Le elezioni in Francia

Mai avuto dubbi sul fatto che la decisione di Macron di sciogliere l’Assemblea nazionale, all’indomani delle elezioni europee, fosse una scelta dovuta. E non solo per la ragione “tattica” che di lì in avanti non gli sarebbe convenuto stare sulla graticola, mentre per i prossimi due anni la Le Pen avrebbe potuto ogni giorno soffiare sulle braci.

La scelta aveva alla base una motivazione democratica sostanziale: se i Francesi avevano consegnato una maggioranza relativa del 34% a Madame Le Pen, conquistata sulla base di proposte molto chiare – abbassamento dell’età pensionabile a 60 anni, ritorno di sovranismo, filo-putinismo… – allora che i Francesi la mettessero alla prova.

Il risultato finale non ha confermato le intenzioni di molti Francesi. L’alta partecipazione al voto non è stata certo favorita dal meccanismo elettorale del doppio turno, che tende ad abbassare la partecipazione al secondo. Semplicemente il lepenismo è minoranza. Marine Le Pen si è consolata, affermando che la sua è una marea che continua a salire inesorabile. Occorre solo ricordare che maree si alzano e poi si abbassano. Dipende dalla “luna” degli… elettori.

Di qui in avanti incomincia di nuovo in Francia la politica quotidiana, molto simile in tutti i Paesi europei, salvo che in Inghilterra: quella della contrattazione delle alleanze. L’auspicio di noi europei è che la deradicalizzazione delle frange estreme, consentita dal meccanismo del doppio turno, porti alla formazione di un governo capace di riconsegnare un ruolo alla Francia nella costruzione dell’Unione europea e nella difesa delle ragioni dell’Ucraina.

A noi Italiani l’asse franco-tedesco non è mai piaciuto moltissimo. Resta tuttavia che, fino ad oggi, questo asse ha tenuto in piedi il discorso europeo, finché noi non sappiamo farlo meglio. Un governo Bardella molto probabilmente lo avrebbe indebolito ancora di più.

Le attese e le paure

Lasciando a Macron le sue pene, quali insegnamenti derivano dalla vicenda francese a noi Italiani per affrontare le nostre?

Per rispondere a tale domanda è necessario fendere la nebbia del dibattito politico-politologico per vedere più in basso e più da vicino che cosa si agita nella società civile europea, al netto delle differenze culturali e politiche di ciascun Paese.

Ciò che si percepisce immediatamente è una frammentazione socio-economica crescente, accompagnata da un’acuta autocoscienza del fenomeno da parte dei soggetti sociali coinvolti. La frammentazione viene spesso descritto con l’uso esclusivo di categorie pauperistiche, soprattutto da chi cerca incessantemente un nuovo soggetto della liberazione umana.

Eppure, c’erano minori diseguaglianze socio-economiche e culturali prima dell’accensione dei processi di globalizzazione? Si stava meglio prima o si stava peggio? La risposta è: c’erano maggiori diseguaglianze, fino alla fame vera e propria, la gente stava peggio e moriva prima.  Oggi si sta meglio.

Solo che uno dei meccanismi attivati dallo sviluppo socio-economico e tecnologico e dal globalismo della comunicazione è stato quello della crescita continua delle attese e delle pretese.

E della conseguente domanda di eguaglianza nella distribuzione dei benefici e della ricchezza. Perché loro sì e noi no? Perché lui sì e io no?  Ecco perché dall’Africa partono i più “ricchi” e non i più poveri. Perché “ci hanno visti”! E le attese si sono trasformate in “diritti di…”.  Così si sono mischiati due fatti: un aumento della velocità oggettiva dello sviluppo ineguale e di nuove opportunità di sviluppo, cui non tutti possono immediatamente accedere allo stesso modo, e un elevamento delle attese e pretese soggettive di tutti. L’espressione ZTL – Zona a Traffico Limitato – è diventata la sintesi simbolica di queste contraddizioni.

Così, per tornare alla Francia, Parigi è rappresentabile come un’unica ZTL rispetto all’intera Francia. Fenomeni analoghi – sotto il dualismo città-periferia, città-campagna, pianura-montagna, pianura-zone interne – sono visibili in Italia.

Le ragioni sociali e psicologiche del sovranismo

L’altro meccanismo – psicologico – che si innesca è quello dell’inquietudine e della paura. Anche se noi, in quanto individui e gruppi in situazione, puntiamo a conservare la tranquilla stabilità del nostro mondo, è esattamente questo mondo che sta velocemente cambiando.

Gli adulti invecchiano, i ragazzi mancano. Quelli nuovi arrivano in barcone, quando ce la fanno, dotati di altre culture, abitudini, religioni diverse e spesso ostili. Le nostre chiese si svuotano, i tetti cadono a pezzi. Stiamo perdendo il controllo del nostro presente e del nostro futuro.

Il sovranismo “bianco” non è un’invenzione della politica, è la reazione socio-culturale alla perdita di sovranità sulla propria vita quotidiana. Ci sono classi sociali e intellettuali che hanno la corrente a favore – e sono una minoranza. Ci sono classi e gruppi e individui che restano indietro – e sfiorano la maggioranza. Se la politica non riesce a far intravedere speranze, nessuna meraviglia che appaiano all’orizzonte venditori di almanacchi e di illusioni, che, in cambio di voti e di potere, annunciano nuovi paradisi terrestri di sovranità nazionale e di pace universale, purché restiamo tranquillamente al caldo delle nostre comunità locali, dentro i nostri confini nazionali e custodiamo le nostre tradizioni.

I periodi di transizione sono più difficili

Perciò tentare di cavarsela solo con l’antica dialettica antifascismo-fascismo non porterà lontano. I periodi di transizione sono storicamente i più difficili da governare, ma anche i più fecondi di novità. La transizione ci riconsegna un nuovo lancio dei dadi, che qualcuno aveva gettato prima di noi.

La transizione: esige la messa al bando di approcci fondamentalisti rispetto a questioni quali la transizione energetica, la crisi climatica, il fenomeno dell’immigrazione, l’avvento dell’Intelligenza artificiale, il disordine geopolitico mondiale… Non è più il tempo degli slogan semplificatori.

Se la politica dà voce solo a chi corre, quelli che restano indietro a chi si affideranno? E poiché “politica” coincide, almeno in Europa, con “democrazia” e “statualità nazionale”, il rischio già evidente è che i settori fuori dalla ZTL si rifugino nell’antipolitica e nell’anti-democrazia.  Ha incominciato ad accadere già dal 2008. È ora di apprendere un’altra lezione.




nessuno mi può giudicare

Racconta la cronaca che tre studentesse del Liceo classico Foscarini, hanno deciso di non rispondere alle domande della Commissione al colloquio orale della Maturità 2024 per protesta, dopo che nella loro classe sono state date troppe insufficienze alla seconda prova scritta, quella di Greco.

Una delle “rivoluzionarie” ha dichiarato: “Non accetto il vostro giudizio che non rispecchia il nostro lavoro… non tollero la mancanza di rispetto nei miei confronti”. Non è mancata un’ondata di consenso giornalistico: “Fate loro una statua! Titolate loro un’aula!”.

La realtà è stata, ahinoi, più prosaica: la Commissaria d’esame di Greco si è trovata di fronte un’intera classe impreparata e lo ha certificato. Punto. Dietro questo episodio – ma non sappiamo quanti altri – si agitano questioni di straordinaria importanza: quali i fini del “giudizio scolastico”?

Perché la crisi attuale del giudizio scolastico? Sullo sfondo sta un fatto: nel mese di giugno/luglio di ogni anno passano al vaglio di scrutini ed esami circa 7 milioni e 200 mila ragazzi. L’operazione tocca la vita di milioni di famiglie. Essa ha due facce. Quella visibile: lo Stato si rivolge alle giovani generazioni per verificare i livelli del “sapere di civiltà” acquisiti. Quella invisibile è etico-pedagogica-civile: lo Stato si pone come giudice dei loro saperi e dei loro comportamenti. Egli parla a nome della Realtà, del Mondo, della Società, dell’Altro… I giudizi sono formulati dagli insegnanti, singoli e riuniti in Consigli di classe o Commissioni, la cui composizione dipende da una serie di variabili, tra cui la qualità e le competenze variabili degli insegnanti.

Nella personale interpretazione delle tre ragazze, invece, titolare del giudizio non è più il Commissario d’esame, ma l’IO stesso: io sono l’unico giudice di me stesso. Il Mondo è solo lo specchio dell’IO e l’IO deve essere immediatamente gratificato, sempre. Un IO perennemente in ansia. Per la descrizione di questa sindrome narcisista rimandiamo qui al libro di Ch. Lasch del 1979, tradotto nel 2001 con il titolo: “La cultura del narcisismo. L’individuo in fuga dal sociale in un’età di disillusioni collettive”.

I docenti che si trovano davanti i ragazzi della Generazione Zeta conoscono benissimo questa sindrome. Nasce in famiglia, si sviluppa nella società, si esaspera attraverso i mezzi di comunicazione, retroagisce in famiglia, si ratifica a scuola. Attraversa l’intera società. È il nuovo “spirito del tempo”.

La crisi della valutazione

Ora, la tendenza crescente dei corpi docenti, delle scuole e del Ministero è quella di adeguarsi al nuovo “spirito del tempo”. Ciò ha comportato la riduzione progressiva della quantità di “sapere di civiltà” ritenuto fino a qualche decennio fa necessario dalla società per la propria riproduzione. Ma, soprattutto, ha provocato l’abbassamento dell’asticella del giudizio.

Il “benessere” del ragazzo è diventato il criterio di giudizio prevalente. D’altronde, chi glielo fa fare ad un insegnante di opporsi alla corrente facilista, quando le famiglie – i clienti! – i presidi, i giornalisti, i giudici dei TAR, i politici premono per evitare ansie, frustrazioni, crisi di panico, depressioni galoppanti, anoressie ai nostri figli e nipoti?

Una conseguenza è che non esiste più, o sempre meno, un criterio unico nazionale di giudizio: varia da territorio a territorio, da Nord a Sud, da indirizzo scolastico all’altro, da una scuola autonoma all’altra. Quando si arriva alla Maturità, le Commissioni si presentano sì armate di Indicazioni generali, ma, alla fine, se un ragazzo non è stato portato dal docente oltre il 1945 – per prendere un esempio frequentissimo in Storia – la Commissione che cosa può fare?

E se non è stato portato a saper tradurre Platone, ma eventualmente solo la più facile Anabasi, la Commissione che cosa può farci? E se un/una docente commissaria si ostina a segnalare che il ragazzo di fronte non è capace di dire quando è avvenuto lo sbarco in Normandia, che cos’era il CLN, quali erano le forze presenti nell’Assemblea costituente, il minimo che gli/le può capitare è di finire sui giornali con l’accusa di sadismo o l’invio di un ispettore da parte degli organi competenti.

Quale che sia la disciplina posta sotto giudizio, il panorama del giudizio che si stende davanti ai nostri è “a desolazione crescente”. I Lettori sono in grado di valutare se tutto ciò abbia a che fare con l’analfabetismo funzionale crescente, con una selezione avversa della classe dirigente politica, con l’aumento degli Scrittori e la diminuzione dei Lettori, con la caduta complessiva della quota di saperi nella società e con il corrispettivo aumento dell’ignoranza presuntuosa.

Un Sillabo delle conoscenze e un’Agenzia nazionale di certificazione

Che fare, se il percorso epistemologico della costruzione del giudizio è franato tanto nella Società quanto nella Scuola? Che fare, se si è diffusa largamente l’idea che la Realtà è una variabile dipendente dell’IO? Una risposta del realismo storico – al limite del cinismo – è: non lamentatevi, il ciclo storico dell’Occidente europeo è ormai posto su un clinamen, direbbero Epicuro e Lucrezio. Se la nostra civiltà diventa materiale di costruzione per altre civiltà, pazienza! Tuttavia, chi ha figli e nipoti, si ribella al cinismo della ragione storica, perché l’idea dell’uomo libero/responsabile come impasto di intelletto e volontà, capace di fare la Storia, continua ad essere il fondamento spirituale della nostra civiltà.

Serve, in primo luogo, un Sillabo nazionale/europeo delle conoscenze necessarie per vivere nel mondo presente. I nostri ragazzi camminano nel presente, ma non sanno realmente a quale secolo appartenga. La verifica dei livelli di conoscenze acquisite deve essere sottratta all’anarchia valutativa delle Commissioni. Occorre un’unica Agenzia nazionale di certificazione, alla quale far pervenire gli scritti per la correzione, alla quale far elaborare test ecc…

L’Agenzia deve solo “verificare” sulla base del Sillabo. Non deve “bocciare” nessuno, non deve “fermare” nessuno, non deve dichiarare “maturo” nessuno. Deve solo dire a un ragazzo/a la verità sui suoi personali livelli di acquisizione. Il nucleo di tale Agenzia esiste già: è l’INVALSI, agenzia indipendente di valutazione dalle scuole e dal Ministero. Basterebbe aumentarne il ventaglio delle competenze e dotarla dei mezzi necessari. Già ogni anno l’INVALSI elabora giudizi e graduatorie affidabili, che vanno, non a caso, in controtendenza rispetto ai giudizi delle Commissioni di maturità.

In secondo luogo, è necessario prendere atto che sotto il vestito del valore legale del titolo di studio non c’è ormai più nulla, salvo le fortune dei diplomifici e dei laureifici. È necessario togliere di mezzo l’inganno del valore legale, che non è più né un fine né un mezzo, per consentire a ciascun ragazzo di vedersi così com’è. È dunque solo al Mercato che ci si deve affidare, visto che lo Stato è ormai inaffidabile? La risposta è appunto un’Authority-Agenzia indipendente dallo Stato e dal Mercato. Di lì in avanti scatta il principio di libertà/responsabilità per tutti, a partire dai “maturi”.

C’è un’alternativa, intanto, che stiamo già praticando: scivolare lentamente lungo il clinamen. Una società che non vuole valutare e valutarsi in base al principio di Realtà è destinata all’estinzione.




Ilaria Salis, le case occupate e la destra becera

Ilaria Salis non mi è particolarmente simpatica perché fa scelte che non condivido. Pensa che antifascismo significhi menare i nazisti e che occupare case possa garantire il diritto a un’abitazione.

Però difendo la Salis quando viene trattata in modo indegno dalla pseudo-giustizia di Orban. Inoltre difendo il suo diritto alla libertà in quanto rappresentante di migliaia di elettori che condividono le sue posizioni.

Adesso vedo giornali e politici reazionari che vogliono che lei paghi 90.000 euro di affitto all’ALER perché un giorno di 10 anni fa è stata trovata all’interno di una casa occupata (ipotesi: 9.000 euro di mancato affitto all’anno). La richiesta di questi reazionari ha una sua logica che però loro stessi tradiscono non chiedendo la stessa pena pecuniaria per le decine di migliaia di occupanti abusivi di altrettante case popolari (ma questi reazionari sono gli stessi che parlavano sempre di “fumus persecutionis“?).

Di fronte a questa richiesta (che è arrivata persino dal Consiglio Regionale della Lombardia) la Salis e il partito per cui è stata eletta rispondono nel modo peggiore: rivendicano il diritto a lottare per la casa. E’ esattamente la risposta che desideravano i reazionari che la accusano. Ora possono scatenare un “dibattito” per dividere gli onesti (di destra) che pagano l’affitto e i disonesti (di sinistra) che non lo pagano.

Se io fossi un reazionario ringrazierei Fratoianni e C. per avere fatto quello che desideravo con ansia.
Se invece questi politici di sinistra avessero un minimo di intelligenza politica sceglierebbero un’altra strada.

Io al loro posto direi: “Cari accusatori, se un giorno di 10 anni fa la Salis è stata identificata in una casa occupata e poi nessuno si è mai più curato di vedere se l’occupazione continuava, significa che l’ALER ha abbandonato per 10 anni una casa che spettava a famiglie di lavoratori che ne avevano diritto. Questa è una grave colpa dell’ALER, non certamente della signora Salis che agli atti risulta essere stata in quella casa un solo giorno, quello dell’identificazione. Dato che non esiste alcuna documentazione che provi l’occupazione per altre giornate, occorre chiederle l’affitto di un solo giorno, senza però gli interessi maturati in 10 anni in quanto tale affitto non è mai stato chiesto prima (altra colpa dell’ALER)

Questa sarebbe la linea di difesa di qualunque garantista, in quanto nessun cittadino può essere accusato di colpe non dimostrate. Questa difesa sarebbe molto più politica della rivendicazione del “diritto a lottare per la casa“. Sarebbe molto più politica perché userebbe le armi dell’accusatore (paladino del garantismo) per accusare l’accusatore di mancanza di garantismo.

In generale credo che nei conflitti non si debba usare la propria logica, utile solo a ingigantire il conflitto, ma la logica dell’avversario per ritorcergli contro le sue stesse ragioni. Sarò un po’ vecchio stampo, ma per me questa si chiama Politica.




1977-1987: il Frisi, la scienza e la sua filosofia

III edizione – giugno 2024

Il mio primo ingresso al Liceo Scientifico Frisi di Monza fu alla fine di gennaio del 1977, nell’ultimo giorno utile per essere pagato d’estate. Visti i ritardi nelle nomine per i nuovi incarichi di insegnamento, avevo deciso di incominciare a muovermi autonomamente alla ricerca almeno di una supplenza.

Dopo aver lasciato il quotidiano ero a casa a non far nulla da oltre tre mesi perché il provveditorato di Milano ritardava le nomine. Le fece poi a maggio rendendole valide, per il 76/77, solo dal punto di vista giuridico. Telefonavi, andavi in Provveditorato e ti sentivi preso in giro: domani, dopodomani, non sappiamo, …A inizio ottobre avevo rifiutato una proposta di supplenza annuale al Liceo Scientifico di Melzo giuntami da una compagna di università che faceva la Preside incaricata e chi mi sapeva in attesa di impiego. Avevo rifiutato nella illusione di una imminente chiamata ufficiale perché quando inizio un lavoro mi piace finirlo.

Pace, la Battistina e Santanbrogio

In quei mesi, da brianzolo doc, mi sentii molto a disagio nel rimanere a casa non far nulla e mi resi conto di come la condizione di disoccupato corrompesse l’anima; di come il lavoro, con le sue scadenze, i suoi ritmi e i suoi doveri, fosse importante nell’equilibrio psico-fisico di una persona. Forse questa è una delle ragioni per cui, quando vedo in televisione i nostalgici del reddito di cittadinanza sognare di vivere nel limbo per tutta la vita mi vengono le convulsuioni.

Al Frisi fui ricevuto dal professor Pace nell’atrio davanti alla segreteria dove stava il tavolo di comando della Battistina (la capobidella). Pace faceva il vicepreside, ma non voleva sentir parlare di esoneri dall’insegnamento. Lo faceva e basta, come servizio alla comunità. C’era l’intervallo e mi fece impressione una cosa cui non ero abituato dopo l’esperienza di qualche anno prima all’ITIS di Sesto. Suonò la campana di fine intervallo e vidi gli studenti che, da soli, risalivano le rampe di scale e rientravano nelle classi. Per me era una cosa incredibile.

Due parole sulla Battistina. Credo che, dal punto di vista normativo e di inquadramento il capo-bidello non esistesse, ma si trattava di una funzione importante per il Frisi. Chiunque entrasse, dopo essere passato al controllo del custode Santanbrogio, saliva al primo piano e veniva accolto dalla efficientissima Battistina: fogli volanti, telefonate interne e tutto girava come un meccanismo ben oliato.

Alla sua sinistra c’era l’atrio del primo piano, di fronte la sala professori e, alla sua destra, la segreteria, la vicepresidenza e la presidenza. E già che parliamo di bidelli non si può tacere del custode. Era il padrone della scuola fuori dagli orari canonici, voce roca e potente, conosceva uno per uno tutti gli studenti e abitava in un mini appartamento di fronte alla guardiola del centralino, insieme ad una numerosa famiglia.

Curava la bellezza degli spazi esterni, i fiori e la sicurezza notturna con un paio di canilupo che presidiavano il territorio negli orari di chiusura. Erano due personaggi amati e rispettati da tutti: studenti, professori e restante personale. Se si vuole che una scuola sia in ordine è un bene prevedere un custode che ci abiti e che la senta come casa sua.

il Frisi del Preside Tedesco

Il Preside Tedesco in una delle espressioni esortative e dialogiche che lo contraddistinguevano

Dopo essere stato vagliato da Pace ebbi modo di conoscere il preside, il professor Alfonso Tedesco, un signore dai capelli grigi e dal viso rosso, distinto e pacato, professore di Italiano e Latino.

Tedesco era imparentato con la nobil famiglia dei Galbiati. Aveva sposato Felicetta, preside di scuola media, sorella maggiore di Enrica Galbiati, che allora insegnava lì nel corso B matematica e fisica. Era di origini emiliane, ma stava a Monza da una vita e, prima di fare il Preside, aveva insegnato allo Zucchi Italiano e Latino. Tedesco, con la collaborazione di Carlina Mariani, dirigeva l’UCIM (unione cattolica italiana insegnanti medi).

L’establishment reazionario monzese considerava Tedesco un debole perchè era di idee cattolico democratiche e dialogava con gli studenti. Alla distanza il suo ruolo è stato riconosciuto e l’aula magna del Frisi, grazie ad un comitato di cui ho fatto parte anche io, è stata intitolata al suo nome.

Nel primo incontro mi spiegò che dovevo sostituire la professoressa Lina Saini (che era alla quarta o quinta gravidanza), nel triennio del corso C e dunque avrei avuto Pace come collega oltre alla professoressa Canzi-Amirante di lettere. Non avevo mai visto un liceo dall’interno ma, negli anni di università, avevo dato lezioni private a tanti studenti del Frisi e dunque sapevo quasi tutto sul programma tradizionale di matematica che svolgevano: i problemi con discussione secondo il metodo di Tartinville, le disequazioni, il debordante programma di trigonometria e poi, ovviamente, l’analisi matematica.

in classe

Edo Scioscia durante la autogestione del 78

Senza che altri si offendano, ricorderò di quel primo anno quattro studenti: Maria Scognamiglio di terza, una ciellina underground della serie spiriti liberi, Camozzi, leader  del gruppo promotore (insieme ad Alberto Zangrillo, il futuro medico di Berlusconi, oggi primario al San Raffaele).

Il gruppo promotore raggruppava gli studenti di destra (filo Giornale di Montanelli). Poi c’erano in quarta Edo Scioscia leader incontrastato della assemblea, militante del MLS che, uscito dal Frisi avrebbe messo in piedi il Libraccio, e in quinta Adriano Poletti che più tardi averebbe fatto lungamente il sindaco di Agrate Brianza (e che è morto nel 2023).

Nonostante fossi un supplente diedi qualche taglio personale al programma di matematica e fui anche fortunato. Da anni il principale quesito dello scritto di matematica proponeva con una certa regolarità lo studio di funzione formata da una combinazione lineare di seni e coseni. Erano paginate di conti se si usavano metodi i tradizionali per via delle numerose disequazioni trigonometriche da risolvere.

Ma da fisico sapevo (per via della teoria delle onde armoniche) che una combinazione lineare di seni e coseni corrisponde sempre ad una sinusoide traslata. Feci loro la dimostrazione di quel teorema e insegnai a fare lo studio di funzione in un quarto d’ora (senza usare le derivate) invece che in due ore di conti. Alla maturità uscì proprio quello e non si corse il rischio di fraintendimenti perché gli studenti mi avevano voluto come membro interno. Fu un successone per quelli della C.

collegio docenti e gestione del Liceo

immagini di una assemblea durante la autogestione del 78

Ero supplente ma, per via dei trascorsi, non ero di quelli che si nascondono nel sottoscala, e dunque già al secondo Collegio iniziai ad intervenire.

Il Collegio del Frisi era formato da una agguerrita minoranza di docenti difensori della scuola tradizionale (Moretti, Derla, Spelta, Galbiati, Riva, …), da una maggioranza che noi docenti progressisti definivamo la palude e che amava il quieto vivere (il progresso senza avventure di memoria democristiana), da una minoranza di docenti di sinistra, di varia estrazione che si caratterizzavano per la ricerca delle innovazioni e per il dialogo con gli studenti (Russo, Longo, Cedrazzi, Meroni, Colonnetti, Tedesco, Stefanelli…).

Negli anni successivi la nostra pattuglia si rafforzò con l’arrivo di due colleghe di filosofia, colte e vivaci, provenienti dallo Zucchi (Fabbri e dell’Aquila) e della professoressa Mariagrazia Zanaboni (la Monaco, si diceva allora) di lettere.

Il Preside Tedesco, da buon democristiano, si appoggiava sul centro prendendo a prestito qualche idea della sinistra e puntando a smuovere il pachiderma, ma con giudizio.

articolo del Cittadino in ricordo del professor Tedesco

Dopo la fine dell’anno scolastico, ottenni ope legis la stabilizzazione e, poiché ero abilitato, l’incarico a tempo indeterminato mi  aprì immediatamente la strada all’ingresso in ruolo. Ero un prof engagé e dunque, l’anno successivo fui eletto collaboratore del Preside, consigliere di istituto e consigliere di distretto cose che mi impegnarono per un po’ di anni.

Nel 77/78 l’elezione dei collaboratori fu un vero successo. In passato la palude ci offriva, bontà sua, un posto nel listone unico, e a volte nemmeno quello. Proponemmo una lista contrapposta con tanto di programma e l’elezione ci premiò. Sfidammo la palude ad esplicitare il loro programma, ma non andarono oltre la sottolineatura dello spirito di servizio. Non arrivammo primi, ma comunque finì 2 a 2 tra lo sconcerto dei professori più conservatori. La stessa operazione la feci, anno dopo, appena arrivato allo Zucchi (liste separate, programma, esplicitazione del dissenso, …).

In quell’anno ci fu una specie di autogestione concordata, cioè con partecipazione libera dei docenti ad attività di approfondimento miste (autogestite o coordinate da docenti). Tedesco usò a piene mani me e Fiammetta Cedrazzi come ambasciatori del punto di vista degli adulti (fare le cose per bene, organizzarsi, garantire la democrazia, …).

Tra i docenti ci fu una netta spaccatura all’interno della maggioranza anche con qualche momento di tensione e si determinarono numerosi chiarimenti all’interno della palude tra chi partecipò e chi si schierò con la minoranza più conservatrice che aveva adottato la linea del boicottaggio.

intervento durante un collettivo – al mio fianco Edo Scioscia e sullo sfondo Colonnetti (Filosofia) e Claudio Fontana un alunno futuro docente di filosofia

L’autogestione funzionò bene grazie all’impegno di alcuni quadri del Movimento Studentesco che si impegnarono perché restasse il segno. Il clima politico tra gli studenti era variegato: MLS (dominante), FGCI, autonomia operaia, CL, destra (gruppo promotore). Non era ovvio che le cose andassero bene, ma riuscimmo a tenere insieme la maggioranza della scuola nonostante gli strepiti della parte più retriva del corpo docente.

Erano gli anni del sequestro Moro e anche sul fronte studentesco, come nel resto del paese, emergevano spinte centrifughe verso il mondo della autonomia, contiguo al terrorismo. Vista la mia storia precedente mi sentivo un po’ responsabile e dunque l’impegno per la democrazia e la difesa senza se e senza ma delle istituzione democratiche fu esplicito e con un grande coinvolgimento anche emotivo.

una revisione culturale profonda

In quegli anni si discuteva ancora del carattere gentiliano della nostra scuola e della necessità di superare la cosiddetta cultura retorico umanistica di derivazione crociano-gentiliana per puntare ad una scuola in cui ci fosse un mix tra la tecnologia (di cui si vedeva l’inizio di una grande fase espansiva) e il cosiddetto asse storico-critico-scientifico. Erano anni in cui, con riferimento alla scuola, non ci si limitava a discutere di modalità di gestione o di organizzazione ordinamentale, ma ci si appassionava e si entrava nel merito di modelli culturali di insegnamento. Tutte cose che ora sonoo scomparse e al loro posto c’è solo la autonomia malriuscita.

Non tanto per non essere da meno, ma perché ci credevo, iniziai un complesso e profondo lavoro di trasformazione delle mie convinzioni di fondo mettendo al centro dei miei studi tre cose.

lo studio critico delle scienze dure

Mi impegnai nel rivedere e ristudiare la scienza e in particolare la logica, la matematica e la fisica con approfondimenti di tipo universitario su questioni di base su cui non avevo riflettuto a sufficienza negli anni di università. Per poter insegnare bene e ad un certo livello bisognava che avessi le idee molto chiare sui fondamenti.

Per la fisica utilizzavo, per me e per gli studenti più vivaci intellettualmente, L’indagine del mondo fisico di Giuliano Toraldo di Francia (1916-2011), di cui trovate qui la recensione. Si tratta di un testo nato dalle lezioni tenute da Toraldo ad una scuola di specializzazione per filosofi interessati alla scienza presso l’Università di Firenze. Il testo percorre tutta la fisica con un occhio sempre attento alla storia e alle implicazioni conoscitive delle leggi ed è stato il modello a cui mi sono ispirato nello scrivere il mio corso di Fisica.

Nell’insegnare la matematica, sin dalla terza, tenevo presente che il punto di arrivo era l’analisi matematica e dunque c’era una attenzione agli aspetti di natura concettuale e ad una visione in cui la matematica, anche negli esercizi, fosse vista come una cosa dinamica.

la storia della scienza

Non ci può eessere comprensione dei fondamenti della scienza senza conoscere il contesto in cui sono nate e si sono sviluppate le teorie; dunque storia della scienza nei suoi aspetti sia descrittivi sia metodologici appoggiandomi, come riferimento, ai 7 volumi della storia del pensiero filosofico e scientifico di Ludovico Geymonat, ma conducendo poi approfondimenti di tipo monografico su questioni che mi stavano a cuore o che nascevano dalla esperienza di insegnamento (la storia della termodinamica, la evoluzione dello status dei tre principi della dinamica, la storia e il significato del concetto di campo, la nascita e la evoluzione del concetto di energia, …).

In quegli anni, oltre al geymonattone citato era disponibile, da Feltrinelli una bella collana di testi di storia della fisica che presentava in traduzione il meglio della produzione anglosassone (ne trovate un sunto in coda a questo capitolo).

la filosofia della scienza

Al di là della passione emersa negli ultimi anni di università, mi resi conto che ero profondamente ignorante su questioni fondamentali della cultura europea del 900 e in particolare sulla grande rivoluzione dell’emopirismo e del neo-empirismo (detto anche neopositivismo o empirismo logico).

Mi buttai a capofitto nello studio dei principali pensatori leggendone direttamente le opere e senza fidarmi di sunti o manuali: Moritz Schlick, Philip Frank, Hans Reichenbach, Rudolph Carnap, Friedrich Waissman, sir Karl Raymond Popper, Imre Lakatos, Paul Feyerabend, Orman Quine. Girando per librerie e bancarelle mi sono fatto una biblioteca invidiabile delle loro opere; alcuni testi di Reichenbach, in inglese (uno di calcolo delle probabilità e uno sulla freccia del tempo) li ho acquistati nel 91 a New York durante un viaggio negli USA.

Qualche studente della mia quinta M del 77/78 si ricorda, con sconcerto, l’utilizzo di temi su questioni di carattere metodologico per le valutazioni di fisica a partire da una frase criptica di Max Planck, Ludwig Boltzmann o Werner Heisenberg sulle quali veniva richiesto di sviluppare il tema. Naturalmente si trattava di problematiche che erano state sviscerate a lezione. Qualcosa del tipo “anche nella scienza, come nella religione, non si è beati senza la fede; la fede in una realtà esterna a noi” e via di questo passo.

Questo lavoro di riflessione e contatto sui classici è proseguito negli anni, sempre leggendo (per la scienza e per la riflessione metodologica), le opere originali. Mi dedicai a Boltzmann, Maxwell, Planck, Einstein, Heisenberg, Bohr, Poincarè. Anche in questo caso, oltre ai classici della UTET (Maxwell, Ampere, Newton, Laplace, Helmholtz, Kelvin), sulle bancarelle riuscii a recuperare le vecchie edizioni blù della Boringhieri e le precedenti della Einaudi scientifica (1945-1950). I classici della UTET li acquistai a condizioni molto favorevoli da Fiammetta Cedrazzi che, in uno dei suoi traslochi, aveva deciso di disfarsene.

Come scrisse Lakatos e amava ripetere Geymonat “la filosofia della scienza senza la storia della scienza è vuota, la storia della scienza senza la filosofia della scienza è cieca”. Aggiungo che entrambe servono a dare un senso e a comprendere i fondamenti della scienza, senza i quali non c’è conoscenza ma solo nozionismo.

Mi furono di stimolo anche la Enciclopedia Einaudi pubblicata proprio in quegli anni e un libro Einstein scienziato e filosofo facente parte di una collana (Scienziati e filosofi viventi, a cura di Schlipp) di cui in Italiano sono stati pubblicati solo i libri dedicati ad Einstein e Carnap.

I testi di questa collana iniziano tutti con un saggio di taglio autobiografico-scientifico-culturale scritto dall’interessato e, su di esso intervengono i più grandi scienziati e filosofi della scienza dell’epoca.

Alla fine l’interessato chiude rispondendo alle suggestioni e ai rilievi dei suoi critici. Quello su Einstein è un vero capolavoro e, per fortuna, è stato ristampato da Boringhieri.

Un discorso a parte riguarda la collana di Filosofia della Scienza della Feltrinelli curata da Ludovico Geymonat che avevo conosciuto nel 1969 in occasione dell’esame di filosofia della scienza (Ernest Nagel, la struttura della scienza – problemi di logica nella spiegazione scientifica). Di Nagel è disponibile (presso Boringhieri) anche un bel libriccino dedicato al teorema di Gödel, il teorema dedicato alla indecidibilità delle proposizioni rimanendo all’interno di una medesima teoria (si può dimostrare che la matematica sia esente da contraddizioni?).

Ricominciai da quel malloppo di 650 pagine senza più l’ansia di doverci fare sopra l’esame e mi misi alla ricerca degli altri volumi della collana (ne ho una ventina e ne trovate l’elenco alla fine del capitolo). Al Frisi con gli studenti più bravi lavorammo su un testo di Enrico Bellone I modelli e la concezione del mondo nella fisica moderna da Laplace a Bohr e sulla Filosofia dello spazio e del tempo di Hans Reichenbach tutto dedicato alle implicazioni della teoria della relatività nella teoria della conoscenza.

Lo studio critico della scienza mi ha abbastanza trasformato facendomi rivedere e approfondire questioni come la verità, la razionalità, il fallibilismo; ho abbandonato definitivamente l’idea del socialismo scientifico e del marxismo salvandone solo la capacità di leggere e interpretare la storia.

Se ripenso a quegli anni mi viene da sorridere al pensiero che i professori più rozzi e le famiglie monzesi più retrive mi considerassero un pericoloso rivoluzionario comunista. Mi nutrivo della cultura europea e statunitense più avanzata e cercavo di farla apprezzare agli studenti, ma in tutto il mondo il maccartismo è duro a morire e poi, per certa gente, la cultura è una cosa che va presa solo in piccole dosi perché potrebbe fare male.

qualche ricordo frisino

i rientri pomeridiani

Carletto Pozzoli e Dario Giove da ragazzi prima di diventare dei fisici con una bella carriera alle spalle

Fuori della scuola, si fece a casa mia anche un piccolo seminario con tre studenti (Dario Giove, Carletto Pozzoli, Elisabetta Galbiati) che, usciti dal Frisi si iscrissero a Fisica. Leggevamo e discutevamo insieme le Lectures on Physics di Feynman e io cercavo di trasmettere loro il modo giusto di studiare all’università, quello che a me non avevano insegnato.

Per fortuna nella scuola non c’erano tutte quelle forme di sindacalizzazione al ribasso che sono emerse negli anni successivi, quando andai a lavorare nel privato. Così se si faceva qualche ora in più nel pomeriggio la si faceva gratis fermandosi per un panino e una partita a Tressette al circolino di via Sempione.

Di pomeriggio facevo due attività; un po’ di laboratorio di Fisica, nel laboratorio del III piano, con esperienze avanzate ma di tipo dimostrativo e la discussione critica di saggi sulla scienza utilizzando la disponibilità della biblioteca che, sull’argomento, era ben fornita. Queste attività erano aperte anche ad alunni di altre classi. Disporre di una pompa a vuoto, di rocchetti di Rumkhorf, di tubi a vuoto permette di fare cose molto belle e suggestive sia dul fronte dei raggi  X e catodici, sia su quello della termodinamica come far bollire acqua a temperatura ambiente, osservare che mentre bolle si raffredda, …

Nei primi anni, nel corso M, ricevevo in III gli studenti che avevano fatto il biennio alla succursale di Villasanta e che venivano da tutta la zona a nord di Monza sino a Casatenovo. Mi piacevano quelle classi di brianzoli doc spartani, concreti e anche bravi. Cosa del tutto eccezionale, eravano in ben 5 docenti maschi:  Meroni, Colonnetti, Cereda facevano la triade e poi c’erano anche Fontana (educ) e Bevilacqua (inglese) che, dopo le dimissioni di Pace, era diventato vicepreside.

La 5M era nell’aula di fronte alla Presidenza (dove ora c’è la segreteria amministrativa) e il povero Tedesco si prese anche qualche scherzone goliardico da parte dei più sciamannati (leggi Fiorenzuoli): per esempio un ordine di pasticcini fatto passare come ordine della Presidenza regolarmente consegnati e rimasti da pagare.

Poi sono passato nel corso L e, nel giro di qualche anno, ho incominciato a sentirmi sottoutilizzato. Tedesco era andato in pensione e la gestione successiva, un po’ sciatta e improntata alla pura amministrazione dell’esistente, non mi entusiasmava.

il nemico del Papa

dal sito de Il Cittadino di Monza e Brianza

Nel 1983 sono salito agli onori del pulpito di Villasanta, anche se l’ho saputo solo qualche anno dopo. Il 21 maggio ci fu la visita di papa Woytila all’autodromo di Monza. I presidi delle scuole monzesi decisero che le lezioni si sarebbero svolte regolarmente pur consentendo una sorta di via libera alle assenze studentesche.

In una classe avevo programmato da tempo un compito in classe e non lo rinviai pur chiarendo che chi l’avesse saltato, come facevo solitamente, non avrebbe avuto problemi, salvo rifare il compito. Era la stessa linea che usavo per le assenze politiche, sei libero di scioperare o andare in manifestazione ma poi il compito lo rifai.

A distanza di anni mi è stato riferito che don Bruno Perego, coadiutore del Parroco all’oratorio maschile di Villasanta e organizzatore dei ciellini al Frisi, fece, dal pulpito, in occasione di una messa domenicale, una filippica contro di me: pensate …  un professore, dirò di più … un nostro concittadino, ha impedito che … Sembra che un bel po’ di persone abbiano pensato a Meroni, più noto di me in paese. Mah, robe da chiodi.

Mentre per fisica rinviavo ai classici che ho citato, e solo episodicamente mi avvalevo di miei appunti, per matematica (geometria analitica, goniometria, elementi generali di analisi) avevo messo a punto delle dispense abbastanza complete e che ho ancora, rigorosamente scritte a mano e che venivano fotocopiate usufruendo del monte fotocopie di cui ogni classe disponeva. Lo stesso valeva per la correzione dei compiti in classe (gli antenati di quello che trovate ora sul sito).

gli esami di maturità

La prima parte dell’estate la si passava facendo gli esami di maturità o da membro interno o da commissario esterno. Quell’esame era una cosa utile per la formazione degli studenti e per la cultura dei docenti che avevano l’occasione di andare in giro per l’Italia e farsi una esperienza diretta sul funzionamento della nostra scuola (conoscenza di colleghi con storie e culture diverse, scambio di esperienze).

Per questa ragione non mi sono mai tirato in dietro; ho fatto più volte il membro interno e sono stato da esterno a Milano, Bergamo e Roma. Un anno avemmo come presidente un preside di scuola media, il professor Bertè, il padre di Loredana Bertè e di Mia Martini, poco generoso nei giudizi su quelle figlie che per lui erano delle scapestrate di cui si vergognava.

In quegli anni la prova scritta di matematica aveva un testo con proposta di 4 quesiti e veniva richiesto di affrontarne almeno due. Un problema di geometria analitica orientato all’analisi, due problemi di analisi sullo studio di funzioni e una domanda di teoria. La domanda di teoria era il salvagente dei somari che piazzavano il libro di testo da copiare in tutti i nascondigli possibili dei servizi igienici.

Nel 78 la domanda di teoria riguardava il teorema sulla “continuità delle funzioni derivabili“. Se una funzione ammette in ogni suo punto retta tangente, non può fare salti o avere spigoli. Ma lo studente che aveva letto frettolosamente lo Zwirner nei servizi igienici ci mise del suo, scambiò l’ipotesi con la tesi e scrisse “se una funzione è continua allora è derivabile” e passò a metà classe l’enunciato sbagliato con la dimostrazione (copiata) giusta.

Per capire l’errore basta pensare che se una funzione fa un angolo è continua ma lì non ammette retta tangente. E’ un controesempio semplice. Ero stato nominato commissario esterno  dopo lo svolgimento della prova e dunque non avevo assistito al fattaccio, ma scripta manent e mi ritrovai a dover valutare compiti scritti fotocopia l’uno dell’altro con un doppio errore: errore nell’enunciato del teorema richiesto, errore logico nel presentare una dimostrazione che non dimostrava quanto dichiarato ma il teorema inverso. Non fui tenero con quella classe di un liceo milanese.

l’informatica

Passavano gli anni (1986) e sentivo il bisogno di fare qualcosa di diverso; avevo iniziato ad introdurre a scuola l’Informatica (c’erano l’ MSDOS e i primi Pc) e l’occasione mi fu data dal reincontro con Oskian che non sentivo più dai primi mesi del 77.

Ci rivedemmo in occasione di una vicenda, per lui,  molto spiacevole e per me incredibile. Dopo che ce n’eravamo andati da AO lui era rimasto formalmene proprietario della Grafica Effeti dove si stampava il Quotidiano dei Lavoratori. Lo era diventato in quanto segretario politico.

Alla Grafica, che stampava il QdL per conto di Democrazia Proletaria ci fu un incidente sul lavoro in cui un tipografo ci rimise la mano. C’erano, al di là della vertenza in sede civile, anche aspetti di natura penale che ricaddero su di lui. Era tra lo sconcertato e l’incazzato perchè il gruppo dirigente di DP che gestiva la tipografia aveva deciso di fare il pesce in barile.

Lui era alla ricerca di qualcuno disposto a testimoniare che, al di là dell’aspetto formale sulla proprietà, dalla primavera del 77 non c’entrava più nulla con la Grafica Effeti. In quel periodo era a Roma e faceva il vicesegretario del Pdup. Non so come riuscì a mettersi in contattocon me e così ci si rivide e testimoniai su quegli aspetti. Tutti gli altri erano spariti e i responsabili tacevano per convenienza.

Aveva una società che stava passando dalla attività di consulenza a quella propriamente informatica (la SISDO) e mi propose di lavorare con lui. Se ne parla ampiamente nel prossimo capitolo. Eravamo a metà degli anni 80 e incominciai, un paio di pomeriggi alla settimana, ad andare a MIlano, in viale Bianca Maria, pagato sostanzialmente per studiare (un po’ di informatica e un po’ di marketing).

Nel corso dell’86 incominciò ad introdurmi più a fondo nell’azienda che, allora, si occupava di Informatica gestionale su piattaforme PDP-VAX della Digital. Avevo compiuto i 40 anni e mi dissi che quello era l’ultimo momento per mollare tutto e cambiare. Fu così che, alla fine dell’anno scolastico 86/87 diedi le dimissioni dalla scuola, per la seconda volta, ed iniziai a lavorare nel privato. Ma quella non è stata l’ultima volta in cui ho cambiato tutto.


Fiammetta Cedrazzi (1941-2019) – per finire con un ricordo

A maggio 2019 è venuta a mancare un pilastro nella mia storia di docente al Frisi; era andata in pensione nei primi anni duemila.

Fiammetta è stata una protagonista di una fase irripetibile della mia vita e della vita del Frisi e parlo degli anni dal 1977 alla metà degli anni 80. In quel momento nel nostro liceo c’erano una serie di persone diverse per carattere per sensibilità politica e per modelli culturali di riferimento, ma si respirava in questa scuola il sapore della cultura vera, la passione nei confronti dei giovani, il senso di cosa volesse dire essere un docente.

Era finita l’epoca iniziata nel 68 e continuata in tono sempre minore e sempre con maggiore settarismo fino alla metà degli anni 70. Ne incominciava una nuova in cui si confrontavano il desiderio di cambiamento nella democrazia con le pulsioni violente dell’Autonomia e del nascente terrorismo. Quello era il contesto di contorno in cui si sviluppava il nostro desiderio di fare scuola per trasmettere una visione critica della cultura e della vita. Ma è sbagliato dire trasmettere, si deve dire costruire insieme.

Mi univa a Fiammetta la passione per le scienze dure e al di là di esse ciascuno di noi proseguiva per la sua strada, io più verso la filosofia e la storia, lei più verso la letteratura e l’arte incluse la musica e il balletto. Così quelli furono anni di studio approfondito, molto più approfondito di quello degli anni universitari, che pure non erano stati uno scherzo. Di certo né lei né io facevamo parte di quella tipologia di professori che entra in classe e dice Aprite il libro a pagina 147. Oppure Brambilla vieni alla lavagna e fai questo esercizio.

Mi ha sempre colpito il fatto che desse del lei agli studenti e addirittura, come è giusto dal punto di vista grammaticale del loro quando si passava al plurale. Mi sembrava un po’ un vezzo e mi chiedevo sempre come ci si sentisse ad essere dall’altra parte. Io mi sarei sentito a disagio perché già respiri un dislivello culturale ed esperienziale immenso e in più ti viene detto di stare al tuo posto.

Prima di tutto veniva la scuola con le sue regole, il senso del dovere, la sua serietà. Poi veniva tutto il resto, ma tutto il resto era filtrato attraverso la metodica del rigore e dell’esercizio critico della ragione: perché si fa così? Cosa c’è sotto? Quali sono i gradi di libertà? Si può operare diversamente? Cosa succede ad una teoria assiomatica se cambio un postulato? Qual è la dinamica della conoscenza scientifica? Alcuni elementi del carattere di Fiammetta venivano dal fatto che da bambina era cresciuta dentro il carcere minorile Beccaria di cui il padre era il direttore.

In quegli anni 70 e 80 non era vietato parlare d’altro, ma quel parlare d’altro doveva avere un senso e noi docenti di matematica e fisica eravamo in maggiore difficoltà rispetto ad altri docenti (come quelli di lettere) sempre presi dalla necessità di affrontare la miriade di questioni legate all’essere docenti di scienze dure in un liceo scientifico nato come figlio di un Dio minore del liceo classico, mentre la società che non cambiava i suoi ordinamenti ci richiedeva di essere protagonisti e di costruire dei profili di uscita con giovani colti e critici, maturi, ma anche tanto preparati sul versante scientifico in termini di competenze.

Tutto questo ci rendeva un po’ marziani per via della necessità di non perdere mai tempo e contemporaneamente, quando guardavamo negli occhi i nostri studenti e le nostre studentesse, capivamo che avevano voglia e bisogno di parlare anche di altre cose e allora usavamo i ritagli di tempo o i pomeriggi, tanto in quegli anni non si usavano ancora certi orridi neologismi come attività aggiuntive funzionali o non funzionali all’insegnamento. Si restava a scuola perché era opportuno farlo.

Mi spiace che il concorso che istituì la figura del dirigente scolastico non sia venuto fuori in quegli anni, ma solo nel 2004, perché Fiammetta sarebbe stata un’ottima dirigente, anzi una dirigente eccezionale, capace di stare sui tre denti della forchetta su cui dovevamo riuscire a stare in equilibrio: la organizzazione della scuola, la leadership educativa e la innovazione.

Invece in quegli anni la scuola italiana era ancora la scuola delle circolari del ministero con scritto si trasmette per opportuna conoscenza e norma, del preside come prolungamento finale di una organizzazione centrale che partiva da Roma e così Fiammetta non fu ritenuta degna, dai colleghi, nemmeno di fare la vicepreside anche se, era del tutto evidente, che sarebbe stata una grande vicepreside, naturalmente per occuparsi della direzione di marcia della scuola e non della sostituzione dei colleghi assenti con le supplenze brevi o della firma dei permessi di entrata in ritardo. Così al più potevamo aspirare a fare i consiglieri del principe, tenuti in panchina e consultati di nascosto (e lo abbiamo fatto).

Sul piano umano e personale era una persona molto riservata e, d’altra parte, lo sono anch’io, tanto è vero che ormai mi chiamano nonno orso. Quindi non me la sento di avanzare critiche sulla sua riservatezza che l’ha indotta ad una sorta di chiusura a riccio. Mi spiace tantissimo come si sia svolta la fase finale della sua vita, molto marcata dalla solitudine e dalla chiusura in se stessi e io penso di essere stato un po’ vigliacco a non farmi vivo e ad obbedire alla sua richiesta di non voler vedere nessuno intorno. D’altra parte confesso che il cancro mi mette sempre a disagio nel rapportarmi con chi ne viene colpito. La mia struttura razionale si ribella e se la unisco alla mancanza di un credo nell’aldilà misuro un senso di impotenza e di rabbia.


La pagina con l’indice della mia autobiografia da cui potete scegliere i capitoli da leggere


I commenti che aggiungono ricordi o correggono imprecisioni sono benvenuti. Si accede ai commenti scendendo al di sotto dell’articolo. Li si scorre e si arriva  ad un apposito editor


Appendice: la collana giallo ocra della Feltrinelli


Feltrinelli – la collana di Filosofia della scienza curata da Geymonat

Willard Van Orman Quine, Manuale di logica | Ettore Casari, Lineamenti di logica matematica | Ludovico Geymonat, Filosofia e filosofia della scienza | Carl G. Hempel, La formazione dei concetti e delle teorie nella scienza empirica | Evert W. Beth, I fondamenti logici della matematica | Ettore Casari, Questioni di filosofia della matematica |
Maria Luisa dalla Chiara Scabia, Modelli sintattici e semantici delle teorie elementari | Emil Ungerer, Fondamenti teorici delle scienze biologiche | M.E. Omelyanovskij, V.A. Fock e altri, L’interpretazione della meccanica quantistica. Fisica e filosofia in URSS | Enrico Bellone, I modelli e la concezione del mondo nella fisica moderna. Da Laplace a Bohr | Imre Lakatos e Alan Musgrave (a cura di), Critica e crescita della conoscenza | Hans Reichenbach, Filosofia dello spazio e del tempo | Ludovico Geymonat, Scienza e realismo | Pietro Redondi, Epistemologia e storia della scienza | Imre Lakatos, Dimostrazioni e confutazioni. La logica della scoperta matematica | Mary B. Hesse, Modelli e analogie nella scienza |

e quella di bianco e viola di Storia della scienza curata da Paolo Rossi

Marie Boas, Il Rinascimento scientifico 1450/1630 | Alistair C. Crombie, Da S. Agostino a Galileo. Storia della scienza dal V al XVII secolo | E. J. Dijksterhuis, Il meccanicismo e l’immagine del mondo. Dai Presocratici a Newton | J. L. E. Dreyer, Storia dell’astronomia da Talete a Keplero | Yehuda Elkana, La scoperta della conservazione dell’energia | John C. Greene, La morte di Adamo. L’evoluzionismo e la sua influenza sul pensiero occidentale | A. Rupert Hall, Da Galileo a Newton (1630/1720) – La Rivoluzione scientifica 1500/1800. La formazione dell’atteggiamento scientifico moderno | Mary B. Hesse, Forze e campi. Il concetto di azione a distanza nella storia della fisica | Max Jammer, Storia del concetto di forza. Studio sulle fondazioni della dinamica | Max Jammer, Storia del concetto di massa nella fisica classica e moderna | Morris Kline, La matematica nella cultura occidentale | Alexandre Koyré, Dal mondo chiuso all’universo infinito | Paolo Rossi, I filosofi e le macchine 1400/1700 | Philip P. Wiener, Aaron Noland , Le radici del pensiero scientifico |


 




Le riforme sospese tra opposti estremismi …

e intanto si smarrisce il senso delle istituzioni

Che cosa sono le istituzioni? La risposta a questa domanda basica stenta ad emergere dalla foschia della tempesta verbale, oggi attraversata dai lampi del premierato e dell’autonomia.

Nell’immaginario collettivo, le istituzioni sono “palazzi”, “sedi”, “poteri”: il Quirinale, Montecitorio, Palazzo Madama, Palazzo Chigi, Palazzo della Consulta… Palazzi occupati e, in democrazia, occupabili e contendibili. Ma l’essenza delle istituzioni è altra.

Esse sono, innanzitutto, le regole rapprese e solidificate della convivenza civile e le reti di imbrigliamento del Potere politico, che tende per natura sua a franare sulle strade della società civile. Le regole addensano e formalizzano i costumi – l’etica storica – la morale individuale, il diritto, nella sua duplice faccia di moral suasion e physical constriction.

Sono il prodotto di un contratto sociale, che è, a sua volta, la risultante effettuale del conflitto e della cooperazione. Sono espresse nel formalismo del linguaggio giuridico, ma non perciò riducibili a formalismi o a galateo. Esse sono la forma di ogni società. Senza la quale, o la società esplode in mille conflitti o viene compressa da un potere dispotico. Gli esempi non mancano, né quelli del primo caso né quelli del secondo.

Il Nuovo Titolo V: una riforma necessaria e mal decisa

Il primo corollario logico di questo discorso è che le regole-istituzioni si definiscono insieme da parte di tutti i soggetti politici. Sulla politics e sulle policy ci si può scontrare, a lungo e ostinatamente, ma sulle regole occorre accordarsi.

Se non lo si fa, politics e policy vacillano. Naturalmente, sarebbe ingenuo ignorare che è fatale tentazione dei gruppi umani quella di proporre regole favorevoli agli interessi della propria parte.

Si sta seduti al tavolo delle regole, ma si guarda a lato, per prevedere se esse favoriranno i miei interessi o no. Tutti i soggetti seduti al tavolo sviluppano questo fisiologico approccio egoistico.

Si deve però prendere atto che nel sistema politico italiano questa fisiologia è divenuta patologia. C’è una data di inizio: l’8 Marzo 2001 il Senato ha approvato con la Legge Costituzionale n. 3/2001 la riforma del Titolo V della Costituzione – artt. 114-132 -, entrata in vigore, a seguito di referendum confermativo, l’8 novembre 2001.

La ratio della riforma era cogente da tempo: adeguare il dettato costituzionale all’istituzione delle Regioni, avvenuta vent’anni dopo il varo della Costituzione. In forza del nuovo dettato, la Repubblica non si identificava più con lo Stato, era più larga. L’art. 114 pone sullo stesso piano i Comuni, le Province, le Città metropolitane, le Regioni e lo Stato quali entità costitutive della Repubblica.

Alle Regioni è riconosciuta ampia autonomia statutaria, legislativa, organizzativa e finanziaria. È la base dottrinale dell’autonomia differenziata. Il Nuovo Titolo V muoveva dal riconoscimento che nel Paese esisteva una questione meridionale storica, ancorché irrisolta, ma che stava montando, anzi era già esplosa, anche una questione settentrionale, di cui la Lega di Bossi era l’epifenomeno e la rappresentanza politica.

Era la presa d’atto che il sistema delle Regioni, nato in ritardo, rispecchiava, senza essere riuscito a ricomporla, la frattura scomposta del Paese. Le Regioni del Nord erano – sono – in grado di governare meglio dello Stato centrale, quelle del Sud lo facevano – e continuano a farlo – sempre peggio. Devolution, deleghe, autonomia differenziata avevano e hanno un solo senso: una gara pacifica tra loro e con l’Amministrazione centrale tra chi è più capace di amministrare le risorse pubbliche date. Ottimo!

Ma tale imponente riforma è stata approvata dal solo centro-sinistra. Il quale, nel tentativo di sottrarre in extremis, come nel 1994, il federalista Bossi alle spire avvolgenti di Berlusconi, ha perpetrato uno smaccato uso/abuso politico di riforma. Da allora in avanti, prima Berlusconi e poi Renzi hanno provato a varare riforme della forma-governo, sempre per via unilaterale.

Sottoposte a referendum confermativo, ha sempre vinto il NO. Anche perché l’invenzione del referendum confermativo avente per oggetto questioni costituzionali complicate, tradotte in quesiti formulati in linguaggio astruso, non è stata felice. Così la posta in gioco finisce per essere, ogni volta, il consenso non all’oggetto del referendum ma al soggetto che lo ha proposto, cioè al governo di turno.

La politica, terra desolata

Venendo alla presente stagione e al cacofonico suon di lei, anch’essa si annuncia incapace di riforme istituzionali come le precedenti. E per le stesse ragioni. Perché il metodo adottato è quello dell’unilateralità settaria, al punto di intersezione di due arroganze: quella di chi governa, che fino a ieri si oppose strenuamente alla riforma del Titolo V e alla riforma Renzi, in nome della difesa della democrazia; quella dell’opposizione, che contesta, sempre nel nome della suddetta democrazia, le soluzioni, che a suo tempo propose con indomita arroganza.

Gli elettori assistono allibiti e disamorati a tale indecente spettacolo, mentre le curve tifose dei costituzionalisti embedded fanno la ola sui giornali e sulle TV.  Un dramma per il Paese, trasformato dai partiti in un melodramma, in cui si recitano tenzoni all’arma bianca e scorre, invece che sangue, sugo di pomodoro.

Così, chi prova a ragionare nel merito delle questioni, come Stefano Ceccanti, si becca da Travaglio l’insulto di inciuciador. E l’opposizione, con annesse Italia Viva e Calenda, chiama a raccolta oves et boves et universa pecora, allo scopo di far cadere il governo. Per salvare l’Italia. Nientedimeno! In realtà, per tentare disperatamente di accumulare macigni sulla strada del governo.

Nessuna discussione di merito. E così ai partiti di governo viene offerto un ottimo alibi per non discutere, a loro volta, dei buchi neri dei loro raffazzonati e frettolosi progetti di riforma. Ma si può dare loro torto, se le forze di opposizione non sono realmente interessate alle riforme? Giacché, se loro importasse seriamente, forse scoprirebbero che l’autonomia differenziata e, ancor di più, il federalismo regionale – cioè la responsabilità impositiva e di spesa – sono la cura della frammentazione del Paese, non la malattia; e che il premierato è la cura del perenne non-governo. Lo hanno sostenuto per anni.

Viene in mente, per analogia, quel che Salvemini diceva causticamente dei cattolici durante il periodo del Fascismo: Quando sono al potere invocano la verità, quando sono all’opposizione invocano la libertà.

Nessuna meraviglia, a questo punto, che almeno a metà del Paese questi opposti estremismi suonino alieni. Così la politica si presenta sempre di più come una waste Land, una terra desolata. E il dibattito politico? Interpellato, oggi Macbeth direbbe che è un racconto narrato da un idiota, pieno di strepiti e furore, significante niente.

 




1974-1976: la parabola di AO

III edizione giugno 2024

c’eravamo tanto amati

Il periodo che mi vide operare dentro il gruppo dirigente di una organizzazione della sinistra rivoluzionaria è il più difficile da raccontare perché, da allora, sono cambiato molto ed è stata la riflessione su quella esperienza a determinare la radicalità del mio cambiamento: non più rivoluzionario, non più comunista, non più fiducioso (come una volta) nella possibilità che le cose si possano cambiare attraverso l’impegno nella lotta politica.

Penso che siano necessari impegni di altro genere sul fronte educativo e della testimonianza e che comunque il pedale su cui spingere non sia quello della lotta di classe.

Perché se è vero che le classi sociali esistono e influenzano il procedere della storia, non è vero che esista una classe destinata a svolgere un ruolo palingenetico (il proletariato industriale) ed è discutibile, alla luce dei mutamenti sopravvenuti nel modo di produrre e di consumare nella parte finale del XX secolo e nei primi decenni del XXI, che in estensione e consapevolezza si possa continuare a parlarne come di una classe sociale.

Mi sono ritrovato ad essere più attento ai cambiamenti che vengono da lontano, che procedono lentamente e che determinano le scelte importanti nella vita nelle persone, come quelli che si determinano nella scuola. Cosa farò da grande? Qual è il mio stile di vita? Cosa penso  dei rapporti tra le persone? Per cosa vale la pena di impegnarsi?

Nel giro di pochi mesi, dall’estate del 76 ai primi mesi del 77 ho vissuto  una trasformazione molecolare molto profonda che non ha riguardato solo la politica e non principalmente la politica. Ho cambiato stile e modo di vita; sono molto più solitario e disincantato di un tempo, ho bisogno del rapporto fisico con la naturalità (dai boschi, ai fiumi, alla autoproduzione agricola; sono sempre una persona appassionata e disposta a giocarsi per le cose per cui vale la pena di vivere. Sono disincanto nei confronti di tutti i miti, ma dico sì agli ideali.

Marciavamo con l’anima in spalla nelle tenebre lassù
ma la lotta per la nostra libertà il cammino ci illuminerà.
Non sapevo qual era il tuo nome, neanche il mio potevo dir
il tuo nome di battaglia era Pinìn e io ero Sandokan.
Eravam tutti pronti a morire ma della morte noi mai parlavam,
parlavamo del futuro, se il destino ci allontana
il ricordo di quei giorni sempre uniti ci terrà.
Mi ricordo che poi venne l’alba, e poi qualche cosa di colpo cambiò,
il domani era venuto e la notte era passata,
c’era il sole su nel cielo sorto nella libertà.

Sono i versi della canzone di Armando Trovajoli che fa da tormentone a c’eravamo tanto amati di Ettore Scola (la trovate su Youtube). Il film me lo sono rivisto e mi ha dato la forza per terminare il pezzo della autobiografia più difficile da scrivere (insieme a quello sulla storia di mio padre), quello del c’eravamo tanto amati.

Chi siamo stati:  Gianni, Antonio o Nicola? Il marpione, il proletario dalla fede indistruttibile o l’intellettuale sognatore, o forse tutti e tre insieme? Sentiamo cosa dicono:


– Gianni: Certo che la nostra generazione ha fatto proprio schifo.
– Nicola: Piuttosto che inseguire un’improbabile felicità è meglio preparare qualche piacevole ricordo per il futuro.
– Antonio: Quando si rischia la vita con qualcuno ci rimani sempre attaccato come se il pericolo non fosse passato mai.
– Nicola: Credevamo di cambiare il mondo invece il mondo ha cambiato a noi.
– Antonio: 306 seggi [della DC], e chi se lo poteva immaginare?
Gianni: Ti devo dire una cosa.
– Antonio: E che me vòi di’, lo so! Abbiamo sottovalutato un sacco di fattori che hanno concorso a mettercelo nel chiccherone: i soldi americani, la paura di Stalin, i preti, le monache, le madonne piangenti, la paura dell’inferno…
Gianni: Io e Luciana ci vogliamo bene. È questo che ti volevo dire.
– Antonio: Ci vogliamo bene… in… che senso?
Gianni: Ci amiamo

le cose positive che abbiamo fatto o che abbiamo contribuito a fare

Il giudizio positivo che dò su quel periodo non riguarda la sola Avanguardia Operaia, ma tutti i movimenti e le organizzazioni che, dal 68 al 75, riuscirono a determinare innovazioni e trasformazioni sul piano del costume, un riassestamento dei rapporti sociali a favore dei meno agiati, mutamenti nella legislazione e nelle istituzioni, cambiamenti nella Chiesa Cattolica e un generale spostamento a sinistra nel paese. Pensate a Pio XII e confrontatelo con Papa Francesco per farvi un’idea di come è cambiato il mondo.

Penso alla fine dell’autoritarismo che governava le piccole e grandi istituzioni (dalla famiglia all’esercito), al contratto dei metalmeccanici del 69 cui seguirono, in rapida successione, quelli delle altre categorie, alla affermazione dei diritti nelle fabbriche e nelle scuole, alle trasformazioni nella magistratura, alla abolizione dei manicomi, alla trasformazione delle carceri, alla democratizzazione nell’esercito e nei corpi di polizia, alla crisi del sindacalismo autonomo a favore di quello confederale, alla forte spinta verso l’unità sindacale, alla tutela della donna.  Tutte queste trasformazioni sono state opera nostra anche se, ovviamente, non solo nostra. E dunque le affermo con l’orgoglio se non del protagonosta, almeno del comprimario.

Tutto è iniziato da un processo generale e generazionale che ha riguardato l’intero mondo occidentale e i paesi dell’est; poi c’è stata una particolarità italiana dentro la quale abbiamo operato noi che, dopo il 68, facemmo la scelta di andare nei gruppi.

I senzaMao e la lotta rivoluzionaria per le riforme

Il libro che Silverio Corvisieri ha scritto sul finire del 1976 quando ha lasciato Avanguardia Operaia da sinistra per poi approdare, come molti di noi, al PCI – io almeno me ne sono andato dalla parte giusta che era quella della difesa delle istituzioni democratiche

Ho provato a rileggere alcuni dei documenti di allora e mi riesce difficile farlo perché rimango sùbito colpito sfavorevolmente dalla astrattezza di certe problematiche, del volersi ad ogni costo ritagliare un ruolo che in realtà non avevamo.

Ho riletto con attenzione I senzaMao del mio direttore al Quotidiano dei Lavoratori, Silverio Corvisieri, soffermandomi in particolare sul suo intervento al IV congresso di Avanguardia Operaia, quello della trasformazione di AO in un partito, anche se allora era vietato chiamarlo così.

Silverio ha il pregio della brillantezza giornalistica anche quando tratta di cose pesanti come le disquisizioni intorno al centralismo democratico, al rapporto tra il partito e le masse, alla definizione di proletariato nel contesto dell’Italia degli anni 70. Ma non mi ci ritrovo per niente sul piano razionale; allora non mi ci ritrovavo senza capire bene il perché; avevo l’impressione che ci fossero delle forzature.

Il titolo, I senzaMao, deriva dal fatto che in quell’anno (il 1976) dopo la botta delle elezioni politiche (a giugno) ci fu la morte di Mao (a settembre) ad accrescere il disorientamento. Il vento dell’est aveva smesso di soffiare e noi, presto, saremmo stati in balia di quei matti della autonomia e dei terroristi conseguenti.

Per converso Silverio mi ha fatto tornare alla mente il tema della lotta rivoluzionaria per le riforme, una definizione di comodo che avevamo inventato per spiegare che eravamo per la rivoluzione socialista ma che, nel contesto dato, non era pensabile ragionare in termini di insurrezione.

Avevamo il doppio problema di smarcarci dagli spontaneisti del tutto e subito e, contemporaneamente, dire che non ci piacevano, perché troppo istituzionali e codiste, le posizioni di quelli del giro del Manifesto-PDUP, i togliattiani di sinistra impegnati nel tentare di spostare a sinistra il partito comunista.

Mi pare emblematico che si tratti di una questione che non interessa più a nessuno, a differenza dell’ottenimento di risultati di trasformazione degli assetti istituzionali. Anche io rimasi affascinato dalla idea di fare la rivoluzione attraverso le riforme leggendo nell’estate del 68 un libro di Andreè Gorz, il socialismo difficile. Gorz era il vicedirettore di Les Temps Modernes, la rivista di Sartre. Ne ho parlato nel capitolo dedicato al 68 e ci ritorno sopra volentieri.

Quella di Gorz era la corrente dei riformisti rivoluzionari. I riformisti rivoluzionari rifiutavano l’esperienza del socialismo reale e vedevano in un movimento di massa in grado di imporre riforme strutturali il nuovo modo di arrivare al socialismo nei paesi dell’Occidente. In Italia, il maggiore esponente di questa linea di pensiero era Bruno Trentin (insieme a Lelio Basso) e si trattava di una delle tante correnti di pensiero di matrice luxembourghiana che giravano per l’Europa.

Quel libro lo discussi passo dopo passo con Oskian e Claudia Sorlini che ne criticavano la insufficienza in nome del leninismo e, alla fine di quelle discussioni, decisi di entrare in AO: vi trovai belle persone, alcune con una storia antica dentro il PCI, altre emergenti come Oskian o Randazzo, tutte decise a rifondare il comunismo passando da Lenin ma senza fare sconti all’URSS.

la crisi nel gruppo dirigente

La seconda fase del mio impegno in AO, a partire dal 73, con una serie progressiva di promozioni e crescenti assunzioni di responsabilità fu caratterizzato da due elementi:

  • bisognava crescere e rafforzarci perché, se i tempi della rivoluzione non dipendevano da noi, dipendeva da noi il fatto di arrivarci avendo risolto il problema della guida del processo rivoluzionario. Far emergere il partito attraverso un processo di scomposizioni e ricomposizioni nel quale AO, pur non essendo l’embrione di tale partito, doveva giocare un ruolo principale
  • stavamo trasformandoci da gruppo semilocale, a Organizzazione Nazionale, a un simil-partito e ciò comportava un rafforzamento dell’impegno, il non farsi troppe domande, stringere i denti e puntare ad allargarci; accettare di essere inviati in giro per l’Italia a gettare il seme, cedere i propri beni materiali alla organizzazione, rinunciare alla professione post laurea nel caso dei quadri del movimento di scienze.

E’ questa la ragione per la quale, comportandomi come uno stronzo, lasciai passare senza muovere un dito un episodio come la radiazione/espulsione di Maurizio Bertasi, Flavio Crippa e Pietro Spotti (rei di lesa maestà per aver osato mettere in discussione le decisioni del segretario politico e della supersegretria che lo contornava). Alla stessa stregua considerai accettabile la non spiegazione circa l’auto-allontanamento dal giornale di Silverio Corvisieri. Il fondatore del giornale se ne andava, non salutava nemmeno la redazione; c’era qualche problema ma non era il caso di parlarne: passo fermo e sguardo in avanti verso il sol dell’avvenire.

Dopo la pubblicazione della prima versione di questa autobiografia ho ricevuto numerose testimonianze relative al Comitato Centrale della espulsione-radiazione cui non partecipai perchè c’era da confezonare il Quotidiano. Non fui presente al Comitato Centrale ma lo fui alla riunione precedente della segretria estesa ai membri del C.C. milanesi. Ho letto il verbale che ne fece Umberto Tartari. I tre che espongono i loro dati; Oskian e Vinci che li contestano e noi tutti zitti.

Molti compagni che presenziarono al successivo Comitato Centrale descrivono un clima pesante, il non trovarsi d’accordo ma avere paura di parlare, per finire con le richieste di autocritica a quei pochi che osarono dire qualcosa.

Non c’era tempo, bisognava fare e così si finiva per non fare domande e nemmeno farsele. Per esempio dalla lettura dei senzaMao vedo che nella decisione di Silverio di lasciare il giornale e tornare a Roma c’erano sia elementi di logoramento personale, sia l’emergere di preoccupazioni politiche per il processo che ci stava facendo avvicinare al PDUP e allontanare da Lotta Continua. Probabilmente il pezzo su Gioia di Vivere e Lotta di Classe fu il suo modo di lanciare un sasso.

Apparentemente tutto filava liscio ma il fuoco covava sotto la cenere e un pomeriggio, in una riunione di segreteria nazionale, Luigi Vinci richiese a freddo le dimissioni del segretario nazionale Aurelio Campi accusandolo di gestione padronale del partito. Non ricordo se fosse la fine del 75 o l’inizio del 76 ma il fatto è di poco successivo all’allontanamento di Silverio dal Quotidiano. Era l’inizio di una storia durata all’incirca un anno in cui i due principali contendenti alternarono bordate, punture di spillo e giravolte strumentali.

Ho vissuto l’attacco ad Oskian come una autentica pugnalata tirata a freddo. In realtà c’era parecchio malessere nei confronti di Oskian per il suo decisionismo che molto spesso si trasformava in autoritarismo e a ciò si sommava il timore che stesse progettando una fusione-confluenza con la componente comunista (non psiuppina) del Pdup.

Mi sono poi reso conto, dalle successive dinamiche in Ufficio Politico, che si trattava di un atto preparato con cura da Luigi Vinci (che controllava l’apparato e l’organizzazione), in accordo con molti segretari regionali. Così Avanguardia Operaia, in un momento in cui sarebbe servito il massimo di iniziativa politica e di unità interna, sia prima, sia dopo le elezioni del 76, fu invece vittima di una crisi al vertice tenuta lungamente segreta, ma che non le fece certamente bene.

In quei mesi mi resi conto frequentando i gruppi dirigenti di AO e del PDUP di quanto pesassero le miserie personali nel determinare le scelte politiche e quello fu il primo disvelamento del fatto che non basta credere nel comunismo e appellarsi ad esso per essere all’altezza del compito.

Con il IV congresso dell’ottobre 74 Avanguardia Operaia fece uno sforzo per guardare lontano, stare dentro i movimenti sociali ma, contemporaneamente, cercare di costruire una analisi della società italiana che facesse i conti con le caratteristiche dei due blocchi sociali che riscuotevano il consenso della gran massa degli italiani: il blocco intorno alla DC e quello intorno al Partito Comunista.

Ma una parte del gruppo dirigente storico guardò a quel tentativo con sospetto, come una forma di liquidazionismo. Se devo fare un paragone un po’ forte, ma che aiuta a capire, nel momento in cui avevamo bisogno di Gramsci AO si rifugiò nelle braccia di Bordiga travestito da Lenin.

Il Comitato Centrale, con oltre 100 compagni, tutti con una storia di militanza importante, tutti dotati di esperienza politica, faticava a capire, anche perchè le divergenze reali non venivano palesate, se ne discuteva nei corridoi, in parte in Ufficio politico, ma mai in maniera esplicita. Vinci e Campi un giorno si davano ragione, ma appena temevano che dietro l’unità ci fosse lo zampino del diavolo, rovesciavano il tavolo.

Fu così, nella incapacità di capire cosa era era successo con il risultato delle elezioni di giugno (straordinario balzo in avanti del PCI, tenuta della DC, misero risultato della sinistra rivoluzionaria) che si produsse lo sgretolamento, dapprima lento e poi clamoroso delle tre organizzazioni principali della sinistra rivoluzionaria; AO, LC e il PDUP seguite subito dopo dal MLS.

Nessuna di esse era riuscita ad essere una alternativa a quei blocchi di consenso politico ed ora crollavano stritolate da un lato dal PCI e dall’altro lato dai movimenti della autonomia e dal terrorismo.

la mia reazione

Disgustato da come si svolse la discussione intrecciata tra il risultato deludente delle elezioni politiche e la prospettiva di unire o meno Avanguardia Operaia e il Pdup, decisi di andarmene e nei primi giorni di luglio 76 preparai anche un poderoso documento politico di dimissioni dalla organizzazione a cui avevo dato tanto.

La manchette che apriva il lungo articolo in tre puntate in cui decisi che era ora di finirla con le chiacchiere da convento di clausura

Da qualche mese avevo iniziato a studiare le parti di teoria politica dei Quaderni dal carcere di Gramsci (in particolare le Note sul Macchiavelli) e mi rendevo conto che c’era un vuoto da colmare tra le intuizioni di Gramsci sulla democrazia, sul socialismo, sulla politica, sul blocco storico, sul ruolo della chiesa cattolica, sulla lotta culturale per la egemonia e il nostro appello al leninismo.

Il leninismo si era inverato in una realtà profondamente diversa da quella italiana e per di più, o forse per quello, aveva avuto una deriva fallimentare in cui il giacobinismo della prima ora si era ben presto trasfornato in autoritarismo e poi in una forma di totalitarismo burocratico in grado di garantire solo la propria sopravvivenza (com qualche milione di vittime).

Nel mese di luglio (mentre ero in ferie dal giornale) mi incontrai con Oskian e Claudia Sorlini per informarli della mia decisione di andarmene da una organizzazione che non aveva il coraggio di discutere a viso aperto. Oskian, che in quel momento non era più segretario politico, ma coordinatore di una segreteria collegiale che aveva il compito di preparare le tesi per il V congresso, mi convinse a rimanere promettendomi che si sarebbe aperta la battaglia politica e non quella personale.

Misi da parte il documento di dimissioni (che è rimasto chissa dove in una agenda e si è perso con lei) e nei primi giorni di agosto pubblicai in tre puntate, sul quotidiano, un lungo articolo dedicato alle prospettive che ci stavano di fronte e a quella che secondo me poteva essere la strada per uscirne. Lo trovate qui “perché ho votato contro al Comitato Centrale“.

Di questioni politiche ce ne sono dentro molte e ciò che mi ha colpito è l’insistenza sulla necessità di una riflessione teorico politica di grande respiro, insieme a problematiche di tipo minore che, con gli occhi di oggi, mi fanno sorridere.

A settembre, al rientro dalle ferie dei dirigenti, mi aspettavo una discussione politica (e come si vede dalla D di dibattito nella manchette, pensavo di farlo sul giornale); invece fui processato in Ufficio Politico per aver infranto il Centralismo Democratico e mi venne messo al fianco, in funzione di controllo, Vittorio Borelli, trasferito da Verona e del tutto digiuno di giornalismo.

In redazione non la prendemmo bene, anche perché, come si vede dalla lettura del testo, si trattava di un contributo politico del tutto legittimo nell’ambito della discussione su come arrivare al V congresso di AO.

Le congiure di palazzo e le manovre di corridoio continuavano da entrambe le parti. Non me la sentii di continuare con l’ottimismo della volontà e ai prmi di ottobre decisi che era meglio andarmene e tornare al lavoro minuto, ma importante, di docente. Rimisi il naso in redazione una volta sola quando ci fu lo scontro a fuoco (di cui ho parlato nel pezzo dedicato agli anni del QdL) in cui morirono Walter Alasia e due funzionari di polizia.

un cambiamento profondo

L’esplosione del terrorismo e la violenza dei movimenti della autonomia mi convinsero della necessità di seguire altre strade e lavorare più in profondità. Non abbandonai la passione politica, ma abbandonai l’idea della politica al primo posto, quella del rivoluzionario di professione che sarebbe meglio chiamare uomo ad una dimensione.

Non fu una decisione immediata, ma progressiva. Ricordo che, nei primi mesi del 77, alla assemblea in cui la destra di AO decise di andarsene e aderire al PDUP partecipai, ma mi sentivo ormai un osservatore esterno e non un protagonista. Non ricordo nulla dell’incontro residenziale che si tenne a Rocca di Papa; alcuni amici che proseguirono in quel percorso mi dicono che feci un intervento importante ma non mi è rimasto nemmeno il ricordo. Mi ritrovavo con tante persone a cui volevo bene ma che stavano per intraprendere un ennesimo tentativo volontaristico.

La parabola di AO si era visibilmente chiusa anche se la maggioranza ottenne risultati tra il 70 e l’80%; altri tentarono di fare DP e in quel periodo mi resi conto della drammaticità della situazione.

Il terrorismo cresceva, faceva le rapine, gli autonomi erano alla ricerca dello scontro per lo scontro, la popolarità delle BR nel brodo di coltura della autonomia operaia cresceva, iniziavano gli omicidi e i miei ex compagni continuavano a fare i distinguo come nello slogan infelice nè con lo stato nè con le BR, come se lo stato democratico, le BR e prima Linea, si potessero mettere sullo stesso piano.

Tutti quei tentativi, per quanto generosi, che avevano caratterizzato la mia vita nella prima metà degli anni 70, per quanto animati da persone appassionate, sul piano della soggettività, finirono nel nulla. Non fu così, come ho detto all’inizio, per le trasformazioni che si determinarono nella società e negli assetti istituzionali. L’Italia era cambiata in meglio e noi avevamo fatto la nostra parte.

In questi anni, molti di quei compagni che hanno fatto parte di quel gruppo dirigente sono venuti a mancare e li voglio ricordare, al di là dei dissensi e della diversità di percorso: Marco Pezzi di Faenza, il primo a morire; Attilio Mangano, Umberto Tartari, Severino Cesari, Franco Calamida, Vittorio Rieser, Massimo Gorla, Pietro Spotti, per restare a quelli che conoscevo direttamente.


La pagina con l’indice della mia autobiografia da cui potete scegliere i capitoli da leggere


I commenti dei compagni di allora sono benvenuti e, perché ne rimanga traccia, vi prego di metterli sotto l’articolo e non sulla grande cloaca di Facebook. Già, per effetto delle precedenti edizioni, ce ne sono un certo numero.

Questo è il breve commento con cui ho accompagnato il link su FB

C’eravamo tanto amati … e poi il “giocattolo” si è rotto, il mondo è cambiato e ciascuno di noi ha fatto le sue scelte.
Verso quelle persone con cui ad un certo punto si determinò una rottura conservo un grande senso di simpatia e negli anni tutte le spigolosità sono sparite e voglio bene a tutti loro. Qualcuno con orgoglio dice “volevamo cambiare il mondo, non ci siamo riusciti, ma il mondo non ha cambiato noi”. Detta così non la condivido perchè vivere vuol dire essere disposti a cambiare e ad accettare il cambiamento. La nostra vita, la vita di tutti è bella perché è caratterizzata dal mutamento.



1965-1970: volevamo cambiare il mondo

III edizione – giugno 2024

Alla fine del 65 ho iniziato l’Università e, contemporaneamente, ho interrotto i rapporti con la Fgsi, pur avendo ripreso la tessera del 66 funzionale a ingrossare le fila del neonato Movimento Socialista Autonomo (poi confluito nella Sinistra Indipendente).

Non mi convincevano la prospettata unificazione con i socialdemocratici e la impronta poco coraggiosa che aveva preso il centro sinistra. C’era poi aperta la ferita della guerra con il Vietnam. In quegli anni la politica ed i suoi riferimenti erano ancora un elemento di contorno rispetto ai mille altri interessi: più che militare ci si documentava.

prima del 68

Il mio riferimento politico culturale, piano piano, divenne il PCI, un rapporto mediato dalla lettura sistematica di Rinascita che, per almeno 7 anni, sarebbe stato il mio strumento di riflessione e crescita politica.

le riviste

Non ebbi mai rapporti diretti con il partito nè a Villasanta nè a Monza e mi limitai a farmi recapitare, all’indirizzo di Federico Ripamonti, il capo storico del PCI di Villasanta, ma anche amico di papà, l’abbonamento al settimanale.

Passavo da casa sua a ritirarlo la domenica mattina. Era la applicazione delle tecniche non conflittuali da adottare in famiglia; noltre l’abbonamento per gli studenti era davvero conveniente in termini di costo. Un anno vinsi pure una bici Bottecchia sport rossa che utilizzai poi per parecchio tempo e alla fine l’ho regalata ad un immigrato che ne aveva bisogno.

Tramite la versione on line sono finalmente riuscito a recuperare una breve lettera, che ricordavo di avere mandato, e che con titolo Checchè ne dica Ottaviani venne pubblicata; è nel numero 30 del 23 luglio del 66. ll cardinale Alfredo Ottaviani, prefetto del Sant’Uffizio, che amava autodefinirsi il carabiniere dell’Ortodossia, era il nemico giurato di ogni rinnovamento all’interno del mondo cattolico.

A Monza ci si vedeva e si dialogava intorno alla Biblioteca Civica e, per un certo periodo, insieme a Maurizio Antonietti, che ne prospettava il rinnovamento e lo spostamento in senso progressista, aderii e mi diedi da fare per la FUCI (la federazione degli universitari cattolici) mentre a Milano avevo aderito alla Intesa Universitaria (la associazione dei cattolici progressisti).

alcune delle riviste e dei periodici che hanno segnato la mia evoluzione politica: cattolici del dissenso, sinistra socialista, PCI

Tra il 66 e il 67 ci fu un fiorire di riviste e settimanali facenti capo al mondo cattolico progressista: Questitalia del veneziano Vladimiro Dorigo democristiano, ma molto di sinistra, Testimonianze del gruppo fiorentino raccolto intorno a padre Ernesto Balducci, Settegiorni un settimanale sponsorizzato da Carlo Donat Cattin e diretto da Ruggero Orfei e Piero Pratesi. Il mio spostamento a sinistra andava di pari passo ad una sofferta battaglia per il rinnovamento della religione e per aperture culturali tra mondo cattolico e movimento operaio; iniziai a leggere anche l’Astrolabio diretto da Ferruccio Parri e Problemi del socialismo di Lelio Basso (uno dei padri costituenti, socialista di sinistra, poi psiuppino che pensava ad una sinistra non comunista di tipo luxemburghiano).

gli angeli del fango

Nel novembre 1966, in occasione della alluvione di Firenze, partimmo in un buon gruppo per partecipare al progetto di estrazione dalla fanghiglia dei libri della Biblioteca Nazionale. Organizzavano Ugi e Intesa di Matematica e Fisica e fu così che incominciammo a conoscerci e a fare gruppo.

Mi ricordo una loggia, tipo quello di piazza Signoria (ma più piccola), e noi pieni di fango (un fango liquido tra l’ocra e il verdastro) che ci riposiamo un po’. Il fango era dovunque e ce n’era tantissimo nei sotterranei della Biblioteca Nazionale. Sento il sapore di un panino con il pane senza sale con il salame toscano, quello con il grasso non macinato e inserito a pezzi grandi, che vedevo per la prima volta.

Forse abbiamo fatto più scena che sostanza; ogni tanto ci penso. Ma siamo andati subito e ci era chiaro che bisognava andare.

hanno fatto un deserto …

il manifesto di convocazione, con il teschio, la bandiera americana e la citazione di Tacito

Passò qualche mese e l’UGI raccolse un appello internazionale, mi pare  partito dagli studenti americani, per manifestare a fianco del Vietnam.

Hanno fatto un deserto e lo hanno chiamato pace, diceva una frase di Tacito stampata su una bandiera americana con il teschio. E’ stata la mia prima manifestazione.

Ci sono andato in pulman con Flavio Crippa e i suoi amici della Fgci di Lecco; tanti giovani, tante bandiere vietnamite, un po’ di bandiere rosse. Non mi piaceva la guerra del Vietnam; ma quelli come me ci tenevano a sottolineare che non eravamo antiamericani, eravamo contro quello che gli americani stavano facendo. C’era stato in Grecia il golpe dei colonnelli e il clima si stava surriscaldando.

Dopo quello di Lelio Basso, che rappresentava il tribunale Russel, ci fu il tentato comizio di Giorgio La Pira sindaco di Firenze. Per me, allora, La Pira era un un mito, come lo erano padre Balducci, don Milani o la comunità dell’Isolotto; erano l’esempio che si poteva essere cattolici ed essere in prima linea nella lotta contro l’ingiustizia.

Quella sera ebbi il primo incontro con quelle che avremmo poi chiamato le contraddizioni in seno al popolo. La Pira aveva appena iniziato a parlare con il suo stile profetico che lo portava a fare il Sindaco delle città della pace, a viaggiare tra Mosca e Washington per fare l’ambasciatore dei diritti del Vietnam. Dopo poche parole fu subito subissato dai fischi dei marxisti leninisti. E poi, a manifestazione finita, ci fu lo scontro con la polizia accuratamente ricercato da alcuni. Che paura; città sconosciuta; botti dei lacrimogeni; cercammo di arrivare al pullman; ma perché i fischi, ma perché gli scontri? Non eravamo venuti per la pace?

convegno dell’Intesa a Castelveccana

Estate 1967 Castelveccana: convegno estivo dell’Intesa in un convento di suore sul Lago Maggiore. Si discute della imminente lotta alla Cattolica contro l’aumento delle tasse. Ci sono anche due dei tre che più tardi saranno espulsi, Pero e Spada (ma non c’è Capanna). L’Intesa per noi giovani cattolici impegnati a sinistra è lo sbocco naturale: progressismo, incontro con la sinistra laica dell’Ugi.

C’è anche il segretario nazionale Pierluigi Covatta, che ha 3 o 4 anni più di noi, è cresciuto nelle file del movimento giovanile democristiano e ha guidato l’organizzazione all’incontro con i comunisti. Brillante, ironico; ricordo un piccolo aneddoto sulla ignoranza nel mondo democristiano. Era ad una riunione di deputati DC e fu presentato come presidente nazionale dell’UNURI (l’organismo nazionale delle rappresentante studentesche). Venne avvicinato da un deputato che gli fece i complimenti: lei così giovane e già così esperto di cavalli. Il deputato aveva confuso l’UNURI con l’UNIRE (unione nazionale per l’incremento delle razze equine).

Ha diretto MondoOperaio, la rivista teorica del PSI dopo aver fatto il maitre a penser del PSI nel primo progetto riformista di Craxi.  Covatta è morto nel 2021.

il terzo mondo

Acccanto a Rinascita la mia formazione politica sta avvenendo con la lettura di libri di taglio terzomondista (non si diceva ancora antimperialista). Il giorno precedente quello dei miei 21 anni, che allora era la maggiore età, arrivò la notizia della morte di Che Guevara. Era il 7 ottobre 1967.

il cadavere di Che Guevara mostrato in pubblico dai suoi assassini.

Quelle foto di Che Guevara massacrato di botte prima di essere riempito di pallottole lasciarono il segno. Sembrava il Cristo morto del Mantegna e quella foto avrebbe inciso nelle coscienze di molti giovani.

Il mondialismo era quello che ci sentivamo dentro. Non dicevamo lotta all’imperialismo o internazionalismo proletario; mondialismo mi pare più attinente alle pulsioni della mia generazione. Era qualcosa che aveva a che fare con una sorta di senso di colpa del ricco Occidente nei confronti del resto del mondo.

Gli anni ‘60 sono stati gli anni del disfacimento degli ex imperi coloniali, della conquista dell’indipendenza da parte di molti stati di Asia e Africa, mentre in America Latina si guardava all’esempio di Cuba, alla Trilaterale, al movimento dei non allineati. Non ci sorreggevano grandi analisi su ciò che accadeva o sulle nuovi classi dirigenti di quei paesi, ci bastava l’idea che forse qualcosa stesse cambiando e che si potesse andare verso un ordine internazionale più giusto.

Si navigava a vista, accanto a qualche libro di Pierre Jalée come “il saccheggio del terzo mondo”, che ci introduceva ai problemi del mercato mondiale e a quello delle materie prime, ricordo un articolo di Rinascita in cui, per la prima volta, scoprii che, invece di parlare di primo, secondo e terzo mondo, meglio sarebbe stato parlare di paesi sottosviluppati e paesi sottosviluppanti, con le ovvie conseguenze del caso in termini di responsabilità.

il 1968, la prima occupazione, le mie prime elezioni

antefatto

I movimenti hanno sempre una causa immediata di tipo casuale e, nel caso di fisica, tutto partì dalla reazione esagerata del direttore di istituto, professor Caldirola ad un problema banale: una assemblea non terminata nell’orario previsto. La presiedeva Roberto Biorcio, più vecchio di noi di un paio d’anni. Biorcio era il presidente del parlamentino studentesco di tutta la Statale.

Il professor Caldirola non voleva che l’assemblea continuasse nella sua ora e non mi ricordo proprio perché la volessimo fare. Biorcio lo incalzava e si muoveva secondo i moduli della non violenza; me lo ricordo a braccia alzate che resiste davanti alla lavagna mentre Caldirola tenta di buttarlo fuori.

Alla fine, per poter continuare, ci prestò l’aula il professor Loinger, fisico teorico, uno dei decani di Fisica. Tanta voglia di fare qualcosa, ma cosa? Si dice che l’appetito vien mangiando. Iniziò un lungo dibattito durato giorni; si fece strada, pian piano, l’idea di occupare l’Università (come stava accadendo in giro per l’Italia).

una ciliegia tira l’altra …

assemblea generale di scienze in aula A – si riconoscono tra gli altri Giorgio De Michelis, Sergio Bianchini, Bruno Manelli e Daniele Marini – dietro di lui il mitico Robuschi, detto Robuschiele per il tono profetico dei suoi intrventi (Ezechiele)

Si trattava di una assemblea vera; noi con tanta voglia di essere; gli altri, i nostri compagni di corso, perplessi e incuriositi; alcuni ci accusarono di essere pagati dai comunisti con le semplificazioni che la destra qualunquista ha sempre avuto e che aveva anche allora. Ma si discuteva, tutti avevano diritto di parola e si replicava cercando di convincere

Si andava affermando la democrazia assembleare; alla fine venne il momento di decidere sul da farsi; ci fu una votazione per appello nominale di coloro che nei giorni precedenti, libretto alla mano, si erano iscritti al voto; una votazione durata ore ed ore.

Le aule B e C furono collegate via audio con l’aula A (grazie ai prodigi di Flavio Crippa, fin da allora eccezionale addetto alla logistica). Si veniva chiamati e ci si dichiarava favorevoli o contrari; quando il numero dei favorevoli raggiunse il quorum, a chiamata ancora in corso, scoppiò un applauso liberatorio; quel quorum significava OCCUPAZIONE.

Era il 28 febbraio 1968 e il documento per la occupazione diceva tra l’altro:


Nella lezione, il professore impartisce nozioni che gli studenti sono tenuti ad apprendere con lo studio individuale. I contenuti dell’insegnamento sono proposti in forma frammentaria senza che sia mai richiesta una sintesi a livello di critica della scienza e una chiarificazione dei nessi tra attività universitarie, professioni, sviluppo sociale ed economico.

Durante l’esame il professore controlla, in modo spesso arbitrario, l’apprendimento nozionistico. L’imposizione di questo sterile nozionismo porta lo studente a uno studio mnemonico che limita o impedisce lo sviluppo critico e la maturazione della sua personalità.

Una volta laureato, lo studente si troverà di fronte a una società che non conosce e che non sa criticare, nella quale dovrà inserirsi per vivere diventando inconsciamente lo strumento che garantisce la stabilità di questo ordine sociale. Questa situazione della didattica si perpetua grazie alle condizioni di totale passività degli studenti, assuefatti ormai ai metodi autoritari presenti a tutti i livelli scolastici. Si presenta quindi l’importanza dell’obiettivo della contestazione dell’autoritarismo accademico mediante l’introduzione del dibattito a tutti i livelli delle attività universitarie e della affermazione delle esigenze di cui gli studenti sono portatori.


in aula A durante la assermblea di occupazione

Su Pensieri in Libertà c’è una pagina di documentazione con la mozione integrale, il regolamento di assemblea, il regolamento per la affissione dei manifesti, …

Eravamo in una facoltà scientifica e dunque, ci siamo dettidobbiamo essere seri:  a dormire i ragazzi da una parte le ragazze da un’altra. Bisogna rimettere bene in ordine tutto la mattina. Ciascuno contrattò con la famiglia il diritto di dormire nella facoltà occupata: fortunati quelli con la famiglia di sinistra che non avevano problemi.

Il movimento raggruppava tutti i corsi di laurea di scienze, con la eccezione di chimica, che confluirà nel 68/69.

la contestazione

Abbiamo scoperto che il mondo dei formalismi, delle persone per bene, non ci stava più bene che, per noi, volevamo decidere noi. Volevamo dare un taglio alle cose più assurde, in una parola volevamo la democrazia diretta. Quando ce la siamo presa, ci siamo accorti quasi subito di essere finiti in un mondo magico da cui non volevamo più uscire, perché dentro quel mondo non valevano più le regole assurde dell’altro mondo.

Poiché non si poteva vivere solo in assemblea, abbiamo incominciato ad inventare altre forme di organizzazione: strutture decentrate come le commissioni a tema, i gruppi di lavoro, i gruppi di intervento; obiettivi di lotta contro la selezione e contro la scuola di classe, che avevano come strumento primario quello di controllare i ritmi di insegnamento in modo che non andassero in contrasto con quelli di apprendimento.

un po’ di colore

Una foto mostra le ragazze che fanno le pulizie la mattina perché noi di scienze della prima ora siamo molto moralisti e ci teniamo a smentire quello che dicono certi giornali sulla università trasformata in un bordello. Deve essere tutto in ordine; peccato che a pulire siano le ragazze.

sullo sfondo Alberto Bertoni

Come siamo diversi: Basilio (Rizzo) è un mito: non è battezzato ed è di famiglia comunista, ma gioca alle carte come gli altri, anzi di più, a briscola con suo nonno.

Ci sono i cattolici compresi quelli che tra breve daranno vita a Comunione e Liberazione sulle ceneri della implosione di Gioventù studentesca, i cattolici di sinistra già toccati da Fuci e Intesa, gli studenti di sinistra, quelli di sinistra ma che forse sono ancora più a sinistra, quelli dello Psiup, gli anarchici, gli hippies, i situazionisti, qualche operaista in gestazione.

I bidelli di fisica sono con noi (quante partite a tressette e al due con Gino e Giancarlo).

la organizzazione

Si mette in piedi il Comitato di Agitazione nella ex sala della facoltà (di fronte alla biblioteca) dove si facevano le sedute di laurea e dove un tavolo gigantesco ci permetterà di fare riunioni ordinate. Il Comitato di Agitazione è una sorta di ufficio di direzione che serve a dare continuità al lavoro.

Incominciamo a fare i tatse bao (i giornali murali ripresi dalla rivoluzione culturale cinese) usando i fondi delle bobine di carta da quotidiano procurati da Flavio. I nostri tatse bao hanno il titolo rigorosamente a pennello con vernice ad acqua di colore rosso e sono inconfondibili nella storia del movimento milanese. I titoli dei gruppi in cui si articola l’assemblea li vedete nella foto: didattica di massa, ricerca di massa, preparazione all’insegnamento, scuola – società – ristrutturazione, diritto allo studio, sbocchi professionali.

non chiedetemi perché quel giorno fossi in giacca e cravatta – non mi ricordo

Poi il grande lavoro su Lettera ad una professoressa che viene ristampata in migliaia di copie e che leggeremo e discuteremo pagina per pagina nei gruppi di studio. Me la sono riletta un paio d’anni fa e direi che c’era del buono e del meno buono (si veda l’articolo rileggendo Lettera ad una professoressa).

L’occupazione è finita. Non ricordo cosa abbiamo ottenuto perché i ricordi si sovrappongono tra le mie tre occupazioni (68,69 e 70).

Ci fu un tentativo di controllo dei ritmi di insegnamento e di quelli di apprendimento (una esigenza giusta con un obiettivo improponibile e irrealizzabile se assunto senza mediazioni) e comunque dopo quella occupazione e la successiva portammo a casa: i semestri, i corsi serali, le dispense oltre ad alcun piccole liberalizzazioni sui piani di studio.

le elezioni della primavera 1968 e lo PSIUP

In quella primavera si tennero le elezioni politiche e io votavo per la prima volta (solo alla Camera). Politicamente mi stavo avvicinando allo PSIUP che avevo iniziato a frequentare in quel di Monza con due amici (Mao Soardi e Lino Di Martino) che poi fecero i professori a Matematica.

Votai PSIUP e in quei mesi lessi e rilessi un  libro per me importante “Il socialismo difficile” di Andrè Gorz condirettore (con Sartre) di Les Temps Modernes. Si incominciava a cercare una nuova teoria; eravamo curiosi di marxismo; si trattava di un’opera a più mani cui avevano collaborato esponenti del movimento operaio italiano come Foa, Garavini e Trentin. Si esponeva un modello di lotta per il socialismo che passava attraverso profonde riforme di struttura e ci si respirava aria di libertà. Erano i cosiddetti riformisti rivoluzionari, una definizione che trovavo consona alle mie idee.

Nel corso dell’estate 1968 accaddero due eventi importanti per la mia evoluzione politica: la invasione della Cecoslovacchia da parte dei carri armati sovietici e il convegno del movimento di scienze a Fontanella presso l’abbazia di padre Turoldo.

Mi ero iscritto allo Psiup da meno di 15 giorni e mi ritrovai immediatamente alla opposizione vista la presa di posizione ambigua di quel partito sui carri armati russi a Praga. Così, fatta eccezione per il lavoro politico a Monza in occasione della lotta della Candy con la fondazione del CUB, il mio frapporto con lo PSIUP finì prima ancora di incominciare.

A Monza la  sede dello PSIUP era in via Anita Garibaldi, sulla destra del Tribunale ed era annessa ad un circolo socialista in riva al Lambro (oggi ci sono solo condomini signorili). Più che per far politica andavamo ad ascoltare i racconti dell’avvocato Giovanbattista Stucchi, uno dei comandanti del CLN Alta Italia, uno di quelli che si vedono sfilare con Longo e Mattei nella famosa foto della liberazione di Milano (rappresentava le brigate Matteotti).

Estate 1968 convegno del movimento a Fontanella

Fontanella è una frazione di Sotto il Monte, il paese di Giovanni XXIII e a Fontanella padre David Maria Turoldo (intellettuale, poeta, predicatore, organizzatore) aveva messo in piedi intorno ad una abbazia medioevale un centro studi dei Servi di Maria l’ordine religioso di cui faceva parte.

A Fontanella abbiamo fatto il convegno residenziale estivo del movimento. Pochi giorni di nuovo insieme (eravamo una cinquantina) per discutere cosa fare nel 68/69. Abbiamo lavorato e a me è rimasto in mente la pace di quel posto. Turoldo ci lasciò discutere per giorni senza mai interferire e poi prese la parola l’ultimo giorno; riprese qualche elemento della sua ricca storia personale che copriva tutto il dopoguerra e ci rivolse un invito esplicito a non farci strumentalizzare. Ricordo ancora la replica irata di Sergio Bianchini che si stava avvicinando ai marxisti leninisti.

A Fontanella ho anche conosciuto Oskian (Aurelio Campi) che nel primo anno di movimento si era mosso nell’ombra (anche perché allora era un greco-armeno apolide) e che durante il convegno esercitò una netta leadership conquistando alla neonata Avanguardia Operaia una buona fetta del gruppo dirigente.

Con lui ebbi modo di approfondire le cose che avevo appreso dal libro di Gorz. Era leninista e me le smontò una per una, ma senza strafare. Era iniziato il mio percorso verso Avanguardia Operaia. Paradossalmente, quando nel 1975, da segretario generale di Avanguardia Operaia si trovo a dover definire la nostra strategia di medio periodo, egli parlò di lotta rivoluzionaria per le riforme.  Gorz aveva ragione?

la religione e il cristianesimo

La rottura con la religione è stata graduale e, come detto, è avvenuta prima con la Chiesa e poi con Dio. Il mio processo di contestazione-rinnovamento è iniziato all’inizio degli anni ‘60 con l’adesione a Gioventù Studentesca: ricerca di rapporti umani autentici e rapporto con il Divino mediato da una comunità: il contrario del formalismo e della disumanità della Chiesa brianzola di paese fatta di riti, organizzazione e mancanza di discussione.

Da GS me ne sono andato quando l’integralismo è diventato dominante e gli spazi per un nuovo umanesimo sono diventati solo quelli interni al cattolicesimo. Lasciata GS, non ho lasciato il cattolicesimo (che ormai preferivo chiamare cristianesimo): attenzione al rinnovamento post conciliare, lettura delle riviste del rinnovamento, frequentazione di sacerdoti e comunità eterodosse, delusione per la figura di Papa Montini sul piano umano (troppo pastina) e sul piano intellettuale e teologico con i passi indietro rispetto a Papa Giovanni il Papa Buono.

abbazia di Sant’Egidio a Fontanella nei pressi di Sotto il Monte

E’ stata una trasformazione lenta che ha avuto il suo strappo decisivo proprio a cavallo del ‘68-‘69, quando mi presi alcuni giorni di riflessione presso la comunità di Padre Turoldo. Lì ho trovato gente molto in gamba disposta a concepire percorsi personali e un po’ eretici dentro la Chiesa (teologi puri, teologi della liberazione).

Oltre a padre Turoldo, fuori classifica sul piano della personalità e della esperienza umana, ebbi modo di conoscere alcuni altri Servi di Maria (intellettuali a tutto tondo e anche frati latino-americani con simpatie per la rivoluzione). In Uruguay era il tempo dei Tupamaros. Scrissi anche un saggio per la loro rivista trimestrale (Servitium). Ma c’erano di mezzo le assurdità del mondo cattolico con i suoi riti, la sua etica reazionaria, il principio di autorità; avevo 22 anni e avevo incominciato a fare sesso con Bruna.

Da Turoldo e dai suoi teologi venni invitato a considerarmi una pecorella con diritto alla autonomia di pensiero, ma dopo alcuni dolorosi ripensamenti, decisi che la cosa non aveva senso e finì così, naturalmente in maniera graduale, prima il mio rapporto con la religione e poi quello con la trascendenza.

intermezzo lavorativo

Come campavo, visto che nel ’65, con i miei avevo preso l’impegno di cavarmela da solo? Nei primi due anni ero molto preso dallo studio e così mi limitai a qualche lezione privata e a partire dal 67 le mie entrate diventarono più regolari:

Docente nelle scuole serali di tipo professionale; ho insegnato sia ad Arcore, sia a Macherio per tre anni; si trattava di fornire rudimenti di matematica in corsi che venivano organizzati in accordo con i comuni entro strutture scolastiche.

Lezioni private; qualche cosa tra Villasanta e Monza, con preferenza a lavori di tipo continuativo (assistenza per l’intero anno scolastico a figli di famiglie facoltose) e poi a Milano; sempre per alunni di liceo.

Ho anche lasciato un credito di almeno centomila lire di allora ad una famiglia di corso Magenta. Palazzo signorile, famiglia con maggiordomo in livrea; capofamiglia un primario dell’ospedale di Vimercate. Il rampollo faceva il Gonzaga (uno dei licei privati prestigiosi di Milano).

Venivo ricevuto dal maggiordomo che mi faceva accomodare e aggiungeva “un momento che le chiamo il signorino“; la cosa mi metteva molto a disagio. Aggiungo che in un paio di occasioni mi fu detto “mi spiace, il signorino non c’è e si è dimenticato di avvertirla“. Da Città Studi, per andare in corso Magenta ci mettevo almeno tre quarti d’ora e la cosa del signorino, che avrei preso a calci nel culo, mi seccava. Al terzo episodio non mi hanno più visto nè sentito. Una questione di dignità e la scelta di non richiedere quanto mi spettava fu un punto di orgoglio.

Redazione di testi per le enciclopedie: la De Agostini, o altri editori, si rivolgevano ad un docente universitario di grido per la redazione di quelle enciclopedie a dispense e liui subappaltava. Non si guadagnava molto ma in compenso non c’erano tempi morti e problemi di viaggio.

Beppo Occhialini

Tecnico universitario: dal 1969 al luglio 70 ho lavorato come tecnico universitario part time (in prova e su fondi CNR) presso il gruppo di Fisica dello Spazio del professor Occhialini. Non si guadagnava molto ma ci pagavo le tasse, i trasporti, la mensa e la cambiale di 23’600 lire mensili per l’acquisto della 500 comperata a inizio ’68 firmando 29 cambiali.

Quel posto di lavoro mi avrebbe poi aperto la strada per la carriera universitaria. Mentre ero a militare il posto fu trasformato in quello di tecnico di ruolo, ed essendomi nel frattempo laureato sarei diventato automaticamente ricercatore universitario di ruolo. Quando tornai da militare il professor Occhialini che mi stimava, stima reciproca, mi chiamò per sapere che intenzioni avevo. Mi guardò negli occhi ed io risposi: la fisica mi piace, ma la politica viene prima. E così rinunciai alla carriera universitaria prima di cominciare.

il 1969 e l’impegno in AO

Lo scopo di questo capitolo è quello di parlare della mia evoluzione politica e dunque vedremo come sono cambiate le mie idee con la adesione al comunismo rivoluzionario e quello che facevo in politica.

il rapporto con Oskian (Aurelio Campi)

Come ho già detto era iniziato un rapporto stretto e continuativo con Oskian del quale mi colpivano favorevolmente la chiarezza, la molteplicità di interessi e la grande cultura.

Quasi tutti i giorni mangiavamo o alla casa dello studente o all’altra mensa di via Venezian e poi si passava a casa sua e di Claudia Sorlini, la sua compagna, per le chiacchiere a ruota libera, ed è da queste chiacchiere che è maturata la adesione al progetto di AO.

Percepivo quanto il lavoro da fare fosse molto, difficile e da svolgere con pazienza. Costruzione del consenso attraverso il dialogo e tanto lavoro politico anche minuto. Su una parete c’erano i 45 volumi delle opere di Lenin ed è a Lenin che Oskian faceva continuamente riferimento come esempio da tenere presente nel lavoro politico. Leggeva regolarmente Le Monde e il settimanale filopadronale “Mondo Economico”. Claudia interveniva ad attenuare certe spigolosità con un po’ di saggio pragmatismo bresciano e femminile.

la prima cellula di AO

Metà del mio tempo lo dedicavo allo studio della storia, della economia politica e a quello dei classici. Quelli li studiavo bene cercando di approfondire il contesto, perché una delle prime cose che mi capitò di fare fu il lavoro di docente in gruppi di studio di formazione politica (a quei tempi, sui giornali, ci chiamavano i professorini di AO).

C’era da mettere in piedi la cellula di AO di fisica, di cui fui il primo segretario (era la prima delle Università, poi Scienze, poi Città Studi dopo il coinvolgimento di Ingegneria, Agraria e Medicina). Tra lavoro politico, lavoro materiale come dipendente universitario part time e pendolarismo, quello fu un anno in cui, scientemente, combinai piuttosto poco in termini di crediti universitari. Avevo finito il III anno in pari con gli esami e nel corso del IV anno non ne diedi nemmeno uno dopo aver rinunciato a dare Elettronica applicata che pure avevo studiato con impegno.

Il rapporto con Avanguardia Operaia nel corso del 1969 passò attraverso la partecipazione ad assemblee di orientamento che si tenevano la domenica mattina alla sede di via Bacchiglione o il sabato pomeriggio in quella di via Giason del Maino.

com’era la AO che incontrai

i primi numeri della rivista mensile di AO

La nascente Avanguardia Operaia, oltre che per il lavoro nei confronti delle grandi fabbriche attraverso i Cub, lavoro in cui non ero direttamente coinvolto, si caratterizzava per la formazione di militanti ideologicamente e politicamente formati su alcuni capisaldi:

  • una tiepida adesione ai processi in atto in Cina, ma senza strafare
  • un riferimento al fallimento della rivoluzione d’ottobre, tradita dallo stalinismo prima e dalla burocrazia poi, ma di cui si salvava l’impianto leninista (con gli annessi e connessi della presa del potere e della dittatura del proletariato)
  • una posizione di appoggio ai movimenti di liberazione in tutto il mondo che strizzava l’occhio ai trascorsi trotskisti di alcuni esponenti del gruppo dirigente. Massimo Gorla (che era stato nella segreteria della IV internazionale) con numerosi di quei movimenti intrattenevano rapporti sistematici anche se con una selezione degli interlocutori eccessivamente viziata da criteri di tipo ideologico. Si veda per esempio l’appoggio al Fronte Democratico Popolare di Liberazione della Palestina, che era DOC dal punto di vista ideologico, ma contava molto poco rispetto ad Al Fatah
  • una visione del processo rivoluzionario in Italia come processo di lungo periodo e la sottolineatura che ci trovavamo nella fase di creazione delle condizioni per la formazione del partito rivoluzionario di tipo leninista (avanguardia del proletariato); di più non si diceva e non si poteva dire, ma era una bella demarcazione da gruppi e partitini che si autoproclavano partito rivoluzionario
  • un giudizio nei confronti del Movimento operaio organizzato e in particolare del Partito Comunista come di partito che aveva tradito, dopo la parentesi gramsciana, la lotta per il socialismo; su questo punto c’erano grande intransigenza e contrapposizione aperta. Nel numero uno di Avanguardia Operaia il PCI è definito essere l’ala sinistra della borghesia  (una sciocchezza che non ho mai digerito). In realtà trovavo che il giudizio sull’impianto teorico del PCI fosse parecchio schematico ma non me la sentivo di affrontare la questione, anche per denolezze teoriche e storiche mie.
  • nei confronti delle altre forze della sinistra rivoluzionaria i giudizi le collocavano nei diversi compartimenti del panorama arlecchino della sinistra rivoluzionaria: spontaneisti, economicisti, stalinisti, filo revisionisti, …Questo modo di procedere era tipico di tutte le organizzazioni allora presenti e si caratterizzava per un alto livello di concorrenza competizione

In sintesi: difesa del leninismo con critica della degenerazione staliniana, lotta per il socialismo senza la pretesa di essere i migliori del mondo, rottura molto netta con PCI e sindacati, sulle questioni centrali del processo rivoluzionario in Italia … si vedrà.

la formazione politico-ideologica

Avanguardia operaia sin dal 1969 prestò grande attenzione alla formazione politica ideologica dei suoi militanti e quindi, da subito, realizzò una rivista bimestrale, poi divenuta mensile, in cui si alternavano saggi di orientamento storico-politico, relazioni relative al lavoro di massa e informative sui rapporti con gli altri gruppi in giro per l’Italia

i classici in un estratto della mia biblioteca

Per quanto mi riguarda continuavo ad utilizzare la lettura attenta di Rinascita come strumento di orientamento relativo alle problematiche del nostro paese, visto che trovavo eccessivamente schematici e deduttivi gli editoriali della rivista.

Alla attenzione alla politica quotidiana affiancavo uno studio sistematico del leninismo, in particolare con le opere che consideravamo fondamentali per la sua comprensione e assimilazione:

  • stato e rivoluzione per le questioni di orientamento generale sul comunismo
  • che fare? sulle problematiche del partito rivoluzionario e della sua costruzione
  • l’imperialismo fase suprema del capitalismo per l’analisi del panorama mondiale
  • l’estremismo malattia infantile del comunismo per comprendere la storia del bolscevismo
  • la rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky sulle problematiche di demarcazione tra socialisti e comunisti

Prima di affrontare Lenin avevo studiato il Trattato di Economia marxista di Ernest Mandel, un’opera in due volumi che costituisce una ottima introduzione non solo alle problematiche della economia politica ma anche al materialismo storico.

Leggiucchiavo qualcosa di Trotsky, che mi piaceva dal punto di vista stilistico e comunicativo, mentre nella prima fase, con la eccezione del Manifesto del Partito Comunista e della concezione materialistica della storia non lessi nulla di Marx, rinviando ad altri momenti la lettura del primo libro del capitale.

idealismo e materialismo

A proposito della concezione materialista della storia (un estratto della Ideologia Tedesca) ho un ricordo kafkiano di un gruppo di studio alla cellula di Fisica sul tema classe in sè e classe per sè. Questioni che rinviavano all’idealismo hegeliano, argomento che mi era del tutto sconosciuto e a cui cercavamo di sopperire leggendo le note del curatore.

Con il senno di poi mi viene da dire, a proposito dell’impegno editoriale degli Editori Riuniti nella diffusione delle opere di Marx e di Lenin, quanto fossero masochisti questi esponenti dell’ala sinistra della borghesia. Confesso, per quanto riguarda gli odiati revisionisti, di essermi sempre rifatto alle fonti dirette leggendo La storia del PCI  di Paolo Spriano che nel 69 era giunta al secondo dei cinque volumi (che continuai poi a leggere negli anni successivi).

Paolo Spriano per me era un mito dopo che mi capitò di leggere un suo corsivo su Rinascita in cui si ironizzava sul giornalismo alla Panorama proposto dal fondatore Lamberto Sechi che con la scusa dei fatti separati dalle opinioni sfornava articoli facili da leggere ma di una superficialità assoluta e simili a chiacchiere da cortile. Spriano sosteneva, in contrapposizione, che sognava un settimanale in cui gli articoli iniziassero dicendo io la penso così e seguivano le argomentazioni.

cosa è mancato al movimento? Le mie colpe

Con l’inizio dell’anno accademico 69/70 ho preso atto che avevo trascorso un intero anno senza dare esami e che bisognava rimediare. Ho continuato il lavoro part-time alla cattedra di Fisica dello Spazio, ma mi sono impegnato per finire l’Università. In pochi mesi recuperai il tempo perduto: 4 esami e tesi di laurea e così alla fine di luglio del 70 mi ritrovai ad essere dottore in fisica e pronto per andare a militare.

Quello che sono ora non è certamente ciò che ero allora, ma nei diversi incontri fatti per il 40° e il 50° del nostro movimento di Scienze mi sono interrogato sul se e quanto avremmo potuto lavorare diversamente, se e quanto la mancanza di una battaglia di natura culturale fosse stata responsabilità nostra.

In quegli anni utilizzammo una impostazione vertenziale con obiettivi strutturati che riguardavano essenzialmente il diritto allo studio, il miglioramento delle condizioni materiali per gli studenti, il diritto di organizzazione politico culturale, la attivazione dei corsi pomeridiani e serali per i lavoratori studenti, la proposta dei semestri e il controllo sui ritmi di insegnamento e di apprendimento. I corsi serali nei primi anni ebbero un grande successo e consentirono a molti tecnici delle aziende milanesi di laurearsi.

Nella scelta degli obiettivi c’era un limite genetico, legato alla scelta di non mischiarci con il dibattito politico ideologico, come si faceva alle facoltà umanistiche. Con il linguaggio di allora parlerei di un vizio di economicismo. Non volevamo aprire la discussione sulla cultura scientifica, sul neopositivismo, sul materialismo dialettico, sul ruolo della ricerca scientifica e al più ci limitavamo ad affermare il carattere non neutrale  della scienza, ma in realtà non ne sapevamo molto.

Eravamo pieni buona volontà, desiderosi di fare meglio, ma anche estremamente ignoranti (nel senso etimologico del termine) e dunque, mentre altrove si tentavano i contro-corsi, noi ci dedicammo a far funzionare meglio (sul piano dei risultati) la macchina universitaria. D’altra parte, con poche eccezioni, non ci aiutarono i docenti, a loro volta piuttosto impreparati e sconcertati nel sentirsi rivolgere domande sui fondamenti o sul senso di ciò che ci proponevano: studenti critici, desiderosi di capire, interessati a fare domande e, dall’altra parte, docenti sconcertati che al più rigiravano la domanda, ma non sapevano cosa rispondere.

Nell’estate del 1969, anziché occuparsi di queste cose il Comitato di Agitazione sfornò un documento, pubblicato con evidenza su uno dei primi numeri di Avanguardia Operaia, in cui il tema principale al termine del secondo anno di movimento sembrava essere la discussione metodologica sul rapporto tra movimento di massa e organizzazioni politiche e sul fatto che il rapporto con la classe operaia dovesse passare attraverso la mediazione della organizzazione rivoluzionaria. Lo potete leggere qui l’ideologia prende il sopravvento (estate 1969) ma vi anticipo che è parecchio noioso.

Mancando la riflessione sulla scienza il movimento moriva per asfissia su obiettivi giusti ma limitati e su cui non si poteva pretendere di campare per anni. Non a caso nell’anno 70/71 (mentre ero a militare) ci fu una grande lotta seguita da una grande sconfitta, perché il movimento, mancando di una strategia propositiva si infilò, senza capacità di mediazione, nel cul de sac del controllo totale dei tempi di insegnamento e apprendimento. Non seppe mediare e non portò a casa nulla.

Mi interrogo spesso sulle mie responsabilità, ma alla fine mi assolvo. Ero un emerito ignorante; per fare la riflessione critica sulla scienza serviva un bagaglio culturale che non avevo e che avrei acquisito solo più tardi.


Questo articolo va letto insieme a 1965-1970 L’Università e la scienza che riguarda lo stesso periodo ma è riferito in senso stretto agli studi universitari.

La pagina con l’indice della mia autobiografia da cui potete scegliere i capitoli da leggere e vedere una sintesi di ciascuno


 


 




Giovani, politica, fede

nuvola cominelli giovani politica

Nell’intervista fatta da Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera di domenica 19 maggio, il cantautore Niccolò Moriconi, in arte “Ultimo”, 28 anni, dichiara: “Essere giovani oggi è tremendo”. Da prendere sul serio, perché si tratta di un esponente “intellettuale”, lo dico senza ironia, della generazione Zeta, quella che decorre dal 1995.

Intellettuale, perché fornisce autocoscienza e materiali per la costruzione del Sé a milioni di ragazzi-follower, più di 3 milioni e 600 mila. Canta “l’ira funesta”, le pulsioni belliche, il nazionalismo aggressivo, le velleità rivoluzionarie, la volontà di rivolta di una generazione? No, ne canta “il disagio”, la depressione, il ritiro dal mondo verso la propria interiorità…

Dice Ultimo: “… la realtà non è sensata. La realtà è tremenda. È schifosa. Guerra, paura, sottomissione, chiusura… Per questo ci costruiamo un altrove”. Perché, siamo tutti dominati dal Mercato.

La mancanza di incisività della politica

Le uniche forze che potrebbero fornire un senso allo stare nel mondo sono la religione e la politica. Ma in chiesa non ci va più nessuno.  Quanto alla politica, Ultimo confessa di non avere mai votato: “…siamo stufi di questa spaccatura tra destra e sinistra… sono contrapposizioni che hanno stancato. Fascisti e comunisti: i giovani non ne possono più. Cos’è la sinistra? L’ipocrisia del buonismo? Cos’è la destra? Il cattivismo di chi chiude i porti a coloro che muoiono in mare?”.

Liquidata così la politica, prigioniera degli opposti estremismi del buonismo e del cattivismo, che cosa resta ad un ragazzo? Beh, un universo di universi, à la Matrix, il mondo virtuale dei social, di Tik Tok, di Instagram. Ma, osserva Ultimo, “i social ti anestetizzano… ti stuprano il cervello”.

Così “… ci stiamo addormentando… stiamo diventando amebe”. Che cosa resta, infine? “L’interiorità, l’idea di superare se stessi”. O la generosità dell’impegno personale. Resta il privato dei buoni sentimenti, di una carezza all’alba, prima che “lei” se ne vada e tu resti nel tuo letto – così nella canzone “Alba” -, magari avvinto ad un social. Qualora non bastasse, c’è sempre uno psicoterapeuta con cui fare quattro chiacchiere. Oppure, e qui Ultimo cita Carl Gustav Jung, restano “le sincronicità: come incontrare la persona giusta al momento giusto”.

Alla domanda “Qual è l’altrove per lei?”, Ultimo risponde: “Bere un buon vino con i miei amici. Guardare Shameless, una serie americana, con la mia fidanzata Jacqueline. Le canzoni. Non è scappare dal mondo; è guardarlo con gli occhi dell’altrove”. Questo è quanto.

La percezione falsa della storia umana

Si potrebbero avanzare maliziose considerazioni sulla redditizia industria del disagio, che fa la fortuna di cantautori e rapper. Ma il disagio è un fatto. È quello dei nostri ragazzi, che sono l’avvenire delle nostre famiglie e, in ogni caso, dell’Italia.

Intanto, occorre, in prima istanza, circoscrivere l’area geopolitica del disagio. Si tratta dell’Occidente. I giovani cinesi o indiani o iraniani o africani non paiono soffrire della “sindrome del non-senso”.

Si confrontano direttamente con un mondo scabro, con una storia dura. Secondariamente, e nonostante le retoriche sulla povertà e sulla disoccupazione giovanile, il disagio in Occidente non nasce da ragioni economico-sociali, benché esistano, ovviamente, fasce minoritarie “povere”.

La gioventù italiana e occidentale di oggi, se paragonata a quella delle generazioni precedenti, non è mai stata così opulenta, così benestante, così assistita, così protetta.

Mi sarei aspettato che l’intervistatore Cazzullo, in quanto giornalista e persona adulta, movesse una contestazione elementare: “Sei proprio sicuro che la realtà sia così schifosa, tremenda, insopportabile?”. “Guerra, paura, sottomissione, chiusura” sono fenomeni apparsi solo dopo il 1996, anno della tua nascita?

Perché è mancato il coraggio di far notare a Ultimo che la sua percezione della storia e del mondo è radicalmente falsa? Forse la Storia del ‘900 e dei secoli precedenti è stata più sensata?  Donde viene questa visione del mondo, per la quale ci si attende un improbabile l’Eden, così che la Storia reale che ci viene incontro è vissuta come un Inferno?

La crisi metafisica delle giovani generazioni e di quelle adulte

La mancanza di senso dei giovani non nasce dallo stomaco, ma dal loro cervello e da quello dei loro padri/madri.

È una crisi metafisica. È effetto della caduta della Fede e della Ragione. Per chi ha Fede, il senso della Storia è già dato. Devi solo decidere se stare o no nella corrente di senso, che Dio immette nella storia, da sempre. Per chi ha solo la fede nella Ragione, la Storia si presenta certo come Caos e come Caso, ma alla Ragione è attribuita la capacità di individuare e di introdurre delle nervature di senso nella Storia.

Così dal Caos si passa al Cosmos, dal Caso al Destino.  Le tre virtù teologali – fede, speranza, carità – sono sempre state il motore della Storia umana, perché sono le leggi della vita, dei corpi viventi, dell’evoluzione autocosciente. Solo che la Storia come la Vita ha anche un’altra faccia: dello scacco, della lotta violenta per l’esistenza, della morte. In una parola, della finitudine. La Storia reale è questo intreccio. È la condizione umana. Non ce n’è un’altra.

Ora et Labora

Alla domanda sul perché questo motore si stia spegnendo nel cervello collettivo dell’Occidente bianco sono state date molte risposte, da Friedrich Nietzsche in avanti. Qui le by-passiamo, tanto sono note.

Anche perché sono costretto a confessare di non avere risposte né per il destino dell’Occidente né per quello dell’umanità né per Ultimo. Ma mi soccorre il racconto che san Gregorio Magno (540-604) nel Secondo libro dei Dialoghi – riportati dalla grande Patrologia del Migne – fa della vita del giovane quasi suo contemporaneo Benedetto da Norcia (480-547), mandato dalla sua nobile famiglia di provincia a studiare a Roma.

Trovatosi nella Roma del declino dell’Impero, tra la jeunesse dorée della dissoluta aristocrazia romana, Benedetto “retraxit pedem”: “ritrasse il piede che aveva appena posto sulla soglia del mondo per non precipitare anche lui totalmente nell’immane precipizio. Disprezzò quindi gli studi letterari, abbandonò la casa e i beni paterni e volle far parte della vita monastica”.

Ne scaturì quell’” Ora et Labora” che ha fondato l’Europa. Tradotto: “Ora” – prega – significa andare verso il mondo con il senso del proprio limite e della propria finitudine. Quanto al “Labora”: lo si può tradurre con la stoica esortazione che Max Weber rivolse ai suoi studenti a Monaco nel tragico inverno del 1918: “Ci metteremo al nostro lavoro e adempiremo al ‘compito quotidiano’, nella nostra qualità di uomini e nella nostra attività professionale”.

Aggiungo un consiglio accorato ai genitori degli Ultimo: accompagnateli nel mondo, non proteggeteli dal mondo. E ai figli: non disprezzate gli studi letterari. Lo studio della Filosofia, della Storia, degli scrittori e dei poeti vi fa vedere la storia umana così com’è e come possiamo, ogni generazione che viene al mondo, renderla abitabile per ciascuno di noi. L’Altrove non esiste. “Il ritorno all’interiorità”, vuota della Storia reale, è solo narcisismo.




ha esagerato Travaglio o Meloni?

travaglioIeri ero sinceramente imbarazzato e ho scelto di limitarmi ad un post su Facebook in cui stigmatizzavo lo stile buldozer di Travaglio. Qualche amico ha preso la palla al balzo per dire … E Meloni?

Ci ha pensato, con equilibrio e spirito critico Christiano. Condivido quello che scrive su Travaglio, su Meloni e anche su Forti. Forse mi rimane qualche riserva su Travaglio, abile ma … spietato quando gli conviene (C.C.)
Stimo Travaglio, anche se spesso eccede. In questo caso, probabilmente è andato sopra le righe, più che altro per fare del sensazionalismo.

Ovviamente lui sosterrà di aver perfettamente ragione, ed in effetti è così: le verità scientifiche e quelle processuali sono le uniche verità oggettive, anche secondo un orientamento epistemologico.

Quindi, con una condanna definitiva per omicidio volontario (credo) premeditato, dire che è un assassino non è tecnicamente errato. Oltretutto, è stato un omicidio legato a motivi personali, e non ideologici, giusti o sbagliati che siano stati. Certo, in questo caso si potrebbe giustificare come Vannacci, che lancia il sasso nel concetto di normalità, salvo opporvi una (quasi) perfetta interpretazione statistica quando viene tracciato di omofobia, ecc…

Probabilmente Travaglio voleva stigmatizzare, con il titolo, il fatto che un condannato per omicidio sia stato fatto rientrare in patria senza che abbia commesso reati “politici”, come invece è stato per quasi tutti quelli che sono rientrati fino ad ora, sia da latitanti che da condannati, e quelli che, come la Salis, se la sono andata a cercare, come spesso commentano da quella parte verso chi eccede in internazionalismo.

È una cosa certa la gaffe che si è fatta accogliendolo con le alte autorità, anche se sono convinto che ciò sia avvenuto al solo fine di cercare visibilità in un successo più tecnico-diplomatico che politico e morale. Sed sunt tempora...

Dietro i fatti narrati dalle sentenze, tuttavia, c’è un uomo e la sua dimensione esistenziale. Sebbene possa aver sbagliato, comunque si può dire che abbia espiato, e di sia umanamente recuperato, quindi non ha alcun senso tenerlo in prigione, nemmeno in Italia.

Quindi Travaglio non deve, come fanno anche altri, passare così invadentemente e pesantemente sulle storie delle persone per criticare indirettamente misere vicende di politica. Rischia di sfiorare lo squallore di altri giornalisti che invece lo fanno nei titoli di tutti i giorni. Fino ad ora Travaglio è stato così duro solo con i politici, e questo non è generalmente abietto.




a proposito di Ilaria Salis

Salis ai domiciliari

Ora che Ilaria ha ottenuto gli arresti domiciliari mi permetto di dire la mia sulla intera vicenda. Dico subito che non voterò per lei alle elezioni europee. Penso che il voto debba essere espressione di un convincimento politico e il mio è per gli Stati Uniti d’Europa con l’unico rammarico che Azione abbia deciso in maniera scellerata e rischiando l’irrilevanza di andare per conto suo.

Torniamo ad Ilaria; non entro nel merito delle accuse, rispetto alle quali lei si proclama innocente. Suo padre ha fatto un durissimo e meritorio lavoro per toglierla da quel buco nero infernale in cui era finita e a me, più che le catene in udienza che sono solo l’atto finale, hanno indignato tutti i soprusi precedenti rispetto alle condizioni di vita in carcere, ai mancati diritti di difesa, all’utilizzo del solo ungherese per le comunicazioni ufficiali verso una persona che non lo parla, la sproporzione tra il fatto contestato e l’accusa.

Negli ultimi 50 anni non ho mai visto di buon occhio l’area antagonista che si chiama fuori rispetto alle regole di funzionamento delle istituzioni democratiche e ha una concezione della vita poco attenta alla serietà e continuità del lavoro, a favore di altri modelli e stili di vita.

Quando è stato fondato il centro sociale Boccaccio mi ha stupito vedere tra gli animatori-protagonisti ex alunni cui nella scuola avevamo trasmesso ben altri modelli, in particolare in un liceo come lo Zucchi. Ilaria è stata mia alunna, ma solo in IV ginnasio (quando era una brava studentessa e una persona interessante), e dunque posso dire molto poco sulla sua evoluzione e sulle sue pulsioni giovanili. Ho letto testimonianze di chi ha lavorato con lei che la descrivono come una persona colta e seria, desiderosa di entrare seriamente nel mondo della scuola.

C’è sempre nell’area dei centri sociali una messa tra parentesi dei modelli democratici, gli spazi ce li prendiamo, una idea della lotta politica in cui il dissenso spesso si esprime nel negare il diritto di espressione degli avversari.

Vi ricordate dei giorni caldi in cui Salvini accusava Ilaria di aver spazzolato un gazebo della Lega. Ilaria per quell’episodio è stata assolta dopo essere stata denunciata da esponenti leghisti. Era una persona nota e nonostante i filmati mostrassero il suo tentativo di allontanare i suoi compagni più esagitati, il suo nome venne indebitamente segnalato alla Procura. Resta però il fatto che, dopo il passaggio di quel corteo, del gazebo della Lega non restava nulla e i gazebo non si smaterializzano per azione dello spirito santo.

Io difendo il diritto dei cittadini europei di andare in Ungheria a protestare contro i raduni neonazisti perché, proprio su questo tema gli Ungheresi hanno responsabilità identiche (salvo il minor peso politico) a quelle del popolo tedesco. Ma il popolo e il governo tedesco, nella sua stragrande maggioranza, non hanno esitazioni nel condannare e tracciare una cesura netta con il nazismo.

Gli ungheresi invece eleggono Orban e dimostrano su questi temi un comportamento poco limpido basato sul dire e non dire (come si fa anche in Italia) e sul tollerare raduni neonazisti. La mia opinione è che debbano essere gli ungheresi a ribellarsi e che debba essere l’Europa a mette i paletti ad Orban: sulle questioni dell’antinazismo, della legalità, dei principi giuridici liberali, o ci stai od esci dalla nostra comunità.

Cara Ilaria, adesso ci sarà il processo e con quello che hai passato sono certo che, indipendentemente dal suo esito, ci sarà da parte tua una riflessione sul modo di essere nella nostra società alle soglie dei 40 anni. Hai fatto l’esperienza bruttissima di una istituzione totale che voleva annientarti; hai vinto ma quello che hai passato rimarrà dentro di te. Trasformalo in positività. Hai avuto un padre  che, più di così non poteva fare. Tienilo stretto e auguri per il futuro.