riflessioni sulla democrazia

È nella consapevolezza di moltissimi, se non di tutti, che la democrazia così come è stata progettata e perseguita nel pensiero politico occidentale, negli ultimi tempi, sia andata inesorabilmente in crisi.

Questa forma di organizzazione della politica nelle varie forme in cui è stata declinata negli stati che si sono autodefiniti “Occidente” già alla fine del ‘900 e in modo sempre più evidente nel secondo millennio ha mostrato segni di cedimento o di regressione.

La “Democrazia Occidentale” con le sue forme e le sue norme, le sue ritualità finanche i suoi costumi è diventata, specialmente dopo la II guerra mondiale, nonostante tutto, esempio, miraggio e obiettivo di tutti quei Paesi che si affrancavano dal colonialismo o che cercavano di accreditarsi paritariamente nel consesso internazionale delle cosiddette nazioni “libere”.

Non sempre questo percorso è stato lineare e pacifico; ad avanzamenti spesso seguivano drammatici arretramenti, ma fu un processo che vide coinvolti quasi tutti i paesi dell’Asia, dell’Africa e del Sud America. I valori della democrazia sono stati considerati, o si sono autodichiarati “valori universali”; in tal senso si espresse anche Enrico Berlinguer a Mosca nel nov. 1977 in occasione del 60° anniversario della Rivoluzione d’Ottobre proprio in casa del Partito Comunista Sovietico che da sempre aveva mostrato pregiudizi negativi e ambiguità nei confronti dei regimi democratici.

Il suffragio universale, tratto fondamentale della democrazia, è adottato ormai in quasi tutti i paesi del mondo escluso quei pochi che oggi sono retti da regimi a impronta tribale o dittature personali conclamate. È anche vero, e non lo si ripete mai abbastanza, che la democrazia non si esaurisce con la semplice pratica elettorale come tendono troppo spesso a farci credere le forze populiste che spingono verso interpretazioni plebiscitarie, anche se il voto ne costituisce uno dei momenti fondamentali. La libertà di esprimere il proprio pensiero, la libertà di professare la propria religione, la tutela delle minoranze sia etniche sia culturali, il diritto all’istruzione e alla sanità con cure mediche per tutti, determinano nel loro insieme il livello di democrazia in un determinato paese.

Ma ora veniamo alla considerazione iniziale per cui, qui in occidente, percepiamo che la democrazia stia attraversando una fase regressiva tale da minare, in taluni casi, i suoi presupposti fondamentali e costitutivi per cui si coniano delle definizioni quali “democratura” o “democrazia illiberale” per indicare queste trasformazioni.

Svilupperei al fine della comprensione di questo fenomeno alcuni punti di vista che si legano tra loro.

collocazione storica della democrazia

Abbiamo considerato la democrazia, troppo superficialmente e ingenuamente, come un valore socio-organizzativo strutturale della nostra civiltà e finanche irreversibile come lo sono stati il fuoco o la ruota dal punto di vista tecnologico. Anzi non poteva che progredire e migliorare. Ma si dà il caso che la democrazia non sia un bene tecnologico e se la nostra civiltà non la possiamo immaginare senza la ruota o una qualsivoglia forma di energia elettromagnetica, il consesso umano potrà sicuramente sopravvivere anche senza democrazia.

la Grecia

Teniamo presente che nella plurimillenaria storia dell’umanità la democrazia, come fenomeno politico sociale occupa uno spazio di tempo estremamente esiguo: a conti fatti circa 150 anni tra il V e il IV sec. aC. e altrettanti dagli ultimi decenni dell’ ‘800 a oggi e non in maniera continuativa. Forse forme di democrazia sono state esercitate in diversi ma esigui contesti sociali ma comunque irrilevanti dal punto di vista storico.

La forma di democrazia che si è venuta a costituire in Occidente ha le sue antiche radici nel travaglio politico che scosse la città-stato di Atene sullo scadere del VI sec. aC.

Nell’arco di circa cinquant’anni trasformò l’assetto politico dello stato da una sostanziale monarchia, chiamata allora tirannide, in una organizzazione socio-politica e culturale che si diede il nome di democrazia. I più importanti e noti artefici di questa immane trasformazione furono dapprima il grande legislatore Solone, poi Clistene che di fatto con un’azione temeraria e violenta mise fine alla tirannide e il grande stratega Temistocle.

Ma il personaggio che più si identificò nel processo democratico fu sicuramente Pericle che giganteggia con la sua figura politica per gran parte del ‘400 aC. Fu con lui che Atene prese consapevolezza piena che il regime politico da loro “inventato” non aveva uguali nel mondo conosciuto e sopravanzava di gran lunga per complessità e articolazione tutti gli altri e fu lui che, nel celebre epitaffio per i morti nel primo anno della guerra del Peloponneso, vantò orgogliosamente che Atene, non solo non aveva nulla da imparare politicamente dagli altri ma il suo regime democratico era d’esempio e di guida per tutti gli altri popoli, concludendo con un lapidario “…noi ad Atene facciamo così!”. Nel suo insieme questo epitaffio esprime la consapevolezza di una superiorità etica del regime democratico con i suoi concetti di uguaglianza e giustizia, ma non solo, si può intravvedere anche una considerazione estetica, la bellezza e l’armonia dei suoi rapporti politici.

Questa fase durò circa 160 anni, compreso un breve periodo tra il 411 e il 404 aC. quando, a seguito di un colpo di stato, il sistema politico si caratterizzò come una oligarchia ossia una riduzione energica del corpo avente diritto elettorale trasformandosi di fatto da “potere del popolo” a “potere di pochi”. L’esperienza democratica terminò di fatto con la conquista delle città greche da parte di Alessandro Magno nel 338 aC. e successivamente con l’occupazione di tutta la Grecia da parte dei romani e la sua riduzione a provincia di Roma.

Roma

Da allora in poi di democrazia non se ne parlò più per quasi 2000 anni. Il termine stesso di democrazia scomparì anche dal vocabolario politico. Nella Roma repubblicana la parola che più si avvicinava a democrazia fu Res Publica che indicava per estensione non solo la cosa pubblica ma lo Stato nel suo insieme, ma non l’esercizio giuridico del potere. Il “kratos” ossia il potere come volontà giuridica nel suo esercizio forse poteva essere compreso e contenuto nell’acronimo SPQR che indicava l’insieme del potere legislativo e deliberativo che il Senato esercitava a nome di tutto il popolo di Roma.

l’illuminismo

I primi a riprendere il termine democrazia e considerarlo come progetto spendibile politicamente furono gli illuministi della seconda metà del 1700. Con la Rivoluzione Americana prima e con la Rivoluzione Francese il termine democrazia entrò a pieno titolo nei progetti politici dei protagonisti di quegli eventi, anzi fu proprio con la Rivoluzione dell’ ’89 che si amalgamò in simbiosi con i valori di “Egalitè”, e “Libertè” insieme al valore etico di “Fraternitè”.

Ci volle praticamente un secolo, tutto l’ ‘800, cento anni di lotte sanguinose, massacri di massa come alla Comune di Parigi e l’innesto di teorie politiche nuove come il “pensiero socialista” nel suo insieme per dare alla democrazia la spinta per approdare, a cavallo del ‘900, nel patrimonio politico di non poche forze presenti nei parlamenti europei e americani.

Il pensiero e l’azione delle varie correnti del socialismo, con i marxisti in prima fila, arricchì il concetto di democrazia di nuovi e sostanziali valori. L’uguaglianza, per esempio, non fu solamente intesa come concetto mistico e giuridico: “Siamo tutti uguali davanti a Dio e alla legge” ma si caricò anche di una valenza economica: non si può essere veramente liberi ed uguali senza abbattere le grandi differenze materiali che separano le classi sociali. Al vecchio dilemma di Menenio Agrippa veniva data una soluzione diversa da quella prospettata dal console romano 2300 anni prima, non più compromessi ma lotta di classe, la plebe forte di un suo pensiero autonomo non si sarebbe ritirata sull’Aventino, come allora, ma avrebbe accettato la sfida per conquistare la vera democrazia cioè l’esercizio del potere.

il socialismo

Per contrastare questa nuova interpretazione del concetto di democrazia ai reazionari e conservatori, nostalgici dell’ancient regime, si aggregò quel ceto borghese imprenditoriale, che realisticamente non poteva e voleva ritornare agli antichi meccanismi feudali, ma che intendevano la libertà come concetto individuale e non collettivo e non potevano accettare le tendenze economiche-egualitarie proposte dai socialisti.

Questi ceti sociali si unirono in una inedita alleanza, si impossessarono del concetto di democrazia ma lo svuotarono dei suoi valori progressivi. A questo punto il conflitto tra le due visioni della democrazia e tra le classi sociali da esse interpretate divenne insanabile. Detonatore di questo conflitto fu anche la sciagurata, sul lungo periodo, interpretazione marxista che rappresentava la democrazia come la dittatura di una minoranza borghese alla quale si doveva contrapporre una dittatura dei lavoratori, la maggioranza, e in particolare dei proletari appresentati dal loro partito.

Non solo, ma la borghesia conservatrice cercava di frenare in ogni modo l’estensione del diritto di voto mettendo delle barriere di censo o di scolarizzazione al suo esercizio mentre i partiti socialisti spingevano con alterni risultati per una legge elettorale sempre più rappresentativa delle masse popolari o, addirittura per un suffragio universale. Queste forze contrapposte e in conflitto tra loro non erano comunque rappresentate omogeneamente in Europa. In Germania, Francia e Inghilterra, le forze che rappresentavano gli interessi delle classi lavoratrici, pur restando sempre delle minoranze parlamentari, conquistavano in quei consessi istituzionali sempre più peso.

In Russia, per una debolezza intrinseca della borghesia, la democrazia era compressa ai minimi termini; vigendo sostanzialmente un regime feudale ancorché boccheggiante ma violentemente repressivo, le forze progressiste, schiacciate all’impossibilità di una opposizione legalitaria, non avevano altro spazio se non quello di attentati terroristici nichilisti.

La Grande Guerra dei nazionalismi, se da un lato indebolì l’idea che da più di 60 anni scaldava i cuori dei lavoratori: “Proletari di tutto il mondo unitevi”, dall’altro, per poter organizzare gli eserciti, richiese di armare massicciamente proprio le masse popolari. Il rifiuto della guerra, il possesso delle armi e organizzazioni politiche con parole d’ordine semplici ma efficaci furono l’alchimia storica che permise lo scoppio della “Rivoluzione d’Ottobre” e lo sradicamento di un regime zarista ormai antistorico.

Storici e studiosi delle dottrine politiche concordano nell’affermare che la presa del “Palazzo d’Inverno” fu un punto di rottura e di svolta nel panorama politico europeo se non mondiale. Nel pensiero politico europeo si produsse una rottura e una divaricazione nel concetto di democrazia. I conservatori e la destra in generale, da una parte, radicalizzarono il loro concetto di libertà in rapporto alla democrazia spingendolo ad una prerogativa sempre più individuale.

il nazifascismo

A sinistra invece si radicalizzò il progetto politico per la conquista del potere: “Facciamo come in Russia” svuotando e indebolendo la strategia storica della socialdemocrazia per la via parlamentare producendo una spaccatura nelle forze progressiste europee. Il velleitarismo inconcludente della frazione comunista innescò la reazione politica delle destre che identificando concettualmente il socialismo con la democrazia si mossero per distruggerli entrambi precipitando non senza benevolenza nel fascismo in Italia e nel nazismo in Germania con tutto quello che ne seguì sul piano internazionale.

La stratega per ottenere successo si sviluppò, per entrambi i movimenti, su più direttive tra le quali le più importanti furono:

  1. L’uso della violenza per contrastare e mettere a tacere gli avversari politici.
  2. Esasperare propagandisticamente il sentimento nazionalista del popolo vittima a detta loro di discriminazioni e congiure internazionali (europee) e da gruppi economici finanziari (ebrei) dai quali necessita riscattarsi, rafforzando e contrapponendo una idea di nazione e di razza in pericolo.
  3. Svuatamento e annichilamento di tutte le forme socio organizzative e politiche che caratterizzano una democrazia.

Fu questo processo, politico e culturale insieme, che portò al potere il fascismo e il nazismo guardato a tratti anche con simpatia e benevolenza dalle cosiddette democrazie liberali le quali ne apprezzavano la loro risolutezza nella lotta e argine a quello che ritenevano il vero pericolo ossia il “bolscevismo” dilagante.

Sull’altro fronte già spaccato, le due visioni strategiche contrapposte, quella parlamentare e quella rivoluzionaria, furono ulteriormente divaricate dalla sciagurata direttiva del Partito Comunista sovietico che etichettava i socialisti e socialdemocratici europei come “social-fascisti” da combattere alla stregua dei veri fascisti e nazisti.

Con la costituzione del Fronte Popolare in Francia nel 1936 e il sostegno al governo legittimo spagnolo contro il colpo di stato organizzato da Francisco Franco le forze democratiche ritrovarono una unità politica e d’azione che in Italia si concretizzò con la resistenza al nazi-fascismo e la lotta di liberazione dal 1943 al ’45. Dal riavvicinamento delle forze progressiste e democratiche e dal loro lavoro politico in comune scaturì, nell’immediato dopoguerra, la Costituzione faro e guida della nostra Democrazia Repubblicana.

carattere dinamico e non statico delle democrazie

Questa superficiale e schematica ricostruzione storica, assolutamente non esaustiva, mi permette di affrontare il secondo argomento che mi ero riproposto, cioè il carattere dinamico della democrazia con lo scorrere della storia.

La democrazia, come esercizio del potere da parte del popolo con le modalità e le regole che si autoimpone, al suo esordio, nell’Atene del VI secolo aC. si realizzava in un contesto statuale non paragonabile a quello attuale. L’organizzazione socio-politica faceva riferimento alla città-stato di Atene e il popolo chiamato e a esercitare questo potere era costituito esclusivamente da ateniesi discendenti da ateniesi.

Erano esclusi, sebbene residenti, i cittadini di origine straniera chiamati meteci e gli schiavi. Anche le donne non potevano esercitare alcun diritto politico e questo non ci deve sorprendere dato che in Italia alle donne venne concesso il diritto di voto solo nel 1946 e nel cuore dell’Europa, in Svizzera, si dovette aspettare fino al 1971 e in alcuni paesi arabi come la Giordania, il Kuwait, gli Emirati Arabi Uniti e altri, ancora oggi le donne non hanno ancora diritto di voto. Ma quelli erano i tempi, quello era il contesto culturale che dobbiamo sempre tener presente quando facciamo dei paragoni storici: contestualizzare, storicizzare.

La base elettorale, di allora, si stima fossero circa 30.000 aventi diritto di cui solo una decina di migliaia al massimo partecipava saltuariamente alle assemblee deliberative. Per ovviare al fenomeno dell’astensionismo e incitare maggiormente alla partecipazione fu introdotto una sorta di salario, un obolo, un gettone di presenza diremmo oggi e in alcuni periodi finanche un tipo di “intervento poliziesco” per costringere i cittadini a non disertare i dibattiti politici. Alcune cariche organizzative e giudiziarie erano a sorteggio mentre quelle più tecniche e militari erano elettive.

Ma l’aspetto più importante rispetto alle forme di governo precedenti fu l’assunzione di un concetto-valore fondamentale: una testa un voto, quindi l’equivalenza potenziale di tutti gli aventi diritto che produce di conseguenza il concetto di maggioranza, cioè la maggioranza ha ragione, la maggioranza governa.

Oggi siamo, come è evidente, in un contesto storico, giuridico e etico completamente differente e la democrazia da diretta è diventata rappresentativa e questi due concetti fondamentali “una testa un voto” e “la maggioranza governa” hanno mantenuto il loro ruolo fondamentale nel rappresentare il sistema democratico anche se, in questi quasi due secoli in cui questo sistema è ricomparso come prassi politica, i due valori citati sono stati di volta in volta dilatati o compressi a seconda dei rapporti di forza che emergevano nel confronto-conflitto tra le diverse forze, progressisti o conservatori, che si contendevano il potere nella democrazia.

La lotta per estendere o comprimere il diritto di voto (la base elettorale) e di come esercitare il diritto della maggioranza a governare tutelando in equilibrio i diritti individuali con i diritti collettivi e i diritti delle minoranze è stata protagonista delle vicende politiche del passato novecentesco e continua nel presente.

Le leggi elettorali che stabilivano il diritto di voto in base al censo sono rimaste un retaggio ottocentesco superate ormai dal suffragio universale adottato come si è visto da quasi tutti i paesi. Quali e quanto siano estesi i diritti della maggioranza e le tutele delle minoranze è un terreno sul quale si confrontano le forze conservatrici e quelle progressiste che si oppongono a quello che già Aristotele nella sua opera “La Politica”, dove analizzava le varie forme di governo, individuava alla voce democrazia il pericolo e una possibilità di una sua degenerazione  verso “la dittatura della maggioranza”.

Questo andamento conflittuale tra le forze sociali mi induce a sottolineare il carattere dinamico, assolutamente non unidirezionale, della nostra democrazia e il popolo non è per nulla garantito che i risultati sociali raggiunti siano stabili, ma esiste sempre la possibilità che essi siano ridotti se non addirittura abrogati.

La nostra Costituzione, quale legge fondamentale dello Stato, indica le linee guida per ulteriori progressi della democrazia da essa scaturita, ma pur essendo una Costituzione “rigida” può essere soggetta a revisioni e non sempre in senso progressista.

Per questo a tutti coloro che superficialmente e ingenuamente si sentono tutelati dalla Costituzione dico di stare molto in guardia e in particolar modo auspico che i nostri rappresentanti facciano della difesa dello spirito della Costituzione il loro lavoro prioritario.

La difesa dei principi fondamentali della Carta si esplicano principalmente nel contrasto di quei provvedimenti o norme apparentemente secondari che con il pretesto della sicurezza o del risparmio di bilancio intaccano di fatto le libertà collettive e gli standard della nostra vita sociale. In questi, individuo tutti quei provvedimenti che intaccano il diritto alla salute per tutti, il diritto allo studio in una scuola pubblica fino ai più alti livelli, il diritto ad una vita dignitosa che solo un lavoro ben retribuito può offrire e i principi di solidarietà sociale. La possibilità che vengano intaccati o ridotti questi diritti e questi principi è indice di un indebolimento della democrazia e della nostra libertà.

come le dinamiche sociali influenzano e modificano la prassi democratica

Il terzo punto della mia riflessione cerca senza pretese di verità assolute di cogliere i meccanismi essenziali che legano le trasformazioni sociali con i relativi e conseguenti riflessi legislativi.

Prendo a pretesto un concetto espresso dal prof. Canfora che in un dibattito contestava l’espressione “… siamo in una fase di transizione storica” usata da un suo interlocutore ribadendo che tutti i momenti sono di transizione cambia solo la velocità di questa trasformazione. Ci sono fasi, epoche in cui le trasformazioni sono più lente ed altre che sono più accelerate. Così vale anche per le leggi che regolano e disciplinano i rapporti sociali, il nostro vivere civile. Queste leggi seguono l’andamento dei cambiamenti sociali, anche se una volta varate, le leggi per loro natura oppongono una certa resistenza al cambiamento. È questa resistenza, questa non sincronia tra trasformazione dei rapporti sociali, dei costumi e della cultura e le norme che regolano una società che genera i conflitti sociali tra i sostenitori dei vecchi schemi e i fautori di nuovi valori o di un nuovo ordine.

l’altro ieri

Quando le trasformazioni avvengono in tempi lunghi è più facile per le regole e le norme adeguarsi alle nuove situazioni, a volte pur restando nel corpus legislativo sono superate dagli usi quotidiani e non più applicate e cadono nell’oblio e vengono abrogate effettivamente nel corso dei periodici adeguamenti dei codici.

Quando invece i cambiamenti avvengono in tempi ristretti i conflitti sono quasi sempre inevitabili. Lo si è visto alla fine del ‘700 quando l’impostazione generale dello stato, la monarchia assoluta, fu incapace di assorbire e adeguarsi alle istanze di un ceto produttivo emergente, economicamente forte, e si arroccò nella difesa delle proprie prerogative e previlegi anacronistici decretando così la propria condanna a morte.

Sempre in quel periodo a cavallo tra ‘700 e ‘800 e sulla spinta dei nuovi valori etici da una parte ed esigenze economiche determinate da nuovi assetti produttivi fu messo in discussione l’istituto del rapporto schiavistico vecchio quanto la storia dell’uomo. Dapprima fu proibita la riduzione in schiavitù di uomini nati liberi, poi fu vietato il commercio e la tratta degli schiavi dall’Africa alle Americhe, poi con circa cinquant’anni di ritardo rispetto all’Europa, in America per opera del presidente Lincoln, nel 1864 fu abolita la schiavitù scatenando la feroce e sanguinosa guerra civile americana.

Le trasformazioni economiche e tecniche cambiano i rapporti sociali e modificano il pensiero, il modo di intendere la vita creando nuovi valori e scale di valori e quindi priorità sociali, ma succede anche l’inverso cioè che valori etici nuovi e nuove sensibilità modificando i rapporti sociali inducono a inventare nuovi modi di produzione.

Oggi le trasformazioni tecnico scientifiche e sono estremamente accelerate come mai è accaduto nella storia accompagnate da sensibilità e prospettive culturali nuove, si pensi solamente quanto siano cambiati i computer in pochi anni e la recente attenzione ai cambiamenti climatici.

Quante generazioni sono passate tra il neolitico e l’età del rame, cioè tra gli 11.000 anni aC. il 3.000 aC.? secondo calcoli approssimativi, con una vita media di 25 anni, si può calcolare circa 320 generazioni.

La trasmissione del sapere era lenta e le piccole trasformazioni tecniche che di volta in volta venivano approntate avevano tutto il tempo per essere assimilate come nell’agricoltura o nell’allevamento del bestiame, ma la ruota comparve solo nel 2500 aC., prima come attrezzo tecnico nel tornio dei vasari, poi come componente di un veicolo probabilmente un prototipo di carro. Sto parlando di 80 secoli.

Mini trasformazioni tecniche e abilità manuali, come scheggiare sempre meglio la selce o l’ossidiana, sono state tramandate de una generazione all’altra modificando molto lentamente il modo di vivere delle generazioni che hanno attraversato quel lungo periodo storico. Il bagaglio culturale di una generazione veniva trasferito a quella successiva senza traumi o scossoni.

Ora facendo un salto di qualche migliaio di anni ci poniamo un’altra considerazione dello stesso tipo: quanti secoli sono passati per assimilare nel sapere collettivo dominante che la Terra fosse scalzata dal centro dell’universo per lasciare quel posto al sole, per passare quindi dalle tesi Aristotelico-Tolemaiche al sistema Copernicano?  Beh, le prime furono definite “scientificamente” nel II sec. dC. dall’astronomo egiziano Claudio Tolomeo le seconde si affermarono dopo la pubblicazione del “De revolutionibus orbium coelestium” di Nicolò Copernico nel 1543, cioè 14 secoli dopo. Ma fu solo nel 1851 ad opera di Foucault che si dimostrò matematicamente e sperimentalmente che la Terra girasse effettivamente attorno al sole; ben 300 anni dopo, diciamo dalle 9 alle 12 generazioni.

Come si vede i tempi per assimilare nella coscienza e nella cultura collettiva quelle innovazioni tecnologiche e scientifiche che incidono profondamente nel modo di pensare sé stessi e il mondo si accorciano inesorabilmente. Faccio un ultimo esempio che mi è particolarmente caro perché l’ho usato con le mie figlie e lo userò con i miei nipoti.

ieri

Mia nonna nacque nel 1878, quattro o cinque generazioni fa. Ai suoi tempi si andava ancora a cavallo o in carrozza, molto più spesso a piedi, proprio come si muovevano le legioni di Giulio Cesare alla conquista delle Gallie. Il treno a vapore aveva da poco cominciato a macinare i suoi primi chilometri, la luce nelle case era data da lumi a petrolio e i bambini di 10 anni in Italia aiutavano nei lavori nei campi mentre nell’Inghilterra vittoriana venivano cacciati nei cunicoli più stretti delle miniere di carbone. I bisogni corporali si facevano giù in cortile in un gabinetto comune per tutto il caseggiato e l’acqua la si pompava a mano dal pozzo. I migranti con “il vapore” (così si chiamavano le navi) impiegavano più di 60 giorni di navigazione per raggiungere San Paolo in Brasile da Genova e più di tre mesi per arrivare in Australia, e la risposta ad una lettera da loro spedita arrivava non prima di sette mesi.

Nel corso della sua vita, nonna Gina è morta nel 1969, ha visto suo malgrado due guerre mondiali, la bomba atomica e l’uomo dai primi tentativi di volo dopo solo una sessantina di anni andare sulla luna. A 68 anni nel 1946 ha votato per la prima volta e ha votato: Repubblica.

Se considero l’arco temporale della mia generazione (sono del ’50) ricordo il grembiule nero, il colletto bianco inamidato, il fiocco blu al mio primo giorno di scuola; pagine e pagine di quaderno riempite con le lettere dell’alfabeto scritte con la cannuccia e i pennini a torre o a picche per la bella calligrafia intinti nel calamaio sul banco; ricordo quando mettemmo il telefono in casa, a muro perché quello da tavolo era un optional di lusso, era un “duplex” con la nostra vicina di pianerottolo, cioè sei lei telefonava noi non potevamo ne ricevere ne chiamare e viceversa, per le telefonate “interurbane” bisognava prenotarsi tramite un’operatrice della Stipel, il costume da bagno era una mutanda in lanetta con una stringa laterale per poterlo indossare senza prima togliersi le mutande … ecc.

oggi

Oggi comunico in videochiamata contemporanea con un interlocutore in Sud America e l’altro in Australia attraverso il mio smartphone, mi spazientisco se la connessione internet del PC ha qualche frazione di secondo di ritardo o sfasamento, pago passando su un POS il mio smartwatch che oltre all’ora mi indica il livello della pressione arteriosa e mi segnala delle email in arrivo.

Questi sono i tempi in cui è scandita la nostra vita, questi sono i tempi in cui la tecnologia forza il nostro cervello a pensare e ad agire; questa è la grande, violenta e veloce trasformazione a cui siamo sottoposti e costretti ad agire e si tratta quasi sempre in una manciata di secondi.

Ora se pensiamo che le regole, le leggi, lo stile di vita vivano in rapporto diretto con tutto quel mondo che la tecnologia e la comunicazione determinano non possiamo credere che le leggi socio-politiche pensate, elaborate, promulgate e scritte in un tempo che possiamo definire un’altra epoca e che sintetizzo con una immagine: scritte con la penna stilografica e trasmesso con il telegrafo, possano rapportarsi efficacemente con l’oggi o con il domani in cui la AI la farà da padrone.

ripensamenti

La Costituzione che è la legge fondamentale dello Stato, sintesi e progetto della nostra democrazia va ripensata, la Democrazia nella sua forma organizzativa va ripensata. Non so come, ma occorre prendere atto della inadeguatezza fattuale delle sue regole così come sono e non perdere tempo nel progettare forme nuove più adatte e in sintonia coi tempi. Se si dovesse lasciare l’iniziativa alle destre queste, come sarebbe già nelle loro intenzioni, la modificherebbero in senso liberticida e ridurrebbero tutte quelle norme di garanzia e bilanciamento dei poteri.

Opporsi a questa strategia estremamente pericolosa con il suo contrario ossia la difesa ad oltranza con rigidità quasi filologica della Carta Costituzionale, quella promulgata nel 1947, può diventare una posizione conservatrice e di retroguardia. Bisogna cambiare prospettiva e tentare di modificarla conservando i valori etici fondamentali in modo comunque da adeguarla alle trasformazioni epocali che stanno modificando la società.

Dichiarare che “il bello della democrazia è la sua lentezza e i suoi riti” significa inconsapevolmente condannarla a morte certa per inefficienza e inadeguatezza. Lo sforzo intellettuale e politico che viene richiesto è che l’equazione “la forma è sostanza” rimanga valida anche cambiando i termini che costituiscono la “forma”. I meccanismi burocratici-amministrativi individuati e scritti nella Costituzione quando si asciugavano i tratti di penna con la carta assorbente non funzionano più.

Forme nuove devono armonizzare i principi e i valori fondamentali con la realtà della vita quotidiana in cui la velocità decisionale deve misurarsi con la velocità della comunicazione e forse solo una nuova Assemblea Costituente può assolvere a questo compito importante.

Ma qualsiasi tecnicalità istituzionale messa in campo per adeguare la velocità decisionale alla velocità dei cambiamenti in atto non serve a nulla se non si affronta e risolve il problema-cancrena che sta facendo marcire la nostra Democrazia: l’astensionismo.

Senza partecipazione la democrazia è vuota, di più, non esiste. Ci possono essere dei governi più o meno illuminati, più o meno progressisti, ma non hanno nulla a che fare con la democrazia, sono un’altra cosa se non sono legittimati da una partecipazione elettorale significativa e comunque superiore almeno al 50%. E se oggi siamo ridotti alla situazione che al voto si recano meno del 50% la responsabilità totale, la colpa storica è dei partiti, di tutti i partiti che hanno trasformato la democrazia in una oligarchia autoreferenziale.

La partecipazione poi non può essere intesa solamente all’esercizio elettorale, ma soprattutto all’elaborazione delle scelte e delle strategie politiche. La gente per apprezzare la politica deve sentirsi  considerata e partecipe alla progettualità politica e non solamente una mano per porre una scheda nell’urna. Invertire la rotta di questa caduta vertiginosa della credibilità della politica è la sfida epocale del nostro tempo.




a proposito di Ucraina ed Europa

Da sempre in politica, la politica estera è una discriminante perché ha a che fare con la storia.

C’è chi dice che il piano di Ursula von der Leyn sia poca cosa, o meglio, che sia una grande cosa in termini economici e una piccola cosa in termini politici perché, dicono i contrari, il vero problema è quello dell’Unità politica necessaria per poter procedere alla unità militare.

Si tratta, a mio parere, di una posizione da anime belle tipica di coloro che non capiscono che in qualunque processo l’asse dei tempi sia una cosa importante e che, se mai si comincia, mai si realizza. È una posizione assolutamente identica a quella di quegli ambientalisti contrari al nucleare con la scusa che ci vorranno anni per arrivarci e dunque non vale la pena di incominciare.

Su un altro fronte vedo la posizione di coloro che osteggiano assolutamente la possibilità di colloqui di pace sulla Ucraina con la scusa che Trump è un porco. Uso la parola porco a ragion veduta per indicare un personaggio senza scrupoli e senza principi che bada solo all’interesse economico dello schieramento che rappresenta.

Trump esprime un volto nuovo del capitalismo basato sulla economia della informazione, della intelligenza artificiale, delle nuove tecnologie e del controllo delle materie prime strategiche. Ci saranno tempi e modi per vedere se sia Trump a comandare su Musk o viceversa.

Per tutte queste ragioni l’Europa deve incominciare a ragionare anche di armamenti se vuole incominciare a contare nello scacchiere della politica internazionale. Non sono certo che il processo innescato dal Rearm Europe riuscirà a funzionare ma è comunque l’unico possibile.

La Russia, anche per effetto degli errori commessi in occidente subito dopo il crollo dell’URSS e anche successivamente, si è ristrutturata secondo gli schemi storici dell’imperialismo zarista prima e sovietico poi. Ha bisogno di un contorno di stati cuscinetto che la garantiscano sul piano militare e nel suo isolamento, garantito dalla estensione territoriale enorme e dal patrimonio di materie prime, si avvia ad una fase di sopravvivenza basata sulla autosufficienza.

Sulla questione Ucraina leggo molte superficialità sia da parte di coloro che, con la scusa della Pace, strizzano l’occhio a Putin e dunque sostengono che l’Ucraina sia un paese che, dal punto di vista culturale e linguistico, è affine alla Russia, sia da parte di coloro che sostengono la non esistenza di un problema russofono in Ucraina e assimilano questo paese all’Occidente.

Consiglio in proposito di andarsi a vedere l’andamento delle elezioni in Ucraina dal 91 in poi con risultati spesso contraddittori:
  • partiti che si affermano e subito dopo svaniscono per essere sostituiti da una nuova stella, sparizione o irrrilevanza delle forze politiche egemoni nel momento della indipendenza (incluse quelle russofile o ex comuniste)
  • instabilità di governo e progressivo ridursi della questione delle nazionalità a favore di una maggiore unità culturale e linguistica.

Forse ho allargato troppo il discorso e dunque riassumo:

  • sono favorevole al fatto che l’Europa inizi ad armarsi in maniera più autonoma rispetto agli USA
  • difendo la necessità che questo processo non si limiti a realizzare eserciti nazionali più efficienti e più dotati di mezzi ma vada di pari passo con la unità politica
  • ritengo opportuno che all’interno dell’Europa si crei uno zoccolo duro di paesi che credono agli ideali dei padri fondatori e che impongano il superamento di quella autentica stupidaggine che si chiama decisione alla unanimità
  • sono favorevole allo svolgimento di negoziati diretti secondo lo schema di sblocco posto da Trump ma che preveda una decisa voce in capitolo da parte della Ucraina. In questo quadro è opportuno che ci sia il coinvolgimento dei popoli in qualche modo coinvolti dal riassestamento (Polonia,e paesi Baltici) e ci sia una garanzia internazionale sulla esistenza di livelli di autonomia all’interno (politiche regionali) e verso l’esterno (definizione dei confini)
  • penso che sia inopportuno l’ingresso dell’Ucraina nella NATO mentre sono favorevole all’ingresso dell’Ucraina nell’Europa politica.

Ci si interroga sulla sensatezza dell’esistenza o meno della NATO. Il problema non si porrebbe se, in questi anni, l’Europa si fosse dotata di una deterrenza militare adeguata. Non è così: l’arsenale nucleare di Francia ed Inghilterra è 1/10 di quello russo, l’esercito europeo non esiste e l’Europa è in ritardo anche su ciò che riguarda le tecnologie dello spazio legate alla difesa. Dunque la NATO serve e ci garantisce tra l’altro la presenza, oltre agli USA tentati da un disimpegno parziale, di Canada, Regno unito e Turchia.

Naturalmente, su scala mondiale esistono molti altri problemi: la la competizione economica e il commercio estero, lo sviluppo e il primato nelle nuove tecnologie della informazione dove Formosa, insieme alla Corea del Sud, sta staccando cinesi e americani, la crisi delle organizzazioni internazionali, la scommessa dei BRICS, la competizione CINA-USA. Non li ho domenticati ma qui volevo parlare di Europa politica ed Europa militare.

 




lo stallo dei riformisti nella sinistra

I riformisti del PD, sia nella modalità ex-migliorista/comunista, sia in quella catto/degasperiana/scoppoliana – che la dossettiana Rosy Bindi chiama “Orvietani”, quasi si trattasse di una setta di eresiarchi – sia in quella catto/dossettiana – “i prodiani” di Castagnetti e di Ruffini – da qualche tempo scavano cunicoli sotto il prato verdeggiante di Elly Schlein.

Ben scavato vecchie talpe!, osserverebbe compiaciuto il vecchio Marx. Ma il terreno continua ad essere solido.

Per un verso, i riformisti moderni, per dirla con il leader degli ex-miglioristi Enrico Morando, continuano a constatare che il PD in formato Schlein è il deposito più grosso che c’è a sinistra. E perciò, se si è fedeli ad una vocazione bipolare-maggioritaria, è lì che bisogna stare. Ma poi ciascuno di loro deve anche constatare ogni giorno di essere solo una vox clamantis nel deserto, nel quale sono costretti a cibarsi di locuste e nel quale nessuno ha voglia di andare a farsi battezzare.

Produrre cultura politica e idee

Resta loro un’unica chance: produrre cultura politica e idee per il governo del Paese. Lo hanno fatto in questi anni e continuano brillantemente a farlo. Ma lo stallo dell’impotenza è evidente. Nel PD contano zero. Perché l’invaso-PD non ha un estuario di governo, è una grande palude.

Ma gli Orvietani sono prigionieri politici per scelta. Eppure, se, come ha ribadito Paolo Gentiloni, Extra Ecclesiam nulla salus, ma, contemporaneamente, il Pd è dichiarato inadatto a costruire uno schieramento di governo alternativo all’attuale governo di destra-centro, vuol dire che nel PD non c’è nessuna “salus” – solo qualche posticino, ma non per tutti – e che la strategia politica dei riformisti “interni” è paralizzata.
Così, l’ultima risorsa è rimasta la ricerca ricorrente e fallimentare del “federatore” o del “Veltro” dantesco, che riesca a rimettere insieme “il vulgo disperso” dei riformisti, che di nomi ne hanno anche troppi, e a mettere in minoranza i moderni massimalisti.

Altra visione, più terra terra, quella dei prodiani. Che hanno sostenuto e sostengono la Schlein. Si sentono, però, ai margini e rivendicano spazi di rappresentanza del mondo cattolico. Il quale, tuttavia, si rappresenta ormai benissimo da sé. Se il Card. Ruini faceva valere presso i governi le istanze del mondo cattolico senza più la Dc, il Card. Zuppi lo fa senza passare dai cattolici del PD.

Le correnti politico-culturali del PD

Il PD nacque ufficialmente il 14 ottobre 2007 dalla fusione dei Democratici di Sinistra e della Margherita. Dentro il “nuovo” partito erano confluiti svariati filoni di culture politiche. Per quanto riguarda il cattolicesimo politico, almeno quattro: la corrente cristiano-sociale di Ermanno Gorrieri e di Pierre Carniti, che aveva già aderito ai DS nel 1998; quella dossettiana; quella popolare-morotea di Martinazzoli; quella degasperiano-scoppoliana-fucina.

Da sinistra, il PCI-PDS-DS portava in dote il ventaglio delle sue correnti storiche: una spruzzata di ingraismo, che si era però condensato soprattutto in Rifondazione comunista, un’area migliorista, articolata in socialdemocratici e social-liberali, un correntone berlingueriano, dai toni fortemente etico-giustizialisti, prima rivolti contro Craxi, poi contro Berlusconi.

Il by-passaggio del socialismo di Craxi

Perché il PD non riesce ancora oggi a diventare sinistra di governo? Al suo atto di nascita sta un peccato originale, da cui nessuno lo ha mai più redento. È rimasto berlingueriano “dentro”, per la parte di sinistra di quell’amalgama mal riuscito.

Quando Achille Occhetto passò dal XVIII Congresso – 18/22 Marzo 1989 – nel quale ancora si fantasticava di un nuovo corso del PCI, sull’onda del gorbaciovismo, al XIX Congresso – 7/11 marzo 1990 – allorchè il PCI precipitò in una “Cosa” con un nome e un simbolo provvisori, fu là che non avvenne nessuna metamorfosi.
Si trattò di un “by-passaggio”, mediante salto mortale da “comunista” a “democratico”: la tappa “socialista” fu, appunto, by-passata. “Socialista” all’epoca voleva dire Craxi.

Si trattava di un socialismo matteottiano e turatiano, di una sinistra di governo, attenta alla base sociale operaia e popolare, sensibile al cambiamento istituzionale – la Grande riforma – disponibile a riforme di un socialismo che oggi definiremmo “liberale”: “meriti e bisogni”, anche se Martelli è restio ad accettare quell’aggettivo.

“Il merito” integrava un quid di liberale individualista nel tradizionale discorso egualitario e welfarista della sinistra comunista e socialista. Il PSI di Craxi era la sinistra italo-europea, unica contemporanea del proprio tempo. Il PCI non si presentò a quell’appuntamento con la Storia, che fu mancato per sempre, per responsabilità degli stanchi epigoni di Berlinguer. I miglioristi di Giorgio Napolitano, non certo famoso per il coraggio, non osarono fare il grande passo verso Craxi.

Così, la parola “democratico” si è venuta via via riempiendo degli umori mutevoli delle mode del tempo che passa: giustizialismo, girotondismo, grillismo, wokismo, correttismo, identitarismo

Nel 2008 Elly Schlein è andata alla corte di Obama per apprendere il peggio del Partito democratico americano. È riuscita ad importarlo. E così oggi capita alla sinistra di avere a che fare con un tempo pericolosamente post-liberale, senza essere mai stata né socialista né liberale.

Salus extra Ecclesiam?

Occorre riconoscere che il nuovo mix di cultura politica, timbrata Schlein, ha avuto fortuna, non tanto presso la cinica nomenklatura senza fede del PD, ma tra gli iscritti: ha pescato a strascico ogni possibile umore, da un redivivo antifascismo militante all’apertura all’immigrazione totale, all’alleanza cieca, “stile Mani pulite”, con le toghe, al rifiuto di ogni riforma istituzionale, alla difesa di un regionalismo fallimentare, all’opposizione ad ogni cambiamento nella scuola, all’alleanza con il massimalismo cieco di Landini, all’affermazione di ogni possibile diritto, all’oscillazione tra Israele e Hamas, al pacifismo di piazza…
Per scomporre un tale aggregato cementato di luoghi comuni servirebbe una battaglia culturale e politica rigorosa.

C’è quella culturale, manca quella politico-partitica: le strutture di base e le regole democratiche del partito e dei partiti sono evaporate. Non manca affatto il pluralismo. Tutti sono liberi di dire tutto.

Ma la stretta personalistica è ferrea, tutta giocata tra leader e iscritti, via mass-media e social-media. È la democrazia di X, fortemente criticata, ma entusiasticamente praticata. Così il blocco politico-ideologico è diventato inscalfibile.

Se i riformisti dell’Ecclesia sono impotenti, non stanno meglio quelli che hanno cercato la salvezza fuori. Fino ad ora i tentativi extra Ecclesiam non hanno avuto esiti brillanti. Da parte delle sigle esterne – da Azione a Orizzonti liberali – non è mancato il coraggio politico di scendere sul terreno con gli scarponi.

La domanda “liberal-riformista” emerge, pare mancare l’offerta. Non solo di contenuti, ma, anche qui, di ambiti e strutture di dibattito democratiche. La costruzione del discorso non è separabile da quella dei luoghi condivisi della sua elaborazione. L’irruzione della comunicazione social ha reso più difficile di ieri il processo di formazione collettiva della volontà politica, riducendolo a consultazione referendaria sui quesiti proposti dal leader, cui si risponde con un tweet individuale. Occorrono, appunto, gli scarponi. Chi ha voglia di calzarli?




linguaggio comune – linguaggio scientifico – divulgazione

Ogni volta che leggo i testi di fisica della ex URSS resto impressionato dal quanto, tante energie positive, rispetto ad un rapporto razionale con il mondo, siano state gettate dalla finestra insieme alla tanta acqua sporca.

Dello stesso autori potete trovare nel link a fondo pagina un testo dedicato alla natura del magnetismo e un altro sulle quasiparticelle entità a metà strada tra onde e particelle che hanno a che fare con la fisica dei solidi.

Il testo sul magnetisno, alla faccia del divulgativo (la serie si intitola “la scienza per tutti”), va in maggiore profondità di quanto non facciano i testi universitari di “fisica generale” italiani e americani. Credo che loterrè presente nel rivedere la parte del nio corso sul “magnetismo nella materia”.

La introduzione è un po’ lunga ma merita di essere letta.

Quando la scienza percepisce il mondo circostante e trasforma “le cose in sé” in cose “per noi”, quando domina nuovi campi e trasforma le sue conquiste trasformandole in strumenti quotidiani dell’umanità, svolge anche una funzione aggiuntiva. Cioè, compone un’immagine del mondo che viene modificato da ogni generazione successiva e costituisce una delle caratteristiche più importanti di civiltà.

L’immagine del mondo, cioè, la somma totale delle informazioni dell’umanità sulla natura, è conservato in centinaia di volumi di monografie speciali e in decine di migliaia di articoli su riviste scientifiche. A rigor di termini, questa immagine è nota all’umanità nel suo complesso ma non a una singola persona.
Un uomo, anche con la migliore istruzione possibile, conosce solo i dettagli di un piccolo frammento dell’immagine complessiva e gli bastano informazioni approssimative su tutto ciò va oltre il suo campo speciale.

Le difficoltà nell’ottenere l’immagine di tutto il mondo circostante risulta non solo dalla diversità illimitata di dati ma anche dall’esistenza di lingue specializzate. Queste lingue sono mezzi di comunicazione e di sviluppo di strutture logiche all’interno di domini separati domini; queste lingue sono totalmente prive di significato per uno scienziato che lavora in un ambiente remoto e sono solo approssimativamente comprensibili a chi lavora in un campo adiacente.

La generalizzazione dei risultati scientifici e la composizione dell’immagine del mondo richiedono che le descrizioni debbano essere tradotte da uno specialista di quella lingua in una lingua ordinaria (universale). Ed è qui che si incontra l’ostacolo: i linguaggi specializzati sono molto formalizzati in misura maggiore di qualsiasi linguaggio comune della esperienza quotidiana.

La traduzione è sempre difficile. Questo è particolarmente vero per la traduzione da un ambito scientifico in una lingua in cui il significato di ciascun concetto non è strettamente definito, ma può essere facilmente modificato sotto l’influenza del esperienza accumulata dall’utente della lingua. Immagini del mondo create nella mente di persone diverse sono diverse non solo perché le persone hanno digerito quantità ineguali di informazioni ma anche perché queste informazioni sono codificate in lingue diverse.

Un biologo costruisce un’immagine del mondo molto diversa da quello di un fisico. L’immagine di un ingegnere è molto più “meccanicistica” di quello di uno specialista in le discipline umanistiche. La letteratura scientifica popolare è un tentativo di tradurre da un linguaggio scientifico rigoroso in un linguaggio meno formale. Sarebbe sbagliato pensare che gli scienziati nel parlare o pensare su temi professionali impieghino sempre e solo una terminologia scientifica rigorosamente formalizzata. Lungi da ciò.

Non è difficile trovare, ascoltando gli argomenti in una discussione scientifica, o prestando attenzione alla formulazione delle relazioni consegnate ai convegni e seminari, o semplicemente ascoltando gli specialisti parlare in modo informale durante queste conferenze, che ogni branca della scienza genera due linguaggi.
Uno rigoroso e preciso, l’altro molto meno rigoroso.

Questa seconda lingua è una miscela di termini tecnici e parole di tutti i giorni. L’uso ripetuto del linguaggio di tutti i giorni dà a queste parole un significato molto particolare difficile da trovare anche nel miglior dizionario enciclopedico. Ciò che è essenziale, tuttavia, è che l’aggiunta della parte scientifica al significato non sopprime il sapore emotivo della parola.

Non c’è dubbio che le parole di qualsiasi linguaggio umano possiedono un potere magico di messa in moto di catene di immagini associative, stimolanti la mente e stimolanti le emozioni. Questo rende la parola uno strumento molto potente. Questo spiega perché uno scienziato che cerca una soluzione rigorosa utilizzi un modo di colloquiare vivace durante la discussione con gli oppositori del suo punto di vista; non limita il suo linguaggio a un gergo scientifico le cui parole sono precise ma prive di emozione.

La letteratura scientifica popolare familiarizza il lettore con il linguaggio “colloquiale” della scienza.
I termini convenzionali spesso comportano allusioni che sono marginali in un contesto scientifico e quindi possono interferire con la comprensione di una affermazione. La traduzione dal linguaggio scientifico a una lingua convenzionale comporta delle perdite. La precisione viene sacrificata, il che è un prezzo inevitabile della semplificazione.

È possibile, tuttavia, cercare di ridurre il carico di allusioni inutili che si trascinano dietro il linguaggio di ogni giorno. Prendiamo il termine “decadimento”. Un non fisico apprende dall’edizione integrale del “Random House Dictionary of the English Language” (1966) che “decadimento” significa: vi. 1. diminuire in eccellenza, prosperità, salute, ecc.; deteriorare. 2. decomporre; Marcire. 3. (fisico) (di un nucleo radioattivo) trasformarsi spontaneamente in uno solo o più nuclei diversi in un processo in cui vengono emesse particelle, come particelle alfa, dal nucleo, vengono catturati o perduti elettroni o perso, o avviene la fissione.

Un fisico, tuttavia, cercherà di spiegare che il decadimento di un neutrone in un protone, un elettrone, e antineutrino non significa che, prima del decadimento (in parti separate), il neutrone era formato da un protone, elettrone e antineutrino. La parola “decadimento”, dice il fisico, qui significa “trasformazione”, nonostante tutti lo chiamino “decadimento”.

Un altro esempio: urto o “collisione”. Lo stesso dizionario afferma: N. 4. l’atto della collisione; arrivando violentemente in contatto; incidente (come per i treni ferroviari o navi). 2. uno scontro; conflitto. 3. (fisico) l’incontro di particelle o corpi in cui ciascuno esercita una forza sull’altro, causando lo scambio di energia o quantità di moto.

Ma nella fisica dello stato solido la collisione elettrone-fonone collisione significa che l’elettrone ha “assorbito” il fonone. Un’analogia comica: una collisione tra lupo e lepre. Dopo la collisione, il lupo è solo sul campo.

La scienza dà origine a nuovi concetti quasi ogni giorno, quindi è necessario creare nuovi termini costantemente. Parole del linguaggio comune di tutti i giorni sono spesso presi in prestito per produrre questi termini. Al giorno d’oggi è popolare prendere in prestito le parole un ambito molto lontano dalla scienza.

La fisica di particelle elementari, ad esempio, ha incorporato “stranezza”, “fascino”, “colore” e “gusto”. Questa moda potrebbe essere collegata non tanto con l’inventiva sfrenata dei creatori della nuova fisica ma con i loro tentativi di evitare la concomitante introduzione di sostanze indesiderate nei concetti.
L’autore del nome “quark” per a la particella subnucleonica (M. Gell-Mann) era molto consapevole (o sentiva intuitivamente) che le allusioni ai quark di Joyce non dovessero influenzare la comprensione delle proprietà dell'(allora) ipotetica sub-particella.

La letteratura scientifica popolare aiuta i non addetti ai lavori a percepire il contenuto scientifico delle parole che sono stati estratti dal linguaggio quotidiano e trasferite in un ambiente sconosciuto.
Ma l’obiettivo principale della letteratura scientifica popolare è, ovviamente, rendere edotti un gran numero dei lettori dei progressi della scienza.

Il libro che stai per leggere leggendo ora è un testo di scienza divulgativa sulla meccanica quantistica dello stato solido. Siamo consapevoli dei numerosi libri divulgativi di scienza dedicati alla fisica dello stato solido. Il presente libro è diverso in quanto è un tentativo di concentrarsi esclusivamente sulla fisica quantistica dello stato solido e di ignorare le applicazioni.

È un libro sui metodi di interpretazione degli effetti macroscopici, sulla relazione tra fisica dello stato solido e meccanica quantistica, sulla creazione e l’uso di nuovi concetti…. Ma ho perseguito anche un altro obiettivo: “sollevare il velo” spiegando come si ottengono certi risultati senza limitare la presentazione ad una dettagliata descrizione dei risultati stessi.

Il lettore sarà il giudice se il il tentativo è fallito o è riuscito. Scrivere questo libro è stato un piacere e ho “torturato” i miei amici e parenti, e soprattutto mia moglie, facendoli ascoltare ad alta voce la mia lettura di alcuni passaggi. Loro erano sempre ascoltatori pazienti e meritano la mia più profonda gratitudine.


Questo è l’indice del testo – lo trovate qui Mir Books | Books from the Soviet Era insieme a una miriade di libri scientifici da quelli divulgativi a quelli tostissimi, tutti scaricabili grattuitamente. Molti di quei libri tra la fine degli ann60 e la prima metà degli anni 70 hanno accompagnato la mia formazione scientifica

Instead of an Introduction: Languages of Science
Chapter 1. On Physics in General and Quantum Mechanics in Particular
Introduction to the Next Five Chapters: Solid State Physics
Chapter 2. Phonons
Chapter 3. Two Statistics
Chapter 4. Electrons
Chapter 5. Electrons and Phonons
Chapter 6. Magnons
Concluding Remarks




Le elezioni in Francia

Mai avuto dubbi sul fatto che la decisione di Macron di sciogliere l’Assemblea nazionale, all’indomani delle elezioni europee, fosse una scelta dovuta. E non solo per la ragione “tattica” che di lì in avanti non gli sarebbe convenuto stare sulla graticola, mentre per i prossimi due anni la Le Pen avrebbe potuto ogni giorno soffiare sulle braci.

La scelta aveva alla base una motivazione democratica sostanziale: se i Francesi avevano consegnato una maggioranza relativa del 34% a Madame Le Pen, conquistata sulla base di proposte molto chiare – abbassamento dell’età pensionabile a 60 anni, ritorno di sovranismo, filo-putinismo… – allora che i Francesi la mettessero alla prova.

Il risultato finale non ha confermato le intenzioni di molti Francesi. L’alta partecipazione al voto non è stata certo favorita dal meccanismo elettorale del doppio turno, che tende ad abbassare la partecipazione al secondo. Semplicemente il lepenismo è minoranza. Marine Le Pen si è consolata, affermando che la sua è una marea che continua a salire inesorabile. Occorre solo ricordare che maree si alzano e poi si abbassano. Dipende dalla “luna” degli… elettori.

Di qui in avanti incomincia di nuovo in Francia la politica quotidiana, molto simile in tutti i Paesi europei, salvo che in Inghilterra: quella della contrattazione delle alleanze. L’auspicio di noi europei è che la deradicalizzazione delle frange estreme, consentita dal meccanismo del doppio turno, porti alla formazione di un governo capace di riconsegnare un ruolo alla Francia nella costruzione dell’Unione europea e nella difesa delle ragioni dell’Ucraina.

A noi Italiani l’asse franco-tedesco non è mai piaciuto moltissimo. Resta tuttavia che, fino ad oggi, questo asse ha tenuto in piedi il discorso europeo, finché noi non sappiamo farlo meglio. Un governo Bardella molto probabilmente lo avrebbe indebolito ancora di più.

Le attese e le paure

Lasciando a Macron le sue pene, quali insegnamenti derivano dalla vicenda francese a noi Italiani per affrontare le nostre?

Per rispondere a tale domanda è necessario fendere la nebbia del dibattito politico-politologico per vedere più in basso e più da vicino che cosa si agita nella società civile europea, al netto delle differenze culturali e politiche di ciascun Paese.

Ciò che si percepisce immediatamente è una frammentazione socio-economica crescente, accompagnata da un’acuta autocoscienza del fenomeno da parte dei soggetti sociali coinvolti. La frammentazione viene spesso descritto con l’uso esclusivo di categorie pauperistiche, soprattutto da chi cerca incessantemente un nuovo soggetto della liberazione umana.

Eppure, c’erano minori diseguaglianze socio-economiche e culturali prima dell’accensione dei processi di globalizzazione? Si stava meglio prima o si stava peggio? La risposta è: c’erano maggiori diseguaglianze, fino alla fame vera e propria, la gente stava peggio e moriva prima.  Oggi si sta meglio.

Solo che uno dei meccanismi attivati dallo sviluppo socio-economico e tecnologico e dal globalismo della comunicazione è stato quello della crescita continua delle attese e delle pretese.

E della conseguente domanda di eguaglianza nella distribuzione dei benefici e della ricchezza. Perché loro sì e noi no? Perché lui sì e io no?  Ecco perché dall’Africa partono i più “ricchi” e non i più poveri. Perché “ci hanno visti”! E le attese si sono trasformate in “diritti di…”.  Così si sono mischiati due fatti: un aumento della velocità oggettiva dello sviluppo ineguale e di nuove opportunità di sviluppo, cui non tutti possono immediatamente accedere allo stesso modo, e un elevamento delle attese e pretese soggettive di tutti. L’espressione ZTL – Zona a Traffico Limitato – è diventata la sintesi simbolica di queste contraddizioni.

Così, per tornare alla Francia, Parigi è rappresentabile come un’unica ZTL rispetto all’intera Francia. Fenomeni analoghi – sotto il dualismo città-periferia, città-campagna, pianura-montagna, pianura-zone interne – sono visibili in Italia.

Le ragioni sociali e psicologiche del sovranismo

L’altro meccanismo – psicologico – che si innesca è quello dell’inquietudine e della paura. Anche se noi, in quanto individui e gruppi in situazione, puntiamo a conservare la tranquilla stabilità del nostro mondo, è esattamente questo mondo che sta velocemente cambiando.

Gli adulti invecchiano, i ragazzi mancano. Quelli nuovi arrivano in barcone, quando ce la fanno, dotati di altre culture, abitudini, religioni diverse e spesso ostili. Le nostre chiese si svuotano, i tetti cadono a pezzi. Stiamo perdendo il controllo del nostro presente e del nostro futuro.

Il sovranismo “bianco” non è un’invenzione della politica, è la reazione socio-culturale alla perdita di sovranità sulla propria vita quotidiana. Ci sono classi sociali e intellettuali che hanno la corrente a favore – e sono una minoranza. Ci sono classi e gruppi e individui che restano indietro – e sfiorano la maggioranza. Se la politica non riesce a far intravedere speranze, nessuna meraviglia che appaiano all’orizzonte venditori di almanacchi e di illusioni, che, in cambio di voti e di potere, annunciano nuovi paradisi terrestri di sovranità nazionale e di pace universale, purché restiamo tranquillamente al caldo delle nostre comunità locali, dentro i nostri confini nazionali e custodiamo le nostre tradizioni.

I periodi di transizione sono più difficili

Perciò tentare di cavarsela solo con l’antica dialettica antifascismo-fascismo non porterà lontano. I periodi di transizione sono storicamente i più difficili da governare, ma anche i più fecondi di novità. La transizione ci riconsegna un nuovo lancio dei dadi, che qualcuno aveva gettato prima di noi.

La transizione: esige la messa al bando di approcci fondamentalisti rispetto a questioni quali la transizione energetica, la crisi climatica, il fenomeno dell’immigrazione, l’avvento dell’Intelligenza artificiale, il disordine geopolitico mondiale… Non è più il tempo degli slogan semplificatori.

Se la politica dà voce solo a chi corre, quelli che restano indietro a chi si affideranno? E poiché “politica” coincide, almeno in Europa, con “democrazia” e “statualità nazionale”, il rischio già evidente è che i settori fuori dalla ZTL si rifugino nell’antipolitica e nell’anti-democrazia.  Ha incominciato ad accadere già dal 2008. È ora di apprendere un’altra lezione.




nessuno mi può giudicare

Racconta la cronaca che tre studentesse del Liceo classico Foscarini, hanno deciso di non rispondere alle domande della Commissione al colloquio orale della Maturità 2024 per protesta, dopo che nella loro classe sono state date troppe insufficienze alla seconda prova scritta, quella di Greco.

Una delle “rivoluzionarie” ha dichiarato: “Non accetto il vostro giudizio che non rispecchia il nostro lavoro… non tollero la mancanza di rispetto nei miei confronti”. Non è mancata un’ondata di consenso giornalistico: “Fate loro una statua! Titolate loro un’aula!”.

La realtà è stata, ahinoi, più prosaica: la Commissaria d’esame di Greco si è trovata di fronte un’intera classe impreparata e lo ha certificato. Punto. Dietro questo episodio – ma non sappiamo quanti altri – si agitano questioni di straordinaria importanza: quali i fini del “giudizio scolastico”?

Perché la crisi attuale del giudizio scolastico? Sullo sfondo sta un fatto: nel mese di giugno/luglio di ogni anno passano al vaglio di scrutini ed esami circa 7 milioni e 200 mila ragazzi. L’operazione tocca la vita di milioni di famiglie. Essa ha due facce. Quella visibile: lo Stato si rivolge alle giovani generazioni per verificare i livelli del “sapere di civiltà” acquisiti. Quella invisibile è etico-pedagogica-civile: lo Stato si pone come giudice dei loro saperi e dei loro comportamenti. Egli parla a nome della Realtà, del Mondo, della Società, dell’Altro… I giudizi sono formulati dagli insegnanti, singoli e riuniti in Consigli di classe o Commissioni, la cui composizione dipende da una serie di variabili, tra cui la qualità e le competenze variabili degli insegnanti.

Nella personale interpretazione delle tre ragazze, invece, titolare del giudizio non è più il Commissario d’esame, ma l’IO stesso: io sono l’unico giudice di me stesso. Il Mondo è solo lo specchio dell’IO e l’IO deve essere immediatamente gratificato, sempre. Un IO perennemente in ansia. Per la descrizione di questa sindrome narcisista rimandiamo qui al libro di Ch. Lasch del 1979, tradotto nel 2001 con il titolo: “La cultura del narcisismo. L’individuo in fuga dal sociale in un’età di disillusioni collettive”.

I docenti che si trovano davanti i ragazzi della Generazione Zeta conoscono benissimo questa sindrome. Nasce in famiglia, si sviluppa nella società, si esaspera attraverso i mezzi di comunicazione, retroagisce in famiglia, si ratifica a scuola. Attraversa l’intera società. È il nuovo “spirito del tempo”.

La crisi della valutazione

Ora, la tendenza crescente dei corpi docenti, delle scuole e del Ministero è quella di adeguarsi al nuovo “spirito del tempo”. Ciò ha comportato la riduzione progressiva della quantità di “sapere di civiltà” ritenuto fino a qualche decennio fa necessario dalla società per la propria riproduzione. Ma, soprattutto, ha provocato l’abbassamento dell’asticella del giudizio.

Il “benessere” del ragazzo è diventato il criterio di giudizio prevalente. D’altronde, chi glielo fa fare ad un insegnante di opporsi alla corrente facilista, quando le famiglie – i clienti! – i presidi, i giornalisti, i giudici dei TAR, i politici premono per evitare ansie, frustrazioni, crisi di panico, depressioni galoppanti, anoressie ai nostri figli e nipoti?

Una conseguenza è che non esiste più, o sempre meno, un criterio unico nazionale di giudizio: varia da territorio a territorio, da Nord a Sud, da indirizzo scolastico all’altro, da una scuola autonoma all’altra. Quando si arriva alla Maturità, le Commissioni si presentano sì armate di Indicazioni generali, ma, alla fine, se un ragazzo non è stato portato dal docente oltre il 1945 – per prendere un esempio frequentissimo in Storia – la Commissione che cosa può fare?

E se non è stato portato a saper tradurre Platone, ma eventualmente solo la più facile Anabasi, la Commissione che cosa può farci? E se un/una docente commissaria si ostina a segnalare che il ragazzo di fronte non è capace di dire quando è avvenuto lo sbarco in Normandia, che cos’era il CLN, quali erano le forze presenti nell’Assemblea costituente, il minimo che gli/le può capitare è di finire sui giornali con l’accusa di sadismo o l’invio di un ispettore da parte degli organi competenti.

Quale che sia la disciplina posta sotto giudizio, il panorama del giudizio che si stende davanti ai nostri è “a desolazione crescente”. I Lettori sono in grado di valutare se tutto ciò abbia a che fare con l’analfabetismo funzionale crescente, con una selezione avversa della classe dirigente politica, con l’aumento degli Scrittori e la diminuzione dei Lettori, con la caduta complessiva della quota di saperi nella società e con il corrispettivo aumento dell’ignoranza presuntuosa.

Un Sillabo delle conoscenze e un’Agenzia nazionale di certificazione

Che fare, se il percorso epistemologico della costruzione del giudizio è franato tanto nella Società quanto nella Scuola? Che fare, se si è diffusa largamente l’idea che la Realtà è una variabile dipendente dell’IO? Una risposta del realismo storico – al limite del cinismo – è: non lamentatevi, il ciclo storico dell’Occidente europeo è ormai posto su un clinamen, direbbero Epicuro e Lucrezio. Se la nostra civiltà diventa materiale di costruzione per altre civiltà, pazienza! Tuttavia, chi ha figli e nipoti, si ribella al cinismo della ragione storica, perché l’idea dell’uomo libero/responsabile come impasto di intelletto e volontà, capace di fare la Storia, continua ad essere il fondamento spirituale della nostra civiltà.

Serve, in primo luogo, un Sillabo nazionale/europeo delle conoscenze necessarie per vivere nel mondo presente. I nostri ragazzi camminano nel presente, ma non sanno realmente a quale secolo appartenga. La verifica dei livelli di conoscenze acquisite deve essere sottratta all’anarchia valutativa delle Commissioni. Occorre un’unica Agenzia nazionale di certificazione, alla quale far pervenire gli scritti per la correzione, alla quale far elaborare test ecc…

L’Agenzia deve solo “verificare” sulla base del Sillabo. Non deve “bocciare” nessuno, non deve “fermare” nessuno, non deve dichiarare “maturo” nessuno. Deve solo dire a un ragazzo/a la verità sui suoi personali livelli di acquisizione. Il nucleo di tale Agenzia esiste già: è l’INVALSI, agenzia indipendente di valutazione dalle scuole e dal Ministero. Basterebbe aumentarne il ventaglio delle competenze e dotarla dei mezzi necessari. Già ogni anno l’INVALSI elabora giudizi e graduatorie affidabili, che vanno, non a caso, in controtendenza rispetto ai giudizi delle Commissioni di maturità.

In secondo luogo, è necessario prendere atto che sotto il vestito del valore legale del titolo di studio non c’è ormai più nulla, salvo le fortune dei diplomifici e dei laureifici. È necessario togliere di mezzo l’inganno del valore legale, che non è più né un fine né un mezzo, per consentire a ciascun ragazzo di vedersi così com’è. È dunque solo al Mercato che ci si deve affidare, visto che lo Stato è ormai inaffidabile? La risposta è appunto un’Authority-Agenzia indipendente dallo Stato e dal Mercato. Di lì in avanti scatta il principio di libertà/responsabilità per tutti, a partire dai “maturi”.

C’è un’alternativa, intanto, che stiamo già praticando: scivolare lentamente lungo il clinamen. Una società che non vuole valutare e valutarsi in base al principio di Realtà è destinata all’estinzione.




Ilaria Salis, le case occupate e la destra becera

Ilaria Salis non mi è particolarmente simpatica perché fa scelte che non condivido. Pensa che antifascismo significhi menare i nazisti e che occupare case possa garantire il diritto a un’abitazione.

Però difendo la Salis quando viene trattata in modo indegno dalla pseudo-giustizia di Orban. Inoltre difendo il suo diritto alla libertà in quanto rappresentante di migliaia di elettori che condividono le sue posizioni.

Adesso vedo giornali e politici reazionari che vogliono che lei paghi 90.000 euro di affitto all’ALER perché un giorno di 10 anni fa è stata trovata all’interno di una casa occupata (ipotesi: 9.000 euro di mancato affitto all’anno). La richiesta di questi reazionari ha una sua logica che però loro stessi tradiscono non chiedendo la stessa pena pecuniaria per le decine di migliaia di occupanti abusivi di altrettante case popolari (ma questi reazionari sono gli stessi che parlavano sempre di “fumus persecutionis“?).

Di fronte a questa richiesta (che è arrivata persino dal Consiglio Regionale della Lombardia) la Salis e il partito per cui è stata eletta rispondono nel modo peggiore: rivendicano il diritto a lottare per la casa. E’ esattamente la risposta che desideravano i reazionari che la accusano. Ora possono scatenare un “dibattito” per dividere gli onesti (di destra) che pagano l’affitto e i disonesti (di sinistra) che non lo pagano.

Se io fossi un reazionario ringrazierei Fratoianni e C. per avere fatto quello che desideravo con ansia.
Se invece questi politici di sinistra avessero un minimo di intelligenza politica sceglierebbero un’altra strada.

Io al loro posto direi: “Cari accusatori, se un giorno di 10 anni fa la Salis è stata identificata in una casa occupata e poi nessuno si è mai più curato di vedere se l’occupazione continuava, significa che l’ALER ha abbandonato per 10 anni una casa che spettava a famiglie di lavoratori che ne avevano diritto. Questa è una grave colpa dell’ALER, non certamente della signora Salis che agli atti risulta essere stata in quella casa un solo giorno, quello dell’identificazione. Dato che non esiste alcuna documentazione che provi l’occupazione per altre giornate, occorre chiederle l’affitto di un solo giorno, senza però gli interessi maturati in 10 anni in quanto tale affitto non è mai stato chiesto prima (altra colpa dell’ALER)

Questa sarebbe la linea di difesa di qualunque garantista, in quanto nessun cittadino può essere accusato di colpe non dimostrate. Questa difesa sarebbe molto più politica della rivendicazione del “diritto a lottare per la casa“. Sarebbe molto più politica perché userebbe le armi dell’accusatore (paladino del garantismo) per accusare l’accusatore di mancanza di garantismo.

In generale credo che nei conflitti non si debba usare la propria logica, utile solo a ingigantire il conflitto, ma la logica dell’avversario per ritorcergli contro le sue stesse ragioni. Sarò un po’ vecchio stampo, ma per me questa si chiama Politica.




1977-1987: il Frisi, la scienza e la sua filosofia

III edizione – giugno 2024

Il mio primo ingresso al Liceo Scientifico Frisi di Monza fu alla fine di gennaio del 1977, nell’ultimo giorno utile per essere pagato d’estate. Visti i ritardi nelle nomine per i nuovi incarichi di insegnamento, avevo deciso di incominciare a muovermi autonomamente alla ricerca almeno di una supplenza.

Dopo aver lasciato il quotidiano ero a casa a non far nulla da oltre tre mesi perché il provveditorato di Milano ritardava le nomine. Le fece poi a maggio rendendole valide, per il 76/77, solo dal punto di vista giuridico. Telefonavi, andavi in Provveditorato e ti sentivi preso in giro: domani, dopodomani, non sappiamo, …A inizio ottobre avevo rifiutato una proposta di supplenza annuale al Liceo Scientifico di Melzo giuntami da una compagna di università che faceva la Preside incaricata e chi mi sapeva in attesa di impiego. Avevo rifiutato nella illusione di una imminente chiamata ufficiale perché quando inizio un lavoro mi piace finirlo.

Pace, la Battistina e Santanbrogio

In quei mesi, da brianzolo doc, mi sentii molto a disagio nel rimanere a casa non far nulla e mi resi conto di come la condizione di disoccupato corrompesse l’anima; di come il lavoro, con le sue scadenze, i suoi ritmi e i suoi doveri, fosse importante nell’equilibrio psico-fisico di una persona. Forse questa è una delle ragioni per cui, quando vedo in televisione i nostalgici del reddito di cittadinanza sognare di vivere nel limbo per tutta la vita mi vengono le convulsuioni.

Al Frisi fui ricevuto dal professor Pace nell’atrio davanti alla segreteria dove stava il tavolo di comando della Battistina (la capobidella). Pace faceva il vicepreside, ma non voleva sentir parlare di esoneri dall’insegnamento. Lo faceva e basta, come servizio alla comunità. C’era l’intervallo e mi fece impressione una cosa cui non ero abituato dopo l’esperienza di qualche anno prima all’ITIS di Sesto. Suonò la campana di fine intervallo e vidi gli studenti che, da soli, risalivano le rampe di scale e rientravano nelle classi. Per me era una cosa incredibile.

Due parole sulla Battistina. Credo che, dal punto di vista normativo e di inquadramento il capo-bidello non esistesse, ma si trattava di una funzione importante per il Frisi. Chiunque entrasse, dopo essere passato al controllo del custode Santanbrogio, saliva al primo piano e veniva accolto dalla efficientissima Battistina: fogli volanti, telefonate interne e tutto girava come un meccanismo ben oliato.

Alla sua sinistra c’era l’atrio del primo piano, di fronte la sala professori e, alla sua destra, la segreteria, la vicepresidenza e la presidenza. E già che parliamo di bidelli non si può tacere del custode. Era il padrone della scuola fuori dagli orari canonici, voce roca e potente, conosceva uno per uno tutti gli studenti e abitava in un mini appartamento di fronte alla guardiola del centralino, insieme ad una numerosa famiglia.

Curava la bellezza degli spazi esterni, i fiori e la sicurezza notturna con un paio di canilupo che presidiavano il territorio negli orari di chiusura. Erano due personaggi amati e rispettati da tutti: studenti, professori e restante personale. Se si vuole che una scuola sia in ordine è un bene prevedere un custode che ci abiti e che la senta come casa sua.

il Frisi del Preside Tedesco

Il Preside Tedesco in una delle espressioni esortative e dialogiche che lo contraddistinguevano

Dopo essere stato vagliato da Pace ebbi modo di conoscere il preside, il professor Alfonso Tedesco, un signore dai capelli grigi e dal viso rosso, distinto e pacato, professore di Italiano e Latino.

Tedesco era imparentato con la nobil famiglia dei Galbiati. Aveva sposato Felicetta, preside di scuola media, sorella maggiore di Enrica Galbiati, che allora insegnava lì nel corso B matematica e fisica. Era di origini emiliane, ma stava a Monza da una vita e, prima di fare il Preside, aveva insegnato allo Zucchi Italiano e Latino. Tedesco, con la collaborazione di Carlina Mariani, dirigeva l’UCIM (unione cattolica italiana insegnanti medi).

L’establishment reazionario monzese considerava Tedesco un debole perchè era di idee cattolico democratiche e dialogava con gli studenti. Alla distanza il suo ruolo è stato riconosciuto e l’aula magna del Frisi, grazie ad un comitato di cui ho fatto parte anche io, è stata intitolata al suo nome.

Nel primo incontro mi spiegò che dovevo sostituire la professoressa Lina Saini (che era alla quarta o quinta gravidanza), nel triennio del corso C e dunque avrei avuto Pace come collega oltre alla professoressa Canzi-Amirante di lettere. Non avevo mai visto un liceo dall’interno ma, negli anni di università, avevo dato lezioni private a tanti studenti del Frisi e dunque sapevo quasi tutto sul programma tradizionale di matematica che svolgevano: i problemi con discussione secondo il metodo di Tartinville, le disequazioni, il debordante programma di trigonometria e poi, ovviamente, l’analisi matematica.

in classe

Edo Scioscia durante la autogestione del 78

Senza che altri si offendano, ricorderò di quel primo anno quattro studenti: Maria Scognamiglio di terza, una ciellina underground della serie spiriti liberi, Camozzi, leader  del gruppo promotore (insieme ad Alberto Zangrillo, il futuro medico di Berlusconi, oggi primario al San Raffaele).

Il gruppo promotore raggruppava gli studenti di destra (filo Giornale di Montanelli). Poi c’erano in quarta Edo Scioscia leader incontrastato della assemblea, militante del MLS che, uscito dal Frisi avrebbe messo in piedi il Libraccio, e in quinta Adriano Poletti che più tardi averebbe fatto lungamente il sindaco di Agrate Brianza (e che è morto nel 2023).

Nonostante fossi un supplente diedi qualche taglio personale al programma di matematica e fui anche fortunato. Da anni il principale quesito dello scritto di matematica proponeva con una certa regolarità lo studio di funzione formata da una combinazione lineare di seni e coseni. Erano paginate di conti se si usavano metodi i tradizionali per via delle numerose disequazioni trigonometriche da risolvere.

Ma da fisico sapevo (per via della teoria delle onde armoniche) che una combinazione lineare di seni e coseni corrisponde sempre ad una sinusoide traslata. Feci loro la dimostrazione di quel teorema e insegnai a fare lo studio di funzione in un quarto d’ora (senza usare le derivate) invece che in due ore di conti. Alla maturità uscì proprio quello e non si corse il rischio di fraintendimenti perché gli studenti mi avevano voluto come membro interno. Fu un successone per quelli della C.

collegio docenti e gestione del Liceo

immagini di una assemblea durante la autogestione del 78

Ero supplente ma, per via dei trascorsi, non ero di quelli che si nascondono nel sottoscala, e dunque già al secondo Collegio iniziai ad intervenire.

Il Collegio del Frisi era formato da una agguerrita minoranza di docenti difensori della scuola tradizionale (Moretti, Derla, Spelta, Galbiati, Riva, …), da una maggioranza che noi docenti progressisti definivamo la palude e che amava il quieto vivere (il progresso senza avventure di memoria democristiana), da una minoranza di docenti di sinistra, di varia estrazione che si caratterizzavano per la ricerca delle innovazioni e per il dialogo con gli studenti (Russo, Longo, Cedrazzi, Meroni, Colonnetti, Tedesco, Stefanelli…).

Negli anni successivi la nostra pattuglia si rafforzò con l’arrivo di due colleghe di filosofia, colte e vivaci, provenienti dallo Zucchi (Fabbri e dell’Aquila) e della professoressa Mariagrazia Zanaboni (la Monaco, si diceva allora) di lettere.

Il Preside Tedesco, da buon democristiano, si appoggiava sul centro prendendo a prestito qualche idea della sinistra e puntando a smuovere il pachiderma, ma con giudizio.

articolo del Cittadino in ricordo del professor Tedesco

Dopo la fine dell’anno scolastico, ottenni ope legis la stabilizzazione e, poiché ero abilitato, l’incarico a tempo indeterminato mi  aprì immediatamente la strada all’ingresso in ruolo. Ero un prof engagé e dunque, l’anno successivo fui eletto collaboratore del Preside, consigliere di istituto e consigliere di distretto cose che mi impegnarono per un po’ di anni.

Nel 77/78 l’elezione dei collaboratori fu un vero successo. In passato la palude ci offriva, bontà sua, un posto nel listone unico, e a volte nemmeno quello. Proponemmo una lista contrapposta con tanto di programma e l’elezione ci premiò. Sfidammo la palude ad esplicitare il loro programma, ma non andarono oltre la sottolineatura dello spirito di servizio. Non arrivammo primi, ma comunque finì 2 a 2 tra lo sconcerto dei professori più conservatori. La stessa operazione la feci, anno dopo, appena arrivato allo Zucchi (liste separate, programma, esplicitazione del dissenso, …).

In quell’anno ci fu una specie di autogestione concordata, cioè con partecipazione libera dei docenti ad attività di approfondimento miste (autogestite o coordinate da docenti). Tedesco usò a piene mani me e Fiammetta Cedrazzi come ambasciatori del punto di vista degli adulti (fare le cose per bene, organizzarsi, garantire la democrazia, …).

Tra i docenti ci fu una netta spaccatura all’interno della maggioranza anche con qualche momento di tensione e si determinarono numerosi chiarimenti all’interno della palude tra chi partecipò e chi si schierò con la minoranza più conservatrice che aveva adottato la linea del boicottaggio.

intervento durante un collettivo – al mio fianco Edo Scioscia e sullo sfondo Colonnetti (Filosofia) e Claudio Fontana un alunno futuro docente di filosofia

L’autogestione funzionò bene grazie all’impegno di alcuni quadri del Movimento Studentesco che si impegnarono perché restasse il segno. Il clima politico tra gli studenti era variegato: MLS (dominante), FGCI, autonomia operaia, CL, destra (gruppo promotore). Non era ovvio che le cose andassero bene, ma riuscimmo a tenere insieme la maggioranza della scuola nonostante gli strepiti della parte più retriva del corpo docente.

Erano gli anni del sequestro Moro e anche sul fronte studentesco, come nel resto del paese, emergevano spinte centrifughe verso il mondo della autonomia, contiguo al terrorismo. Vista la mia storia precedente mi sentivo un po’ responsabile e dunque l’impegno per la democrazia e la difesa senza se e senza ma delle istituzione democratiche fu esplicito e con un grande coinvolgimento anche emotivo.

una revisione culturale profonda

In quegli anni si discuteva ancora del carattere gentiliano della nostra scuola e della necessità di superare la cosiddetta cultura retorico umanistica di derivazione crociano-gentiliana per puntare ad una scuola in cui ci fosse un mix tra la tecnologia (di cui si vedeva l’inizio di una grande fase espansiva) e il cosiddetto asse storico-critico-scientifico. Erano anni in cui, con riferimento alla scuola, non ci si limitava a discutere di modalità di gestione o di organizzazione ordinamentale, ma ci si appassionava e si entrava nel merito di modelli culturali di insegnamento. Tutte cose che ora sonoo scomparse e al loro posto c’è solo la autonomia malriuscita.

Non tanto per non essere da meno, ma perché ci credevo, iniziai un complesso e profondo lavoro di trasformazione delle mie convinzioni di fondo mettendo al centro dei miei studi tre cose.

lo studio critico delle scienze dure

Mi impegnai nel rivedere e ristudiare la scienza e in particolare la logica, la matematica e la fisica con approfondimenti di tipo universitario su questioni di base su cui non avevo riflettuto a sufficienza negli anni di università. Per poter insegnare bene e ad un certo livello bisognava che avessi le idee molto chiare sui fondamenti.

Per la fisica utilizzavo, per me e per gli studenti più vivaci intellettualmente, L’indagine del mondo fisico di Giuliano Toraldo di Francia (1916-2011), di cui trovate qui la recensione. Si tratta di un testo nato dalle lezioni tenute da Toraldo ad una scuola di specializzazione per filosofi interessati alla scienza presso l’Università di Firenze. Il testo percorre tutta la fisica con un occhio sempre attento alla storia e alle implicazioni conoscitive delle leggi ed è stato il modello a cui mi sono ispirato nello scrivere il mio corso di Fisica.

Nell’insegnare la matematica, sin dalla terza, tenevo presente che il punto di arrivo era l’analisi matematica e dunque c’era una attenzione agli aspetti di natura concettuale e ad una visione in cui la matematica, anche negli esercizi, fosse vista come una cosa dinamica.

la storia della scienza

Non ci può eessere comprensione dei fondamenti della scienza senza conoscere il contesto in cui sono nate e si sono sviluppate le teorie; dunque storia della scienza nei suoi aspetti sia descrittivi sia metodologici appoggiandomi, come riferimento, ai 7 volumi della storia del pensiero filosofico e scientifico di Ludovico Geymonat, ma conducendo poi approfondimenti di tipo monografico su questioni che mi stavano a cuore o che nascevano dalla esperienza di insegnamento (la storia della termodinamica, la evoluzione dello status dei tre principi della dinamica, la storia e il significato del concetto di campo, la nascita e la evoluzione del concetto di energia, …).

In quegli anni, oltre al geymonattone citato era disponibile, da Feltrinelli una bella collana di testi di storia della fisica che presentava in traduzione il meglio della produzione anglosassone (ne trovate un sunto in coda a questo capitolo).

la filosofia della scienza

Al di là della passione emersa negli ultimi anni di università, mi resi conto che ero profondamente ignorante su questioni fondamentali della cultura europea del 900 e in particolare sulla grande rivoluzione dell’emopirismo e del neo-empirismo (detto anche neopositivismo o empirismo logico).

Mi buttai a capofitto nello studio dei principali pensatori leggendone direttamente le opere e senza fidarmi di sunti o manuali: Moritz Schlick, Philip Frank, Hans Reichenbach, Rudolph Carnap, Friedrich Waissman, sir Karl Raymond Popper, Imre Lakatos, Paul Feyerabend, Orman Quine. Girando per librerie e bancarelle mi sono fatto una biblioteca invidiabile delle loro opere; alcuni testi di Reichenbach, in inglese (uno di calcolo delle probabilità e uno sulla freccia del tempo) li ho acquistati nel 91 a New York durante un viaggio negli USA.

Qualche studente della mia quinta M del 77/78 si ricorda, con sconcerto, l’utilizzo di temi su questioni di carattere metodologico per le valutazioni di fisica a partire da una frase criptica di Max Planck, Ludwig Boltzmann o Werner Heisenberg sulle quali veniva richiesto di sviluppare il tema. Naturalmente si trattava di problematiche che erano state sviscerate a lezione. Qualcosa del tipo “anche nella scienza, come nella religione, non si è beati senza la fede; la fede in una realtà esterna a noi” e via di questo passo.

Questo lavoro di riflessione e contatto sui classici è proseguito negli anni, sempre leggendo (per la scienza e per la riflessione metodologica), le opere originali. Mi dedicai a Boltzmann, Maxwell, Planck, Einstein, Heisenberg, Bohr, Poincarè. Anche in questo caso, oltre ai classici della UTET (Maxwell, Ampere, Newton, Laplace, Helmholtz, Kelvin), sulle bancarelle riuscii a recuperare le vecchie edizioni blù della Boringhieri e le precedenti della Einaudi scientifica (1945-1950). I classici della UTET li acquistai a condizioni molto favorevoli da Fiammetta Cedrazzi che, in uno dei suoi traslochi, aveva deciso di disfarsene.

Come scrisse Lakatos e amava ripetere Geymonat “la filosofia della scienza senza la storia della scienza è vuota, la storia della scienza senza la filosofia della scienza è cieca”. Aggiungo che entrambe servono a dare un senso e a comprendere i fondamenti della scienza, senza i quali non c’è conoscenza ma solo nozionismo.

Mi furono di stimolo anche la Enciclopedia Einaudi pubblicata proprio in quegli anni e un libro Einstein scienziato e filosofo facente parte di una collana (Scienziati e filosofi viventi, a cura di Schlipp) di cui in Italiano sono stati pubblicati solo i libri dedicati ad Einstein e Carnap.

I testi di questa collana iniziano tutti con un saggio di taglio autobiografico-scientifico-culturale scritto dall’interessato e, su di esso intervengono i più grandi scienziati e filosofi della scienza dell’epoca.

Alla fine l’interessato chiude rispondendo alle suggestioni e ai rilievi dei suoi critici. Quello su Einstein è un vero capolavoro e, per fortuna, è stato ristampato da Boringhieri.

Un discorso a parte riguarda la collana di Filosofia della Scienza della Feltrinelli curata da Ludovico Geymonat che avevo conosciuto nel 1969 in occasione dell’esame di filosofia della scienza (Ernest Nagel, la struttura della scienza – problemi di logica nella spiegazione scientifica). Di Nagel è disponibile (presso Boringhieri) anche un bel libriccino dedicato al teorema di Gödel, il teorema dedicato alla indecidibilità delle proposizioni rimanendo all’interno di una medesima teoria (si può dimostrare che la matematica sia esente da contraddizioni?).

Ricominciai da quel malloppo di 650 pagine senza più l’ansia di doverci fare sopra l’esame e mi misi alla ricerca degli altri volumi della collana (ne ho una ventina e ne trovate l’elenco alla fine del capitolo). Al Frisi con gli studenti più bravi lavorammo su un testo di Enrico Bellone I modelli e la concezione del mondo nella fisica moderna da Laplace a Bohr e sulla Filosofia dello spazio e del tempo di Hans Reichenbach tutto dedicato alle implicazioni della teoria della relatività nella teoria della conoscenza.

Lo studio critico della scienza mi ha abbastanza trasformato facendomi rivedere e approfondire questioni come la verità, la razionalità, il fallibilismo; ho abbandonato definitivamente l’idea del socialismo scientifico e del marxismo salvandone solo la capacità di leggere e interpretare la storia.

Se ripenso a quegli anni mi viene da sorridere al pensiero che i professori più rozzi e le famiglie monzesi più retrive mi considerassero un pericoloso rivoluzionario comunista. Mi nutrivo della cultura europea e statunitense più avanzata e cercavo di farla apprezzare agli studenti, ma in tutto il mondo il maccartismo è duro a morire e poi, per certa gente, la cultura è una cosa che va presa solo in piccole dosi perché potrebbe fare male.

qualche ricordo frisino

i rientri pomeridiani

Carletto Pozzoli e Dario Giove da ragazzi prima di diventare dei fisici con una bella carriera alle spalle

Fuori della scuola, si fece a casa mia anche un piccolo seminario con tre studenti (Dario Giove, Carletto Pozzoli, Elisabetta Galbiati) che, usciti dal Frisi si iscrissero a Fisica. Leggevamo e discutevamo insieme le Lectures on Physics di Feynman e io cercavo di trasmettere loro il modo giusto di studiare all’università, quello che a me non avevano insegnato.

Per fortuna nella scuola non c’erano tutte quelle forme di sindacalizzazione al ribasso che sono emerse negli anni successivi, quando andai a lavorare nel privato. Così se si faceva qualche ora in più nel pomeriggio la si faceva gratis fermandosi per un panino e una partita a Tressette al circolino di via Sempione.

Di pomeriggio facevo due attività; un po’ di laboratorio di Fisica, nel laboratorio del III piano, con esperienze avanzate ma di tipo dimostrativo e la discussione critica di saggi sulla scienza utilizzando la disponibilità della biblioteca che, sull’argomento, era ben fornita. Queste attività erano aperte anche ad alunni di altre classi. Disporre di una pompa a vuoto, di rocchetti di Rumkhorf, di tubi a vuoto permette di fare cose molto belle e suggestive sia dul fronte dei raggi  X e catodici, sia su quello della termodinamica come far bollire acqua a temperatura ambiente, osservare che mentre bolle si raffredda, …

Nei primi anni, nel corso M, ricevevo in III gli studenti che avevano fatto il biennio alla succursale di Villasanta e che venivano da tutta la zona a nord di Monza sino a Casatenovo. Mi piacevano quelle classi di brianzoli doc spartani, concreti e anche bravi. Cosa del tutto eccezionale, eravano in ben 5 docenti maschi:  Meroni, Colonnetti, Cereda facevano la triade e poi c’erano anche Fontana (educ) e Bevilacqua (inglese) che, dopo le dimissioni di Pace, era diventato vicepreside.

La 5M era nell’aula di fronte alla Presidenza (dove ora c’è la segreteria amministrativa) e il povero Tedesco si prese anche qualche scherzone goliardico da parte dei più sciamannati (leggi Fiorenzuoli): per esempio un ordine di pasticcini fatto passare come ordine della Presidenza regolarmente consegnati e rimasti da pagare.

Poi sono passato nel corso L e, nel giro di qualche anno, ho incominciato a sentirmi sottoutilizzato. Tedesco era andato in pensione e la gestione successiva, un po’ sciatta e improntata alla pura amministrazione dell’esistente, non mi entusiasmava.

il nemico del Papa

dal sito de Il Cittadino di Monza e Brianza

Nel 1983 sono salito agli onori del pulpito di Villasanta, anche se l’ho saputo solo qualche anno dopo. Il 21 maggio ci fu la visita di papa Woytila all’autodromo di Monza. I presidi delle scuole monzesi decisero che le lezioni si sarebbero svolte regolarmente pur consentendo una sorta di via libera alle assenze studentesche.

In una classe avevo programmato da tempo un compito in classe e non lo rinviai pur chiarendo che chi l’avesse saltato, come facevo solitamente, non avrebbe avuto problemi, salvo rifare il compito. Era la stessa linea che usavo per le assenze politiche, sei libero di scioperare o andare in manifestazione ma poi il compito lo rifai.

A distanza di anni mi è stato riferito che don Bruno Perego, coadiutore del Parroco all’oratorio maschile di Villasanta e organizzatore dei ciellini al Frisi, fece, dal pulpito, in occasione di una messa domenicale, una filippica contro di me: pensate …  un professore, dirò di più … un nostro concittadino, ha impedito che … Sembra che un bel po’ di persone abbiano pensato a Meroni, più noto di me in paese. Mah, robe da chiodi.

Mentre per fisica rinviavo ai classici che ho citato, e solo episodicamente mi avvalevo di miei appunti, per matematica (geometria analitica, goniometria, elementi generali di analisi) avevo messo a punto delle dispense abbastanza complete e che ho ancora, rigorosamente scritte a mano e che venivano fotocopiate usufruendo del monte fotocopie di cui ogni classe disponeva. Lo stesso valeva per la correzione dei compiti in classe (gli antenati di quello che trovate ora sul sito).

gli esami di maturità

La prima parte dell’estate la si passava facendo gli esami di maturità o da membro interno o da commissario esterno. Quell’esame era una cosa utile per la formazione degli studenti e per la cultura dei docenti che avevano l’occasione di andare in giro per l’Italia e farsi una esperienza diretta sul funzionamento della nostra scuola (conoscenza di colleghi con storie e culture diverse, scambio di esperienze).

Per questa ragione non mi sono mai tirato in dietro; ho fatto più volte il membro interno e sono stato da esterno a Milano, Bergamo e Roma. Un anno avemmo come presidente un preside di scuola media, il professor Bertè, il padre di Loredana Bertè e di Mia Martini, poco generoso nei giudizi su quelle figlie che per lui erano delle scapestrate di cui si vergognava.

In quegli anni la prova scritta di matematica aveva un testo con proposta di 4 quesiti e veniva richiesto di affrontarne almeno due. Un problema di geometria analitica orientato all’analisi, due problemi di analisi sullo studio di funzioni e una domanda di teoria. La domanda di teoria era il salvagente dei somari che piazzavano il libro di testo da copiare in tutti i nascondigli possibili dei servizi igienici.

Nel 78 la domanda di teoria riguardava il teorema sulla “continuità delle funzioni derivabili“. Se una funzione ammette in ogni suo punto retta tangente, non può fare salti o avere spigoli. Ma lo studente che aveva letto frettolosamente lo Zwirner nei servizi igienici ci mise del suo, scambiò l’ipotesi con la tesi e scrisse “se una funzione è continua allora è derivabile” e passò a metà classe l’enunciato sbagliato con la dimostrazione (copiata) giusta.

Per capire l’errore basta pensare che se una funzione fa un angolo è continua ma lì non ammette retta tangente. E’ un controesempio semplice. Ero stato nominato commissario esterno  dopo lo svolgimento della prova e dunque non avevo assistito al fattaccio, ma scripta manent e mi ritrovai a dover valutare compiti scritti fotocopia l’uno dell’altro con un doppio errore: errore nell’enunciato del teorema richiesto, errore logico nel presentare una dimostrazione che non dimostrava quanto dichiarato ma il teorema inverso. Non fui tenero con quella classe di un liceo milanese.

l’informatica

Passavano gli anni (1986) e sentivo il bisogno di fare qualcosa di diverso; avevo iniziato ad introdurre a scuola l’Informatica (c’erano l’ MSDOS e i primi Pc) e l’occasione mi fu data dal reincontro con Oskian che non sentivo più dai primi mesi del 77.

Ci rivedemmo in occasione di una vicenda, per lui,  molto spiacevole e per me incredibile. Dopo che ce n’eravamo andati da AO lui era rimasto formalmene proprietario della Grafica Effeti dove si stampava il Quotidiano dei Lavoratori. Lo era diventato in quanto segretario politico.

Alla Grafica, che stampava il QdL per conto di Democrazia Proletaria ci fu un incidente sul lavoro in cui un tipografo ci rimise la mano. C’erano, al di là della vertenza in sede civile, anche aspetti di natura penale che ricaddero su di lui. Era tra lo sconcertato e l’incazzato perchè il gruppo dirigente di DP che gestiva la tipografia aveva deciso di fare il pesce in barile.

Lui era alla ricerca di qualcuno disposto a testimoniare che, al di là dell’aspetto formale sulla proprietà, dalla primavera del 77 non c’entrava più nulla con la Grafica Effeti. In quel periodo era a Roma e faceva il vicesegretario del Pdup. Non so come riuscì a mettersi in contattocon me e così ci si rivide e testimoniai su quegli aspetti. Tutti gli altri erano spariti e i responsabili tacevano per convenienza.

Aveva una società che stava passando dalla attività di consulenza a quella propriamente informatica (la SISDO) e mi propose di lavorare con lui. Se ne parla ampiamente nel prossimo capitolo. Eravamo a metà degli anni 80 e incominciai, un paio di pomeriggi alla settimana, ad andare a MIlano, in viale Bianca Maria, pagato sostanzialmente per studiare (un po’ di informatica e un po’ di marketing).

Nel corso dell’86 incominciò ad introdurmi più a fondo nell’azienda che, allora, si occupava di Informatica gestionale su piattaforme PDP-VAX della Digital. Avevo compiuto i 40 anni e mi dissi che quello era l’ultimo momento per mollare tutto e cambiare. Fu così che, alla fine dell’anno scolastico 86/87 diedi le dimissioni dalla scuola, per la seconda volta, ed iniziai a lavorare nel privato. Ma quella non è stata l’ultima volta in cui ho cambiato tutto.


Fiammetta Cedrazzi (1941-2019) – per finire con un ricordo

A maggio 2019 è venuta a mancare un pilastro nella mia storia di docente al Frisi; era andata in pensione nei primi anni duemila.

Fiammetta è stata una protagonista di una fase irripetibile della mia vita e della vita del Frisi e parlo degli anni dal 1977 alla metà degli anni 80. In quel momento nel nostro liceo c’erano una serie di persone diverse per carattere per sensibilità politica e per modelli culturali di riferimento, ma si respirava in questa scuola il sapore della cultura vera, la passione nei confronti dei giovani, il senso di cosa volesse dire essere un docente.

Era finita l’epoca iniziata nel 68 e continuata in tono sempre minore e sempre con maggiore settarismo fino alla metà degli anni 70. Ne incominciava una nuova in cui si confrontavano il desiderio di cambiamento nella democrazia con le pulsioni violente dell’Autonomia e del nascente terrorismo. Quello era il contesto di contorno in cui si sviluppava il nostro desiderio di fare scuola per trasmettere una visione critica della cultura e della vita. Ma è sbagliato dire trasmettere, si deve dire costruire insieme.

Mi univa a Fiammetta la passione per le scienze dure e al di là di esse ciascuno di noi proseguiva per la sua strada, io più verso la filosofia e la storia, lei più verso la letteratura e l’arte incluse la musica e il balletto. Così quelli furono anni di studio approfondito, molto più approfondito di quello degli anni universitari, che pure non erano stati uno scherzo. Di certo né lei né io facevamo parte di quella tipologia di professori che entra in classe e dice Aprite il libro a pagina 147. Oppure Brambilla vieni alla lavagna e fai questo esercizio.

Mi ha sempre colpito il fatto che desse del lei agli studenti e addirittura, come è giusto dal punto di vista grammaticale del loro quando si passava al plurale. Mi sembrava un po’ un vezzo e mi chiedevo sempre come ci si sentisse ad essere dall’altra parte. Io mi sarei sentito a disagio perché già respiri un dislivello culturale ed esperienziale immenso e in più ti viene detto di stare al tuo posto.

Prima di tutto veniva la scuola con le sue regole, il senso del dovere, la sua serietà. Poi veniva tutto il resto, ma tutto il resto era filtrato attraverso la metodica del rigore e dell’esercizio critico della ragione: perché si fa così? Cosa c’è sotto? Quali sono i gradi di libertà? Si può operare diversamente? Cosa succede ad una teoria assiomatica se cambio un postulato? Qual è la dinamica della conoscenza scientifica? Alcuni elementi del carattere di Fiammetta venivano dal fatto che da bambina era cresciuta dentro il carcere minorile Beccaria di cui il padre era il direttore.

In quegli anni 70 e 80 non era vietato parlare d’altro, ma quel parlare d’altro doveva avere un senso e noi docenti di matematica e fisica eravamo in maggiore difficoltà rispetto ad altri docenti (come quelli di lettere) sempre presi dalla necessità di affrontare la miriade di questioni legate all’essere docenti di scienze dure in un liceo scientifico nato come figlio di un Dio minore del liceo classico, mentre la società che non cambiava i suoi ordinamenti ci richiedeva di essere protagonisti e di costruire dei profili di uscita con giovani colti e critici, maturi, ma anche tanto preparati sul versante scientifico in termini di competenze.

Tutto questo ci rendeva un po’ marziani per via della necessità di non perdere mai tempo e contemporaneamente, quando guardavamo negli occhi i nostri studenti e le nostre studentesse, capivamo che avevano voglia e bisogno di parlare anche di altre cose e allora usavamo i ritagli di tempo o i pomeriggi, tanto in quegli anni non si usavano ancora certi orridi neologismi come attività aggiuntive funzionali o non funzionali all’insegnamento. Si restava a scuola perché era opportuno farlo.

Mi spiace che il concorso che istituì la figura del dirigente scolastico non sia venuto fuori in quegli anni, ma solo nel 2004, perché Fiammetta sarebbe stata un’ottima dirigente, anzi una dirigente eccezionale, capace di stare sui tre denti della forchetta su cui dovevamo riuscire a stare in equilibrio: la organizzazione della scuola, la leadership educativa e la innovazione.

Invece in quegli anni la scuola italiana era ancora la scuola delle circolari del ministero con scritto si trasmette per opportuna conoscenza e norma, del preside come prolungamento finale di una organizzazione centrale che partiva da Roma e così Fiammetta non fu ritenuta degna, dai colleghi, nemmeno di fare la vicepreside anche se, era del tutto evidente, che sarebbe stata una grande vicepreside, naturalmente per occuparsi della direzione di marcia della scuola e non della sostituzione dei colleghi assenti con le supplenze brevi o della firma dei permessi di entrata in ritardo. Così al più potevamo aspirare a fare i consiglieri del principe, tenuti in panchina e consultati di nascosto (e lo abbiamo fatto).

Sul piano umano e personale era una persona molto riservata e, d’altra parte, lo sono anch’io, tanto è vero che ormai mi chiamano nonno orso. Quindi non me la sento di avanzare critiche sulla sua riservatezza che l’ha indotta ad una sorta di chiusura a riccio. Mi spiace tantissimo come si sia svolta la fase finale della sua vita, molto marcata dalla solitudine e dalla chiusura in se stessi e io penso di essere stato un po’ vigliacco a non farmi vivo e ad obbedire alla sua richiesta di non voler vedere nessuno intorno. D’altra parte confesso che il cancro mi mette sempre a disagio nel rapportarmi con chi ne viene colpito. La mia struttura razionale si ribella e se la unisco alla mancanza di un credo nell’aldilà misuro un senso di impotenza e di rabbia.


La pagina con l’indice della mia autobiografia da cui potete scegliere i capitoli da leggere


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Appendice: la collana giallo ocra della Feltrinelli


Feltrinelli – la collana di Filosofia della scienza curata da Geymonat

Willard Van Orman Quine, Manuale di logica | Ettore Casari, Lineamenti di logica matematica | Ludovico Geymonat, Filosofia e filosofia della scienza | Carl G. Hempel, La formazione dei concetti e delle teorie nella scienza empirica | Evert W. Beth, I fondamenti logici della matematica | Ettore Casari, Questioni di filosofia della matematica |
Maria Luisa dalla Chiara Scabia, Modelli sintattici e semantici delle teorie elementari | Emil Ungerer, Fondamenti teorici delle scienze biologiche | M.E. Omelyanovskij, V.A. Fock e altri, L’interpretazione della meccanica quantistica. Fisica e filosofia in URSS | Enrico Bellone, I modelli e la concezione del mondo nella fisica moderna. Da Laplace a Bohr | Imre Lakatos e Alan Musgrave (a cura di), Critica e crescita della conoscenza | Hans Reichenbach, Filosofia dello spazio e del tempo | Ludovico Geymonat, Scienza e realismo | Pietro Redondi, Epistemologia e storia della scienza | Imre Lakatos, Dimostrazioni e confutazioni. La logica della scoperta matematica | Mary B. Hesse, Modelli e analogie nella scienza |

e quella di bianco e viola di Storia della scienza curata da Paolo Rossi

Marie Boas, Il Rinascimento scientifico 1450/1630 | Alistair C. Crombie, Da S. Agostino a Galileo. Storia della scienza dal V al XVII secolo | E. J. Dijksterhuis, Il meccanicismo e l’immagine del mondo. Dai Presocratici a Newton | J. L. E. Dreyer, Storia dell’astronomia da Talete a Keplero | Yehuda Elkana, La scoperta della conservazione dell’energia | John C. Greene, La morte di Adamo. L’evoluzionismo e la sua influenza sul pensiero occidentale | A. Rupert Hall, Da Galileo a Newton (1630/1720) – La Rivoluzione scientifica 1500/1800. La formazione dell’atteggiamento scientifico moderno | Mary B. Hesse, Forze e campi. Il concetto di azione a distanza nella storia della fisica | Max Jammer, Storia del concetto di forza. Studio sulle fondazioni della dinamica | Max Jammer, Storia del concetto di massa nella fisica classica e moderna | Morris Kline, La matematica nella cultura occidentale | Alexandre Koyré, Dal mondo chiuso all’universo infinito | Paolo Rossi, I filosofi e le macchine 1400/1700 | Philip P. Wiener, Aaron Noland , Le radici del pensiero scientifico |


 




Le riforme sospese tra opposti estremismi …

e intanto si smarrisce il senso delle istituzioni

Che cosa sono le istituzioni? La risposta a questa domanda basica stenta ad emergere dalla foschia della tempesta verbale, oggi attraversata dai lampi del premierato e dell’autonomia.

Nell’immaginario collettivo, le istituzioni sono “palazzi”, “sedi”, “poteri”: il Quirinale, Montecitorio, Palazzo Madama, Palazzo Chigi, Palazzo della Consulta… Palazzi occupati e, in democrazia, occupabili e contendibili. Ma l’essenza delle istituzioni è altra.

Esse sono, innanzitutto, le regole rapprese e solidificate della convivenza civile e le reti di imbrigliamento del Potere politico, che tende per natura sua a franare sulle strade della società civile. Le regole addensano e formalizzano i costumi – l’etica storica – la morale individuale, il diritto, nella sua duplice faccia di moral suasion e physical constriction.

Sono il prodotto di un contratto sociale, che è, a sua volta, la risultante effettuale del conflitto e della cooperazione. Sono espresse nel formalismo del linguaggio giuridico, ma non perciò riducibili a formalismi o a galateo. Esse sono la forma di ogni società. Senza la quale, o la società esplode in mille conflitti o viene compressa da un potere dispotico. Gli esempi non mancano, né quelli del primo caso né quelli del secondo.

Il Nuovo Titolo V: una riforma necessaria e mal decisa

Il primo corollario logico di questo discorso è che le regole-istituzioni si definiscono insieme da parte di tutti i soggetti politici. Sulla politics e sulle policy ci si può scontrare, a lungo e ostinatamente, ma sulle regole occorre accordarsi.

Se non lo si fa, politics e policy vacillano. Naturalmente, sarebbe ingenuo ignorare che è fatale tentazione dei gruppi umani quella di proporre regole favorevoli agli interessi della propria parte.

Si sta seduti al tavolo delle regole, ma si guarda a lato, per prevedere se esse favoriranno i miei interessi o no. Tutti i soggetti seduti al tavolo sviluppano questo fisiologico approccio egoistico.

Si deve però prendere atto che nel sistema politico italiano questa fisiologia è divenuta patologia. C’è una data di inizio: l’8 Marzo 2001 il Senato ha approvato con la Legge Costituzionale n. 3/2001 la riforma del Titolo V della Costituzione – artt. 114-132 -, entrata in vigore, a seguito di referendum confermativo, l’8 novembre 2001.

La ratio della riforma era cogente da tempo: adeguare il dettato costituzionale all’istituzione delle Regioni, avvenuta vent’anni dopo il varo della Costituzione. In forza del nuovo dettato, la Repubblica non si identificava più con lo Stato, era più larga. L’art. 114 pone sullo stesso piano i Comuni, le Province, le Città metropolitane, le Regioni e lo Stato quali entità costitutive della Repubblica.

Alle Regioni è riconosciuta ampia autonomia statutaria, legislativa, organizzativa e finanziaria. È la base dottrinale dell’autonomia differenziata. Il Nuovo Titolo V muoveva dal riconoscimento che nel Paese esisteva una questione meridionale storica, ancorché irrisolta, ma che stava montando, anzi era già esplosa, anche una questione settentrionale, di cui la Lega di Bossi era l’epifenomeno e la rappresentanza politica.

Era la presa d’atto che il sistema delle Regioni, nato in ritardo, rispecchiava, senza essere riuscito a ricomporla, la frattura scomposta del Paese. Le Regioni del Nord erano – sono – in grado di governare meglio dello Stato centrale, quelle del Sud lo facevano – e continuano a farlo – sempre peggio. Devolution, deleghe, autonomia differenziata avevano e hanno un solo senso: una gara pacifica tra loro e con l’Amministrazione centrale tra chi è più capace di amministrare le risorse pubbliche date. Ottimo!

Ma tale imponente riforma è stata approvata dal solo centro-sinistra. Il quale, nel tentativo di sottrarre in extremis, come nel 1994, il federalista Bossi alle spire avvolgenti di Berlusconi, ha perpetrato uno smaccato uso/abuso politico di riforma. Da allora in avanti, prima Berlusconi e poi Renzi hanno provato a varare riforme della forma-governo, sempre per via unilaterale.

Sottoposte a referendum confermativo, ha sempre vinto il NO. Anche perché l’invenzione del referendum confermativo avente per oggetto questioni costituzionali complicate, tradotte in quesiti formulati in linguaggio astruso, non è stata felice. Così la posta in gioco finisce per essere, ogni volta, il consenso non all’oggetto del referendum ma al soggetto che lo ha proposto, cioè al governo di turno.

La politica, terra desolata

Venendo alla presente stagione e al cacofonico suon di lei, anch’essa si annuncia incapace di riforme istituzionali come le precedenti. E per le stesse ragioni. Perché il metodo adottato è quello dell’unilateralità settaria, al punto di intersezione di due arroganze: quella di chi governa, che fino a ieri si oppose strenuamente alla riforma del Titolo V e alla riforma Renzi, in nome della difesa della democrazia; quella dell’opposizione, che contesta, sempre nel nome della suddetta democrazia, le soluzioni, che a suo tempo propose con indomita arroganza.

Gli elettori assistono allibiti e disamorati a tale indecente spettacolo, mentre le curve tifose dei costituzionalisti embedded fanno la ola sui giornali e sulle TV.  Un dramma per il Paese, trasformato dai partiti in un melodramma, in cui si recitano tenzoni all’arma bianca e scorre, invece che sangue, sugo di pomodoro.

Così, chi prova a ragionare nel merito delle questioni, come Stefano Ceccanti, si becca da Travaglio l’insulto di inciuciador. E l’opposizione, con annesse Italia Viva e Calenda, chiama a raccolta oves et boves et universa pecora, allo scopo di far cadere il governo. Per salvare l’Italia. Nientedimeno! In realtà, per tentare disperatamente di accumulare macigni sulla strada del governo.

Nessuna discussione di merito. E così ai partiti di governo viene offerto un ottimo alibi per non discutere, a loro volta, dei buchi neri dei loro raffazzonati e frettolosi progetti di riforma. Ma si può dare loro torto, se le forze di opposizione non sono realmente interessate alle riforme? Giacché, se loro importasse seriamente, forse scoprirebbero che l’autonomia differenziata e, ancor di più, il federalismo regionale – cioè la responsabilità impositiva e di spesa – sono la cura della frammentazione del Paese, non la malattia; e che il premierato è la cura del perenne non-governo. Lo hanno sostenuto per anni.

Viene in mente, per analogia, quel che Salvemini diceva causticamente dei cattolici durante il periodo del Fascismo: Quando sono al potere invocano la verità, quando sono all’opposizione invocano la libertà.

Nessuna meraviglia, a questo punto, che almeno a metà del Paese questi opposti estremismi suonino alieni. Così la politica si presenta sempre di più come una waste Land, una terra desolata. E il dibattito politico? Interpellato, oggi Macbeth direbbe che è un racconto narrato da un idiota, pieno di strepiti e furore, significante niente.

 




1974-1976: la parabola di AO

III edizione giugno 2024

c’eravamo tanto amati

Il periodo che mi vide operare dentro il gruppo dirigente di una organizzazione della sinistra rivoluzionaria è il più difficile da raccontare perché, da allora, sono cambiato molto ed è stata la riflessione su quella esperienza a determinare la radicalità del mio cambiamento: non più rivoluzionario, non più comunista, non più fiducioso (come una volta) nella possibilità che le cose si possano cambiare attraverso l’impegno nella lotta politica.

Penso che siano necessari impegni di altro genere sul fronte educativo e della testimonianza e che comunque il pedale su cui spingere non sia quello della lotta di classe.

Perché se è vero che le classi sociali esistono e influenzano il procedere della storia, non è vero che esista una classe destinata a svolgere un ruolo palingenetico (il proletariato industriale) ed è discutibile, alla luce dei mutamenti sopravvenuti nel modo di produrre e di consumare nella parte finale del XX secolo e nei primi decenni del XXI, che in estensione e consapevolezza si possa continuare a parlarne come di una classe sociale.

Mi sono ritrovato ad essere più attento ai cambiamenti che vengono da lontano, che procedono lentamente e che determinano le scelte importanti nella vita nelle persone, come quelli che si determinano nella scuola. Cosa farò da grande? Qual è il mio stile di vita? Cosa penso  dei rapporti tra le persone? Per cosa vale la pena di impegnarsi?

Nel giro di pochi mesi, dall’estate del 76 ai primi mesi del 77 ho vissuto  una trasformazione molecolare molto profonda che non ha riguardato solo la politica e non principalmente la politica. Ho cambiato stile e modo di vita; sono molto più solitario e disincantato di un tempo, ho bisogno del rapporto fisico con la naturalità (dai boschi, ai fiumi, alla autoproduzione agricola; sono sempre una persona appassionata e disposta a giocarsi per le cose per cui vale la pena di vivere. Sono disincanto nei confronti di tutti i miti, ma dico sì agli ideali.

Marciavamo con l’anima in spalla nelle tenebre lassù
ma la lotta per la nostra libertà il cammino ci illuminerà.
Non sapevo qual era il tuo nome, neanche il mio potevo dir
il tuo nome di battaglia era Pinìn e io ero Sandokan.
Eravam tutti pronti a morire ma della morte noi mai parlavam,
parlavamo del futuro, se il destino ci allontana
il ricordo di quei giorni sempre uniti ci terrà.
Mi ricordo che poi venne l’alba, e poi qualche cosa di colpo cambiò,
il domani era venuto e la notte era passata,
c’era il sole su nel cielo sorto nella libertà.

Sono i versi della canzone di Armando Trovajoli che fa da tormentone a c’eravamo tanto amati di Ettore Scola (la trovate su Youtube). Il film me lo sono rivisto e mi ha dato la forza per terminare il pezzo della autobiografia più difficile da scrivere (insieme a quello sulla storia di mio padre), quello del c’eravamo tanto amati.

Chi siamo stati:  Gianni, Antonio o Nicola? Il marpione, il proletario dalla fede indistruttibile o l’intellettuale sognatore, o forse tutti e tre insieme? Sentiamo cosa dicono:


– Gianni: Certo che la nostra generazione ha fatto proprio schifo.
– Nicola: Piuttosto che inseguire un’improbabile felicità è meglio preparare qualche piacevole ricordo per il futuro.
– Antonio: Quando si rischia la vita con qualcuno ci rimani sempre attaccato come se il pericolo non fosse passato mai.
– Nicola: Credevamo di cambiare il mondo invece il mondo ha cambiato a noi.
– Antonio: 306 seggi [della DC], e chi se lo poteva immaginare?
Gianni: Ti devo dire una cosa.
– Antonio: E che me vòi di’, lo so! Abbiamo sottovalutato un sacco di fattori che hanno concorso a mettercelo nel chiccherone: i soldi americani, la paura di Stalin, i preti, le monache, le madonne piangenti, la paura dell’inferno…
Gianni: Io e Luciana ci vogliamo bene. È questo che ti volevo dire.
– Antonio: Ci vogliamo bene… in… che senso?
Gianni: Ci amiamo

le cose positive che abbiamo fatto o che abbiamo contribuito a fare

Il giudizio positivo che dò su quel periodo non riguarda la sola Avanguardia Operaia, ma tutti i movimenti e le organizzazioni che, dal 68 al 75, riuscirono a determinare innovazioni e trasformazioni sul piano del costume, un riassestamento dei rapporti sociali a favore dei meno agiati, mutamenti nella legislazione e nelle istituzioni, cambiamenti nella Chiesa Cattolica e un generale spostamento a sinistra nel paese. Pensate a Pio XII e confrontatelo con Papa Francesco per farvi un’idea di come è cambiato il mondo.

Penso alla fine dell’autoritarismo che governava le piccole e grandi istituzioni (dalla famiglia all’esercito), al contratto dei metalmeccanici del 69 cui seguirono, in rapida successione, quelli delle altre categorie, alla affermazione dei diritti nelle fabbriche e nelle scuole, alle trasformazioni nella magistratura, alla abolizione dei manicomi, alla trasformazione delle carceri, alla democratizzazione nell’esercito e nei corpi di polizia, alla crisi del sindacalismo autonomo a favore di quello confederale, alla forte spinta verso l’unità sindacale, alla tutela della donna.  Tutte queste trasformazioni sono state opera nostra anche se, ovviamente, non solo nostra. E dunque le affermo con l’orgoglio se non del protagonosta, almeno del comprimario.

Tutto è iniziato da un processo generale e generazionale che ha riguardato l’intero mondo occidentale e i paesi dell’est; poi c’è stata una particolarità italiana dentro la quale abbiamo operato noi che, dopo il 68, facemmo la scelta di andare nei gruppi.

I senzaMao e la lotta rivoluzionaria per le riforme

Il libro che Silverio Corvisieri ha scritto sul finire del 1976 quando ha lasciato Avanguardia Operaia da sinistra per poi approdare, come molti di noi, al PCI – io almeno me ne sono andato dalla parte giusta che era quella della difesa delle istituzioni democratiche

Ho provato a rileggere alcuni dei documenti di allora e mi riesce difficile farlo perché rimango sùbito colpito sfavorevolmente dalla astrattezza di certe problematiche, del volersi ad ogni costo ritagliare un ruolo che in realtà non avevamo.

Ho riletto con attenzione I senzaMao del mio direttore al Quotidiano dei Lavoratori, Silverio Corvisieri, soffermandomi in particolare sul suo intervento al IV congresso di Avanguardia Operaia, quello della trasformazione di AO in un partito, anche se allora era vietato chiamarlo così.

Silverio ha il pregio della brillantezza giornalistica anche quando tratta di cose pesanti come le disquisizioni intorno al centralismo democratico, al rapporto tra il partito e le masse, alla definizione di proletariato nel contesto dell’Italia degli anni 70. Ma non mi ci ritrovo per niente sul piano razionale; allora non mi ci ritrovavo senza capire bene il perché; avevo l’impressione che ci fossero delle forzature.

Il titolo, I senzaMao, deriva dal fatto che in quell’anno (il 1976) dopo la botta delle elezioni politiche (a giugno) ci fu la morte di Mao (a settembre) ad accrescere il disorientamento. Il vento dell’est aveva smesso di soffiare e noi, presto, saremmo stati in balia di quei matti della autonomia e dei terroristi conseguenti.

Per converso Silverio mi ha fatto tornare alla mente il tema della lotta rivoluzionaria per le riforme, una definizione di comodo che avevamo inventato per spiegare che eravamo per la rivoluzione socialista ma che, nel contesto dato, non era pensabile ragionare in termini di insurrezione.

Avevamo il doppio problema di smarcarci dagli spontaneisti del tutto e subito e, contemporaneamente, dire che non ci piacevano, perché troppo istituzionali e codiste, le posizioni di quelli del giro del Manifesto-PDUP, i togliattiani di sinistra impegnati nel tentare di spostare a sinistra il partito comunista.

Mi pare emblematico che si tratti di una questione che non interessa più a nessuno, a differenza dell’ottenimento di risultati di trasformazione degli assetti istituzionali. Anche io rimasi affascinato dalla idea di fare la rivoluzione attraverso le riforme leggendo nell’estate del 68 un libro di Andreè Gorz, il socialismo difficile. Gorz era il vicedirettore di Les Temps Modernes, la rivista di Sartre. Ne ho parlato nel capitolo dedicato al 68 e ci ritorno sopra volentieri.

Quella di Gorz era la corrente dei riformisti rivoluzionari. I riformisti rivoluzionari rifiutavano l’esperienza del socialismo reale e vedevano in un movimento di massa in grado di imporre riforme strutturali il nuovo modo di arrivare al socialismo nei paesi dell’Occidente. In Italia, il maggiore esponente di questa linea di pensiero era Bruno Trentin (insieme a Lelio Basso) e si trattava di una delle tante correnti di pensiero di matrice luxembourghiana che giravano per l’Europa.

Quel libro lo discussi passo dopo passo con Oskian e Claudia Sorlini che ne criticavano la insufficienza in nome del leninismo e, alla fine di quelle discussioni, decisi di entrare in AO: vi trovai belle persone, alcune con una storia antica dentro il PCI, altre emergenti come Oskian o Randazzo, tutte decise a rifondare il comunismo passando da Lenin ma senza fare sconti all’URSS.

la crisi nel gruppo dirigente

La seconda fase del mio impegno in AO, a partire dal 73, con una serie progressiva di promozioni e crescenti assunzioni di responsabilità fu caratterizzato da due elementi:

  • bisognava crescere e rafforzarci perché, se i tempi della rivoluzione non dipendevano da noi, dipendeva da noi il fatto di arrivarci avendo risolto il problema della guida del processo rivoluzionario. Far emergere il partito attraverso un processo di scomposizioni e ricomposizioni nel quale AO, pur non essendo l’embrione di tale partito, doveva giocare un ruolo principale
  • stavamo trasformandoci da gruppo semilocale, a Organizzazione Nazionale, a un simil-partito e ciò comportava un rafforzamento dell’impegno, il non farsi troppe domande, stringere i denti e puntare ad allargarci; accettare di essere inviati in giro per l’Italia a gettare il seme, cedere i propri beni materiali alla organizzazione, rinunciare alla professione post laurea nel caso dei quadri del movimento di scienze.

E’ questa la ragione per la quale, comportandomi come uno stronzo, lasciai passare senza muovere un dito un episodio come la radiazione/espulsione di Maurizio Bertasi, Flavio Crippa e Pietro Spotti (rei di lesa maestà per aver osato mettere in discussione le decisioni del segretario politico e della supersegretria che lo contornava). Alla stessa stregua considerai accettabile la non spiegazione circa l’auto-allontanamento dal giornale di Silverio Corvisieri. Il fondatore del giornale se ne andava, non salutava nemmeno la redazione; c’era qualche problema ma non era il caso di parlarne: passo fermo e sguardo in avanti verso il sol dell’avvenire.

Dopo la pubblicazione della prima versione di questa autobiografia ho ricevuto numerose testimonianze relative al Comitato Centrale della espulsione-radiazione cui non partecipai perchè c’era da confezonare il Quotidiano. Non fui presente al Comitato Centrale ma lo fui alla riunione precedente della segretria estesa ai membri del C.C. milanesi. Ho letto il verbale che ne fece Umberto Tartari. I tre che espongono i loro dati; Oskian e Vinci che li contestano e noi tutti zitti.

Molti compagni che presenziarono al successivo Comitato Centrale descrivono un clima pesante, il non trovarsi d’accordo ma avere paura di parlare, per finire con le richieste di autocritica a quei pochi che osarono dire qualcosa.

Non c’era tempo, bisognava fare e così si finiva per non fare domande e nemmeno farsele. Per esempio dalla lettura dei senzaMao vedo che nella decisione di Silverio di lasciare il giornale e tornare a Roma c’erano sia elementi di logoramento personale, sia l’emergere di preoccupazioni politiche per il processo che ci stava facendo avvicinare al PDUP e allontanare da Lotta Continua. Probabilmente il pezzo su Gioia di Vivere e Lotta di Classe fu il suo modo di lanciare un sasso.

Apparentemente tutto filava liscio ma il fuoco covava sotto la cenere e un pomeriggio, in una riunione di segreteria nazionale, Luigi Vinci richiese a freddo le dimissioni del segretario nazionale Aurelio Campi accusandolo di gestione padronale del partito. Non ricordo se fosse la fine del 75 o l’inizio del 76 ma il fatto è di poco successivo all’allontanamento di Silverio dal Quotidiano. Era l’inizio di una storia durata all’incirca un anno in cui i due principali contendenti alternarono bordate, punture di spillo e giravolte strumentali.

Ho vissuto l’attacco ad Oskian come una autentica pugnalata tirata a freddo. In realtà c’era parecchio malessere nei confronti di Oskian per il suo decisionismo che molto spesso si trasformava in autoritarismo e a ciò si sommava il timore che stesse progettando una fusione-confluenza con la componente comunista (non psiuppina) del Pdup.

Mi sono poi reso conto, dalle successive dinamiche in Ufficio Politico, che si trattava di un atto preparato con cura da Luigi Vinci (che controllava l’apparato e l’organizzazione), in accordo con molti segretari regionali. Così Avanguardia Operaia, in un momento in cui sarebbe servito il massimo di iniziativa politica e di unità interna, sia prima, sia dopo le elezioni del 76, fu invece vittima di una crisi al vertice tenuta lungamente segreta, ma che non le fece certamente bene.

In quei mesi mi resi conto frequentando i gruppi dirigenti di AO e del PDUP di quanto pesassero le miserie personali nel determinare le scelte politiche e quello fu il primo disvelamento del fatto che non basta credere nel comunismo e appellarsi ad esso per essere all’altezza del compito.

Con il IV congresso dell’ottobre 74 Avanguardia Operaia fece uno sforzo per guardare lontano, stare dentro i movimenti sociali ma, contemporaneamente, cercare di costruire una analisi della società italiana che facesse i conti con le caratteristiche dei due blocchi sociali che riscuotevano il consenso della gran massa degli italiani: il blocco intorno alla DC e quello intorno al Partito Comunista.

Ma una parte del gruppo dirigente storico guardò a quel tentativo con sospetto, come una forma di liquidazionismo. Se devo fare un paragone un po’ forte, ma che aiuta a capire, nel momento in cui avevamo bisogno di Gramsci AO si rifugiò nelle braccia di Bordiga travestito da Lenin.

Il Comitato Centrale, con oltre 100 compagni, tutti con una storia di militanza importante, tutti dotati di esperienza politica, faticava a capire, anche perchè le divergenze reali non venivano palesate, se ne discuteva nei corridoi, in parte in Ufficio politico, ma mai in maniera esplicita. Vinci e Campi un giorno si davano ragione, ma appena temevano che dietro l’unità ci fosse lo zampino del diavolo, rovesciavano il tavolo.

Fu così, nella incapacità di capire cosa era era successo con il risultato delle elezioni di giugno (straordinario balzo in avanti del PCI, tenuta della DC, misero risultato della sinistra rivoluzionaria) che si produsse lo sgretolamento, dapprima lento e poi clamoroso delle tre organizzazioni principali della sinistra rivoluzionaria; AO, LC e il PDUP seguite subito dopo dal MLS.

Nessuna di esse era riuscita ad essere una alternativa a quei blocchi di consenso politico ed ora crollavano stritolate da un lato dal PCI e dall’altro lato dai movimenti della autonomia e dal terrorismo.

la mia reazione

Disgustato da come si svolse la discussione intrecciata tra il risultato deludente delle elezioni politiche e la prospettiva di unire o meno Avanguardia Operaia e il Pdup, decisi di andarmene e nei primi giorni di luglio 76 preparai anche un poderoso documento politico di dimissioni dalla organizzazione a cui avevo dato tanto.

La manchette che apriva il lungo articolo in tre puntate in cui decisi che era ora di finirla con le chiacchiere da convento di clausura

Da qualche mese avevo iniziato a studiare le parti di teoria politica dei Quaderni dal carcere di Gramsci (in particolare le Note sul Macchiavelli) e mi rendevo conto che c’era un vuoto da colmare tra le intuizioni di Gramsci sulla democrazia, sul socialismo, sulla politica, sul blocco storico, sul ruolo della chiesa cattolica, sulla lotta culturale per la egemonia e il nostro appello al leninismo.

Il leninismo si era inverato in una realtà profondamente diversa da quella italiana e per di più, o forse per quello, aveva avuto una deriva fallimentare in cui il giacobinismo della prima ora si era ben presto trasfornato in autoritarismo e poi in una forma di totalitarismo burocratico in grado di garantire solo la propria sopravvivenza (com qualche milione di vittime).

Nel mese di luglio (mentre ero in ferie dal giornale) mi incontrai con Oskian e Claudia Sorlini per informarli della mia decisione di andarmene da una organizzazione che non aveva il coraggio di discutere a viso aperto. Oskian, che in quel momento non era più segretario politico, ma coordinatore di una segreteria collegiale che aveva il compito di preparare le tesi per il V congresso, mi convinse a rimanere promettendomi che si sarebbe aperta la battaglia politica e non quella personale.

Misi da parte il documento di dimissioni (che è rimasto chissa dove in una agenda e si è perso con lei) e nei primi giorni di agosto pubblicai in tre puntate, sul quotidiano, un lungo articolo dedicato alle prospettive che ci stavano di fronte e a quella che secondo me poteva essere la strada per uscirne. Lo trovate qui “perché ho votato contro al Comitato Centrale“.

Di questioni politiche ce ne sono dentro molte e ciò che mi ha colpito è l’insistenza sulla necessità di una riflessione teorico politica di grande respiro, insieme a problematiche di tipo minore che, con gli occhi di oggi, mi fanno sorridere.

A settembre, al rientro dalle ferie dei dirigenti, mi aspettavo una discussione politica (e come si vede dalla D di dibattito nella manchette, pensavo di farlo sul giornale); invece fui processato in Ufficio Politico per aver infranto il Centralismo Democratico e mi venne messo al fianco, in funzione di controllo, Vittorio Borelli, trasferito da Verona e del tutto digiuno di giornalismo.

In redazione non la prendemmo bene, anche perché, come si vede dalla lettura del testo, si trattava di un contributo politico del tutto legittimo nell’ambito della discussione su come arrivare al V congresso di AO.

Le congiure di palazzo e le manovre di corridoio continuavano da entrambe le parti. Non me la sentii di continuare con l’ottimismo della volontà e ai prmi di ottobre decisi che era meglio andarmene e tornare al lavoro minuto, ma importante, di docente. Rimisi il naso in redazione una volta sola quando ci fu lo scontro a fuoco (di cui ho parlato nel pezzo dedicato agli anni del QdL) in cui morirono Walter Alasia e due funzionari di polizia.

un cambiamento profondo

L’esplosione del terrorismo e la violenza dei movimenti della autonomia mi convinsero della necessità di seguire altre strade e lavorare più in profondità. Non abbandonai la passione politica, ma abbandonai l’idea della politica al primo posto, quella del rivoluzionario di professione che sarebbe meglio chiamare uomo ad una dimensione.

Non fu una decisione immediata, ma progressiva. Ricordo che, nei primi mesi del 77, alla assemblea in cui la destra di AO decise di andarsene e aderire al PDUP partecipai, ma mi sentivo ormai un osservatore esterno e non un protagonista. Non ricordo nulla dell’incontro residenziale che si tenne a Rocca di Papa; alcuni amici che proseguirono in quel percorso mi dicono che feci un intervento importante ma non mi è rimasto nemmeno il ricordo. Mi ritrovavo con tante persone a cui volevo bene ma che stavano per intraprendere un ennesimo tentativo volontaristico.

La parabola di AO si era visibilmente chiusa anche se la maggioranza ottenne risultati tra il 70 e l’80%; altri tentarono di fare DP e in quel periodo mi resi conto della drammaticità della situazione.

Il terrorismo cresceva, faceva le rapine, gli autonomi erano alla ricerca dello scontro per lo scontro, la popolarità delle BR nel brodo di coltura della autonomia operaia cresceva, iniziavano gli omicidi e i miei ex compagni continuavano a fare i distinguo come nello slogan infelice nè con lo stato nè con le BR, come se lo stato democratico, le BR e prima Linea, si potessero mettere sullo stesso piano.

Tutti quei tentativi, per quanto generosi, che avevano caratterizzato la mia vita nella prima metà degli anni 70, per quanto animati da persone appassionate, sul piano della soggettività, finirono nel nulla. Non fu così, come ho detto all’inizio, per le trasformazioni che si determinarono nella società e negli assetti istituzionali. L’Italia era cambiata in meglio e noi avevamo fatto la nostra parte.

In questi anni, molti di quei compagni che hanno fatto parte di quel gruppo dirigente sono venuti a mancare e li voglio ricordare, al di là dei dissensi e della diversità di percorso: Marco Pezzi di Faenza, il primo a morire; Attilio Mangano, Umberto Tartari, Severino Cesari, Franco Calamida, Vittorio Rieser, Massimo Gorla, Pietro Spotti, per restare a quelli che conoscevo direttamente.


La pagina con l’indice della mia autobiografia da cui potete scegliere i capitoli da leggere


I commenti dei compagni di allora sono benvenuti e, perché ne rimanga traccia, vi prego di metterli sotto l’articolo e non sulla grande cloaca di Facebook. Già, per effetto delle precedenti edizioni, ce ne sono un certo numero.

Questo è il breve commento con cui ho accompagnato il link su FB

C’eravamo tanto amati … e poi il “giocattolo” si è rotto, il mondo è cambiato e ciascuno di noi ha fatto le sue scelte.
Verso quelle persone con cui ad un certo punto si determinò una rottura conservo un grande senso di simpatia e negli anni tutte le spigolosità sono sparite e voglio bene a tutti loro. Qualcuno con orgoglio dice “volevamo cambiare il mondo, non ci siamo riusciti, ma il mondo non ha cambiato noi”. Detta così non la condivido perchè vivere vuol dire essere disposti a cambiare e ad accettare il cambiamento. La nostra vita, la vita di tutti è bella perché è caratterizzata dal mutamento.