così, col bar e magari anche i tabacchi, chi vuole.
O forse l’avete già fatta.
A maggior ragione, venite per vedere, e per complottare con i vostri simili e dissimili, per le nuove avventure anche meravigliose e anche imprenditoriali – nessuno si vergogni di questa parola – che è più facile inventare insieme piuttosto che in    solitudine, le nuove belle imprese che può regalare il mondo del libro, mondo in espansione, che non è affatto sfatto e sfinito, visto da qui.”

Infine, un ritorno (kantiano) alla Cura:

“Meglio non pretendere di raddrizzare a colpi di pialla il “legno storto” che siamo, e   prendercene invece tutta la Cura possibile.”

Qualche link per approfondire:

La collana “Stile libero”:

Un’intervista:

Ricordi da parte di chi ne ha scritto:

Giacomo Papi – Paolo Repetti – Severino Cesari, la dolcezza umbraquando è finita la benzinaunderstatement

Un libro su Severino: quello che ci ha insegnato Cesari – la prefazione al libro

Un articolo de Il Post su Severino Cesari


Severino Cesari

Con molta cura (la vita l’amore e la chemioterapia a km zero 2015-2017)

Rizzoli 2017 12 € pag 590


 




Stella rossa (romanzo-utopia) – di Alexandr Bogdanov (recensione)

Stella Rossa è un romanzo sull'utopia del comunismo scritto da Bogdanov nel 1907 dopo il fallimento della esperienza rivoluzionaria del 1905 che aveva visto Bogdanov come massimo esponente a Pietroburgo del partito bolscevico.

Bogdanov era figlio di un fisico, laureato in medicina e per tutta la vita si è interessato della possibilità costruire un accordo tra le scoperte scientifiche del primo Novecento e della riflessione su di esse portata avanti da quelli che in Russia si sarebbero detti empiriocriticisti e che erano, semplicemente, i seguaci delle teorie di Mach il padre di quella versione dell'empirismo che avrebbe dato vita, qualche anno dopo, all'empirismo logico o neopositivismo. Nel recensire "Lenin e l'antirivoluziuone russa" ho messo la famosa immagine della sua partita a scacchi con Lenin sotto gli occhi di Gorkij.

Bogdanov, dopo aver rotto con Lenin su questioni di carattere ideologico legate alla teoria della conoscenza (è lui il puntaspilli di Materialismo ed empiriocriticismo), ha continuato a occuparsi di rivoluzione culturale e dopo la rivoluzione del 17 si è occupato prevalentemente di medicina diventando uno dei massimi esponenti delle problematiche trasfusionali; finendo per morire a causa di una trasfusione effettuata su di sé con un donatore infetto da malaria. Si dice che si sia trattato di un suicidio, ma la cosa non è acclarata.

Ha scritto opere sulla teoria dei sistemi che sono considerate ancora oggi tra le fondazioni della cibernetica e della teoria della organizzazione. Ne parlo perché Stella Rossa è una miniera di suggestioni ed immaginazioni che lasciano stupiti per la correttezza delle intuizioni e delle proposte avanzate solo nel primo decennio del Novecento.

Il protagonista viene avvicinato è convinto a seguirli da un gruppo di marziani che si sono recati sulla terra per studiarne le caratteristiche di civiltà e individuare possibili persone con cui interagire. Viene convinto a seguirli e il romanzo oscilla tra la descrizione degli strumenti tecnologici già in possesso dei marziani e la descrizione di una società nella quale da alcuni secoli si è ormai realizzata l'utopia comunista.

Il motore dell'astronave funzione attraverso processi di disintegrazione radioattiva che producono espulsione di particelle ad altissima velocità in grado di produrre il movimento in senso opposto (conservazione della quantità di moto). Il viaggio dalla terra a Marte che dura alcuni mesi si svolge attraverso una tecnica che prevede una bassa e costante accelerazione che, a metà viaggio, viene poi cambiata di segno rimanendo sempre costante e togliendo di mezzo tutte le problematiche di tipo violento connesse all'utilizzo di accelerazioni elevate.

Bogdanov immagine che Marte sia completamente abitata al di sotto dei canali che aveva osservato l'astronomo italiano Schiapparelli a fine 800 e che avevano fatto pensare, all'inizio del 900, ad una possibilità di un mondo dove fosse presente la vita. La società marziana si trova già nella situazione di Comunismo realizzato e dunque sono stati già affrontati con esito positivo le problematiche che la rivoluzione bolscevica avrebbe dovuto affrontare con esiti negativi qualche anno dopo: la durata ridotta della giornata lavorativa, il principio del da ciascuno secondo le sue capacità a ciascuno secondo i suoi bisogni, la pianificazione basata su un sistema di raccolta delle informazioni in tempo reale che fa pensare alla rivoluzione informatica, l'educazione degli adolescenti nelle case dei bambini con criteri pedagogici molto avanzati.

E' un romanzo, c'è una storia e quella non ve la racconto, ma sono rimasto impressionato dal continuo riafforare di problematiche che saranno al centro dei processi rivoluzionari ma che, nel momento in cui il romanzo viene scritto, non si sono ancora presentati: il socialismo si può realizzare in un singolo paese? si possono sacrificare migliaia di persone in nome di un bene superiore? quali sono i diritti degli uomini nei confronti della natura e dell'universo?

La formazione scientifica di Bogdanov emerge in continuazione nalla capacità di inventare macchinari che poi faranno poarte della storia della tecnologia o nel parlare con competenza di materiali che entreranno da padroni nella storia dell'industria aereo-spaziale.

Apparentemente su Marte le cose vanno a meraviglia grazie alla padronanza delle tecnologie della informazione (il contrario di quanto avverrà con i piani quinquennali di Stalin), ma c'è un ma che ha a che fare con il carattere limitato delle risorse.

Alcatraz ha recentemente pubblicato in un unico volume e a prezzo basso i romanzi su Marte di Bogdanov e vi segnalo dunque questa versione (l'ingegner Menni è uno dei maitre a penser della civiltà marziana e sarà lui a individuare Leonid, giovane matematico e rivoluzionario marxista, come prototipo di personaggio su cui impostare gli studi sulla razza umana in vista di una eventuale collaborazione in un sistema planetario a risorse limitate perché come sosteneva Marx, nella società comunista finiscono le contraddizioni tra gli uomini legate ai rapporti di produzione ma non quelle con la natura.


l'Istituto di Statistica

L’Istituto di Statistica ha i suoi agenti che monitorano lo spostamento dei prodotti nei depositi, la produttività di tutte le aziende e la variazione del numero dei loro lavoratori. In questo modo, si calcola in maniera esatta cosa e quanto sia necessario produrre in un determinato periodo e quante ore di lavoro servano per farlo. In seguito, l’istituto non deve fare altro che calcolare in ogni settore di lavoro la differenza tra i dati esistenti e la situazione ideale e darne comunicazione a tutti. Il flusso di volontari, allora, ristabilisce l’equilibrio....

i bisogni

«Il consumo dei prodotti non è limitato in qualche modo?». «In nessun modo: ognuno prende ciò di cui ha bisogno e nella quantità che vuole». «E tutto ciò è possibile senza che venga richiesto nulla di simile al denaro, senza che ci sia un’attestazione sulla quantità di lavoro compiuto o sull’impegno nel svolgerlo, o cose del genere?».

«Nulla del genere. In una condizione di lavoro libero, come la nostra, non c’è mai carenza: il lavoro è una necessità naturale di un uomo socialista evoluto e qualsivoglia costrizione nascosta o palese per noi è del tutto superflua»...

«Ma se il consumo è illimitato, non sono possibili brusche oscillazioni, tali da ribaltare tutti i calcoli della statistica?». «Certo che no. Una singola persona, forse, può mangiare il doppio o il triplo rispetto al normale, o decidere di cambiare dieci vestiti in dieci giorni, ma una società di tre miliardi di individui non è soggetta a tali fluttuazioni. Con numeri simili, oscillazioni nell’una o nell’altra direzione si bilanciano e i valori medi cambiano molto lentamente e con regolarità».

«Proprio così, e su questo poggiano le basi del nostro sistema. Duecento anni fa, quando il lavoro collettivo bastava appena a soddisfare i bisogni della società, era necessaria una massima precisione nei calcoli e la distribuzione del lavoro non poteva avvenire in modo del tutto libero: la giornata lavorativa era obbligatoria, dunque, non era sempre possibile considerare la predisposizione dei compagni. Ma ogni nuova scoperta, sebbene facesse insorgere qualche complicazione temporanea a livello statistico, poneva rimedio alla questione principale, ovvero la transizione verso una libertà di lavoro illimitata. All’inizio la giornata lavorativa fu accorciata, poi quando in tutti i settori si rivelò un’eccedenza, l’obbligatorietà decadde. Notate come fossero insignificanti le cifre di carenza di forza lavoro nell’industria: migliaia, decine, centinaia di migliaia di ore di lavoro, al massimo, in confronto a milioni o decine di milioni di ore di lavoro che già si spendono in quelle industrie».

la casa dei bambini

Chiesi a Nella perché nella “Casa dei Bambini” stessero assieme giovani di età differente, invece di essere divisi a seconda degli anni in una specifica Casa, il che avrebbe facilitato in modo significativo la divisione del lavoro tra gli educatori e semplificato i loro compiti.

«Perché in tal caso non si tratterebbe di una vera educazione», rispose Nella. «Per riceverne una congrua, un bambino deve vivere la società dall’interno. I bambini acquisiscono il massimo dall’esperienza e dalla conoscenza relazionandosi l’uno con l’altro. Isolare una fascia d’età dall’altra vorrebbe dire instaurare un ambiente di vita ristretto e unilaterale, nel quale lo sviluppo dell’uomo del domani deve avvenire con lentezza, in modo blando e monotono. La differenza di età dà i migliori risultati in termini di vivacità. I bambini più grandi sono i nostri migliori aiutanti nella cura dei piccoli. Non solo amalgamiamo con coscienza bambini di tutte le età, ogni Casa cerca anche di selezionare educatori dalle età e specializzazioni pratiche più diverse».

rapporti tra gli uomini e rapporti con la natura

«Felice? Pacifica? Da dove avete preso quest’idea? Da noi regna la pace tra le persone, è vero, ma non c’è pace con le forze della natura, e non potrà mai esserci. E questo è un nemico da cui a ogni sconfitta sorge una nuova minaccia. Nell’ultimo periodo della nostra storia, abbiamo intensificato di dieci volte lo sfruttamento delle risorse del nostro pianeta. La nostra popolazione sta crescendo e, ancor più in fretta, sta aumentando il nostro fabbisogno. Il pericolo dell’esaurimento delle risorse naturali si è già presentato diverse volte in vari settori lavorativi. Finora siamo riusciti a porvi rimedio, senza dover incorrere in una temuta riduzione dell’aspettativa di vita, nostra e delle generazioni future; tuttavia proprio adesso la lotta sta assumendo un aspetto assai critico».


Alexandr Bogdanov

Su Marte (Stella Rossa, Ingegner Menni, Un Marziano Abbandonato sulla Terra) – tre romanzi

Editore Agenzia Alcatraz

Pagine 376 15 €


 




Lenin e l’Antirivoluzione russa – di Roberto Massari (recensione)

Sono finito a cercare questo libro dopo aver letto le Memorie di un rivoluzionario di Victor Serge (1) e (2), cronaca di ua vita spesa al servizio della rivoluzione con una progressiva presa di coiscienza che quella prospettiva non solo aveva dovuto fare i conti con la immaturità del processo di sviluppo della Russia, con l'accerchiamento, con la mancata rivoluzione in Occidente, tutte cose che indussero Serge a stringere i denti per continuare a stare con i bolscevichi, ma che c'erano cose che non avevano funzionato nella cosiddetta fase alta del processo rivoluzionario e cioè prima della malattia (1923) e della morte di Lenin (gennaio 1924).

Serge cita in particolare il comunismo di guerra (1918-1921 con le requisizioni e l'annientamento del mondo contadino), la fondazione della Čeka (7 dicembre 1917, contrazione di Večeka, acronimo per Commissione Straordinaria Panrussa per la lotta alla controrivoluzione e al sabotaggio), l'attacco militare e l'uccisione degli esponenti del soviet di Kronstadt (marzo 1921).

La questione che mi attanagliava e mi attanaglia in anni di ripensamenti e riflessioni sulle cose in cui abbiamo creduto in maniera totale negli anni dal 1969 al 1976 era la risposta alle domande: Perché è andata così? Era Inevitabile? Perché la rivoluzione ha avuto come esito lo stalinismo? Perché anche dopo la denuncia dello stalinismo il sistema sovietico ha continuato ad essere dispotico, burocratico e illiberale? Perché dopo la Polonia e l'Ungheria c'è stata la Cecoslovacchia? Perché il PCI, sino all'89 non ha mai rotto in maniera netta con quella storia? Perché tutte le altre esperienze di rivoluzione comunista si sonoi rivelate illiberali?

E il domandone è: in tutto questo c'è qualcosa che ha a che fare con il leninismo, con il modello organizzativo di partito leninista, con una particolare interpretazione data alla dittatura del proletariato?

Il libro di Roberto Massari contiene molte di quelle risposte e detto in estrema sintesi, sostiene che il difetto era nel manico, in una visione del processo rivoluzionario in cui il problema principale era quello della presa del potere e dello strumento necessario alla realizzazione dell'obiettivo, il partito leninista. Sono oltre 400 pagine (in formato 18×24) interamente dedicate a Lenin, alla evoluzione del suo pensiero (a partire dalle origini nel movimento populista passando attraverso il rapporto con la II internazionale, Kautzki e Rosa Luxemburg, le polemiche in campo filosofico con alcune scivolate di tipo hegeliano e la lotta nei confronti di Bodganov e di coloro che cercavano di fare i conti con le rivoluzioni scientifiche stando più dalla parte di un positivismo rivisitato che dell'hegelismo).

Negli anni del mio avvicinamento al leninismo (1969-1974) ricordo che di Lenin mi avevano colpito favorevolmente la capacità di esagerare nel mezzo della battaglia politica: individuava un problema (od un pericolo) e si gettava anima e corpo sulla barra del timone per effettuare il raddrizzamento. Il libro di Massari mi ha confermato in quella impressione, ma la visione di insieme delle oscillazioni (davvero continue e con la capacità di sostenere tutto e il contrario di tutto) non poteva che indurmi a qualche ripensamento (sia con riferimento ai temi della costruzione del partito rivoluzionario e delle sue caratteristiche, sia con riferimento alla rivoluzione, alle istituzioni dello stato e agli organismi di partecipazione delle masse).

Massari individua in Lenin una posizione di tipo centrista e tra le molte precisazioni e puntualizzazioni sono rimasto sostanzialmente confuso sull'utilizzo di questo termine che rinvia più che ad una collocazione di centro nel fuoco delle polemiche, alla capacità di operare rapide svolte di raddrizzamento mettendo troppo spesso la tattica al posto della strategia e le opportunità al posto dei principi rivoluzionari, tutto ciò purché la componente bolscevica del POSDR ne esca vittoriosa e non venga messa in discussione la sua (di Lenin) leadership.

Questo è l'indice del libro:


Sul concetto di rivoluzione e antirivoluzione
Il centrismo è quella cosa…


I. Dal terrorismo alla socialdemocrazia (1887-1901)

1. Imprinting narodniko – 2. Dal populismo all’economicismo – 3. La «cotta» per Plechanov – 4. Apologia di Kautsky

II. Da socialdemocratico (russo) a «bolscevico» (1902-1907)
5. La leggenda della «teoria leninista» del partito – 6. Coscienza socialista e spirito di partito – 7. Intorno al II Congresso – 8. Trotsky e la «robespierriade» caricaturale – 9. Una critica a Lenin (quasi) marxista libertaria – 10. 1905: il centrismo alla prova dei fatti – 11. La deviazione terroristica: 1906-1907

III. L’involuzione filosofica (1894-1916)
12. Antileninismo bolscevico «di sinistra» (Bogdanov) – 13. Marx vs Hegel (e sociologia marxista) – 14. Regresso all’hegelismo – 15. L’idealismo-materialismo dei Quaderni filosofici – 16. Uno studio divulgativo (l’Imperialismo)


IV. L’unica posizione teorica che non cambiò (quasi) mai (1913-1923)
17. Questione nazionale e autodeterminazione dei popoli

V. Oscillazioni tra programma massimo e minimo (1905-marzo 1917)
18. Dittatura democratica rivoluzionaria del proletariato e dei contadini – 19. Il 4 agosto e la Guerra

VI. Tutto il potere ai soviet? (marzo-ottobre 1917)
20. Un ossimoro utopico-statualistico (Stato e rivoluzione) – 21. Prima infatuazione per i soviet (marzo-giugno) – 22. Interludio ostile ai soviet (luglio-agosto) – 23. Ritorno ai soviet e sostituzionismo (settembre-ottobre) – 24. La questione del «colpo di mano»

VII. …No. Tutto il potere al Partito (ottobre-novembre 1917)
25. Governo monopartitico e non dei soviet – 26. Altri sostenitori di «Tutto il potere ai soviet». Gli anarchici – 27. I menscevichi internazionalisti – 28. I socialisti rivoluzionari di sinistra – 29. Mežrajontsy, bespartijny

VIII. L’antirivoluzione bolscevica (novembre 1917-marzo 1921)
30. Da centrista ad antirivoluzionario – Antirivoluzione I: la Ceka – 32. Antirivoluzione II: i Comitati di fabbrica – 33. Antirivoluzione III: l’Assemblea costituente – 34. Antirivoluzione IV: il Terrore di stato (1918-1923) – 35. Da Lenin al Gulag [Appendice] – 36. Antirivoluzione V: la Terza rivoluzione russa (Kronštadt)

IX. La dittatura sul proletariato (1921-1923)
37. Chi «rinnegò» di più: Kautsky o Lenin? – 38. Il «rinnegato» Trotsky – 39. Lenin pro e contro Stalin: l’ultima cospirazione


Massari sostiene, e me lo ha confermato anche a voce, che la rivoluzione russa, fatto salvo l'esperimento soviettista che vide sostanzialmente estranei i bolscevichi nel 1905 e che riguardava soviet con caratteristiche diverse da quelli del 17, inizia a febbraio e termina a novembre del 1917 quando inizia ad opera di Lenin la fase della antirivoluzione, antirivoluzione che si può considerare conclusa già nella primavera del '21. Per Massari la antirivoluzione è una forza di opposizione al processo rivoluzionario che nasce al suo interno e che ad un dato momento si oppone a tale processo perché animata da interessi divergenti e scrive pertanto di antirivoluzione leniniana e di successiva controrivoluzione staliniana.

Il libro è molto ricco di citazioni direttamente basate sugli scritti di Lenin riprese dalle diverse edizioni delle opere complete (ma anche di altri protagonisti del processo rivoluzionario) ed è inframezzato di note storiche e biografiche che, per quanto interessanti, rischiano a volte di far smarrire il filo della argomentazione.

Ne consiglio pertanto una lettura non necessariamente sequenziale e non necessariamente integrale, almeno in prima lettura, anche perché la sostanza che dà corpo al giudizio sulla antirivoluzione è quella contenuta nei capitoli dal VI all' VIII in cui vengono ripercorse le svolte del pensiero e della azione leniniana tra la rivoluzione di febbraio, quando Lenin, che si trova a Zurigo scrive le cinque Lettere da lontano e il gennaio 1918 con il seppellimento del progetto di Assemblea Costituente e l'inizio di esautoramento dei soviet e delle altre forme di partecipazione popolare.


avendo colto la possibilità di portare finalmente al potere lo strumento partitico costruito e rafforzato nell'arco di un quindicennio, Lenin adottò una  tattica fondata sulla possibilità di far leva sui soviet per scalzare il parlamento borghese (Duma di stato e poi Preparlamento) e il Governo provvisorio.  A tal fine:

  • a) esaltò i soviet con eccessivo entusiasmo nella fase della loro nascita e  crescita iniziale;
  • b) li rinnegò dopo la fallita insurrezione di luglio, convinto di non  poterne togliere la direzione ai menscevichi e ai socialisti-rivoluzionari;
  • c) li ricollocò  in cima al proprio programma politico quando il Posdr(b) cominciò a conquistare la  maggioranza in soviet centrali importanti come Pietrogrado e Mosca;
  • d) li mantenne  come asse centrale del programma fino alla conquista del potere;
  • e) adottò tutti i provvedimenti necessari per una rapida estinzione del loro ruolo e soprattutto della loro  autonomia, a partire dagli ultimi due mesi del 1917, cioè subito dopo l'avvio della dittatura monopartitica del bolscevismo.

La nostra generazione, una volta convertita al leninismo ha finito per disinteressarsi un po' troppo degli aspetti di dettaglio di quel processo rivoluzionario innamorandosi della presa del palazzo d'Inverno, trascurando la complessità di ruolo e di rappresentanza politica delle altre forze rivoluzionarie anarchiche e socialiste (con le diverse sfumature presenti tra i menscevichi e i socialisti rivoluzionari) e dando per assodata e giusta la linea d'azione dei bolscevichi. Mi riferisco in particolare:

  • all'uso esagerato e superficiale dell'appellativo di riformista, piccolo borghese o populista assegnato di volta in volta agli altri protagonisti del processo rivoluzionario
  • alla mancata riflessione sui numeri dei risultati elettorali nei soviet (degli operai, dei contadini e dei soldati) e nelle diverse forme di rappresentanza operaia (consigli di fabbrica) e nelle assemblee elettive
  • alla accettazione della semplificazione secondo cui vinte Pietrografo e Mosca era assicurata la vittoria della rivoluzione
  • all'uso esagerato e spregiudicato del volontarismo in nome del quale tutto era lecito o almeno accettabile.

Da leggere.


Roberto Massari

Lenin e l'Antirivoluzione russa

Massari editore collana Miraggi

€ 22,00(2018)


 




Buio a mezzogiorno – di Arthur Koestler (recensione)

Quando ho recensito il caso Toulaev di Victor Serge mi sono reso conto, sia dai riferimenti nella introduzione, sia dai commenti degli amici, che non avevo mai letto l'altro libro di riferimento, scritto nello stesso periodo (1938/1939) e riferito ai grandi processi del 37-38, "Buio a Mezzogiorno".

Anche Koestler (Budapest 1905 – Londra 1983), come Serge, è un militante comunista, ma nel suo caso si tratta di un comunista prevalentemente vissuto al di qua del confine con l'est. Koestler è ungherese (viene dalla capitale dell'impero asburgico), proviene da una famiglia ebraica, studia a Vienna e dunque scrive in tedesco ( anche perché, sul piano profeessionale ha lungamente operato in Germania) e sino alla fine, cerca suo malgrado, di di essere fedele al punto di vista di Mosca.

La sua storia di scrittore inizia da giovanissimo, con il racconto della sua esperienza in Palestina a lavorare in un Kibbutz ("La schiuma della terra") stretto tra le ostilità degli Inglesi e degli Arabi. Dopo il periodo palestinese riesce a farsi assumere da grandi gruppi editoriali tedeschi e in quegli anni (anche dopo l'adesione al partito comunista tedesco) continuerà a lavorare per il partito, in incognito, con la indicazione di apparire come un giornalista liberal che però, quando può, difende gli interessi dell'URSS. Lo farà in Germania, poi in Spagna e infine in Francia.

La sua rottura con il comunismo e la denuncia dei crimini dello stalinismo avviene solo nel 1938 perché, nonostante viva a contatto con i problemi del totalitarismo staliniano, mette sempre al primo posto la resistenza al nazismo e la necessità che le forze antinaziste rimangano unite. Tutto ciò nonostante tocchi con mano, sin dal primo viaggio in URSS pensato come propagandistico, le condizioni di vita della popolazione russa, lo strangolamento dei kulachi, la persecuzione, di qua e di là del confine sovietico degli oppositori. Buona parte del materiale documentario del romanzo gli viene da una testimone diretta (di carceri e inchieste) che aveva conosciuto nel corso del viaggio in URSS Eva Weissberg e che è stata liberata grazie a pressioni internazionali mentre il marito Alex era stato consegnato alla Gestapo.

Buio a mezzogiorno, insieme ad altri due romanzi dello stesso periodo, I Gladiatori e Arrivo e Partenza ha come tema centrale il rifiuto del principio secondo cui "il fine giustifica i mezzi": il partito è infallibile in quanto avanguardia del proletariato e il proletariato era l'incarnazione del processo storico verso il progresso. Per una ampia biografia su Koestler potete leggere il sito della storica Valentina Piattelli.

Il romanzo, in cui qualcuno ha individiato elementi legati al processo a Bucharin per via della confessionefinale, racconta il processo ad un ex commissario del popolo, Nicola Salmanovič Rubashov, l'ultimo sopravvissuto, oltre a Stalin, della foto di gruppo della vecchia guardia che fino a poco prima stava in tutti gli uffici pubblici (e anche alla Lubjanka), che ora non c'è più perché la vecchia guardia, le teste numerate della fotografia, non c'è più.

Ci sono elementi di similitudine con quanto già scritto da Serge (le celle, i corridoi, gli interrogatori notturni, le figure degli inquisitori, il sotterraneo delle esecuzioni) ma questa volta (a differenza del caso Toulaev) c'è una unica vicenda e un racconto in cui, man mano che procedono gli interrogatori ci sono i salti indietro che ci descrivono la vita e il ruolo di Rubashov che negli anni 30, per conto della Internazionale si dedicava agli interventi di raddrizzamento ed espulsione di militanti delle cellule all'estero (in Germania in pieno nazismo e poi in Belgio).

Rubashov è sereno ma fermissimo; non sono ammessi dissensi, chi dissente è fuori, come capita ai membri della cellula degli scaricatori di un porto del Belgio che avevano organizzato il boicottaggio delle merci dedicate ai nazifascisti e che, la sera prima dello sbarco, apprendono che stanno arrivando dalla patria del socialismo cinque cargo neri, ciascuno con il nome di un grande capo della Rivoluzione e con la bandiera rossa bella in vista. Sono carichi di petrolio da instradare poi, via terra, verso l'Italia di Mussolini, impegnata nella aggressione all'Etiopia e soggetta all'embargo da parte della Società delle Nazioni,

Questo è lo scambio finale con Riccardo, il militante tedesco che ha osato non distribuire il materiale propagandistico giunto da Mosca e sostituirlo con cose scritte sul posto, perché più aderenti alla realtà.


«Il Partito non può mai sbagliare» disse allora Rubasciov. «Tu ed io possiamo commettere degli errori, ma non il Partito. Il Partito, compagno, è piú di te, di me e di mille altri come te e come me. Il Partito è l’incarnazione dell’idea rivoluzionaria nella Storia. La Storia non conosce né scrupoli né esitazioni. Scorre, inerte e infallibile, verso la sua meta. Ad ogni curva del suo corso lascia il fango che porta con sé e i cadaveri degli affogati. La Storia sa dove va. Non commette errori. Colui che non ha una fede assoluta nella Storia non è nelle file del Partito.»

«Hai impedito la diffusione del nostro materiale; hai soppresso la voce del Partito. Hai distribuito volantini ogni parola dei quali era pericolosa e falsa. Hai scritto: “I resti del movimento rivoluzionario debbono unirsi e tutte le forze ostili alla tirannide formare un blocco; dobbiamo porre fine alle nostre vecchie lotte interne e cominciare di nuovo la lotta comune”. Questo è un errore. Il Partito non deve allearsi ai moderati. Sono essi che in perfetta buona fede hanno innumerevoli volte tradito il movimento, e lo faranno ancora alla prossima occasione, e poi ancora alla prossima. Chi scende a un compromesso con essi uccide la rivoluzione. Hai scritto: “Quando la casa brucia, tutti devono contribuire a soffocare l’incendio; se continuiamo a discutere sulle teorie, l’incendio ci ridurrà tutti in cenere”. Altro errore. Noi combattiamo il fuoco con l’acqua; gli altri con l’olio. Pertanto dobbiamo prima decidere quale è il sistema giusto, se l’acqua o l’olio, prima di unire le brigate dei pompieri.


Quando Rubasciov torna in Russia dopo due anni di carcere in Germania trova che molti degli uomini barbuti della fotografia non esistevano più e che i loro nomi non potevano nemmeno essere pronunciati e per questa ragione rimane solo 15 giorni prima di essere inviato in Belgio sui sua richiesta dove gestirà la ribellione dei portuali.


Un’immagine gli comparve alla mente, una grande fotografia in una cornice di legno: i delegati al primo Congresso del Partito. Erano seduti attorno a una grande tavola, chi con i gomiti puntati sopra, altri con le mani sulle ginocchia; seri e barbuti tutti guardavano fisso verso l’obiettivo. Sopra ogni testa si vedeva un piccolo cerchio, che racchiudeva un numero corrispondente a un nome stampato ai piedi della fotografia. Tutti erano solenni, solo il vecchio che presiedeva aveva un’espressione scaltra e divertita negli occhi obliqui da tartaro. Rubasciov era il secondo alla sua destra, col pince-nez sul naso. Il N. 1 era seduto all’altro capo della tavola, in fondo, massiccio e quadrato. Sembrava la riunione del Consiglio municipale di una cittadina di provincia, e preparavano invece la piú grande rivoluzione della Storia. Erano a quel tempo un pugno d’uomini di una specie interamente nuova: filosofi militanti. Conoscevano tutti le prigioni delle città europee come i viaggiatori di commercio conoscono gli alberghi delle loro “piazze”. Sognavano la conquista del potere per abolire il potere; di governare sul popolo per svezzarlo dall’abitudine di essere governato. Tutti i loro pensieri si trasformavano in fatti e tutti i loro sogni divenivano realtà. Dove erano? I loro cervelli, che avevano cambiato il corso del mondo, avevano ricevuto ognuno una scarica di piombo. Chi nella fronte, chi nella nuca. Solo due o tre s’erano salvati, erano spersi per il mondo, logori, finiti. E lui; e il N. 1.


Nonostante ciò Rubashov va in Belgio a gestire la espulsione degli scaricatori, fa espellere i capi della sezione e denuncia il loro leader Nano Loewy come agente provocatore ed è nel periodo belga che Rubashov entra in contatto con labbro leporino il figlio di un diplomatico che sarà utilizzato per imbastire le accuse contro di lui.

In epoca staliniana le eliminazioni seguono due strade:

  • la pratica amministrativa (storicamente ampiamente utlizzata contro i tecnici e gli agronomi) in cui il partito decide che non ci sia interesse ad arrivare al processo e si viene eliminati direttamente su indicazione degli inquirenti (è quanto accade ad un vecchi amico di Rubashov, Bogrov per una questione relativa al tonnellaggio dei sottomarini).
  • il processo pubblico che viene istruito utilizzando chiamate di correità, confessioni, raccolte di documentazione mentre il potenziale imputato è in libertà, si perfeziona con l'arresto e gli interrogatori notturni che hanno la funzione di portare l'imputato allo sfinimento sino a fargli ammettere qualsiasi cosa pur di riposare e che ha come livello massimo di perfezione la ammissione, da parte dell'imputato delle verità più assurde sino al pentimento finale e alla richiesta di espiazione (inclusa la morte) in nome del socialismo.

Rubasciov è un dirigente rivoluzionario e dunque la sua pratica viene affidata ad un amico della prima ora, il giudice Ivanov che si trova ad interagire con un sottoposto della generazione successiva Gletkin, un fanatico convinto che l'imputato vada spezzato distruggendolo. Anche Ivanov, dopo che è riuscito a convincere Rubashov della sua colpevolezza, finirà eliminato per via amministrativa e la pratica passerà all'esperto in confessioni e connessioni in cui da un pelo si costruisce una pelliccia: Rubashov ha ammesso di avere sbagliato convinto dai ragionamenti di Ivanov e Gletkin farà il resto.

Rubashov, reso dubbioso dalle cose che ha visto, ha dei dubbi sull'Io e sul Noi. La dottrina rivoluzionaria si basa sulla divisione aritmetica: l'individuo è il frutto della divisione "una moltitudine di un milione divisa per un milione" ed è su questi temi che viene convinto da UIvanov, ma alla fine, nella sua cella, dopo che il processo si è concluso con la condanna alla fucilazione Rubashov continua ad interrogarsi.


Per che cosa muori tu, in realtà?”, non trovava alcuna risposta. C’era un errore nel sistema; forse consisteva nel precetto, ch’egli aveva considerato finora incontestabile, in nome del quale aveva sacrificato gli altri ed ora egli stesso veniva sacrificato: nel precetto, che il fine giustifica i mezzi. Era questa frase che aveva ucciso la grande fraternità della Rivoluzione e gettato tutti allo sbaraglio. Che cosa aveva scritto egli una volta nel suo diario? “Abbiamo gettato a mare tutte le convenzioni, la nostra sola guida è quella della logica conseguente; navighiamo senza zavorra etica.

Forse la radice del male era tutta qui. Forse non s’addiceva all’umanità navigare senza zavorra. E forse la ragione soltanto era una bussola difettosa, che faceva seguire una rotta cosí tortuosa da fare sparire nella nebbia il punto d’approdo. Forse ora veniva il tempo della grande tenebra.

Forse piú tardi, molto piú tardi, il nuovo movimento sarebbe sorto… con nuove bandiere, con un nuovo spirito, conscio e della fatalità economica e del “senso oceanico”. Forse i membri del nuovo partito avrebbero portato tonache fratesche e predicato che solo la purità dei mezzi può giustificare il fine. Forse avrebbero insegnato ch’è fallace il detto secondo cui un uomo è il prodotto di un milione diviso per un milione e avrebbero introdotto una nuova specie di aritmetica basata sulla moltiplicazione, in modo da formare con un milione di individui una nuova entità che, non piú massa amorfa, sviluppasse una coscienza e un’individualità propria, con una “sensazione oceanica” accresciuta di un milione di volte, in uno spazio illimitato e tuttavia contenuto in se stesso.


Potrei riempirvi di altre decine di citazioni. Il processo razionale che porta Rubashov ad accettare la sua colpevolezza è complesso.Il moderno Prometeo si è annullato nel Partito, ha ammesso di essere al servizio della storia e null'altro conta. I comportamenti delle teste numerate mandate alla fucilazione dal numero 1 sono stati tra loro diversi: c'è chi ha confessato e chiesto la grazia, c'è chi ha ammesso la organizzazione di una opposizione ed è andato con dignità nel corridoio delle cantine della Lubjanka, chi come Zinov'ev è crollato psicologicamente e ha dovuto essere sorretto dai carcerieri. Una tragedia raccontata con grande attenzione all'uomo e alla storia, i due corni del dilemma.


Arthur Koestler

Buio a Mezzogiorno




Memorie di un rivoluzionario – di Victor Serge (2) recensione

Solitamente si sostiene che la degenerazione nello stato sovietico abbia a che fare con la costruzione del potere staliniano, come se fosse esistita una fase aurea, governata da Lenin in coppia con Trockij, in cui, pur con mille problemi, le cose avrebbero sostanzialmente funzionato e una successiva fase degenerata dovuta alla presa del potere da parte di Stalin.

Secondo Serge la questione è più complessa e sarebbero state le condizioni di accerchiamento della rivoluzione a spingere il potere sovietico sulla strada del totalitarismo, una strada che, una volta imboccata, avrebbe portato agli esiti che conosciamo. 

il comunismo di guerra, l'estromissione degli anarchici e la rivolta di Kronstadt, "il totalitarismo è in noi"

La fase finale del comunismo di guerra è caratterizzata dal perdurare di una grave situazione di crisi economico sociale (L'apparato è eccellente, ma la minestra è cattiva!. ) di fronte alla quale c'è chi pensa che la fase dirigista debba durare decenni (Trockij e Bucharin) e in questo contesto si assumonio provvedimenti di tipo demagogico destinati a peggiorare il quadro. Mentre l'inflazione fuori controllo trasforma il danaro in carta straccia si parla della prossima eliminazione della moneta come elemento di socialismo realizzato.

Nelle fabbriche gli operai utilizzano le cinghie di trasmissione in cuoio che portano energia alle macchine in suole per le scarpe; si muore letteralmente di fame, ci si riscalda bruciando il parquet dei palazzi nobiliari o bruciando i libri. Nei lazzaretti, quando i morti di tifo diventano troppi, data la impossibilità di seppellire nel trerreno gelato o di cremare i cadaveri, gli stessi rimangono surgelati nei cameroni e quando diventano troppi ci si trasferisce in un altro palazzo lasciando i cadaveri sul posto.


Il comunismo di guerra poteva definirsi così: 1) requisizione nelle campagne; 2) razionamento implacabile della popolazione delle città, divisa per categorie; 3) socializzazione completa della produzione e del lavoro; 4) ripartizione burocratica estremamente complicata degli ultimi depositi di articoli manufatti; 5) monopolio del potere, con tendenza al partito unico e al soffocamento di ogni dissidenza; 6) stato di assedio e Ceka. Questo sistema, il nono congresso del partito comunista lo aveva sanzionato nel marzo-aprile 1920.


La tendenza a reagire alle difficoltà incrementando costrizione e violenza non fanno che avvitare un quadro in costante peggioramento e mentre si accentua il distacco tra il partito e le masse che applicano l'arte di arrangiarsi si scatenano diverse iniziative di repressione nei confronti delle opposizioni (in particolare degli anarchici) smentendo le timide aperture di Lenin e e di Trockij nei confronti dei contadini anarchici dell'Ucraina (il movimento di Machno).

Gli anarchici hanno posizioni differenziate e spesso inconcludenti ma, osserva Serge, la maggior parte dei bolscevichi, fedeli alla tradizione marxista, li considerava utopisti piccolo-borghesi, incompatibili con lo sviluppo del socialismo scientifico. Nel cervello dei cekisti e di certi burocrati in preda alle psicosi dell'autorità, quei piccoli borghesi diventavano una turba di controrivoluzionari loro malgrado con cui occorreva farla finita ed è questa la ragione per cui si oscilla tra collaborazione, accordi di pacificazione e successiva non applicazione degli stessi mentre cresce la sfiducia nei confronti dei bolscevichi.

Come una ciliegina sulla torta nella notte tra il 28 e il 29 febbraio arriva dal cognato di Zinov'ev una notizia sconvolgente: Kronshtadt è nelle mani dei bianchi. Siamo tutti mobilitati. - Quali bianchi? Da dove saltano fuori? E' incredibile!. - Un certo generale Kozlovskij... - E i nostri marinai? Il soviet? La Ceka? Gli operai dell'arsenale?. - Non so altro.

La base navale di Kronstadt, fiore all'occhiello della marina zarista e da sempre avanguardia dei processi rivoluzionari di Russia, è la via di penetrazione naturale alla Russia (vedi cartina generale e ingrandimento) e dunque non è strana, da parte del partito bolscevico, la scelta di risolvere il problema, manu militari; in una logica di salvaguardia dell'esistente non sono ammessi tentennamenti..

E' sciopero generale, Pietrogrado rischia di cadere, ma si tratta di una balla colossale e credo che sia questa balla ad aver fatto cadere definitivamente in Serge la fiducia assoluta nella verità rivoluzionaria e a portarlo definitivamente su una posizione di comunismo libertario: Dei piccoli manifesti incollati sui muri nelle strade ancora deserte annunciavano che, per complotto e tradimento, il generale controrivoluzionario Kozlovskij s'era impadronito di Kronshtadt e chiamavano il proletariato alle armi. Ma prima ancora di essere arrivato al comitato di zona, incontrai dei compagni, accorsi con i loro mauser, che mi dissero che si trattava di una abominevole menzogna, che i marinai si erano ammutinati, che era una rivolta della flotta, e diretta dal soviet. Non era meno grave, forse; al contrario. Il peggio era che la menzogna ufficiale ci paralizzava. Che il nostro partito ci mentisse così, non era mai capitato. E' necessario dicevano alcuni, sebbene molto abbattuti, per la popolazione....

La richiesta degli ammutinati riguarda questioni che troveranno soluzione solo con la svolta della NEP: Era un programma di rinnovamento della rivoluzione. Riassumo: rielezione dei soviet con voto segreto; libertà di parola e di stampa per tutti i partiti e i gruppi rivoluzionari; libertà sindacale; liberazione dei prigionieri politici rivoluzionari; abolizione della propaganda ufficiale; cessazione delle requisizioni nelle campagne; libertà dell'artigianato; soppressione immediata dei distaccamenti di sbarramento che impedivano alla popolazione di rifornirsi a suo piacimento.

Il partito tentenna, gli anarchici tentano una mediazione ma vengono sconfessati e vengono allora, nell'ordine, prima l'ultimatum e poi l'attacco vittorioso da parte di Tuchacevskij nel giorno anniversario della Comune di Parigi. Una parte dei ribelli raggiunse la Finlandia. Altri si difesero con accanimento, forte per forte, strada per strada. Si lasciavano fucilare al grido di Viva la rivoluzione mondiale!. Ce ne furono che morirono gridando: Viva l'Internazionale comunista!.

Per Serge, come dicevo, si tratta di una cesura non sanabile ed è l'inizio del suo percorso di comunista-libertario che, anche quando si schiererà con l'opposizione trockijsta, determinerà sia giudizi diversi sul regime staliniano, sia un modo diverso di condurre la personale battaglia di resistenza anche proicessuale. Mi si perdoni la lunga citazione ma si tratta di uno dei punti chiavi del libro.


L'opposizione operaia sembrava orientarsi verso la rottura con il partito. Eravamo, in verità, già quasi schiacciati dal nascente totalitarismo. La parola totalitarismo non esisteva ancora. La cosa ci si imponeva duramente senza che ne avessimo coscienza. Io appartenevo all'infima minoranza che se ne rendeva conto. La maggior parte dei dirigenti e dei militanti del partito ...speravano che, venuta la pacificazione, lo stato d'assedio sarebbe caduto da sé e che si sarebbe tornati a una certa democrazia sovietica su cui nessuno aveva più idee chiare.

Le grandi idee del 1917 che avevano permesso al partito bolscevico di trascinare le masse contadine, l'esercito, la classe operaia e l'intelligencija marxista, erano evidentemente morte. Lenin non aveva proposto allora una libertà sovietica della stampa tale che ogni gruppo sostenuto da diecimila voti potesse stampare il suo organo a spese della comunità? (1917). Aveva scritto che nel seno dei soviet gli spostamenti di potere da un partito all'altro avrebbero potuto compiersi senza conflitti acuti. La sua dottrina dello Stato sovietico prometteva uno Stato assolutamente differente dagli antichi Stati borghesi, senza funzionari né polizia distinti dal popolo; in esso i lavoratori avrebbero esercitato direttamente il potere per mezzo dei loro consigli eletti e mantenuto da soli l'ordine grazie a un sistema di milizie.

Il monopolio del potere, la Ceka, l'Armata rossa non lasciavano più sussistere altro che un mito teorico di quello StatoComune sognato. La guerra, la difesa interna contro la controrivoluzione, la carestia creatrice di un apparato burocratico di razionamento avevano ucciso la democrazia sovietica. Come sarebbe rinata? Quando?  ...

A questi fattori storici conviene aggiungere importanti fattori psicologici. Il marxismo è mutato parecchie volte, secondo le epoche. Nasce dalla scienza, dalla filosofia borghese e dalle aspirazioni rivoluzionarie del proletariato, nel momento in cui la società capitalistica si avvicina al suo apogeo. Si presenta come l'erede naturale di quella società di cui è il prodotto. Come la società capitalistico-industriale tende ad abbracciare il mondo intero modellandovi a suo piacimento tutti gli aspetti della vita, così il marxismo dell'inizio del secolo ventesimo mira a riprendere in mano tutto, a trasformare tutto, dal regime della proprietà, all'organizzazione del lavoro e dalla carta dei continenti (per mezzo dell'abolizione delle frontiere), fino alla vita interna dell'uomo (per mezzo della fine della religiosità).

Pretendendo una trasformazione totale, esso era, nel senso etimologico, totalitario. Presentava i due volti della società in ascesa: democratico e autoritario ... Il pensiero bolscevico parte dal presupposto di possedere la verità: agli occhi di Lenin, di Bucharin, di Trockij, di Preobrazenskij e di molti altri, la dialettica materialistica di MarxEngels è, allo stesso tempo, la legge del pensiero umano e quella dello sviluppo della natura e delle società. Il partito detiene semplicemente la verità; ogni pensiero differente dal suo è un errore pernicioso o retrogrado. Questa è la fonte spirituale della sua intolleranza. La convinzione assoluta della sua alta missione gli assicura un'energia morale assolutamente sorprendente - e al tempo stesso una mentalità clericale pronta a diventare inquisitoriale.

Il giacobinismo proletario di Lenin, con il suo disinteresse, la sua disciplina di pensiero e di azione, viene a innestarsi sulla psicologia di quadri formati dal vecchio regime, cioè dalla lotta contro il dispotismo; mi sembra certo che esso debba selezionare i temperamenti autoritari. La vittoria della rivoluzione, infine, rimedia al complesso d'inferiorità delle masse perpetuamente vinte e vessate suscitando in esse uno spirito di rivincita sociale che tende a rendere a loro volta dispotiche le nuove istituzioni. Ho visto marinai e operai dell'antivigilia esercitare il comando con una vera ebbrezza, compiacendosi nel far sentire che le loro persone si identificavano ormai con il potere! Persino i grandi tribuni si dibattevano per le stesse ragioni in contraddizioni inesplicabili che la dialettica permetteva loro di sormontare verbalmente, cioè talvolta demagogicamente.

Venti o cento volte, Lenin ha fatto l'elogio della democrazia e sottolineato che la dittatura del proletariato è una dittatura contro gli ex possidenti spossessati e assieme la più larga democrazia di lavoratori. Lo crede, lo vuole. Va a rendere conti alle officine, domanda di affrontare la critica spietata degli operai. Scrive anche nel 1918 che la dittatura del proletariato non è affatto incompatibile con il potere personale, legittimando così in anticipo una specie di bonapartismo. Fa imprigionare il suo vecchio amico e compagno Bogdanov perché questo grande intellettuale gli presenta obiezioni imbarazzanti; fa mettere i menscevichi fuori legge perché questi socialisti piccolo-borghesi sono purtroppo in errore. Riceve affettuosamente il partigiano anarchico Machno e tenta di dimostrargli che il marxismo ha ragione; ma lascia o fa mettere l'anarchismo fuori legge. Promette la pace ai credenti e ordina di avere riguardi per le Chiese, ma ripete che la religione è l'oppio dei popoli. Andiamo verso una società senza classi, di uomini liberi: ma il partito fa proclamare con manifesti un po' dappertutto che il regno dei lavoratori non avrà fine. Su chi regneranno dunque? E che significa la parola regno? Il totalitarismo è in noi.


In effetti sempre nel marzo del '21 si tiene il X congresso del partito bolscevico e Lenin opera una sterzata su alcune delle questioni calde divenute insostenibili e legate al comunismo di guerra; è la NEP pensata come temporaneo ritorno al capitalismo per consentire allo stato sovietico di sopravvivere: soppressione delle requisizioni, imposte in natura (per i contadini); libertà del commercio, libertà della produzione artigiana; concessioni ai capitalisti stranieri, a condizioni vantaggiose; libertà d'impresa - limitata, è vero - per i cittadini sovietici stessi.

Si apre sul terreno della politica economica e dei rapporti di produzione ma non si molla sul terreno delle libertà politiche. Serge è sfiduciato, assiste al III congresso dell'Internazionale comunista, fonda una associazione eterodossa per il libero pensiero, tenta l'esperimento di una comune agricola nella zona del lago Ladoga e, alla fine tira le somme, considera chiusa la sua esperienza di vita nella terra dei soviet e, sfruttando la consolidata collaborazione con Zinov'ev e i membri dell'esecutivo, si fa mandare in Europa a lavorare per creare le condizioni di alleggerimento dell'isolamento russo. Prima tappa Berlino

rivoluzionario di professione in Europa mentre muore Lenin e in URSS inizia la guerra dentro il partito

Gli anni dal 1922 al 1926 corrispondono da parte dfi Serge al tentativo di digerire la delusione ritornando nella amata Europa a fare il rivoluzionario di professione per conto della Internazionale che sta gestendo le rotture all'interno del movimento socialista e tenta di rompere l'accerchiamento della Russia rivoluzionaria fomentando insurrezioni (spacciate per rivoluzioni socialiste) in primo luogo in Germania.

Serge arriva a Berlino dopo essere passato per la Lituania e rimane colpito dalla sua organizzazione e dall'alto tenore di vita. La Germania, vittima degli accordi di spartizione successivi alla guerra mondiale (le riparazioni di Versailles) è in piena crisi, ma i movimenti affiliati a Mosca sono generalmente diretti da personaggi di secondo piano, in maggioranza russi, governati a guinzaglio corto da Zinoiv'ev che controlla i finanziamenti. E' in questo quadro che nell'ottobre del 23 avviene in Germania una insurrezione farsa e tentativi analoghi riguarderanno prima il mondo balcanico, l'Estonia e poi la Bulgaria.

Dopo i fatti di Gernania Serge si trasferisce a Vienna dove ha modo di incontrare Antonio Gramsci e Angelica Balabanoff; apprende della imminente morte di Lenin e avrà poi modo di avere informazioni da Nikolaj Bucharin testimone diretto:

Lenin sembrava possedesse ancora tutta la sua coscienza, senza mezzi di lavoro, né di espressione. Riusciva appena a balbettare qualche parola; gli si faceva compitare lettera per lettera il titolo della Pravda. Aveva talvolta sguardi carichi di un'amarezza inesprimibile. Verificatosi un miglioramento, aveva voluto rivedere il Cremlino, il suo tavolo di lavoro, i suoi telefoni; vi venne condotto...

Lo vedi, sostenuto da Nadezda Kostantinovna (Krupskaja) e Nikolaj Ivanovic (Bucharin), mentre trascina il suo passo di invalido attraverso il gabinetto, guardando, terrorizzato di non capirla più, la carta sul muro, prende tra le dita delle matite per abbozzare una firma, e tutto questo come un fantasma, come un disperato che sopravvive a se stesso... Bucharin lo visita sovente nella sua casa di campagna di Gor'kij. Bucharin fa l'allegrone con lui, poi si nasconde dietro un cespuglio e lo guarda con gli occhi pieni di lacrime... E' proprio la fine, vecchio mio. E poi?. Poi, sarà la zuffa.

Consiglio la lettura delle pagine dedicate a Gramsci (pronto a scovare il falso per farlo sgonfiare con una punta ironica, vedeva molto chiaro) alla Balabanoff, già mentore e amante del Mussolini socialista, poi autorevole membro della segreteria della III internazionale.

La politica rivoluzionaria, fatta di chiaroveggenza e di coraggio, esige nei tempi decisivi qualità di buon chirurgo, e nessuno è quaggiù più umano e più probo che il buon chirurgo che lavora tuttavia sulla carne viva, nel dolore e nel sangue. Angela insorse allo stesso tempo contro la chirurgia politica che tendeva a scartare senza riguardi i capi riformisti disposti a silurare ogni offensiva e contro gli sporchi intrighetti da medicone e da politicante di Zinov'ev. Essa seppe discernere ben presto i primi indizi della malattia mortale che in una quindicina d'anni avrebbe provocato la morte del bolscevismo.

I marxisti sanno, mi diceva Gyrgy Lukács, autore di "Geschichte und Klassenbewusstsein" che si possono commettere impunemente molte piccole porcherie quando si fanno grandi cose; l'errore di certi consiste nel credere che si può arrivare a grandi risultati facendo soltanto piccole porcherie...Gyrgy Lukács, una sera che andavamo errando sotto le guglie grigie della chiesa votiva, non fatevi stupidamente deportare per nulla, per il rifiuto di una piccola umiliazione, per il piacere di votare con sfida... Credetemi, le vessazioni non hanno grande importanza per noi. I rivoluzionari marxisti hanno bisogno di pazienza e di coraggio; non hanno affatto bisogno di amor proprio.

Amor proprio o no, Serge rientra in Russia per continuare a bere il suo calice amaro; si fa coinvolgere dalla organizzazione della opposizione di sinistra intorno a Trockij. Stalin, espressione del centro (Molotov, Kaganovic, Mikojan, Kirov) si è ormai impadronito del partito rafforzato dall'ingresso di quelli entrati con la morte di Lenin. In Russia si sta meglio e la gente vuole essere tranquilla; si rafforza la burocrazia mentre tra gli esponenti della vecchia guardia e tra i letterati si diffondono i suicidi.

Stanno per iniziare le svolte politiche e i processi di epurazione con i cambi di cavallo che porteranno alla messa fuori gioco dapprima di Trockij, Zinov'ev e Kamenev e poi della destra di Bucharin, Rykov e Kalinin. Nell'ottobre del 27 Trockij pronuncia al C.C. il suo uiltimo discorso (rivoluzione cinese, ripresa della industrializzazione energica e moderata, attenuazione della NEP) e mentre parla alcuni altri che, ben in carne, non avevano la minima idea di non essere più in realtà se non fantasmi agitati di futuri suicidi e fucilati, lo coprivano di oltraggi stenografati: Menscevico! Traditore! Lazzarone! Liberale! Bugiardo! Canaglia! Spregevole chiacchierone! Rinnegato! Infame!.

Nell'autunno del 27 Zinov'ev e Trockij vengono esclusi dal C.C.. Zinov'ev pur privato di tutti gli incarichi farà ammenda mentre il quindicesimo congresso (dicembre 1927) stabilisce la esclusione dal partito della intera opposizione (deviazionismo menscevico) i cui dirigenti, a partire da Trockij vengono esiliati dando loro solo la possibilità di una ritrattazione.

Trockij viene esiliato ad Alma Ata (alla frontier del Turkestan cinese). Anche Serge viene convocato dalla commissione di controllo di Leningrado per un interrogatorio di rito sulla fedeltà: Qual è il vostro contegno circa la decisione del congresso che ha pronunciato l'esclusione dell'opposizione? Risposi: - Mi sottometto per disciplina a tutte le decisioni del partito, ma ritengo che quello sia un errore grave, le cui conseguenze saranno funeste, se non viene presto riparato... L'operaia con il fazzoletto rosso in testa si rizzò e, con una voce stupefatta: - Compagno, avete detto proprio "un errore"? Pensate dunque che il congresso del partito può sbagliarsi e commettere errori?. Citai l'esempio della socialdemocrazia tedesca che aveva votato la guerra il 2 agosto 1914 contro i due soli voti di Karl Liebknecht e di Otto Rhle. Questo paragone sacrilego empì di costernazione la Commissione. Fui escluso immediatamente.

Ho riportato questo brano perché consente di comprendere la posizione di Serge che rimarrà immutata negli anni successivi quando subirà mesi di carcere e di inquisizione. Serge, a differenza di altri esponenti della opposizione che scelgono una sorta di doppio binario per proseguire attività clandestina di collegamento, è per la esplicitazione del dissenso e, paradossalmente, sarà questo uno degli elementi che gli consentiranno di salvarsi evitando le accuse di cospirazione con cui si finiva molto spesso alla fucilazione. Passano pochi giorni e viene arrestato rimanendo nel carcere di Leningrado per alcune settimane. Non gli viene contestato nulla e sarà liberato per effetto di pressioni parigine (è già un intellettuale famoso). 

Una opposizione solitaria e il testamento politico (1928-1933)

Gli anni dal 28 al 33 riguardano problematiche tra loro diverse: la costruzione di una prospettiva professionale, visto che sono ovviamente cessati i diversi incarichi connessi alla attività politica, i mutamenti di linea politica in URSS con la fine della NEP, la persecuzione dei Kulaki e l'industrializzazione forzata, l'incrudimento del carattere illiberale del sistema che inizialmente riguarderà i tecnici e in genere le persone coinvolte nei processi produttivi.

La persecuzione dei Kulaki (i contadini proprietari che erano stati agevolati dalla NEP) avviene nel momento in cui si determina una crisi nella agricoltura e il governo sovietico decide di spingere sulle strutture statali e cooperative (i sovchoz e i colchoz) e contemporaneamente di imboccare la strada della industrializzazione forzata.

I contadini proprietari vengono assogettati requisizioni e deportazioni (e nel giro di un decennio si avrà una riduzione di circa 5 milioni di famiglie contadine su un totale di 25) e Serge racconta le forme di insubordinazione attuate dalle donne in particolare in occasione delle azioni più insensate. In Bielorussia, quando si venne a tagliare il crine dei cavalli per l'esportazione, senza pensare che le bestie ne sarebbero crepate, le donne circondarono il capo del governo locale, Golodied (fucilato o suicida poi nel 1937) e, d'un tratto, sollevarono, furiose, le loro gonne, sotto cui erano nude: - Tieni, porco! Prendi se osi il nostro crine, non avrai quello dei cavalli!.

A treni interi i contadini deportati partivano verso il nord glaciale, le foreste, le steppe, i deserti, popolazioni intere spogliate di tutto; e i vecchi crepavano in viaggio, si sotterravano i neonati sul ciglio delle strade

Serge decide che farà lo scrittore e si occupa inizialmente di saggi dedicati ai primi anni della rivoluzione, oltre che di collaborazioni dirette con riviste francesi. Dato che mi si rifiutava il diritto di partecipare all'industrializzazione senza rinnegare la libertà di opinione, avrei potuto, pur mantenendo fermamente il mio contegno di oppositore ridotto all'inazione, recare su questo tempo testimonianze utili.

Frequenta l'unione degli scrittori e assiste alla crisi di alcuni dei grandi come Majakovskij che si suicida o di Gorkij isolato e dissenziente - In altri tempi lo scrittore russo non aveva da temere se non il poliziotto e l'arcivescovo; il funzionario comunista di oggi è assieme l'uno e l'altro; vuole sempre cacciarvi le sue sporche zampe nell'anima...

In certi momenti, ci facevamo poche illusioni. Ricordo di aver detto: Se un disperato tira una rivoltellata a qualche satrapo, rischiamo parecchio di essere fucilati tutti assieme entro otto giorni. Non sapevo di colpire così nel segno. Per anni, la persecuzione fu dappertutto, insistente, al punto di far perdere la testa. Il regime divorava ogni semestre una nuova categoria di vittime. Finiti i trockisti, ci si era attaccati ai kulaki; poi ai tecnici; poi agli ex borghesi, commercianti e ufficiali privati del diritto inutile di voto; poi ai preti e ai credenti; poi all'opposizione di destra...

Alle difficoltà della sopravvivenza quotidiana si aggiunge il crollo psichiatrico della moglie che non regge alle persecuzioni verso il padre Rusakov, vecchio rivoluzionario libertario. Alla fine del 1932 Serge incomincia seriamente a pensare ad un nuovo espatrio, ma teme contemporaneamente di essere arrestato, questa volta non di passaggio e ciò lo induce a scrivere una sorta di testamento politico da far pubblicare in Francia nel caso di una sua sparizione. Il documento è datato 1 febbraio 1933.


Credo proprio di essere stato il primo a definire in quel documento lo Stato sovietico come uno Stato totalitario. Già da lunghi anni scrivevo, la rivoluzione è entrata in una fase di reazione (...). Non bisogna nascondersi che il socialismo porta in se stesso germi di reazione. Sul terreno russo, questi germi hanno prodotto una prospera fioritura. Oggi noi siamo sempre più in presenza di uno Stato totalitario, castocratico, assoluto, ebbro della sua potenza, per cui l'uomo non conta.

Questa macchina formidabile riposa su una doppia base: una polizia onnipotente che ha ripreso le tradizioni delle cancellerie segrete della fine del diciottesimo secolo e un 'ordine', nel senso clericale della parola, burocratico, di dirigenti privilegiati.

La concentrazione dei poteri economici e politici fa sì che l'individuo è tenuto, attraverso il pane, il vestito, l'affitto, il lavoro, a disposizione assoluta della macchina: essa permette quindi a quest'ultima di trascurare l'uomo e di non tener conto d'altro che dei grandi numeri, alla lunga. Questo regime è in contraddizione con tutto ciò che è stato detto proclamato, voluto, pensato, durante la rivoluzione stessa...

Su tre punti essenziali, superiori a ogni considerazione di tattica, resto e resterò, mi costi quel che mi deve costare, un non consenziente dichiarato, netto, il quale tacerà solo se costretto:

1. Difesa dell'uomo. Rispetto dell'uomo. Bisogna restituirgli diritti, una sicurezza, un valore. Senza di ciò, niente socialismo. Senza di ciò, tutto è falso, fallito, viziato. L'uomo chiunque esso sia, fosse pure l'ultimo degli uomini. 'Nemico di classe', figlio o nipote di borghesi, me ne infischio, non bisogna mai dimenticare che un essere umano è un essere umano. Ciò si dimentica ogni giorno sotto i miei occhi, dappertutto: è la cosa più rivoltante, più antisocialista che ci sia.

E a questo proposito, senza voler cancellare una sola riga di quel che ho scritto sulla necessità del terrore nelle rivoluzioni in pericolo mortale, devo dire che considero un abominio inqualificabile, reazionario, nauseante e demoralizzante l'uso continuo della pena di morte da parte di una giustizia amministrativa e segreta (in tempo di pace! E in uno Stato più potente di qualsiasi altro!). Il mio punto di vista è quello di Dzerzinskij all'inizio del 1920, quando, sembrando terminata la guerra civile, propose - e ottenne senza fatica da Lenin - la soppressione della pena di morte in materia politica (...). E' pure quello di quei comunisti che proposero per anni di ridurre le funzioni delle Commissioni straordinarie (Ceka e Ghepeù) all'inchiesta.

Il valore della vita umana è caduto così in basso e ciò è così tragico che ogni pena di morte dev'essere condannata in questo regime. Abominevole ugualmente, e ingiustificabile, la repressione mediante l'esilio, il confino, la prigione semiperpetua, di ogni dissidenza nel movimento operaio ...

2. Difesa della verità. L'uomo e le masse vi hanno diritto. Non consento né al rimaneggiamento sistematico della storia e della letteratura, né alla soppressione di ogni informazione seria nella stampa (ridotta a una funzione di agitazione). Ritengo la verità una condizione di salute intellettuale e morale. Chi parla di verità parla di sincerità. Diritto dell'uomo all'una e all'altra.

3. Difesa del pensiero. Nessuna ricerca intellettuale, in nessun campo, è permessa. Tutto si riduce a una casistica nutrita di citazioni (...). La paura dell'eresia sbocca nel dogmatismo bigotto più paralizzante. Ritengo che il socialismo non possa crescere nel campo intellettuale altro che per mezzo dell'emulazione, della ricerca, della lotta delle idee; che non debba temere l'errore, sempre riparato col tempo dalla vita stessa, ma il ristagno e la reazione; che il rispetto dell'uomo sottintenda per l'uomo il diritto di tutto conoscere e la libertà di pensare.

Non contro la libertà di pensiero, non contro l'uomo può trionfare il socialismo, ma al contrario nella libertà di pensiero, migliorando la sorte dell'uomo.


Si tratta di tematiche che3 vedremo riprese nell'ultimo capitolo delle memorie. Serge verrà arrestato mentre la lettera è ancora in viaggio per Parigi, lo attende la visione dall'interno del sistema inquisitorio cui farà fronte con la opposizione diretta e a viso aperto senza farsi ingabbiare, come accadrà ai trockijsti, dal culto del partito e dalla considerazione che i rapporti di produzione sono stati rotti e ricostruiti su base socialista. Siamo in presenza di una visione umanistica della lotta per il socialismo: l'uomo, la verità e la libertà di pensiero vengono prima di ogni altra considerazione.

L'arresto, l'inchiesta e la deportazione (1933-1936)

- Ricerche criminali. Vogliate seguirci, cittadino, per verifica di identità. Serge era uscito a prendere medicine per la moglie, viene abbordato per strada e portato alla sede della Ghepeu. Subisce un interrogatorio di 12 ore e poi viene trasferito al carcere dove rimane una sola notte perché poi viene trasferito a Mosca (segno che questa volta si tratta di una cosa seria).

A Mosca finisce alla Lubjanka (sede della Ceka, Ghepeu, KGB) un edificio storico originariamente occupato da una compagnia di assicurazioni ora sede centrale del sistema della repressione con carcere interno, forte segmentazione interna, 10 piani sotterranei con il cunicolo delle fucilazioni (Mi capitava, andando e tornando dall'istruttoria, di passare davanti all'ingresso spalancato di un corridoio cementato del pianterreno brutalmente illuminato).

Durante i primi giorni, in attesa della assegnazione definitiva e della apertura dell'inchiesta sta in mezzo agli altri detenuti in attesa della presa in carico e tra i diversi episodi voglio citare l'incontro con un agronomo siberiano perché rappresenta bene il clima del sistema repressivo-inquisitorio nella sua perfezione-imperfezione. Il libro è pieno di questi racconti veri di tipo kafkiano e lo stesso Serge ne farà uso nei suoi romanzi.

L'ultimo arrivato fu il più simpatico; era un intellettuale siberiano di una sessantina d'anni, vigoroso, teso, allegro. Attaccai discorso con lui e, quando seppe che ero oppositore, mi raccontò gorgogliando di risa la faccenda che lo conduceva a Mosca da Irkutsk e lo empiva di ottimismo.

In seguito alla carestia e alle epizoozie, nella sua remota regione, si era montato contro gli agronomi, i veterinari e gli ingegneri un affare di sabotaggio controrivoluzionario. Si era preteso da loro che facessero confessioni contrarie al semplice buon senso. Aveva, lui, resistito mesi, nel freddo, nella fame, nell'isolamento; poi aveva ceduto a una promessa di miglioramento del regime e confessato tutto ciò che si era voluto.

Dopo di che, gli avevano dato una cella calda, permesso di ricevere viveri e vedere la moglie e avevano promesso di sollecitare per lui, dato il suo pentimento, l'indulgenza del Collegio segreto. Soltanto, ecco! Abbiamo confessato tante cose e così folli che Mosca non ci ha creduto, Mosca ha domandato gli incartamenti, e poiché gli incartamenti sono stupefacenti, ci hanno fatto venire, i due principali accusati e il giudice istruttore, per studiare la faccenda qui stesso! Abbiamo viaggiato un mese con il giudice, sentiva di essere nelle nostre mani, aveva paura di noi, ci colmava di gentilezze...

E il professor N., incontrato dopo qualche giorno, compagno di avventura dell'intellettuale siberiano aggiunge divertito quanto il suo collega, me ne diede volentieri altri particolari... Pensava che tutto si sarebbe rigirato in senso contrario e che i giudici istruttori della Ghepeù locale avrebbero ben presto occupato le celle dei loro accusati della vigilia.

Insieme al professor N. incontra un altro agronomo che gli dà notizia dell'arresto di 35 alti funzionari e dirigenti del commissariato della agricoltura arrestati con lui (tutti fucilati di lì a qualche giorno). Siamo alla coda degli arresti, deportazioni e assassinii dei controrivoluzionari (i tecnici) prima che si scateni la nuova ondata contro i politici (della destra e della sinistra) innescata dall'assassinio di Kirov (si veda il caso Toulaev).

Nella cella della Lubjanka Serge vive in totale solitudine e non ha accesso ai libri, ma si tiene in esercizio mentale facendosi immaginari corsi di diverse discipline e in esercizio fisico in modo di presentarsi lucido agli interrogatori con il giudice Bogin (dapprima) e con l'inquisitore Rutkovskij (collaboratore personale del caposervizio Molcianov, membro del Collegio segreto). La tecnica degli inquisitori si basa sulla guerra psicologica, accusare senza provare, insinuare, blandire, puntare alla ammissione ed è contro queste tecniche che Serge combatte a viso aperto sapendo che gli inquisitori hanno bisogno di ammissioni su cui costruire i loro castelli, perché anche la loro attività viene poi sottoposta a controlli superiori. Sapevo che gli inquisitori della Ghepeù sono controllati da varie commissioni, in particolare la Commissione di controllo del C.C. e che devono, per motivare le sentenze volute, preparare incartamenti secondo tutte le regole.


Bogin spiegò che sapeva tutto: - Tutto. I vostri compagni sono talmente demoralizzati, ho qui le loro deposizioni, non credereste ai vostri occhi. Vorremmo sapere se siete un nemico o, malgrado la vostra dissidenza, un vero comunista. Libero per voi di rifiutarvi di rispondere, l'istruttoria sarà chiusa oggi stesso e vi considereremo con la stima che merita un avversario politico a viso scoperto.

Trappola! Vuoi che ti faciliti il compito dandoti carta bianca, perché tu possa cucinare in seguito contro di me, con i tuoi rapporti segreti, non so quali conclusioni che mi varrebbero almeno anni di isolamento. - No, tengo a rispondere all'interrogatorio. Interrogate.

- Ebbene; parliamo da comunisti come siamo voi e io. Io sono al posto che il partito mi assegna. Voi pensate di servire il partito, e io vi capisco. Voi ammettete l'autorità del C.C.?. Trappola! Se ammetto l'autorità del C.C., entro nel gioco e si può farmi dire qualsiasi cosa in nome della devozione al partito. - Prego, io sono escluso. Non ho richiesto alcuna riammissione. Non sono quindi più tenuto alla disciplina di partito...

- Siete deplorevolmente formalista!. - Domando di sapere di che sono accusato al fine di distruggere l'accusa. Mi sento irreprensibile dal punto di vista delle leggi sovietiche. - Che formalismo! Allora voi vorreste che io metta le carte in tavola?. - Stiamo forse giocando a carte?. Finì per dirmi che si erano trovati in casa mia documenti che provenivano da Trockij. E' falso dissi.


Consiglio la lettura attenta degli interrogatori, delle insinuazioni, delle repliche ferme di Serge, della capacità di far perdere le staffe agli inquisitori che, alla fine, in mancanza della minima ammissione sono costretti a cedere. Serge ammette solo cose che sono lecite per la legge sovietica e non si fa ingannare dal buon cuore degli inquisitori o dallo spirito di partito, errore in cui cadranno molti dei dirigenti rivoluzionari fucilati tra il 36 e il 38, primo di tutti Zinov'ev. Il resto lo fa la sua doppia cittadinanza franco-russa, così l'istruttoria viene chiusa e Serge è spostato in carcere. Un ufficiale della Ghepeù entrò bruscamente, un sottile foglio di carta in mano. Leggete, firmate!. Lessi: Mene controrivoluzionarie, condannato dalla Conferenza speciale a tre anni di deportazione a Orenburg... Firmai con tanta collera quanta gioia. La collera dell'impotenza, la gioia, poiché la deportazione era malgrado tutto l'aria aperta, il cielo libero sopra la testa.

Orenburg è una vecchia capitale decaduta che campa sulla presenza di una scuola di aviazione. C'è una povertà assoluta e la lotta per il pane, nel senso letterale del termine, è all'ultimo sangue (furti, lotte in famiglia, prostituzione).

Il deportato, legato dalla sua corrispondenza con i suoi cari, dal lavoro, dalle cure mediche, viveva letteralmente alla mercé di qualche funzionario di polizia. Tenuto a presentarsi alla Ghepeù tutti i giorni, oppure ogni tre, ogni cinque, ogni sette giorni secondo i casi.

Non appena riusciva a organizzare un po' la sua esistenza, si distruggeva tutto, mediante la disoccupazione, la prigione o il mutamento di sede. Gioco interminabile del gatto e del topo... Mi si fece chiaramente comprendere che non avrei ottenuto lavoro se non avessi cercato le grazie della Ghepeù. Recatomi a parlare di un impiego possibile al trust dell'oro dell'Ural, ebbi con il capo del servizio segreto questo spunto di dialogo: - Avete l'intenzione di sollecitare la vostra reintegrazione nel partito?. - Niente affatto. - E di appellarvi al Consiglio speciale degli interni per la condanna pronunciata contro di voi?. - Niente affatto. Non si parlò più di impiego.

Ma da Leningrado arrivano la moglie, il figlio e la macchina da scrivere che consentirà di continuare il lavoro di scrittore e di pubblicista. In questo periodo Serge riesce a campare con i proventi della attività editoriale che arrivano a singhiozzo da Parigi. Le cronache della deportazione sono gustose e mi limito ad alcuni riferimenti:

  • Il direttore della scuola di Vlady vorrebbe punirlo perché ha osato affermare che in Francia ci sono le libertà politiche e sindacali e considera tale affermazione come un attacco all'Unione Sovietica; Ma dissi, è un fatto che la libertà sindacale e persino politica esiste in Francia, e ciò non ha nulla di antisovietico. - Mi è difficile credervi rispose il direttore, e noi dobbiamo in ogni caso inculcare ai ragazzi che la vera libertà esiste da noi e non sotto la dittatura capitalista dei paesi cosiddetti democratici.
  • il racconto dettagliato del gruppo degli oppositori di sinistra, ciascuno con le sue storie; molti di loro li ritroveremo nel romanzo scritto da Serge dopo la liberazione "Se è mezzanotte nel secolo". Uno di loro sarà agganciato dalla Ghepeu per montare l'ennesima provocazione ai danni di Serge (la costituzione di un comitato clandestino della opposizione, la pistola fumante che non si trova): Lo interrogai sui compagni di Mosca, cercando di identificarli, lo guardai bene in fondo agli occhi, e pensai: Tu, vecchio mio, sei un agente provocatore!. Gli spiegai che, anche nel fondo delle prigioni, rappresentavamo sempre un principio di vita e di libertà e che non avevamo affatto bisogno di costituirci in comitati clandestini. Fallì dunque, ma fu graziato qualche tempo dopo. Avevo avuto ragione. Se lo avessi ascoltato, sarei certo morto a quest'ora, con un forellino nella nuca.
  • l'arrivo da Leningrado di alcuni dei deportati borghesi (i deportati furono da cinquanta a centomila): In seguito alla faccenda Kirov, Stalin aveva mandato al comitato regionale di Leningrado un messaggio in cui gli rimproverava di non aver ripulito la città dell'antica borghesia imperiale. Il rastrellamento cominciò immediatamente.
  • la tragicommedia legata al controllo della corrispondenza; alcune opere spedite in Francia con tutti i crismi della Unione degli scrittori e il controllo della Ghepeu non arriveranno mai e, racconta Serge, ad un certo punto incominciai a campare dei rimborsi dovuti alla corrispondenza spedita per raccomandata che non veniva recapitata. Il capo del servizio segreto dal quale andai a lamentarmi esclamò: - Guardate in che modo deplorevole funziona la posta! E voi dite che esageriamo quando scopriamo dei sabotaggi. Vedete, anch'io, le lettere a mia moglie si perdono! Vi prometto che l'inchiesta sarà ben fatta e la posta vi pagherà senza indugio le indennità legali!. Mi offrì cortesemente di vegliare pure alla spedizione, sempre a Romain Rolland, di un'altra serie di manoscritti che la Ghepeù avrebbe fatto visionare dalla censura letteraria. Glieli affidai - e naturalmente non arrivarono mai. Date le premesse, la mia corrispondenza con l'estero fu interrotta. Il capo del servizio segreto scuoteva gravemente la testa: - Ah! Che volete che facciamo per mettere ordine nelle poste?. La posta mi pagava con regolarità centinaia di rubli per le lettere raccomandate che io continuavo a mandare in ragione di cinque al mese e che si perdevano. Ciò mi procurava il reddito di un tecnico ben retribuito.

La liberazione di Serge arriva alllo scadere dei tre anni di condanna in un momento in cui in URSS è normale essere colpiti da provvedimenti con cui le pene vengono replicate per via puramente amministrativa. La liberazione avviene per effetto delle pressioni internazionali. Il congresso degli scrittori per la difesa della cultura tenutosi a Parigi si occupa estesamente del suo caso mentre gli scrittori russi presenti cercano addirittura di coinvolgerlo nell'attentato a Kirov. L'impudente dichiarazione che giustificava la mia prigionia con un attentato commesso due anni dopo il mio arresto fece passare un brivido lungo qualche schiena. André Gide andò a trovare l'ambasciatore dell'URSS, che non seppe illuminarlo su nulla. Quasi nello stesso tempo Romain Rolland, invitato a Mosca e ricevuto da Stalin, gli parlava dell'affare Victor Serge. Il capo della polizia politica, Jagoda, consultato, non trovò nulla nei suoi incartamenti (se vi avesse trovato la minima compiacente confessione firmata da me, sarei stato perduto). Stalin promise che sarei stato autorizzato a lasciare l'URSS con la mia famiglia.

Gli anni dal 1936 al 1941: la guerra di Spagna, i fronti popolari, il patto russo-tedesco

Serge, nell'aprile del 1936, ce la fa ad espatriare grazie all'azione dei socialisti belghi (in particolare di Emile Vandervelde) che concedono il visto di ingresso (rifiutato da Francia e Inghilterra), viaggia con il figlio Vlady e, prima in Belgio e poi in Francia, è fatto oggetto di continue azioni di provocazione da parte della Ghepeu.

A Mosca sta per iniziare l'epoca dei grandi processi, Zinov'ev, Kamenev e Sverdlov sono già stati coinvolti dalle inchieste legate al processo Kirov e nell'agosto del 36 così descrive uno degli incontri con Vandervelde: dopo l'esecuzione dei sedici a Mosca, lo trovai spaventosamente triste, ancora appesantito sotto l'incomprensibile: Ho letto le confessioni di Kamenev: si tratta di delirio... Come potrete spiegarmelo? Conosco Kamenev, sta là dinanzi a me, con i suoi capelli bianchi, la sua nobile testa - e non posso ammettere che lo si sia ucciso dopo questo straripamento di follia... Come spiegare tali delitti a quel vecchio che incarnava, sull'orlo della tomba, mezzo secolo di umanismo socialista? Ero più interdetto ancora che davanti alle domande di mio figlio.

Serge si batte come un leone ma è sostanzialmente isolato perchè l'internazionale comunista ha iniziato la politica dei Fronti Popolari e il Fronte sta per vincere in Francia (Leon Blum); la carretta la tirano i socialisti ma il ruolo del partito comunista è fondamentale e, anche quando le cose sono chiare, bisogna tacere o far finta di nulla. Il capitolo 9, oltre che raccontare ciò che avviene è occasione per Serge per riflettere sulla genesi di quanto sta per avvenire. A volte preconizza, come nel caso della morte del capo della Ghepeu Jagoda o del processo alla destra di Bucharin e Rykov, altre volte cerca di analizzare le cause di questo salto di qualità.


E, il 14 agosto, - d'un tratto, come il tuono - venne l'annuncio del processo dei sedici, terminato il 25 - in undici giorni! - con l'esecuzione di Zinov'ev, Kamenev, Ivan Smirnov e tutti i loro coimputati. Comprendevo (e lo scrissi immediatamente) che era il principio dello sterminio di tutta la vecchia generazione rivoluzionaria. Impossibile assassinare questi e lasciar vivere gli altri, loro fratelli, testimoni impotenti, ma testimoni che comprendevano tutto fino in fondo.

Perché questo massacro, mi domandavo sulla Révolution Prolétarienne, e non vedevo altra spiegazione che la volontà di sopprimere i gruppi di ricambio del potere alla vigilia di una guerra considerata imminente. Stalin, ne sono persuaso, non aveva strettamente premeditato il processo, ma egli vide nella guerra civile di Spagna il principio della guerra europea. Ho il sentimento di essere la prova vivente della non premeditazione del primo processo, e anche della falsità delirante delle accuse formulate in tutti i processi. Avevo lasciato l'URSS alla metà di aprile, in un momento in cui quasi tutti gli accusati erano già in prigione. Avevo collaborato con Zinov'ev e Trockij, conoscevo da vicino parecchie decine di coloro che stavano per sparire fucilati, ero stato uno dei dirigenti dell'opposizione di sinistra a Leningrado, uno dei suoi portavoce all'estero, non avevo mai abiurato...

Mi si sarebbe lasciato uscire dalla Russia, con la mia penna e le mie convinzioni di testimone inconfutabilmente informato, se il processo di sterminio fosse stato così vicino? Il fatto, d'altra parte, che nessuna accusa insensata sia stata formulata contro di me nel corso dei processi basta a chiarire che non si mentiva altro che contro coloro i quali non avevano nessun mezzo di difesa.


Insieme ad intellettuali francesi e americani mette in piedi una sorta di antesignano tribunale Russel: un comitato per l'inchiesta sui processi di Mosca e per la difesa della libertà d'opinione nella Rivoluzione ma, come detto, si tratta di una lavoro difficile perché c'è l'esigenza di fronte al nazismo, alla guerra di Spagna, al governo socialista di Francia, di restare uniti. Per chi conosce un po' di storia anche dell'antifascismo italiano e dell'emigrazione italiana antifascista in Francia è tutto tragicamente chiaro (i complotti, il sospetto, …).


Annunciai che Radek, condannato a dieci anni di prigione, non sarebbe sopravvissuto a lungo: è stato assassinato in prigione.

Conoscendo gli uomini e la Russia, devo ripetere che i vecchi bolscevichi erano compenetrati da un tale fanatismo di partito, da un tale patriottismo sovietico, che diventavano capaci di accettare i peggiori supplizi, e per ciò stesso erano incapaci di un tradimento. Le loro stesse confessioni provano così la loro innocenza. Lo Stato totalitario si fondava su un sistema di sorveglianza e di spionaggio interno così perfetto che qualsiasi cospirazione vi era impossibile. Ma il vecchio partito nella sua totalità esecrava il regime e il capo, viveva nell'attesa delle catastrofi - che sono venute - e questo si traduceva in molte conversazioni intime e in uno stato d'animo generale di opposizione al capo, a dispetto degli atti di sottomissione e di adorazione che il capo instancabilmente imponeva.

L'immensa maggioranza dei bolscevichi si sono del resto lasciati fucilare nella notte senza prestarsi al gioco abominevole delle confessioni per compiacenza politica. Alcuni sono arrivati fino alla tomba schiacciando la loro coscienza stessa per servire ancora al partito. Tranne una o due eccezioni, coloro che si sono dichiarati trockisti non lo erano, non lo erano mai stati, erano persino abbastanza profondamente in disaccordo con Trockij e le loro polemiche contro di lui sono durate anni.

Se ci sono state trame di cospirazione in qualche luogo, sono state ordite dalla Ghepeù stessa, che si era servita di questo procedimento di provocazione per liquidare gli ultimi bianchi (monarchici), liquidare i menscevichi del Caucaso, liquidare infine, come ho già raccontato, le nostre organizzazioni di opposizione. Se diplomatici, ingegneri, militari, giornalisti, agenti segreti hanno avuto contatti con l'estero, ciò e avvenuto sempre in base a direttive e con un controllo costante; e poi lo hanno considerato un crimine.

Conosco personalmente parecchi casi di questo genere. Una orribile logica ha presieduto all'ecatombe. Il potere intendeva sopprimere i gruppi di ricambio alla vigilia della guerra e castigare dei capri espiatori per trovare responsabili della carestia, della disorganizzazione dei trasporti, della miseria di cui esso stesso era responsabile. Assassinati i primi bolscevichi, bisognava evidentemente assassinare tutti gli altri, diventati testimoni incapaci di perdonare. Bisognò pure, dopo i primi processi, sopprimere coloro che li avevano montati e ne conoscevano i retroscena, - perché la leggenda creata diventasse credibile. Il meccanismo dello sterminio era così semplice che si poteva prevederne il corso. Annunciai, con mesi di anticipo, la fine di Rykov, di Bucharin, di Krestinskij, di Smilga, di Rakovskij, di Bubnov....

Quando Antonov-Ovseenko, il rivoluzionario che aveva, nel 1917, dato l'assalto al Palazzo d'Inverno, il miserabile che aveva testé fatto assassinare a Barcellona il mio amico Andrès Nin e il filosofo anarchico Camillo Berneri, fu richiamato dal suo posto in Spagna per prendere possesso di quello di Commissario del popolo alla Giustizia, lasciato vacante da Krylenko sparito nelle tenebre, annunciai che era perduto - e lo era infatti. Quando Jagoda, capo della Ghepeù, organizzatore del processo Zinov'ev, fu nominato Commissario del popolo alle Poste e Telegrafi, annunciai che era perduto - e lo era infatti... Prevedere non serviva assolutamente a nulla.


Il tribunale internazionale si occupa invano degli eventi di Spagna che precedono la fine della esperienza repubblicana con la persecuzione del partito libertario di sinistra (il POUM) e con la scomparsa e l'assassinio di un compagno di lotte di Serge (ampiamente citato nel libro) Andrès Nin.

Andrès Nin aveva trascorso la sua gioventù in Russia: comunista devoto e poi militante dell'opposizione di sinistra. Ritornato in Spagna, aveva fatto l'esperienza delle prigioni della repubblica reazionaria, tradotto Dostoevskij e Pilnjak, polemizzato contro i fascistizzanti, partecipato alla fondazione di un partito rivoluzionario marxista. La rivoluzione del luglio 1936 ne aveva fatto il consigliere per la giustizia della "Generalidad" di Catalogna. In questa qualità aveva creato i tribunali popolari, messo fine al terrorismo degli irresponsabili, stabilito una nuova legislazione del matrimonio. Era un socialista erudito e un intellettuale di gran classe, stimato da tutti coloro che lo conoscevano, stretto d'amicizia con il capo del governo catalano, Companys.

Senza vergogna, i comunisti lo denunciano come un agente di Franco, Hitler e Mussolini, rifiutano di firmare il patto contro la calunnia che gli offrono tutti gli altri partiti, si ritirano da una conferenza nella quale gli altri partiti gli domandano con calma di recare prove; nella loro propria stampa invocano continuamente i processi di Mosca, nel corso dei quali, del resto, il nome di Nin non è mai stato pronunciato. La giusta popolarità di Nin aumenta ugualmente; non resta che farlo fuori. Riuscimmo a scatenare in favore dei perseguitati di Spagna un movimento di solidarietà internazionale.

Le memorie proseguono alternando riflessioni sul totalitarismo al racconto di avvenimenti che hanno a che fare con la storia francese e con l'evoluzione del quadro politico europeo. Serge combatte la sua battaglia a colpi di conferenze e di articoli e osserva che i nuovi metodi del totalitarismo adottano le tecniche della pubblicità e puntano a umiliare con l'irrazionalismo e la violenza l'intelligenza umana.

Il buon successo di simili tecniche è possibile soltanto in epoche torbide e a condizione che le minoranze coraggiose, che incarnano il senso critico, siano bene imbavagliate o ridotte all'impotenza dalla ragion di Stato e dalla mancanza di risorse materiali. In nessun caso si tratta di convincere, si tratta in definitiva di uccidere. Uno dei fini perseguiti mediante quello scatenamento di pazzia che furono i processi di Mosca fu di rendere la discussione impossibile tra comunisti ufficiali e comunisti di opposizione.

Il totalitarismo non ha nemico più pericoloso del senso critico; si accanisce a sterminarlo. I clamori trascinano via con sé ogni obiezione ragionevole e, se persiste, una barella porta via l'obiettore alla camera mortuaria. Ho tenuto testa a degli assalitori in riunioni pubbliche. Gli offrivo di rispondere a tutte le loro domande. Raffiche di ingiurie, lanciate all'impazzata, si sforzavano di coprire la mia voce.

Mentre in Russia vengono fucilati i vertici dell'Armata Rossa con in testa il maresciallo Tuchacevskij, in Francia su ordine di Mussolini vengono assassinati i fratelli Rosselli, muore in maniera strana il figlio maggiore di Trockij Lev Sedov (febbraio 1938). La sconfitta della Spagna e la crisi del Fronte popolare segnano un cambiamento di clima; l'accordo di Monaco segna la fine della Cecoslovacchia. Per Serge sono i mesi del chiarimento-rottura con Trockij. Serge è perplesso sulla scelta di dar vita ad una nuova internazionale di partitini inconsistenti e ne scrive all'interessato esplicitando il suo dissenso su alcui temi e caratteri della rivoluzione bolscevica (Kronstadt, la repressione successiva, la creazione della Ceka,). Lo vedevo mescolare con i lampi di un'alta intelligenza gli schematismi sistematici del bolscevismo d'altri tempi, di cui credeva la risurrezione inevitabile in ogni paese. Comprendevo quel suo irrigidirsi di ultimo superstite di una generazione di giganti, ma, convinto che le grandi tradizioni storiche non si continuano altrimenti che attraverso i rinnovamenti, pensavo che il socialismo debba pure rinnovarsi nel mondo moderno; e che ciò debba accadere mediante l'abbandono della tradizione autoritaria e intollerante del marxismo russo dell'inizio di questo secolo... Il solo problema che la Russia rivoluzionaria degli anni 1917-1923 non abbia mai saputo porre è quello della libertà, la sola dichiarazione che bisognava rifare e che essa non fece è quella dei Diritti dell'Uomo. Nulla si farà di umanamente grande in avvenire senza risolvere o tentare fortemente di risolvere questo problema.

Trockij vede in tutto ciò una manifestazione di demoralizzazione piccolo-borghese; è la rottura anche se Serge, una volta approdato in Messico quando si è già consumato l'assassinio del grande rivoluzionario con la collaborazione di sua moglie Natallja Ivanovna Sedova scriverà una sintetica biografia Vita e morte di Trockij segno di un rapporto intellettuale che non si è mai interrotto completamente.

Il patto Hitler-Stalin (agosto del 39) con l'accordo per la spartizione della Polonia pensato in URSS come uno strumento per tirare il fiato prima della guerra crea scompiglio in Occidente e se non salverà l'URSS dalla operazione Barbarossa consente al nazismo di pianificare l'invasione rapida del Belgio e della Francia. A gennaio del 1939 Franco entra a Barcellona e a marzo dello stesso anno i nazisti occupano Praga. Serge ci racconta del crollo della società parigina, della fuga verso sud sino a Marsiglia e infine, dopo molte peripezie dell'imbarco verso la Martinica, Cuba e alla fine dell'approdo al Messico.

1941-1943 Città del Messico – per finire …

Nell'ultimo capitolo Serge cerca di tracciare un bilancio della sua vita avventurosa. Mi limito su questi aspetti a sottolineare le questioni più importanti lasciandolo parlare direttamente: Non mi sento affatto individualista, piuttosto personalista, in questo senso, che la persona umana mi appare come un altissimo valore, ma integrata alla società e alla storia. L'esperienza e il pensiero di un uomo hanno un significato degno di essere ricordato solo in questo senso.

vantaggi e inconvenienti dell'essere sbalestrati

Esule politico di nascita, ho conosciuto i vantaggi reali e i pesanti inconvenienti di essere sradicati. Questo allarga la visione del mondo e la conoscenza degli uomini; dissipa le nebbie dei conformismi e dei particolarismi soffocanti; preserva da una sufficienza patriottica che in verità è semplice mediocre contentezza di sé; ma costituisce nella lotta per la vita uno svantaggio più che serio.

Ho visto nascere la grande categoria degli apolidi, cioè degli uomini cui le tirannie rifiutano persino la nazionalità. Quanto al diritto di vivere, la situazione degli apolidi, che sono in realtà gli uomini più attaccati alla loro patria e alla patria umana, non può paragonarsi che a quella dell'uomo "sans aveu" del Medioevo, che, non avendo signore né sovrano, non aveva diritto né difesa, e il cui solo nome è diventato una specie di insulto.

Per spirito conservatore, in un tempo in cui nulla può più essere conservato senza cambiamento, e anche per spirito di inerzia giuridica, la maggior parte degli Stati moderni si sono resi complici della persecuzione di questi difensori della libertà. Ora che stiamo diventando milioni, la cosa forse cambierà...

Non deploro, per parte mia, di portare questa tonnellata di piombo sulla nuca, dato che mi sono sentito allo stesso tempo russo e francese, europeo e eurasiatico, straniero in nessun luogo - malgrado le leggi - ma dappertutto capace di ravvisare nella diversità dei luoghi e della gente l'unità della terra e degli uomini.

Al tempo di Orban, Salvini e di fondamentalisti delle più diverse latitudini (come Erdogan) si tratta di una bella riflessione controcorrente; chi più di un apolide è cittadino del mondo? E per non essere generico voglio parlare di due popoli che nel 900 sono stati al centro dell'essere cittadini del mondo: gli armeni e i curdi due popoli (entrambi svillaneggiati dai turchi) che ancora oggi pur avendo cultura, storia e identità nazionale continuano a non avere diritto a un loro stato.

Alla fine degli anni 60 ne ho conosciuto uno cui la mia formazione culturale-politica deve molto. Si chiama Vanghelis (greco) Oskian (armeno) ed è stato tra i fondatori di Avanguardia Operaia oltre che il suo primo segretario nazionale (divenuto Aurelio Campi con l'ottenimento della cittadinanza italiana). Quando l'ho conosciuto aveva il passaporto giallo dell'ONU, conosceva un sacco di lingue e ragionava di politica a 360°. Ne parlo perché mentre si scrive di storia di Avanguardia Operaia sembra quasi che non sia esistito (come quando Stalin faceva ritoccare le foto degli anni di Lenin per cancellare la faccia di Trockij). Non voglio essere polemico ma la cosa mi intristisce.

Il sentirsi cittadini del mondo, negli ultimi decenni sta passando di moda sia perché le grandi organizzazioni internazionali come l'ONU e le sue filiazioni faticano a funzionare, sia perché la prosecuzione di politiche di sfruttamento dei paesi del terzo e quarto mondo ha fatto rinascere pulsioni nazionalistiche spesso associate a fondamentalismo e fanatismo religioso

partecipare coscientemente alla storia

L'intelligencija russa mi aveva di buon'ora insegnato che il senso stesso della vita consiste nella partecipazione cosciente al compimento della storia. Più ci penso e più questo mi pare profondamente vero. Questo vuol dire pronunciarsi attivamente contro tutto ciò che sminuisce gli uomini e partecipare a tutte le lotte che tendono a liberarli e a farli più grandi. Che questa partecipazione sia inevitabilmente intaccata da errori non ne diminuisce l'imperativo categorico; peggiore è l'errore di vivere soltanto per sé, secondo tradizioni tutte intaccate di inumanità...In Europa, in Asia, in America, generazioni intere si sradicano, si impegnano a fondo in lotte collettive, fanno l'apprendistato della violenza e del grande rischio, l'esperienza delle prigionie, constatano che l'egoismo del ciascuno per sé è ben sorpassato, che l'arricchimento personale non è il fine della vita, che i conservatorismi di ieri non conducono altro che a catastrofi, sentono il bisogno di una nuova presa di coscienza per la riorganizzazione del mondo.

Mi riconosco il merito di aver visto chiaro in alcune circostanze importanti. La cosa in sé non è difficile eppure è poco comune. Non credo che dipenda dall'intelligenza alta o sveglia, ma piuttosto dal buon senso, dalla buona volontà e da un certo coraggio nel superare l'influenza dell'ambiente e una tendenza naturale a chiudere gli occhi sui fatti, tendenza che proviene dal nostro interesse immediato e dalla paura che ci ispirano i problemi.

Serge è un umanista rivoluzionario, uno che crede alla politica come strumento per cambiare il mondo, uno che non chiude gli occhi, uno che non ha paura anche dopo 40 anni di disavventure, uno che non molla, uno che mi ricorda un piccolo aforisma di Einstein che da molti anni ho posto al centro della mia attività e che mi spinge anche a dedicarmi con impegno e in maniera disinteressata ai "Pensieri in Libertà". l'intransigenza, lo spirito critico e la tolleranza (la guerra senza odio)

Quel che c'è di terribile quando si cerca la verità diceva un saggista francese, è che la si trova... La si trova, e non si è più liberi di seguire l'inclinazione dei propri vicini né di accettare i luoghi comuni correnti. Ho scorto subito nella rivoluzione russa i germi di mali profondi come l'intolleranza e l'inclinazione a perseguitare i dissidenti. Essi provenivano da un sentimento assoluto di possesso della verità, innestato sulla rigidezza dottrinale. E questo sentimento si risolveva nel disprezzo dell'uomo differente, dei suoi argomenti, del suo modo di essere.

Uno dei più gravi problemi che a ciascuno di noi tocca risolvere praticamente è certo quello dell'accordo da realizzare tra l'intransigenza che risulta da convinzioni ferme, la conservazione dello spirito critico nei riguardi di quelle stesse convinzioni e il rispetto della convinzione diversa. Nel corso della battaglia il problema è ottenere la massima efficacia pratica e insieme rispettare che cosa c'è dietro il nemico; il problema della guerra senza odio, in una parola. La rivoluzione russa, benché diretta da uomini probi e intelligenti, non lo risolse; le masse avevano ricevuto dal dispotismo un'educazione troppo funesta, non estranea ai dirigenti stessi.

Non disconosco, enunciando questo giudizio, la potenza dei fattori economico-storici; essi sono in gran parte condizione dell'azione, ma non ne determinano tutta la qualità. A questo punto interviene il fattore umano. Varie volte mi sono sentito sull'orlo di una conclusione pessimistica sulla funzione del pensiero (dell'intelligenza) nella società. Ho senza posa constatato, da un quarto di secolo, cioè a partire dalla stabilizzazione della rivoluzione russa un po' prima del 1920, una tendenza generale alla repressione del pensiero chiaroveggente...

Non metto in dubbio, dopo averci molto riflettuto, né lo spirito scientifico del marxismo né il suo apporto assieme razionale e idealistico alla coscienza moderna; ma non posso non considerare una grave sciagura il fatto che un'ortodossia marxista si sia impadronita, in un grande paese in via di trasformazione sociale, dell'apparato del potere. Qualunque sia il valore scientifico di una dottrina, dal momento in cui diventa governativa, gli interessi dello Stato non le permettono più la ricerca disinteressata; e la sua stessa sicumera scientifica la conduce anzitutto a imporsi nell'educazione, poi a sottrarsi alla critica con i metodi del pensiero eterodiretto, che è anzitutto il pensiero soffocato.

I rapporti tra l'errore e la conoscenza giusta sono ancora troppo oscuri perché si possa pretendere di regolarli autoritariamente; senza dubbio all'uomo occorrono lunghi erramenti attraverso le ipotesi, gli sbagli e i tentativi dell'immaginazione, per giungere a mettere in chiaro conoscenze più esatte, in parte provvisorie; giacché ci sono poche esattezze definitive. Ciò significa che la libertà di pensiero mi sembra uno dei valori più essenziali. E anche uno dei più combattuti.

Mi vengono in mente le potenti vaccinazioni antidogmatiche di un pensatore ed epistemologo che mi è molto caro: K.R. Popper con i suoi riferimenti alla ricerca della verità, al suo carattere provvisorio, all'atteggiamento antidogmatico, alla importanza di difendere le proprie opinioni con la simultanea necessità di sottoporle ad un vaglio critico e con la disponibilità ad ammettere di avere torto. Nel racconto della sua vita Serge sui temi della repressione, dell'autoritarismo, della intolleranza e del fanatismo cita molto spesso Gorkij che, dall'alto della sua statura intellettuale, si poteva permettere il ruolo di difensore dei dissenzienti e di profeta della tolleranza.

La paura e il pensiero libero

Ho incontrato dappertutto, continuamente, la paura del pensiero, la repressione del pensiero, come un sordo desiderio assolutamente generale di fuggire o di reprimere questo fermento di inquietudine. Nel tempo della dittatura del proletariato, quando i manifesti rossi proclamavano che il regno dei lavoratori non avrà fine, neppure il primo venuto avrebbe ammesso che si discutesse, mettendola in dubbio, la perennità di un regime che era evidentemente d'eccezione e di battaglia.

I nostri grandi marxisti russi, nutriti di scienze naturali, non ammettevano si mettesse in dubbio la concezione dialettica della natura - che è tuttavia semplicemente un'ipotesi, e ormai difficile da sostenere. I capi dell'Internazionale comunista consideravano come una manchevolezza morale o come un delitto il minimo dubbio sull'avvenire trionfale di questa organizzazione. Più tardi, in seno all'opposizione, così sana nelle sue aspirazioni, Trockij non volle tollerare alcun punto di vista differente dal suo...

Si torna di nuovo sul carattere provvisorio delle trasformazioni, qualunque esse siano. Si fa fronte al bisogno di eterno trasformando un bisogno in un principio di realtà. Così la dittatura del proletariato diventa un dogma, un principio ideologico necessario a farsi forza, a nascondere il reale con le sue contraddizioni

Errori e responsabilità dei rivoluzionari

Se è evidente che le più grandi linee della storia in cammino risultano da fattori che ci oltrepassano, che non possiamo dominare, di cui prendiamo coscienza solo imperfettamente, frammentariamente, non è meno evidente che il carattere dei fatti storici (e il loro stesso orientamento in alcuni casi) dipende abbastanza largamente dalla capacità degli uomini.

Il Comitato centrale del partito bolscevico, riunito nel dicembre 1918 per studiare i mezzi per combattere le azioni della controrivoluzione all'interno, doveva scegliere coscientemente le armi che avrebbe dato al nuovo regime. "Poteva" istituire tribunali rivoluzionari pubblici (ammettendo le porte chiuse in casi precisi), ammettervi la difesa, ordinarvi il rigore. "Preferì" creare la Ceka, cioè un'Inquisizione con procedura segreta, sopprimendo la difesa e il controllo dell'opinione pubblica. Così facendo, seguì probabilmente la china dello sforzo minore, seguì anche impulsi psicologici che si capiscono se si conosce la storia russa, ma che non hanno nulla a che vedere con la coscienza socialista.

Si potevano, nel 1926-27, prevedere in Russia le difficoltà risultanti dalla debolezza dell'industria e dalla ripresa della produzione agricola? Noi le prevedevamo; ed era possibile rimediarvi a tempo in qualche misura; ma gli uomini di governo preferirono ancora una volte seguire la china del minimo sforzo, che è anche quella della minima chiaroveggenza, ma dà l'illusione di differire le crisi gravi come i malati pusillanimi differiscono un'operazione chirurgica. Le difficoltà di cui non si volle avere chiara coscienza si aggravarono, provocarono una sorta di panico, cioè di oscuramento della ragione e obbligarono a soluzioni di violenza spaventosamente inumane e onerose, quelle della collettivizzazione totale e dell'industrializzazione totalitaria...

Nei regimi dispotici, troppe cose dipendono dal tiranno...; e: tutto ciò che è stato fatto in Russia sarebbe stato fatto molto meglio da una democrazia sovietica... Il carattere del tiranno diede in seguito un impulso catastrofico alle lotte politiche. I processi di impostura e di sangue furono decisi dall'Ufficio politico che ne dettò le sentenze e ordinò l'esecuzione di queste sentenze. Cioè una decina di persone al massimo deliberarono a testa fredda sul problema di sapere se bisognasse o no massacrare le migliaia di cittadini permeati di spirito di opposizione; essi potevano decidere per la privazione dei diritti politici e la prigionia di questi avversari, e si pronunciarono per l'impiego dei mezzi più crudeli e più demoralizzanti.

In un'altra circostanza di incalcolabile significato, lo stesso Ufficio politico, dovendo scegliere tra la collaborazione con Hitler e la collaborazione con le potenze democratiche, soluzioni entrambe che implicavano grandi rischi di guerra e di invasione, scelse la soluzione che rimuoveva il pericolo più immediato, accrescendo il pericolo a qualche mese o anno di scadenza, come i fatti hanno provato.

In tutto ciò, l'intelligenza e il carattere degli uomini hanno una funzione capitale; ed è necessario osservare che la loro intelligenza razionale, come la loro moralità - definita dal sentimento umano e dalla fedeltà a principi che rappresentano interessi generali superiori - sono state assenti...

La macchina totalitaria funziona in seguito come un'officina a cui un ingegnere, girando una manovella, abbia trasmesso la corrente. Bisogna concludere da tutto questo: assenza di fatalità, potere enorme dell'uomo, responsabilità personale. Non è una conclusione pessimistica. Ma è la condanna dei sistemi che concentrano in poche mani un potere che rende folli, determinano una selezione alla rovescia, sopprimono il controllo - anche imperfetto - del potere da parte dell'uomo medio, paralizzando la coscienza pubblica.

Si poteva fare diversamente? Serge non fa sconti allo stato di necessità. Occorrono lungimiranza e fermezza dei principi. Occorrono razionalità, senso del provvisorio, moralità perché poi la macchina totalitaria funziona come una macchina in cui ognuno fa un piccolo pezzo del proprio crimine, tutti sono innocenti; il potere assegna i singoli compiti, li rende neutri attraverso poliziotti, giudici, carnefici chiamati a reprimere l'eresia, la differenza di comportamento rispetto ad un assoluto per sua natura indiscutibile.

Il libro è stato concluso nel 1942 in piena guerra mondiale e dunque Serge non ha visto e non vedrà (visto che muore nel 1947) ciò che abbiamo visto noi in termini di fatti e di assetti mondiali. Si rende conto che molte cose cambieranno e chiude con una speranza razionale:

Le grandi linee della storia che sta compiendosi si liberano tuttavia dal caos. Non sono più i rivoluzionari che fanno l'immensa rivoluzione mondiale, sono i dispotismi che l'hanno scatenata, è la tecnica stessa del mondo moderno che rompe brutalmente con il passato e mette i popoli di interi continenti nella necessità di ricominciare la vita su basi nuove.

Che queste basi debbano essere di giustizia sociale, di organizzazione razionale, di rispetto della persona, di libertà, è per me una evidenza stupefacente che si impone poco a poco attraverso l'inumanità del tempo presente.

L'avvenire mi appare pieno di possibilità maggiori di quelle che noi intravedemmo per il passato. Possano la passione, l'esperienza e gli errori stessi della mia generazione combattente illuminarne un poco il cammino!


(2 - fine) Il primo articolo della recensione


Victor Serge

Memorie di un rivoluzionario (1901-1941)

Editore E/O pagine 440 16 €


Victor Serge

Memorie di un rivoluzionario (1901-1941)

Editore Roberto Massari (2011) pag. 336 formato 17×24 € 19

apparato critico [1200 note e indice dei nomi] di Jean Rière nuova traduzione basata sul manoscritto originale e introduzione e cura di Roberto Massari

Le edizioni Massari hanno un catalogo di oltre 200 titoli largamente incentrati sulla costruzione di un movimento internazionale di comunisti libertari (Utopia Rossa) che hanno, proprio nella figura di Victor Serge uno dei riferimenti, fondato sui seguenti punti:

  • Il fine non giustifica i mezzi, ma nei mezzi che impieghiamo dev’essere riflessa l’essenza del fine. [Priorità dell’etica (Guevara) e della verità scientifica su ogni altra considerazione]
  • Sostegno alle lotte di tutti i popoli contro l’imperialismo e/o per la loro autodeterminazione, indipendentemente dalle loro direzioni politiche. [Inizi della Terza internazionale
  • Per l’autonomia e l’indipendenza totale dai progetti politici del capitalismo. [Sinistra di Zimmerwald nella Seconda internazionale]
  • Unità del mondo del lavoro mentale e materiale, senza discriminazioni ideologiche di alcun tipo (a parte le «basi anticapitaliste, antimperialiste e per il socialismo»). [Prima internazionale]
  • Lotta contro le burocrazie politiche, per la democrazia diretta e consigliare. [Internazionale antiautoritaria di Saint-Imier e Quarta internazionale]
  • Salvare la vita sulla Terra, salvare l’umanità. [vera novità storica della Quinta].