1977-1987: il Frisi, la scienza e la sua filosofia

III edizione – giugno 2024

Il mio primo ingresso al Liceo Scientifico Frisi di Monza fu alla fine di gennaio del 1977, nell’ultimo giorno utile per essere pagato d’estate. Visti i ritardi nelle nomine per i nuovi incarichi di insegnamento, avevo deciso di incominciare a muovermi autonomamente alla ricerca almeno di una supplenza.

Dopo aver lasciato il quotidiano ero a casa a non far nulla da oltre tre mesi perché il provveditorato di Milano ritardava le nomine. Le fece poi a maggio rendendole valide, per il 76/77, solo dal punto di vista giuridico. Telefonavi, andavi in Provveditorato e ti sentivi preso in giro: domani, dopodomani, non sappiamo, …A inizio ottobre avevo rifiutato una proposta di supplenza annuale al Liceo Scientifico di Melzo giuntami da una compagna di università che faceva la Preside incaricata e chi mi sapeva in attesa di impiego. Avevo rifiutato nella illusione di una imminente chiamata ufficiale perché quando inizio un lavoro mi piace finirlo.

Pace, la Battistina e Santanbrogio

In quei mesi, da brianzolo doc, mi sentii molto a disagio nel rimanere a casa non far nulla e mi resi conto di come la condizione di disoccupato corrompesse l’anima; di come il lavoro, con le sue scadenze, i suoi ritmi e i suoi doveri, fosse importante nell’equilibrio psico-fisico di una persona. Forse questa è una delle ragioni per cui, quando vedo in televisione i nostalgici del reddito di cittadinanza sognare di vivere nel limbo per tutta la vita mi vengono le convulsuioni.

Al Frisi fui ricevuto dal professor Pace nell’atrio davanti alla segreteria dove stava il tavolo di comando della Battistina (la capobidella). Pace faceva il vicepreside, ma non voleva sentir parlare di esoneri dall’insegnamento. Lo faceva e basta, come servizio alla comunità. C’era l’intervallo e mi fece impressione una cosa cui non ero abituato dopo l’esperienza di qualche anno prima all’ITIS di Sesto. Suonò la campana di fine intervallo e vidi gli studenti che, da soli, risalivano le rampe di scale e rientravano nelle classi. Per me era una cosa incredibile.

Due parole sulla Battistina. Credo che, dal punto di vista normativo e di inquadramento il capo-bidello non esistesse, ma si trattava di una funzione importante per il Frisi. Chiunque entrasse, dopo essere passato al controllo del custode Santanbrogio, saliva al primo piano e veniva accolto dalla efficientissima Battistina: fogli volanti, telefonate interne e tutto girava come un meccanismo ben oliato.

Alla sua sinistra c’era l’atrio del primo piano, di fronte la sala professori e, alla sua destra, la segreteria, la vicepresidenza e la presidenza. E già che parliamo di bidelli non si può tacere del custode. Era il padrone della scuola fuori dagli orari canonici, voce roca e potente, conosceva uno per uno tutti gli studenti e abitava in un mini appartamento di fronte alla guardiola del centralino, insieme ad una numerosa famiglia.

Curava la bellezza degli spazi esterni, i fiori e la sicurezza notturna con un paio di canilupo che presidiavano il territorio negli orari di chiusura. Erano due personaggi amati e rispettati da tutti: studenti, professori e restante personale. Se si vuole che una scuola sia in ordine è un bene prevedere un custode che ci abiti e che la senta come casa sua.

il Frisi del Preside Tedesco

Il Preside Tedesco in una delle espressioni esortative e dialogiche che lo contraddistinguevano

Dopo essere stato vagliato da Pace ebbi modo di conoscere il preside, il professor Alfonso Tedesco, un signore dai capelli grigi e dal viso rosso, distinto e pacato, professore di Italiano e Latino.

Tedesco era imparentato con la nobil famiglia dei Galbiati. Aveva sposato Felicetta, preside di scuola media, sorella maggiore di Enrica Galbiati, che allora insegnava lì nel corso B matematica e fisica. Era di origini emiliane, ma stava a Monza da una vita e, prima di fare il Preside, aveva insegnato allo Zucchi Italiano e Latino. Tedesco, con la collaborazione di Carlina Mariani, dirigeva l’UCIM (unione cattolica italiana insegnanti medi).

L’establishment reazionario monzese considerava Tedesco un debole perchè era di idee cattolico democratiche e dialogava con gli studenti. Alla distanza il suo ruolo è stato riconosciuto e l’aula magna del Frisi, grazie ad un comitato di cui ho fatto parte anche io, è stata intitolata al suo nome.

Nel primo incontro mi spiegò che dovevo sostituire la professoressa Lina Saini (che era alla quarta o quinta gravidanza), nel triennio del corso C e dunque avrei avuto Pace come collega oltre alla professoressa Canzi-Amirante di lettere. Non avevo mai visto un liceo dall’interno ma, negli anni di università, avevo dato lezioni private a tanti studenti del Frisi e dunque sapevo quasi tutto sul programma tradizionale di matematica che svolgevano: i problemi con discussione secondo il metodo di Tartinville, le disequazioni, il debordante programma di trigonometria e poi, ovviamente, l’analisi matematica.

in classe

Edo Scioscia durante la autogestione del 78

Senza che altri si offendano, ricorderò di quel primo anno quattro studenti: Maria Scognamiglio di terza, una ciellina underground della serie spiriti liberi, Camozzi, leader  del gruppo promotore (insieme ad Alberto Zangrillo, il futuro medico di Berlusconi, oggi primario al San Raffaele).

Il gruppo promotore raggruppava gli studenti di destra (filo Giornale di Montanelli). Poi c’erano in quarta Edo Scioscia leader incontrastato della assemblea, militante del MLS che, uscito dal Frisi avrebbe messo in piedi il Libraccio, e in quinta Adriano Poletti che più tardi averebbe fatto lungamente il sindaco di Agrate Brianza (e che è morto nel 2023).

Nonostante fossi un supplente diedi qualche taglio personale al programma di matematica e fui anche fortunato. Da anni il principale quesito dello scritto di matematica proponeva con una certa regolarità lo studio di funzione formata da una combinazione lineare di seni e coseni. Erano paginate di conti se si usavano metodi i tradizionali per via delle numerose disequazioni trigonometriche da risolvere.

Ma da fisico sapevo (per via della teoria delle onde armoniche) che una combinazione lineare di seni e coseni corrisponde sempre ad una sinusoide traslata. Feci loro la dimostrazione di quel teorema e insegnai a fare lo studio di funzione in un quarto d’ora (senza usare le derivate) invece che in due ore di conti. Alla maturità uscì proprio quello e non si corse il rischio di fraintendimenti perché gli studenti mi avevano voluto come membro interno. Fu un successone per quelli della C.

collegio docenti e gestione del Liceo

immagini di una assemblea durante la autogestione del 78

Ero supplente ma, per via dei trascorsi, non ero di quelli che si nascondono nel sottoscala, e dunque già al secondo Collegio iniziai ad intervenire.

Il Collegio del Frisi era formato da una agguerrita minoranza di docenti difensori della scuola tradizionale (Moretti, Derla, Spelta, Galbiati, Riva, …), da una maggioranza che noi docenti progressisti definivamo la palude e che amava il quieto vivere (il progresso senza avventure di memoria democristiana), da una minoranza di docenti di sinistra, di varia estrazione che si caratterizzavano per la ricerca delle innovazioni e per il dialogo con gli studenti (Russo, Longo, Cedrazzi, Meroni, Colonnetti, Tedesco, Stefanelli…).

Negli anni successivi la nostra pattuglia si rafforzò con l’arrivo di due colleghe di filosofia, colte e vivaci, provenienti dallo Zucchi (Fabbri e dell’Aquila) e della professoressa Mariagrazia Zanaboni (la Monaco, si diceva allora) di lettere.

Il Preside Tedesco, da buon democristiano, si appoggiava sul centro prendendo a prestito qualche idea della sinistra e puntando a smuovere il pachiderma, ma con giudizio.

articolo del Cittadino in ricordo del professor Tedesco

Dopo la fine dell’anno scolastico, ottenni ope legis la stabilizzazione e, poiché ero abilitato, l’incarico a tempo indeterminato mi  aprì immediatamente la strada all’ingresso in ruolo. Ero un prof engagé e dunque, l’anno successivo fui eletto collaboratore del Preside, consigliere di istituto e consigliere di distretto cose che mi impegnarono per un po’ di anni.

Nel 77/78 l’elezione dei collaboratori fu un vero successo. In passato la palude ci offriva, bontà sua, un posto nel listone unico, e a volte nemmeno quello. Proponemmo una lista contrapposta con tanto di programma e l’elezione ci premiò. Sfidammo la palude ad esplicitare il loro programma, ma non andarono oltre la sottolineatura dello spirito di servizio. Non arrivammo primi, ma comunque finì 2 a 2 tra lo sconcerto dei professori più conservatori. La stessa operazione la feci, anno dopo, appena arrivato allo Zucchi (liste separate, programma, esplicitazione del dissenso, …).

In quell’anno ci fu una specie di autogestione concordata, cioè con partecipazione libera dei docenti ad attività di approfondimento miste (autogestite o coordinate da docenti). Tedesco usò a piene mani me e Fiammetta Cedrazzi come ambasciatori del punto di vista degli adulti (fare le cose per bene, organizzarsi, garantire la democrazia, …).

Tra i docenti ci fu una netta spaccatura all’interno della maggioranza anche con qualche momento di tensione e si determinarono numerosi chiarimenti all’interno della palude tra chi partecipò e chi si schierò con la minoranza più conservatrice che aveva adottato la linea del boicottaggio.

intervento durante un collettivo – al mio fianco Edo Scioscia e sullo sfondo Colonnetti (Filosofia) e Claudio Fontana un alunno futuro docente di filosofia

L’autogestione funzionò bene grazie all’impegno di alcuni quadri del Movimento Studentesco che si impegnarono perché restasse il segno. Il clima politico tra gli studenti era variegato: MLS (dominante), FGCI, autonomia operaia, CL, destra (gruppo promotore). Non era ovvio che le cose andassero bene, ma riuscimmo a tenere insieme la maggioranza della scuola nonostante gli strepiti della parte più retriva del corpo docente.

Erano gli anni del sequestro Moro e anche sul fronte studentesco, come nel resto del paese, emergevano spinte centrifughe verso il mondo della autonomia, contiguo al terrorismo. Vista la mia storia precedente mi sentivo un po’ responsabile e dunque l’impegno per la democrazia e la difesa senza se e senza ma delle istituzione democratiche fu esplicito e con un grande coinvolgimento anche emotivo.

una revisione culturale profonda

In quegli anni si discuteva ancora del carattere gentiliano della nostra scuola e della necessità di superare la cosiddetta cultura retorico umanistica di derivazione crociano-gentiliana per puntare ad una scuola in cui ci fosse un mix tra la tecnologia (di cui si vedeva l’inizio di una grande fase espansiva) e il cosiddetto asse storico-critico-scientifico. Erano anni in cui, con riferimento alla scuola, non ci si limitava a discutere di modalità di gestione o di organizzazione ordinamentale, ma ci si appassionava e si entrava nel merito di modelli culturali di insegnamento. Tutte cose che ora sonoo scomparse e al loro posto c’è solo la autonomia malriuscita.

Non tanto per non essere da meno, ma perché ci credevo, iniziai un complesso e profondo lavoro di trasformazione delle mie convinzioni di fondo mettendo al centro dei miei studi tre cose.

lo studio critico delle scienze dure

Mi impegnai nel rivedere e ristudiare la scienza e in particolare la logica, la matematica e la fisica con approfondimenti di tipo universitario su questioni di base su cui non avevo riflettuto a sufficienza negli anni di università. Per poter insegnare bene e ad un certo livello bisognava che avessi le idee molto chiare sui fondamenti.

Per la fisica utilizzavo, per me e per gli studenti più vivaci intellettualmente, L’indagine del mondo fisico di Giuliano Toraldo di Francia (1916-2011), di cui trovate qui la recensione. Si tratta di un testo nato dalle lezioni tenute da Toraldo ad una scuola di specializzazione per filosofi interessati alla scienza presso l’Università di Firenze. Il testo percorre tutta la fisica con un occhio sempre attento alla storia e alle implicazioni conoscitive delle leggi ed è stato il modello a cui mi sono ispirato nello scrivere il mio corso di Fisica.

Nell’insegnare la matematica, sin dalla terza, tenevo presente che il punto di arrivo era l’analisi matematica e dunque c’era una attenzione agli aspetti di natura concettuale e ad una visione in cui la matematica, anche negli esercizi, fosse vista come una cosa dinamica.

la storia della scienza

Non ci può eessere comprensione dei fondamenti della scienza senza conoscere il contesto in cui sono nate e si sono sviluppate le teorie; dunque storia della scienza nei suoi aspetti sia descrittivi sia metodologici appoggiandomi, come riferimento, ai 7 volumi della storia del pensiero filosofico e scientifico di Ludovico Geymonat, ma conducendo poi approfondimenti di tipo monografico su questioni che mi stavano a cuore o che nascevano dalla esperienza di insegnamento (la storia della termodinamica, la evoluzione dello status dei tre principi della dinamica, la storia e il significato del concetto di campo, la nascita e la evoluzione del concetto di energia, …).

In quegli anni, oltre al geymonattone citato era disponibile, da Feltrinelli una bella collana di testi di storia della fisica che presentava in traduzione il meglio della produzione anglosassone (ne trovate un sunto in coda a questo capitolo).

la filosofia della scienza

Al di là della passione emersa negli ultimi anni di università, mi resi conto che ero profondamente ignorante su questioni fondamentali della cultura europea del 900 e in particolare sulla grande rivoluzione dell’emopirismo e del neo-empirismo (detto anche neopositivismo o empirismo logico).

Mi buttai a capofitto nello studio dei principali pensatori leggendone direttamente le opere e senza fidarmi di sunti o manuali: Moritz Schlick, Philip Frank, Hans Reichenbach, Rudolph Carnap, Friedrich Waissman, sir Karl Raymond Popper, Imre Lakatos, Paul Feyerabend, Orman Quine. Girando per librerie e bancarelle mi sono fatto una biblioteca invidiabile delle loro opere; alcuni testi di Reichenbach, in inglese (uno di calcolo delle probabilità e uno sulla freccia del tempo) li ho acquistati nel 91 a New York durante un viaggio negli USA.

Qualche studente della mia quinta M del 77/78 si ricorda, con sconcerto, l’utilizzo di temi su questioni di carattere metodologico per le valutazioni di fisica a partire da una frase criptica di Max Planck, Ludwig Boltzmann o Werner Heisenberg sulle quali veniva richiesto di sviluppare il tema. Naturalmente si trattava di problematiche che erano state sviscerate a lezione. Qualcosa del tipo “anche nella scienza, come nella religione, non si è beati senza la fede; la fede in una realtà esterna a noi” e via di questo passo.

Questo lavoro di riflessione e contatto sui classici è proseguito negli anni, sempre leggendo (per la scienza e per la riflessione metodologica), le opere originali. Mi dedicai a Boltzmann, Maxwell, Planck, Einstein, Heisenberg, Bohr, Poincarè. Anche in questo caso, oltre ai classici della UTET (Maxwell, Ampere, Newton, Laplace, Helmholtz, Kelvin), sulle bancarelle riuscii a recuperare le vecchie edizioni blù della Boringhieri e le precedenti della Einaudi scientifica (1945-1950). I classici della UTET li acquistai a condizioni molto favorevoli da Fiammetta Cedrazzi che, in uno dei suoi traslochi, aveva deciso di disfarsene.

Come scrisse Lakatos e amava ripetere Geymonat “la filosofia della scienza senza la storia della scienza è vuota, la storia della scienza senza la filosofia della scienza è cieca”. Aggiungo che entrambe servono a dare un senso e a comprendere i fondamenti della scienza, senza i quali non c’è conoscenza ma solo nozionismo.

Mi furono di stimolo anche la Enciclopedia Einaudi pubblicata proprio in quegli anni e un libro Einstein scienziato e filosofo facente parte di una collana (Scienziati e filosofi viventi, a cura di Schlipp) di cui in Italiano sono stati pubblicati solo i libri dedicati ad Einstein e Carnap.

I testi di questa collana iniziano tutti con un saggio di taglio autobiografico-scientifico-culturale scritto dall’interessato e, su di esso intervengono i più grandi scienziati e filosofi della scienza dell’epoca.

Alla fine l’interessato chiude rispondendo alle suggestioni e ai rilievi dei suoi critici. Quello su Einstein è un vero capolavoro e, per fortuna, è stato ristampato da Boringhieri.

Un discorso a parte riguarda la collana di Filosofia della Scienza della Feltrinelli curata da Ludovico Geymonat che avevo conosciuto nel 1969 in occasione dell’esame di filosofia della scienza (Ernest Nagel, la struttura della scienza – problemi di logica nella spiegazione scientifica). Di Nagel è disponibile (presso Boringhieri) anche un bel libriccino dedicato al teorema di Gödel, il teorema dedicato alla indecidibilità delle proposizioni rimanendo all’interno di una medesima teoria (si può dimostrare che la matematica sia esente da contraddizioni?).

Ricominciai da quel malloppo di 650 pagine senza più l’ansia di doverci fare sopra l’esame e mi misi alla ricerca degli altri volumi della collana (ne ho una ventina e ne trovate l’elenco alla fine del capitolo). Al Frisi con gli studenti più bravi lavorammo su un testo di Enrico Bellone I modelli e la concezione del mondo nella fisica moderna da Laplace a Bohr e sulla Filosofia dello spazio e del tempo di Hans Reichenbach tutto dedicato alle implicazioni della teoria della relatività nella teoria della conoscenza.

Lo studio critico della scienza mi ha abbastanza trasformato facendomi rivedere e approfondire questioni come la verità, la razionalità, il fallibilismo; ho abbandonato definitivamente l’idea del socialismo scientifico e del marxismo salvandone solo la capacità di leggere e interpretare la storia.

Se ripenso a quegli anni mi viene da sorridere al pensiero che i professori più rozzi e le famiglie monzesi più retrive mi considerassero un pericoloso rivoluzionario comunista. Mi nutrivo della cultura europea e statunitense più avanzata e cercavo di farla apprezzare agli studenti, ma in tutto il mondo il maccartismo è duro a morire e poi, per certa gente, la cultura è una cosa che va presa solo in piccole dosi perché potrebbe fare male.

qualche ricordo frisino

i rientri pomeridiani

Carletto Pozzoli e Dario Giove da ragazzi prima di diventare dei fisici con una bella carriera alle spalle

Fuori della scuola, si fece a casa mia anche un piccolo seminario con tre studenti (Dario Giove, Carletto Pozzoli, Elisabetta Galbiati) che, usciti dal Frisi si iscrissero a Fisica. Leggevamo e discutevamo insieme le Lectures on Physics di Feynman e io cercavo di trasmettere loro il modo giusto di studiare all’università, quello che a me non avevano insegnato.

Per fortuna nella scuola non c’erano tutte quelle forme di sindacalizzazione al ribasso che sono emerse negli anni successivi, quando andai a lavorare nel privato. Così se si faceva qualche ora in più nel pomeriggio la si faceva gratis fermandosi per un panino e una partita a Tressette al circolino di via Sempione.

Di pomeriggio facevo due attività; un po’ di laboratorio di Fisica, nel laboratorio del III piano, con esperienze avanzate ma di tipo dimostrativo e la discussione critica di saggi sulla scienza utilizzando la disponibilità della biblioteca che, sull’argomento, era ben fornita. Queste attività erano aperte anche ad alunni di altre classi. Disporre di una pompa a vuoto, di rocchetti di Rumkhorf, di tubi a vuoto permette di fare cose molto belle e suggestive sia dul fronte dei raggi  X e catodici, sia su quello della termodinamica come far bollire acqua a temperatura ambiente, osservare che mentre bolle si raffredda, …

Nei primi anni, nel corso M, ricevevo in III gli studenti che avevano fatto il biennio alla succursale di Villasanta e che venivano da tutta la zona a nord di Monza sino a Casatenovo. Mi piacevano quelle classi di brianzoli doc spartani, concreti e anche bravi. Cosa del tutto eccezionale, eravano in ben 5 docenti maschi:  Meroni, Colonnetti, Cereda facevano la triade e poi c’erano anche Fontana (educ) e Bevilacqua (inglese) che, dopo le dimissioni di Pace, era diventato vicepreside.

La 5M era nell’aula di fronte alla Presidenza (dove ora c’è la segreteria amministrativa) e il povero Tedesco si prese anche qualche scherzone goliardico da parte dei più sciamannati (leggi Fiorenzuoli): per esempio un ordine di pasticcini fatto passare come ordine della Presidenza regolarmente consegnati e rimasti da pagare.

Poi sono passato nel corso L e, nel giro di qualche anno, ho incominciato a sentirmi sottoutilizzato. Tedesco era andato in pensione e la gestione successiva, un po’ sciatta e improntata alla pura amministrazione dell’esistente, non mi entusiasmava.

il nemico del Papa

dal sito de Il Cittadino di Monza e Brianza

Nel 1983 sono salito agli onori del pulpito di Villasanta, anche se l’ho saputo solo qualche anno dopo. Il 21 maggio ci fu la visita di papa Woytila all’autodromo di Monza. I presidi delle scuole monzesi decisero che le lezioni si sarebbero svolte regolarmente pur consentendo una sorta di via libera alle assenze studentesche.

In una classe avevo programmato da tempo un compito in classe e non lo rinviai pur chiarendo che chi l’avesse saltato, come facevo solitamente, non avrebbe avuto problemi, salvo rifare il compito. Era la stessa linea che usavo per le assenze politiche, sei libero di scioperare o andare in manifestazione ma poi il compito lo rifai.

A distanza di anni mi è stato riferito che don Bruno Perego, coadiutore del Parroco all’oratorio maschile di Villasanta e organizzatore dei ciellini al Frisi, fece, dal pulpito, in occasione di una messa domenicale, una filippica contro di me: pensate …  un professore, dirò di più … un nostro concittadino, ha impedito che … Sembra che un bel po’ di persone abbiano pensato a Meroni, più noto di me in paese. Mah, robe da chiodi.

Mentre per fisica rinviavo ai classici che ho citato, e solo episodicamente mi avvalevo di miei appunti, per matematica (geometria analitica, goniometria, elementi generali di analisi) avevo messo a punto delle dispense abbastanza complete e che ho ancora, rigorosamente scritte a mano e che venivano fotocopiate usufruendo del monte fotocopie di cui ogni classe disponeva. Lo stesso valeva per la correzione dei compiti in classe (gli antenati di quello che trovate ora sul sito).

gli esami di maturità

La prima parte dell’estate la si passava facendo gli esami di maturità o da membro interno o da commissario esterno. Quell’esame era una cosa utile per la formazione degli studenti e per la cultura dei docenti che avevano l’occasione di andare in giro per l’Italia e farsi una esperienza diretta sul funzionamento della nostra scuola (conoscenza di colleghi con storie e culture diverse, scambio di esperienze).

Per questa ragione non mi sono mai tirato in dietro; ho fatto più volte il membro interno e sono stato da esterno a Milano, Bergamo e Roma. Un anno avemmo come presidente un preside di scuola media, il professor Bertè, il padre di Loredana Bertè e di Mia Martini, poco generoso nei giudizi su quelle figlie che per lui erano delle scapestrate di cui si vergognava.

In quegli anni la prova scritta di matematica aveva un testo con proposta di 4 quesiti e veniva richiesto di affrontarne almeno due. Un problema di geometria analitica orientato all’analisi, due problemi di analisi sullo studio di funzioni e una domanda di teoria. La domanda di teoria era il salvagente dei somari che piazzavano il libro di testo da copiare in tutti i nascondigli possibili dei servizi igienici.

Nel 78 la domanda di teoria riguardava il teorema sulla “continuità delle funzioni derivabili“. Se una funzione ammette in ogni suo punto retta tangente, non può fare salti o avere spigoli. Ma lo studente che aveva letto frettolosamente lo Zwirner nei servizi igienici ci mise del suo, scambiò l’ipotesi con la tesi e scrisse “se una funzione è continua allora è derivabile” e passò a metà classe l’enunciato sbagliato con la dimostrazione (copiata) giusta.

Per capire l’errore basta pensare che se una funzione fa un angolo è continua ma lì non ammette retta tangente. E’ un controesempio semplice. Ero stato nominato commissario esterno  dopo lo svolgimento della prova e dunque non avevo assistito al fattaccio, ma scripta manent e mi ritrovai a dover valutare compiti scritti fotocopia l’uno dell’altro con un doppio errore: errore nell’enunciato del teorema richiesto, errore logico nel presentare una dimostrazione che non dimostrava quanto dichiarato ma il teorema inverso. Non fui tenero con quella classe di un liceo milanese.

l’informatica

Passavano gli anni (1986) e sentivo il bisogno di fare qualcosa di diverso; avevo iniziato ad introdurre a scuola l’Informatica (c’erano l’ MSDOS e i primi Pc) e l’occasione mi fu data dal reincontro con Oskian che non sentivo più dai primi mesi del 77.

Ci rivedemmo in occasione di una vicenda, per lui,  molto spiacevole e per me incredibile. Dopo che ce n’eravamo andati da AO lui era rimasto formalmene proprietario della Grafica Effeti dove si stampava il Quotidiano dei Lavoratori. Lo era diventato in quanto segretario politico.

Alla Grafica, che stampava il QdL per conto di Democrazia Proletaria ci fu un incidente sul lavoro in cui un tipografo ci rimise la mano. C’erano, al di là della vertenza in sede civile, anche aspetti di natura penale che ricaddero su di lui. Era tra lo sconcertato e l’incazzato perchè il gruppo dirigente di DP che gestiva la tipografia aveva deciso di fare il pesce in barile.

Lui era alla ricerca di qualcuno disposto a testimoniare che, al di là dell’aspetto formale sulla proprietà, dalla primavera del 77 non c’entrava più nulla con la Grafica Effeti. In quel periodo era a Roma e faceva il vicesegretario del Pdup. Non so come riuscì a mettersi in contattocon me e così ci si rivide e testimoniai su quegli aspetti. Tutti gli altri erano spariti e i responsabili tacevano per convenienza.

Aveva una società che stava passando dalla attività di consulenza a quella propriamente informatica (la SISDO) e mi propose di lavorare con lui. Se ne parla ampiamente nel prossimo capitolo. Eravamo a metà degli anni 80 e incominciai, un paio di pomeriggi alla settimana, ad andare a MIlano, in viale Bianca Maria, pagato sostanzialmente per studiare (un po’ di informatica e un po’ di marketing).

Nel corso dell’86 incominciò ad introdurmi più a fondo nell’azienda che, allora, si occupava di Informatica gestionale su piattaforme PDP-VAX della Digital. Avevo compiuto i 40 anni e mi dissi che quello era l’ultimo momento per mollare tutto e cambiare. Fu così che, alla fine dell’anno scolastico 86/87 diedi le dimissioni dalla scuola, per la seconda volta, ed iniziai a lavorare nel privato. Ma quella non è stata l’ultima volta in cui ho cambiato tutto.


Fiammetta Cedrazzi (1941-2019) – per finire con un ricordo

A maggio 2019 è venuta a mancare un pilastro nella mia storia di docente al Frisi; era andata in pensione nei primi anni duemila.

Fiammetta è stata una protagonista di una fase irripetibile della mia vita e della vita del Frisi e parlo degli anni dal 1977 alla metà degli anni 80. In quel momento nel nostro liceo c’erano una serie di persone diverse per carattere per sensibilità politica e per modelli culturali di riferimento, ma si respirava in questa scuola il sapore della cultura vera, la passione nei confronti dei giovani, il senso di cosa volesse dire essere un docente.

Era finita l’epoca iniziata nel 68 e continuata in tono sempre minore e sempre con maggiore settarismo fino alla metà degli anni 70. Ne incominciava una nuova in cui si confrontavano il desiderio di cambiamento nella democrazia con le pulsioni violente dell’Autonomia e del nascente terrorismo. Quello era il contesto di contorno in cui si sviluppava il nostro desiderio di fare scuola per trasmettere una visione critica della cultura e della vita. Ma è sbagliato dire trasmettere, si deve dire costruire insieme.

Mi univa a Fiammetta la passione per le scienze dure e al di là di esse ciascuno di noi proseguiva per la sua strada, io più verso la filosofia e la storia, lei più verso la letteratura e l’arte incluse la musica e il balletto. Così quelli furono anni di studio approfondito, molto più approfondito di quello degli anni universitari, che pure non erano stati uno scherzo. Di certo né lei né io facevamo parte di quella tipologia di professori che entra in classe e dice Aprite il libro a pagina 147. Oppure Brambilla vieni alla lavagna e fai questo esercizio.

Mi ha sempre colpito il fatto che desse del lei agli studenti e addirittura, come è giusto dal punto di vista grammaticale del loro quando si passava al plurale. Mi sembrava un po’ un vezzo e mi chiedevo sempre come ci si sentisse ad essere dall’altra parte. Io mi sarei sentito a disagio perché già respiri un dislivello culturale ed esperienziale immenso e in più ti viene detto di stare al tuo posto.

Prima di tutto veniva la scuola con le sue regole, il senso del dovere, la sua serietà. Poi veniva tutto il resto, ma tutto il resto era filtrato attraverso la metodica del rigore e dell’esercizio critico della ragione: perché si fa così? Cosa c’è sotto? Quali sono i gradi di libertà? Si può operare diversamente? Cosa succede ad una teoria assiomatica se cambio un postulato? Qual è la dinamica della conoscenza scientifica? Alcuni elementi del carattere di Fiammetta venivano dal fatto che da bambina era cresciuta dentro il carcere minorile Beccaria di cui il padre era il direttore.

In quegli anni 70 e 80 non era vietato parlare d’altro, ma quel parlare d’altro doveva avere un senso e noi docenti di matematica e fisica eravamo in maggiore difficoltà rispetto ad altri docenti (come quelli di lettere) sempre presi dalla necessità di affrontare la miriade di questioni legate all’essere docenti di scienze dure in un liceo scientifico nato come figlio di un Dio minore del liceo classico, mentre la società che non cambiava i suoi ordinamenti ci richiedeva di essere protagonisti e di costruire dei profili di uscita con giovani colti e critici, maturi, ma anche tanto preparati sul versante scientifico in termini di competenze.

Tutto questo ci rendeva un po’ marziani per via della necessità di non perdere mai tempo e contemporaneamente, quando guardavamo negli occhi i nostri studenti e le nostre studentesse, capivamo che avevano voglia e bisogno di parlare anche di altre cose e allora usavamo i ritagli di tempo o i pomeriggi, tanto in quegli anni non si usavano ancora certi orridi neologismi come attività aggiuntive funzionali o non funzionali all’insegnamento. Si restava a scuola perché era opportuno farlo.

Mi spiace che il concorso che istituì la figura del dirigente scolastico non sia venuto fuori in quegli anni, ma solo nel 2004, perché Fiammetta sarebbe stata un’ottima dirigente, anzi una dirigente eccezionale, capace di stare sui tre denti della forchetta su cui dovevamo riuscire a stare in equilibrio: la organizzazione della scuola, la leadership educativa e la innovazione.

Invece in quegli anni la scuola italiana era ancora la scuola delle circolari del ministero con scritto si trasmette per opportuna conoscenza e norma, del preside come prolungamento finale di una organizzazione centrale che partiva da Roma e così Fiammetta non fu ritenuta degna, dai colleghi, nemmeno di fare la vicepreside anche se, era del tutto evidente, che sarebbe stata una grande vicepreside, naturalmente per occuparsi della direzione di marcia della scuola e non della sostituzione dei colleghi assenti con le supplenze brevi o della firma dei permessi di entrata in ritardo. Così al più potevamo aspirare a fare i consiglieri del principe, tenuti in panchina e consultati di nascosto (e lo abbiamo fatto).

Sul piano umano e personale era una persona molto riservata e, d’altra parte, lo sono anch’io, tanto è vero che ormai mi chiamano nonno orso. Quindi non me la sento di avanzare critiche sulla sua riservatezza che l’ha indotta ad una sorta di chiusura a riccio. Mi spiace tantissimo come si sia svolta la fase finale della sua vita, molto marcata dalla solitudine e dalla chiusura in se stessi e io penso di essere stato un po’ vigliacco a non farmi vivo e ad obbedire alla sua richiesta di non voler vedere nessuno intorno. D’altra parte confesso che il cancro mi mette sempre a disagio nel rapportarmi con chi ne viene colpito. La mia struttura razionale si ribella e se la unisco alla mancanza di un credo nell’aldilà misuro un senso di impotenza e di rabbia.


La pagina con l’indice della mia autobiografia da cui potete scegliere i capitoli da leggere


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Appendice: la collana giallo ocra della Feltrinelli


Feltrinelli – la collana di Filosofia della scienza curata da Geymonat

Willard Van Orman Quine, Manuale di logica | Ettore Casari, Lineamenti di logica matematica | Ludovico Geymonat, Filosofia e filosofia della scienza | Carl G. Hempel, La formazione dei concetti e delle teorie nella scienza empirica | Evert W. Beth, I fondamenti logici della matematica | Ettore Casari, Questioni di filosofia della matematica |
Maria Luisa dalla Chiara Scabia, Modelli sintattici e semantici delle teorie elementari | Emil Ungerer, Fondamenti teorici delle scienze biologiche | M.E. Omelyanovskij, V.A. Fock e altri, L’interpretazione della meccanica quantistica. Fisica e filosofia in URSS | Enrico Bellone, I modelli e la concezione del mondo nella fisica moderna. Da Laplace a Bohr | Imre Lakatos e Alan Musgrave (a cura di), Critica e crescita della conoscenza | Hans Reichenbach, Filosofia dello spazio e del tempo | Ludovico Geymonat, Scienza e realismo | Pietro Redondi, Epistemologia e storia della scienza | Imre Lakatos, Dimostrazioni e confutazioni. La logica della scoperta matematica | Mary B. Hesse, Modelli e analogie nella scienza |

e quella di bianco e viola di Storia della scienza curata da Paolo Rossi

Marie Boas, Il Rinascimento scientifico 1450/1630 | Alistair C. Crombie, Da S. Agostino a Galileo. Storia della scienza dal V al XVII secolo | E. J. Dijksterhuis, Il meccanicismo e l’immagine del mondo. Dai Presocratici a Newton | J. L. E. Dreyer, Storia dell’astronomia da Talete a Keplero | Yehuda Elkana, La scoperta della conservazione dell’energia | John C. Greene, La morte di Adamo. L’evoluzionismo e la sua influenza sul pensiero occidentale | A. Rupert Hall, Da Galileo a Newton (1630/1720) – La Rivoluzione scientifica 1500/1800. La formazione dell’atteggiamento scientifico moderno | Mary B. Hesse, Forze e campi. Il concetto di azione a distanza nella storia della fisica | Max Jammer, Storia del concetto di forza. Studio sulle fondazioni della dinamica | Max Jammer, Storia del concetto di massa nella fisica classica e moderna | Morris Kline, La matematica nella cultura occidentale | Alexandre Koyré, Dal mondo chiuso all’universo infinito | Paolo Rossi, I filosofi e le macchine 1400/1700 | Philip P. Wiener, Aaron Noland , Le radici del pensiero scientifico |


 




1965-1970: volevamo cambiare il mondo

III edizione – giugno 2024

Alla fine del 65 ho iniziato l’Università e, contemporaneamente, ho interrotto i rapporti con la Fgsi, pur avendo ripreso la tessera del 66 funzionale a ingrossare le fila del neonato Movimento Socialista Autonomo (poi confluito nella Sinistra Indipendente).

Non mi convincevano la prospettata unificazione con i socialdemocratici e la impronta poco coraggiosa che aveva preso il centro sinistra. C’era poi aperta la ferita della guerra con il Vietnam. In quegli anni la politica ed i suoi riferimenti erano ancora un elemento di contorno rispetto ai mille altri interessi: più che militare ci si documentava.

prima del 68

Il mio riferimento politico culturale, piano piano, divenne il PCI, un rapporto mediato dalla lettura sistematica di Rinascita che, per almeno 7 anni, sarebbe stato il mio strumento di riflessione e crescita politica.

le riviste

Non ebbi mai rapporti diretti con il partito nè a Villasanta nè a Monza e mi limitai a farmi recapitare, all’indirizzo di Federico Ripamonti, il capo storico del PCI di Villasanta, ma anche amico di papà, l’abbonamento al settimanale.

Passavo da casa sua a ritirarlo la domenica mattina. Era la applicazione delle tecniche non conflittuali da adottare in famiglia; noltre l’abbonamento per gli studenti era davvero conveniente in termini di costo. Un anno vinsi pure una bici Bottecchia sport rossa che utilizzai poi per parecchio tempo e alla fine l’ho regalata ad un immigrato che ne aveva bisogno.

Tramite la versione on line sono finalmente riuscito a recuperare una breve lettera, che ricordavo di avere mandato, e che con titolo Checchè ne dica Ottaviani venne pubblicata; è nel numero 30 del 23 luglio del 66. ll cardinale Alfredo Ottaviani, prefetto del Sant’Uffizio, che amava autodefinirsi il carabiniere dell’Ortodossia, era il nemico giurato di ogni rinnovamento all’interno del mondo cattolico.

A Monza ci si vedeva e si dialogava intorno alla Biblioteca Civica e, per un certo periodo, insieme a Maurizio Antonietti, che ne prospettava il rinnovamento e lo spostamento in senso progressista, aderii e mi diedi da fare per la FUCI (la federazione degli universitari cattolici) mentre a Milano avevo aderito alla Intesa Universitaria (la associazione dei cattolici progressisti).

alcune delle riviste e dei periodici che hanno segnato la mia evoluzione politica: cattolici del dissenso, sinistra socialista, PCI

Tra il 66 e il 67 ci fu un fiorire di riviste e settimanali facenti capo al mondo cattolico progressista: Questitalia del veneziano Vladimiro Dorigo democristiano, ma molto di sinistra, Testimonianze del gruppo fiorentino raccolto intorno a padre Ernesto Balducci, Settegiorni un settimanale sponsorizzato da Carlo Donat Cattin e diretto da Ruggero Orfei e Piero Pratesi. Il mio spostamento a sinistra andava di pari passo ad una sofferta battaglia per il rinnovamento della religione e per aperture culturali tra mondo cattolico e movimento operaio; iniziai a leggere anche l’Astrolabio diretto da Ferruccio Parri e Problemi del socialismo di Lelio Basso (uno dei padri costituenti, socialista di sinistra, poi psiuppino che pensava ad una sinistra non comunista di tipo luxemburghiano).

gli angeli del fango

Nel novembre 1966, in occasione della alluvione di Firenze, partimmo in un buon gruppo per partecipare al progetto di estrazione dalla fanghiglia dei libri della Biblioteca Nazionale. Organizzavano Ugi e Intesa di Matematica e Fisica e fu così che incominciammo a conoscerci e a fare gruppo.

Mi ricordo una loggia, tipo quello di piazza Signoria (ma più piccola), e noi pieni di fango (un fango liquido tra l’ocra e il verdastro) che ci riposiamo un po’. Il fango era dovunque e ce n’era tantissimo nei sotterranei della Biblioteca Nazionale. Sento il sapore di un panino con il pane senza sale con il salame toscano, quello con il grasso non macinato e inserito a pezzi grandi, che vedevo per la prima volta.

Forse abbiamo fatto più scena che sostanza; ogni tanto ci penso. Ma siamo andati subito e ci era chiaro che bisognava andare.

hanno fatto un deserto …

il manifesto di convocazione, con il teschio, la bandiera americana e la citazione di Tacito

Passò qualche mese e l’UGI raccolse un appello internazionale, mi pare  partito dagli studenti americani, per manifestare a fianco del Vietnam.

Hanno fatto un deserto e lo hanno chiamato pace, diceva una frase di Tacito stampata su una bandiera americana con il teschio. E’ stata la mia prima manifestazione.

Ci sono andato in pulman con Flavio Crippa e i suoi amici della Fgci di Lecco; tanti giovani, tante bandiere vietnamite, un po’ di bandiere rosse. Non mi piaceva la guerra del Vietnam; ma quelli come me ci tenevano a sottolineare che non eravamo antiamericani, eravamo contro quello che gli americani stavano facendo. C’era stato in Grecia il golpe dei colonnelli e il clima si stava surriscaldando.

Dopo quello di Lelio Basso, che rappresentava il tribunale Russel, ci fu il tentato comizio di Giorgio La Pira sindaco di Firenze. Per me, allora, La Pira era un un mito, come lo erano padre Balducci, don Milani o la comunità dell’Isolotto; erano l’esempio che si poteva essere cattolici ed essere in prima linea nella lotta contro l’ingiustizia.

Quella sera ebbi il primo incontro con quelle che avremmo poi chiamato le contraddizioni in seno al popolo. La Pira aveva appena iniziato a parlare con il suo stile profetico che lo portava a fare il Sindaco delle città della pace, a viaggiare tra Mosca e Washington per fare l’ambasciatore dei diritti del Vietnam. Dopo poche parole fu subito subissato dai fischi dei marxisti leninisti. E poi, a manifestazione finita, ci fu lo scontro con la polizia accuratamente ricercato da alcuni. Che paura; città sconosciuta; botti dei lacrimogeni; cercammo di arrivare al pullman; ma perché i fischi, ma perché gli scontri? Non eravamo venuti per la pace?

convegno dell’Intesa a Castelveccana

Estate 1967 Castelveccana: convegno estivo dell’Intesa in un convento di suore sul Lago Maggiore. Si discute della imminente lotta alla Cattolica contro l’aumento delle tasse. Ci sono anche due dei tre che più tardi saranno espulsi, Pero e Spada (ma non c’è Capanna). L’Intesa per noi giovani cattolici impegnati a sinistra è lo sbocco naturale: progressismo, incontro con la sinistra laica dell’Ugi.

C’è anche il segretario nazionale Pierluigi Covatta, che ha 3 o 4 anni più di noi, è cresciuto nelle file del movimento giovanile democristiano e ha guidato l’organizzazione all’incontro con i comunisti. Brillante, ironico; ricordo un piccolo aneddoto sulla ignoranza nel mondo democristiano. Era ad una riunione di deputati DC e fu presentato come presidente nazionale dell’UNURI (l’organismo nazionale delle rappresentante studentesche). Venne avvicinato da un deputato che gli fece i complimenti: lei così giovane e già così esperto di cavalli. Il deputato aveva confuso l’UNURI con l’UNIRE (unione nazionale per l’incremento delle razze equine).

Ha diretto MondoOperaio, la rivista teorica del PSI dopo aver fatto il maitre a penser del PSI nel primo progetto riformista di Craxi.  Covatta è morto nel 2021.

il terzo mondo

Acccanto a Rinascita la mia formazione politica sta avvenendo con la lettura di libri di taglio terzomondista (non si diceva ancora antimperialista). Il giorno precedente quello dei miei 21 anni, che allora era la maggiore età, arrivò la notizia della morte di Che Guevara. Era il 7 ottobre 1967.

il cadavere di Che Guevara mostrato in pubblico dai suoi assassini.

Quelle foto di Che Guevara massacrato di botte prima di essere riempito di pallottole lasciarono il segno. Sembrava il Cristo morto del Mantegna e quella foto avrebbe inciso nelle coscienze di molti giovani.

Il mondialismo era quello che ci sentivamo dentro. Non dicevamo lotta all’imperialismo o internazionalismo proletario; mondialismo mi pare più attinente alle pulsioni della mia generazione. Era qualcosa che aveva a che fare con una sorta di senso di colpa del ricco Occidente nei confronti del resto del mondo.

Gli anni ‘60 sono stati gli anni del disfacimento degli ex imperi coloniali, della conquista dell’indipendenza da parte di molti stati di Asia e Africa, mentre in America Latina si guardava all’esempio di Cuba, alla Trilaterale, al movimento dei non allineati. Non ci sorreggevano grandi analisi su ciò che accadeva o sulle nuovi classi dirigenti di quei paesi, ci bastava l’idea che forse qualcosa stesse cambiando e che si potesse andare verso un ordine internazionale più giusto.

Si navigava a vista, accanto a qualche libro di Pierre Jalée come “il saccheggio del terzo mondo”, che ci introduceva ai problemi del mercato mondiale e a quello delle materie prime, ricordo un articolo di Rinascita in cui, per la prima volta, scoprii che, invece di parlare di primo, secondo e terzo mondo, meglio sarebbe stato parlare di paesi sottosviluppati e paesi sottosviluppanti, con le ovvie conseguenze del caso in termini di responsabilità.

il 1968, la prima occupazione, le mie prime elezioni

antefatto

I movimenti hanno sempre una causa immediata di tipo casuale e, nel caso di fisica, tutto partì dalla reazione esagerata del direttore di istituto, professor Caldirola ad un problema banale: una assemblea non terminata nell’orario previsto. La presiedeva Roberto Biorcio, più vecchio di noi di un paio d’anni. Biorcio era il presidente del parlamentino studentesco di tutta la Statale.

Il professor Caldirola non voleva che l’assemblea continuasse nella sua ora e non mi ricordo proprio perché la volessimo fare. Biorcio lo incalzava e si muoveva secondo i moduli della non violenza; me lo ricordo a braccia alzate che resiste davanti alla lavagna mentre Caldirola tenta di buttarlo fuori.

Alla fine, per poter continuare, ci prestò l’aula il professor Loinger, fisico teorico, uno dei decani di Fisica. Tanta voglia di fare qualcosa, ma cosa? Si dice che l’appetito vien mangiando. Iniziò un lungo dibattito durato giorni; si fece strada, pian piano, l’idea di occupare l’Università (come stava accadendo in giro per l’Italia).

una ciliegia tira l’altra …

assemblea generale di scienze in aula A – si riconoscono tra gli altri Giorgio De Michelis, Sergio Bianchini, Bruno Manelli e Daniele Marini – dietro di lui il mitico Robuschi, detto Robuschiele per il tono profetico dei suoi intrventi (Ezechiele)

Si trattava di una assemblea vera; noi con tanta voglia di essere; gli altri, i nostri compagni di corso, perplessi e incuriositi; alcuni ci accusarono di essere pagati dai comunisti con le semplificazioni che la destra qualunquista ha sempre avuto e che aveva anche allora. Ma si discuteva, tutti avevano diritto di parola e si replicava cercando di convincere

Si andava affermando la democrazia assembleare; alla fine venne il momento di decidere sul da farsi; ci fu una votazione per appello nominale di coloro che nei giorni precedenti, libretto alla mano, si erano iscritti al voto; una votazione durata ore ed ore.

Le aule B e C furono collegate via audio con l’aula A (grazie ai prodigi di Flavio Crippa, fin da allora eccezionale addetto alla logistica). Si veniva chiamati e ci si dichiarava favorevoli o contrari; quando il numero dei favorevoli raggiunse il quorum, a chiamata ancora in corso, scoppiò un applauso liberatorio; quel quorum significava OCCUPAZIONE.

Era il 28 febbraio 1968 e il documento per la occupazione diceva tra l’altro:


Nella lezione, il professore impartisce nozioni che gli studenti sono tenuti ad apprendere con lo studio individuale. I contenuti dell’insegnamento sono proposti in forma frammentaria senza che sia mai richiesta una sintesi a livello di critica della scienza e una chiarificazione dei nessi tra attività universitarie, professioni, sviluppo sociale ed economico.

Durante l’esame il professore controlla, in modo spesso arbitrario, l’apprendimento nozionistico. L’imposizione di questo sterile nozionismo porta lo studente a uno studio mnemonico che limita o impedisce lo sviluppo critico e la maturazione della sua personalità.

Una volta laureato, lo studente si troverà di fronte a una società che non conosce e che non sa criticare, nella quale dovrà inserirsi per vivere diventando inconsciamente lo strumento che garantisce la stabilità di questo ordine sociale. Questa situazione della didattica si perpetua grazie alle condizioni di totale passività degli studenti, assuefatti ormai ai metodi autoritari presenti a tutti i livelli scolastici. Si presenta quindi l’importanza dell’obiettivo della contestazione dell’autoritarismo accademico mediante l’introduzione del dibattito a tutti i livelli delle attività universitarie e della affermazione delle esigenze di cui gli studenti sono portatori.


in aula A durante la assermblea di occupazione

Su Pensieri in Libertà c’è una pagina di documentazione con la mozione integrale, il regolamento di assemblea, il regolamento per la affissione dei manifesti, …

Eravamo in una facoltà scientifica e dunque, ci siamo dettidobbiamo essere seri:  a dormire i ragazzi da una parte le ragazze da un’altra. Bisogna rimettere bene in ordine tutto la mattina. Ciascuno contrattò con la famiglia il diritto di dormire nella facoltà occupata: fortunati quelli con la famiglia di sinistra che non avevano problemi.

Il movimento raggruppava tutti i corsi di laurea di scienze, con la eccezione di chimica, che confluirà nel 68/69.

la contestazione

Abbiamo scoperto che il mondo dei formalismi, delle persone per bene, non ci stava più bene che, per noi, volevamo decidere noi. Volevamo dare un taglio alle cose più assurde, in una parola volevamo la democrazia diretta. Quando ce la siamo presa, ci siamo accorti quasi subito di essere finiti in un mondo magico da cui non volevamo più uscire, perché dentro quel mondo non valevano più le regole assurde dell’altro mondo.

Poiché non si poteva vivere solo in assemblea, abbiamo incominciato ad inventare altre forme di organizzazione: strutture decentrate come le commissioni a tema, i gruppi di lavoro, i gruppi di intervento; obiettivi di lotta contro la selezione e contro la scuola di classe, che avevano come strumento primario quello di controllare i ritmi di insegnamento in modo che non andassero in contrasto con quelli di apprendimento.

un po’ di colore

Una foto mostra le ragazze che fanno le pulizie la mattina perché noi di scienze della prima ora siamo molto moralisti e ci teniamo a smentire quello che dicono certi giornali sulla università trasformata in un bordello. Deve essere tutto in ordine; peccato che a pulire siano le ragazze.

sullo sfondo Alberto Bertoni

Come siamo diversi: Basilio (Rizzo) è un mito: non è battezzato ed è di famiglia comunista, ma gioca alle carte come gli altri, anzi di più, a briscola con suo nonno.

Ci sono i cattolici compresi quelli che tra breve daranno vita a Comunione e Liberazione sulle ceneri della implosione di Gioventù studentesca, i cattolici di sinistra già toccati da Fuci e Intesa, gli studenti di sinistra, quelli di sinistra ma che forse sono ancora più a sinistra, quelli dello Psiup, gli anarchici, gli hippies, i situazionisti, qualche operaista in gestazione.

I bidelli di fisica sono con noi (quante partite a tressette e al due con Gino e Giancarlo).

la organizzazione

Si mette in piedi il Comitato di Agitazione nella ex sala della facoltà (di fronte alla biblioteca) dove si facevano le sedute di laurea e dove un tavolo gigantesco ci permetterà di fare riunioni ordinate. Il Comitato di Agitazione è una sorta di ufficio di direzione che serve a dare continuità al lavoro.

Incominciamo a fare i tatse bao (i giornali murali ripresi dalla rivoluzione culturale cinese) usando i fondi delle bobine di carta da quotidiano procurati da Flavio. I nostri tatse bao hanno il titolo rigorosamente a pennello con vernice ad acqua di colore rosso e sono inconfondibili nella storia del movimento milanese. I titoli dei gruppi in cui si articola l’assemblea li vedete nella foto: didattica di massa, ricerca di massa, preparazione all’insegnamento, scuola – società – ristrutturazione, diritto allo studio, sbocchi professionali.

non chiedetemi perché quel giorno fossi in giacca e cravatta – non mi ricordo

Poi il grande lavoro su Lettera ad una professoressa che viene ristampata in migliaia di copie e che leggeremo e discuteremo pagina per pagina nei gruppi di studio. Me la sono riletta un paio d’anni fa e direi che c’era del buono e del meno buono (si veda l’articolo rileggendo Lettera ad una professoressa).

L’occupazione è finita. Non ricordo cosa abbiamo ottenuto perché i ricordi si sovrappongono tra le mie tre occupazioni (68,69 e 70).

Ci fu un tentativo di controllo dei ritmi di insegnamento e di quelli di apprendimento (una esigenza giusta con un obiettivo improponibile e irrealizzabile se assunto senza mediazioni) e comunque dopo quella occupazione e la successiva portammo a casa: i semestri, i corsi serali, le dispense oltre ad alcun piccole liberalizzazioni sui piani di studio.

le elezioni della primavera 1968 e lo PSIUP

In quella primavera si tennero le elezioni politiche e io votavo per la prima volta (solo alla Camera). Politicamente mi stavo avvicinando allo PSIUP che avevo iniziato a frequentare in quel di Monza con due amici (Mao Soardi e Lino Di Martino) che poi fecero i professori a Matematica.

Votai PSIUP e in quei mesi lessi e rilessi un  libro per me importante “Il socialismo difficile” di Andrè Gorz condirettore (con Sartre) di Les Temps Modernes. Si incominciava a cercare una nuova teoria; eravamo curiosi di marxismo; si trattava di un’opera a più mani cui avevano collaborato esponenti del movimento operaio italiano come Foa, Garavini e Trentin. Si esponeva un modello di lotta per il socialismo che passava attraverso profonde riforme di struttura e ci si respirava aria di libertà. Erano i cosiddetti riformisti rivoluzionari, una definizione che trovavo consona alle mie idee.

Nel corso dell’estate 1968 accaddero due eventi importanti per la mia evoluzione politica: la invasione della Cecoslovacchia da parte dei carri armati sovietici e il convegno del movimento di scienze a Fontanella presso l’abbazia di padre Turoldo.

Mi ero iscritto allo Psiup da meno di 15 giorni e mi ritrovai immediatamente alla opposizione vista la presa di posizione ambigua di quel partito sui carri armati russi a Praga. Così, fatta eccezione per il lavoro politico a Monza in occasione della lotta della Candy con la fondazione del CUB, il mio frapporto con lo PSIUP finì prima ancora di incominciare.

A Monza la  sede dello PSIUP era in via Anita Garibaldi, sulla destra del Tribunale ed era annessa ad un circolo socialista in riva al Lambro (oggi ci sono solo condomini signorili). Più che per far politica andavamo ad ascoltare i racconti dell’avvocato Giovanbattista Stucchi, uno dei comandanti del CLN Alta Italia, uno di quelli che si vedono sfilare con Longo e Mattei nella famosa foto della liberazione di Milano (rappresentava le brigate Matteotti).

Estate 1968 convegno del movimento a Fontanella

Fontanella è una frazione di Sotto il Monte, il paese di Giovanni XXIII e a Fontanella padre David Maria Turoldo (intellettuale, poeta, predicatore, organizzatore) aveva messo in piedi intorno ad una abbazia medioevale un centro studi dei Servi di Maria l’ordine religioso di cui faceva parte.

A Fontanella abbiamo fatto il convegno residenziale estivo del movimento. Pochi giorni di nuovo insieme (eravamo una cinquantina) per discutere cosa fare nel 68/69. Abbiamo lavorato e a me è rimasto in mente la pace di quel posto. Turoldo ci lasciò discutere per giorni senza mai interferire e poi prese la parola l’ultimo giorno; riprese qualche elemento della sua ricca storia personale che copriva tutto il dopoguerra e ci rivolse un invito esplicito a non farci strumentalizzare. Ricordo ancora la replica irata di Sergio Bianchini che si stava avvicinando ai marxisti leninisti.

A Fontanella ho anche conosciuto Oskian (Aurelio Campi) che nel primo anno di movimento si era mosso nell’ombra (anche perché allora era un greco-armeno apolide) e che durante il convegno esercitò una netta leadership conquistando alla neonata Avanguardia Operaia una buona fetta del gruppo dirigente.

Con lui ebbi modo di approfondire le cose che avevo appreso dal libro di Gorz. Era leninista e me le smontò una per una, ma senza strafare. Era iniziato il mio percorso verso Avanguardia Operaia. Paradossalmente, quando nel 1975, da segretario generale di Avanguardia Operaia si trovo a dover definire la nostra strategia di medio periodo, egli parlò di lotta rivoluzionaria per le riforme.  Gorz aveva ragione?

la religione e il cristianesimo

La rottura con la religione è stata graduale e, come detto, è avvenuta prima con la Chiesa e poi con Dio. Il mio processo di contestazione-rinnovamento è iniziato all’inizio degli anni ‘60 con l’adesione a Gioventù Studentesca: ricerca di rapporti umani autentici e rapporto con il Divino mediato da una comunità: il contrario del formalismo e della disumanità della Chiesa brianzola di paese fatta di riti, organizzazione e mancanza di discussione.

Da GS me ne sono andato quando l’integralismo è diventato dominante e gli spazi per un nuovo umanesimo sono diventati solo quelli interni al cattolicesimo. Lasciata GS, non ho lasciato il cattolicesimo (che ormai preferivo chiamare cristianesimo): attenzione al rinnovamento post conciliare, lettura delle riviste del rinnovamento, frequentazione di sacerdoti e comunità eterodosse, delusione per la figura di Papa Montini sul piano umano (troppo pastina) e sul piano intellettuale e teologico con i passi indietro rispetto a Papa Giovanni il Papa Buono.

abbazia di Sant’Egidio a Fontanella nei pressi di Sotto il Monte

E’ stata una trasformazione lenta che ha avuto il suo strappo decisivo proprio a cavallo del ‘68-‘69, quando mi presi alcuni giorni di riflessione presso la comunità di Padre Turoldo. Lì ho trovato gente molto in gamba disposta a concepire percorsi personali e un po’ eretici dentro la Chiesa (teologi puri, teologi della liberazione).

Oltre a padre Turoldo, fuori classifica sul piano della personalità e della esperienza umana, ebbi modo di conoscere alcuni altri Servi di Maria (intellettuali a tutto tondo e anche frati latino-americani con simpatie per la rivoluzione). In Uruguay era il tempo dei Tupamaros. Scrissi anche un saggio per la loro rivista trimestrale (Servitium). Ma c’erano di mezzo le assurdità del mondo cattolico con i suoi riti, la sua etica reazionaria, il principio di autorità; avevo 22 anni e avevo incominciato a fare sesso con Bruna.

Da Turoldo e dai suoi teologi venni invitato a considerarmi una pecorella con diritto alla autonomia di pensiero, ma dopo alcuni dolorosi ripensamenti, decisi che la cosa non aveva senso e finì così, naturalmente in maniera graduale, prima il mio rapporto con la religione e poi quello con la trascendenza.

intermezzo lavorativo

Come campavo, visto che nel ’65, con i miei avevo preso l’impegno di cavarmela da solo? Nei primi due anni ero molto preso dallo studio e così mi limitai a qualche lezione privata e a partire dal 67 le mie entrate diventarono più regolari:

Docente nelle scuole serali di tipo professionale; ho insegnato sia ad Arcore, sia a Macherio per tre anni; si trattava di fornire rudimenti di matematica in corsi che venivano organizzati in accordo con i comuni entro strutture scolastiche.

Lezioni private; qualche cosa tra Villasanta e Monza, con preferenza a lavori di tipo continuativo (assistenza per l’intero anno scolastico a figli di famiglie facoltose) e poi a Milano; sempre per alunni di liceo.

Ho anche lasciato un credito di almeno centomila lire di allora ad una famiglia di corso Magenta. Palazzo signorile, famiglia con maggiordomo in livrea; capofamiglia un primario dell’ospedale di Vimercate. Il rampollo faceva il Gonzaga (uno dei licei privati prestigiosi di Milano).

Venivo ricevuto dal maggiordomo che mi faceva accomodare e aggiungeva “un momento che le chiamo il signorino“; la cosa mi metteva molto a disagio. Aggiungo che in un paio di occasioni mi fu detto “mi spiace, il signorino non c’è e si è dimenticato di avvertirla“. Da Città Studi, per andare in corso Magenta ci mettevo almeno tre quarti d’ora e la cosa del signorino, che avrei preso a calci nel culo, mi seccava. Al terzo episodio non mi hanno più visto nè sentito. Una questione di dignità e la scelta di non richiedere quanto mi spettava fu un punto di orgoglio.

Redazione di testi per le enciclopedie: la De Agostini, o altri editori, si rivolgevano ad un docente universitario di grido per la redazione di quelle enciclopedie a dispense e liui subappaltava. Non si guadagnava molto ma in compenso non c’erano tempi morti e problemi di viaggio.

Beppo Occhialini

Tecnico universitario: dal 1969 al luglio 70 ho lavorato come tecnico universitario part time (in prova e su fondi CNR) presso il gruppo di Fisica dello Spazio del professor Occhialini. Non si guadagnava molto ma ci pagavo le tasse, i trasporti, la mensa e la cambiale di 23’600 lire mensili per l’acquisto della 500 comperata a inizio ’68 firmando 29 cambiali.

Quel posto di lavoro mi avrebbe poi aperto la strada per la carriera universitaria. Mentre ero a militare il posto fu trasformato in quello di tecnico di ruolo, ed essendomi nel frattempo laureato sarei diventato automaticamente ricercatore universitario di ruolo. Quando tornai da militare il professor Occhialini che mi stimava, stima reciproca, mi chiamò per sapere che intenzioni avevo. Mi guardò negli occhi ed io risposi: la fisica mi piace, ma la politica viene prima. E così rinunciai alla carriera universitaria prima di cominciare.

il 1969 e l’impegno in AO

Lo scopo di questo capitolo è quello di parlare della mia evoluzione politica e dunque vedremo come sono cambiate le mie idee con la adesione al comunismo rivoluzionario e quello che facevo in politica.

il rapporto con Oskian (Aurelio Campi)

Come ho già detto era iniziato un rapporto stretto e continuativo con Oskian del quale mi colpivano favorevolmente la chiarezza, la molteplicità di interessi e la grande cultura.

Quasi tutti i giorni mangiavamo o alla casa dello studente o all’altra mensa di via Venezian e poi si passava a casa sua e di Claudia Sorlini, la sua compagna, per le chiacchiere a ruota libera, ed è da queste chiacchiere che è maturata la adesione al progetto di AO.

Percepivo quanto il lavoro da fare fosse molto, difficile e da svolgere con pazienza. Costruzione del consenso attraverso il dialogo e tanto lavoro politico anche minuto. Su una parete c’erano i 45 volumi delle opere di Lenin ed è a Lenin che Oskian faceva continuamente riferimento come esempio da tenere presente nel lavoro politico. Leggeva regolarmente Le Monde e il settimanale filopadronale “Mondo Economico”. Claudia interveniva ad attenuare certe spigolosità con un po’ di saggio pragmatismo bresciano e femminile.

la prima cellula di AO

Metà del mio tempo lo dedicavo allo studio della storia, della economia politica e a quello dei classici. Quelli li studiavo bene cercando di approfondire il contesto, perché una delle prime cose che mi capitò di fare fu il lavoro di docente in gruppi di studio di formazione politica (a quei tempi, sui giornali, ci chiamavano i professorini di AO).

C’era da mettere in piedi la cellula di AO di fisica, di cui fui il primo segretario (era la prima delle Università, poi Scienze, poi Città Studi dopo il coinvolgimento di Ingegneria, Agraria e Medicina). Tra lavoro politico, lavoro materiale come dipendente universitario part time e pendolarismo, quello fu un anno in cui, scientemente, combinai piuttosto poco in termini di crediti universitari. Avevo finito il III anno in pari con gli esami e nel corso del IV anno non ne diedi nemmeno uno dopo aver rinunciato a dare Elettronica applicata che pure avevo studiato con impegno.

Il rapporto con Avanguardia Operaia nel corso del 1969 passò attraverso la partecipazione ad assemblee di orientamento che si tenevano la domenica mattina alla sede di via Bacchiglione o il sabato pomeriggio in quella di via Giason del Maino.

com’era la AO che incontrai

i primi numeri della rivista mensile di AO

La nascente Avanguardia Operaia, oltre che per il lavoro nei confronti delle grandi fabbriche attraverso i Cub, lavoro in cui non ero direttamente coinvolto, si caratterizzava per la formazione di militanti ideologicamente e politicamente formati su alcuni capisaldi:

  • una tiepida adesione ai processi in atto in Cina, ma senza strafare
  • un riferimento al fallimento della rivoluzione d’ottobre, tradita dallo stalinismo prima e dalla burocrazia poi, ma di cui si salvava l’impianto leninista (con gli annessi e connessi della presa del potere e della dittatura del proletariato)
  • una posizione di appoggio ai movimenti di liberazione in tutto il mondo che strizzava l’occhio ai trascorsi trotskisti di alcuni esponenti del gruppo dirigente. Massimo Gorla (che era stato nella segreteria della IV internazionale) con numerosi di quei movimenti intrattenevano rapporti sistematici anche se con una selezione degli interlocutori eccessivamente viziata da criteri di tipo ideologico. Si veda per esempio l’appoggio al Fronte Democratico Popolare di Liberazione della Palestina, che era DOC dal punto di vista ideologico, ma contava molto poco rispetto ad Al Fatah
  • una visione del processo rivoluzionario in Italia come processo di lungo periodo e la sottolineatura che ci trovavamo nella fase di creazione delle condizioni per la formazione del partito rivoluzionario di tipo leninista (avanguardia del proletariato); di più non si diceva e non si poteva dire, ma era una bella demarcazione da gruppi e partitini che si autoproclavano partito rivoluzionario
  • un giudizio nei confronti del Movimento operaio organizzato e in particolare del Partito Comunista come di partito che aveva tradito, dopo la parentesi gramsciana, la lotta per il socialismo; su questo punto c’erano grande intransigenza e contrapposizione aperta. Nel numero uno di Avanguardia Operaia il PCI è definito essere l’ala sinistra della borghesia  (una sciocchezza che non ho mai digerito). In realtà trovavo che il giudizio sull’impianto teorico del PCI fosse parecchio schematico ma non me la sentivo di affrontare la questione, anche per denolezze teoriche e storiche mie.
  • nei confronti delle altre forze della sinistra rivoluzionaria i giudizi le collocavano nei diversi compartimenti del panorama arlecchino della sinistra rivoluzionaria: spontaneisti, economicisti, stalinisti, filo revisionisti, …Questo modo di procedere era tipico di tutte le organizzazioni allora presenti e si caratterizzava per un alto livello di concorrenza competizione

In sintesi: difesa del leninismo con critica della degenerazione staliniana, lotta per il socialismo senza la pretesa di essere i migliori del mondo, rottura molto netta con PCI e sindacati, sulle questioni centrali del processo rivoluzionario in Italia … si vedrà.

la formazione politico-ideologica

Avanguardia operaia sin dal 1969 prestò grande attenzione alla formazione politica ideologica dei suoi militanti e quindi, da subito, realizzò una rivista bimestrale, poi divenuta mensile, in cui si alternavano saggi di orientamento storico-politico, relazioni relative al lavoro di massa e informative sui rapporti con gli altri gruppi in giro per l’Italia

i classici in un estratto della mia biblioteca

Per quanto mi riguarda continuavo ad utilizzare la lettura attenta di Rinascita come strumento di orientamento relativo alle problematiche del nostro paese, visto che trovavo eccessivamente schematici e deduttivi gli editoriali della rivista.

Alla attenzione alla politica quotidiana affiancavo uno studio sistematico del leninismo, in particolare con le opere che consideravamo fondamentali per la sua comprensione e assimilazione:

  • stato e rivoluzione per le questioni di orientamento generale sul comunismo
  • che fare? sulle problematiche del partito rivoluzionario e della sua costruzione
  • l’imperialismo fase suprema del capitalismo per l’analisi del panorama mondiale
  • l’estremismo malattia infantile del comunismo per comprendere la storia del bolscevismo
  • la rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky sulle problematiche di demarcazione tra socialisti e comunisti

Prima di affrontare Lenin avevo studiato il Trattato di Economia marxista di Ernest Mandel, un’opera in due volumi che costituisce una ottima introduzione non solo alle problematiche della economia politica ma anche al materialismo storico.

Leggiucchiavo qualcosa di Trotsky, che mi piaceva dal punto di vista stilistico e comunicativo, mentre nella prima fase, con la eccezione del Manifesto del Partito Comunista e della concezione materialistica della storia non lessi nulla di Marx, rinviando ad altri momenti la lettura del primo libro del capitale.

idealismo e materialismo

A proposito della concezione materialista della storia (un estratto della Ideologia Tedesca) ho un ricordo kafkiano di un gruppo di studio alla cellula di Fisica sul tema classe in sè e classe per sè. Questioni che rinviavano all’idealismo hegeliano, argomento che mi era del tutto sconosciuto e a cui cercavamo di sopperire leggendo le note del curatore.

Con il senno di poi mi viene da dire, a proposito dell’impegno editoriale degli Editori Riuniti nella diffusione delle opere di Marx e di Lenin, quanto fossero masochisti questi esponenti dell’ala sinistra della borghesia. Confesso, per quanto riguarda gli odiati revisionisti, di essermi sempre rifatto alle fonti dirette leggendo La storia del PCI  di Paolo Spriano che nel 69 era giunta al secondo dei cinque volumi (che continuai poi a leggere negli anni successivi).

Paolo Spriano per me era un mito dopo che mi capitò di leggere un suo corsivo su Rinascita in cui si ironizzava sul giornalismo alla Panorama proposto dal fondatore Lamberto Sechi che con la scusa dei fatti separati dalle opinioni sfornava articoli facili da leggere ma di una superficialità assoluta e simili a chiacchiere da cortile. Spriano sosteneva, in contrapposizione, che sognava un settimanale in cui gli articoli iniziassero dicendo io la penso così e seguivano le argomentazioni.

cosa è mancato al movimento? Le mie colpe

Con l’inizio dell’anno accademico 69/70 ho preso atto che avevo trascorso un intero anno senza dare esami e che bisognava rimediare. Ho continuato il lavoro part-time alla cattedra di Fisica dello Spazio, ma mi sono impegnato per finire l’Università. In pochi mesi recuperai il tempo perduto: 4 esami e tesi di laurea e così alla fine di luglio del 70 mi ritrovai ad essere dottore in fisica e pronto per andare a militare.

Quello che sono ora non è certamente ciò che ero allora, ma nei diversi incontri fatti per il 40° e il 50° del nostro movimento di Scienze mi sono interrogato sul se e quanto avremmo potuto lavorare diversamente, se e quanto la mancanza di una battaglia di natura culturale fosse stata responsabilità nostra.

In quegli anni utilizzammo una impostazione vertenziale con obiettivi strutturati che riguardavano essenzialmente il diritto allo studio, il miglioramento delle condizioni materiali per gli studenti, il diritto di organizzazione politico culturale, la attivazione dei corsi pomeridiani e serali per i lavoratori studenti, la proposta dei semestri e il controllo sui ritmi di insegnamento e di apprendimento. I corsi serali nei primi anni ebbero un grande successo e consentirono a molti tecnici delle aziende milanesi di laurearsi.

Nella scelta degli obiettivi c’era un limite genetico, legato alla scelta di non mischiarci con il dibattito politico ideologico, come si faceva alle facoltà umanistiche. Con il linguaggio di allora parlerei di un vizio di economicismo. Non volevamo aprire la discussione sulla cultura scientifica, sul neopositivismo, sul materialismo dialettico, sul ruolo della ricerca scientifica e al più ci limitavamo ad affermare il carattere non neutrale  della scienza, ma in realtà non ne sapevamo molto.

Eravamo pieni buona volontà, desiderosi di fare meglio, ma anche estremamente ignoranti (nel senso etimologico del termine) e dunque, mentre altrove si tentavano i contro-corsi, noi ci dedicammo a far funzionare meglio (sul piano dei risultati) la macchina universitaria. D’altra parte, con poche eccezioni, non ci aiutarono i docenti, a loro volta piuttosto impreparati e sconcertati nel sentirsi rivolgere domande sui fondamenti o sul senso di ciò che ci proponevano: studenti critici, desiderosi di capire, interessati a fare domande e, dall’altra parte, docenti sconcertati che al più rigiravano la domanda, ma non sapevano cosa rispondere.

Nell’estate del 1969, anziché occuparsi di queste cose il Comitato di Agitazione sfornò un documento, pubblicato con evidenza su uno dei primi numeri di Avanguardia Operaia, in cui il tema principale al termine del secondo anno di movimento sembrava essere la discussione metodologica sul rapporto tra movimento di massa e organizzazioni politiche e sul fatto che il rapporto con la classe operaia dovesse passare attraverso la mediazione della organizzazione rivoluzionaria. Lo potete leggere qui l’ideologia prende il sopravvento (estate 1969) ma vi anticipo che è parecchio noioso.

Mancando la riflessione sulla scienza il movimento moriva per asfissia su obiettivi giusti ma limitati e su cui non si poteva pretendere di campare per anni. Non a caso nell’anno 70/71 (mentre ero a militare) ci fu una grande lotta seguita da una grande sconfitta, perché il movimento, mancando di una strategia propositiva si infilò, senza capacità di mediazione, nel cul de sac del controllo totale dei tempi di insegnamento e apprendimento. Non seppe mediare e non portò a casa nulla.

Mi interrogo spesso sulle mie responsabilità, ma alla fine mi assolvo. Ero un emerito ignorante; per fare la riflessione critica sulla scienza serviva un bagaglio culturale che non avevo e che avrei acquisito solo più tardi.


Questo articolo va letto insieme a 1965-1970 L’Università e la scienza che riguarda lo stesso periodo ma è riferito in senso stretto agli studi universitari.

La pagina con l’indice della mia autobiografia da cui potete scegliere i capitoli da leggere e vedere una sintesi di ciascuno


 


 




1965-1970: l’Università e la scienza

III edizione – giugno 2024

fisica via celoria

L’istituto di fisica di Via Celoria con i due ingressi, a sinistra la didattica e a destra la ricerca. Al centro le finestre della biblioteca e sulla sinistra l’area didattica con le aule. Sullo sfondo l’Istituto tumori.

Gli anni di università si possono vedere da due punti di vista: la crescita culturale con la acquisizione di competenze importanti in ambito scientifico e l’immersione in un ambiente nuovo e stimolante coronato dal 1968. Ho deciso, per non fare confusione, di mantenereseparati i due ambiti e qui tratterò del primo: l’Università degli Studi di Milano e il dipartimento di Fisica.

Mi ero iscritto a Fisica perché c’era qualcosa che mi affascinava nella scienza e mi piaceva anche l’idea di occuparmene in maniera professionale (galeotti furono l’Hensemberger e il professor Oggioni, quello che mi apriva il giornale davanti al naso, e a cui diedi fuoco quando facevo la quarta).

L’Università era un ambiente totalmente nuovo:

  • Milano, raggiunta ogni mattina con il treno da Villasanta (con cambio a Monza) o da Arcore e poi a piedi dalla Centrale sino a Città Studi per non pagare il biglietto del tram (un bel risparmio), anche se, in quegli anni, camminare per Milano voleva dire arrivare in Università con la faccia nera per il particolato degli impianti di riscaldamento a nafta pesante
  • Le aule universitarie con 400 persone diverse tra loro nel modo di vestire e di parlare. I liceali diversi dai periti, i milanesi diversi da quelli della provincia

A preoccuparmi non erano nè la fisica in senso stretto, nè le applicazioni della analisi matematica alla fisica; era la astrazione matematica a mandarmi in crisi. Non ci ero abituato.

il primo anno

l’Istituto di matematica in via Saldini

Incontravo per la prima volta ragionamenti raffinati, in particolare nelle dimostrazioni di analisi, quelle di tipo epsilon-delta, in cui si prendeva un intorno di qua, si fissava un elemento di là e poi alla fine, come per miracolo, veniva tutto.

I teoremi di analisi li studiavo, li ristudiavo e ogni volta mi sembravano tutti uguali. Sapevo che lo scoglio era quello e che  dovevo farcela. Nessuno mi aveva addestrato all’esprit de finesse dell’analisi matematica. Il professor Bellia, in IV all’Hensemberger, ci dettò la definizione metrica di limite. Poi aggiunse: imparatela a memoria che tanto non la capireste. E adesso impariamo a calcolare i limiti. Quello fu il mio primo incontro con l’analisi; imparai anche i rudimenti del calcolo integrale e come lo si potesse applicare alla elettrotecnica, ma l’analisi mi era apparsa un utile strumento più che una scienza con un suo status.

Le lezioni di analisi I e II e di geometria del I anno, e anche quelle di Meccanica Razionale del II, erano in comune con gli studenti di matematica, mentre ci separavamo per fare Fisica e Chimica. Quelli di matematica al posto di Chimica studiavano algebra astratta, una cosa che non c’entrava nulla con l’algebra che avevo conosciuto alle scuole superiori e che per me era una assoluta novità.

Giovanni Ricci

Il professor Giovanni Ricci α Firenze 1904 Ω Milano 1973 a Milano sin dal 1936

Si entrava in Istituto si superava il cortile con la fontana dei pesci rossi e si entrava nel corridoio dell’aula A. A sinistra c’era l’accesso alla biblioteca e all’area di ricerca. Tutte le sacrosante mattine in 400 ci beccavamo la lezione del professor Giovanni Ricci in aula A all’istituto di via Saldini.

L’aula veniva oscurata e lui incominciava a scrivere sulla lavagna luminosa con una matita a cera bordeaux con la stessa scrittura, rotonda e regolare, che c’era nel suo libro (un libro tutto scritto a mano). Scriveva e commentava con la sua voce profonda, la stessa di suo fratello Renzo, attore di teatro, e ci dava del lei e del loro. Era inutile prendere appunti, meglio annotare direttamente sul testo. Gli appunti si prendevano alle esercitazioni del pomeriggio.

Sul Ricci giravano gli aneddoti più strani come quello secondo cui, se uno era andato male all’esame, non ti metteva riprovato sul libretto ma ti dava epsilon trentesimi; in analisi epsilon, da sempre è il sinonimo di “preso un numero positivo piccolo a piacere“. Chissa se era vero? Ricci aveva un’aria seria e severa da uomo dell’800.

Per rassicurarmi, guardavo Flavio Crippa che tutte le mattine si metteva pochi posti a sinistra di dove stava il Ricci, con la sua bella barba alla Karl Marx, la cartella di pelle nera e l’Unità aperta sul banco come a dire, il mondo sta cambiando. Flavio veniva da Garlate, nei pressi di Lecco e mi insegnò molte cose della vita: si dilettava di archeologia, di archeologia industriale, aveva preso il brevetto di pilota d’aereo, smanettava con l’elettronica e nel 68, con il suo motoscafo ha portato me e Bruna da Garlate sino al lago di Mezzola (verso Chiavenna) risalendo tutto il lago di Como e un pezzo del fiume Mera (e ritorno).

Torniamo al Ricci: mi ricordo le prime dimostrazioni con l’utilizzo del postulato di induzione matematica (se una proprietà è vera in un caso e, supposta vera nel caso ennesimo, la si dimostra vera per n+1, allora è vera sempre): eleganza, ma anche la sensazione di aver succhiato una caramella al gusto di sabbia. Così si dimostra la verità di una proposizione, ma come la si scopre? Dimostrazioni costruttive, dimostrazioni per assurdo, dimostrazioni per induzione. Parole per me nuove come dicotomia o come postulato. Ma perché si postula se è già chiaro?

Nel pomeriggio, alle esercitazioni, mi trovavo meglio: dimostrazione di convergenza delle serie più assurde, studio di famiglie di funzioni che richiedevano l’uso continuo di disequazioni da risolvere anche solo in maniera approssimata alla ricerca di cuspidi, punti angolosi, discontinuità.

metà anni 60 sessione di laurea Matematica

metà anni 60 sessione di laurea Matematica (analisi, algebra, analisi, geometria)

Carlo Felice Manara

Quando finiva il Ricci incominciava il Manara: Carlo Felice, cattolico fervente e padre di una miriade di figlie, alcune delle quali studiavano con noi. Nel 74 sarebbe stato uno degli animatori del comitato referendario contro la legge sul divorzio.

Era ordinario di Geometria e, proprio in quell’anno, aveva rivoluzionata il suo corso: basta geometria proiettiva (roba da ingegneri ed architetti), basta geometria analitica nel piano e nello spazio (rinviate alle esercitazioni), si facevano geometria algebrica e geometria vettoriale negli spazi a n dimensioni, in maniera del tutto sganciata da ogni riferimento alla realtà o alla visualizzazione delle cose e io, un po’ ingenuamente, mi dicevo: ma geometria non vuol dire misura  della terra?

Per il nuovo corso Il Manara aveva anche pubblicato un libro dalla editrice Viscontea, ma il libro, giunto in ritardo a corso già iniziato, era pieno di errori redazionali e tipografici, così, quando non capivi un passaggio non sapevi mai se eri un po’ duro, o non capivi perché c’era un errore. Bastava che fosse saltato un neretto e il simbolo di vettore diventava quello di una componente. Anche qui la sofferenza superava il piacere.

Il professor Manara, a differenza di Ricci, stava in cattedra davanti alle lavagne a scorrimento; era alto e parlava sempre con gli occhi socchiusi e l’aria ispirata per cui non si capiva mai dove stesse guardando. Per fortuna le esercitazioni tenute dal professor Melzi e dalla professoressa D’Aprile, da noi chiamata familiarmente Margherita, erano più chiare e ci consentivano, attraverso domande, di ricevere qualche chiarimento sulle lezioni della mattina.

Analisi e geometria le studiavo con un compagno di Monza, compagno nei due sensi della parola perché poi avremmo aderito insieme allo PSIUP, il Mao (Maurizio) Soardi. Mao aveva fatto lo Zucchi, non aveva mai fatto esercizi di analisi in vita sua, ma aveva l’abitudine alla astrazione. Lui prese 30 e lode, l’anno dopo passò da fisica a matematica e, a meno di 30 anni, diventò ordinario di Analisi.

via Celoria

aula A di Fisica in via Celoria

Finiti i corsi a matematica, finalmente, si andava in via Celoria. All’angolo di via Saldini si prendeva a destra la via Mangiagalli e si passava davanti all’Istituto di anatomia sino all’obitorio, sull’angolo di piazzale Gorini. Si girava ancora a sinistra in via Ponzio e si costeggiavano gli edifici bassi in mattoni degli istituti di agraria e di veterinaria, si passava il Cremlino (l’istituto zooprofilattico, chiamato così per la presenza di alcune guglie) e finalmente si arrivava al  semaforo di via Celoria. Da una parte il Besta, l’istituto neurologico, e dall’altra Fisica.

Era un edificio moderno, corridoi e servizi igienici pulitissimi, un grande atrio con al centro una enorme camera a bolle dei primi anni 50 con cui furono effettuati importanti esperimenti di fisica delle particelle. Dopo tutta quella serie di edifici austeri e un po’ ottocenteschi qui si respirava una atmosfera meno formale. Sul lato di via Ponzio c’era l’ingresso carraio con il giardino, il ciclotrone, il capannino dove stavano i fisici delle particelle e il bar.

Ugo Facchini

occupazione 1971 – il professor Facchini, munito di seghetto tenta di riaprire l’area di ricerca occupata

In aula A ci attendeva il professor Facchini che teneva il corso di Fisica 1. Ugo Facchini era un personaggio un po’ underground, lavorava con il CISE  e si occupava di problematiche energetiche legate al solare. Dopo la defaillance di Caldirola (letteralmente impazzito di fronte al 68), lo sostituì nelle funzioni di direttore dell’Istituto di Fisica.

Il suo corso era diviso in tre parti:

  • una di meccanica newtonina e di relatività ristretta che usava come base un testo dello stesso Facchini,
  • una parte di termodinamica, da cui imparammo molto poco, perché fu trattata malamente a lezione mentre il testo, sarà anche stato di Fermi, ma non andavaassolutamente bene per degli analfabeti quali eravamo,
  • e infine una parte di meccanica dei fluidi dove si utilizzava un vecchio libro di Giovanni Polvani.

A onore di Facchini devo dire che, con il suo stile un po’ trasandato che puntava a sottolineare l’essenziale delle leggi trascurando le complicazioni matematiche, è riuscito a farci comprendere bene le cose essenziali della meccanica che poi avremmo ripreso alla grande nel corso di Meccanica Razionale.

fisichetta

Ma con la fisica non era finita, perché i fisici avevano anche un corso biennale Esperimentazioni di fisica  detto più familiarmente, fisichetta. A fisichetta si facevano due cose: alcune sedute di laboratorio (ricordo quelle di termodinamica con i calorimetri e la misura dei calori specifici e quelle sulla caduta dei gravi nei fluidi in regime turbolento e/o viscoso) e poi problemi di fisica in preparazione dello scritto che si sarebbe però fatto alla fine del II anno.

Tentarono di insegnarci, senza molti risultati a causa della inadeguatezza del docente, le cose essenziali di teoria degli errori, comunque fu lì che sentii parlare per la prima volta di varianza, di distribuzione gaussiana e di legge dei tre sigma.

bublioteca e sala studenti

Nel pomeriggio, quando non c’erano impegni di lezione, si stava in biblioteca a studiare. La biblioteca era nel corridoio che unisce l’area didattica a quella di ricerca, di fronte alla sala del Consiglio di Dipartimento, che poi avremmo trasformato nella sede del Comitato di Agitazione.

C’erano due bibliotecarie, una anziana secca e vecchio stiile e l’altra più in carne e sorridente. Più che studiare ci si confrontava tra compagni sulle cose meno chiare e si risistemavano gli appunti presi a lezione. Se però ci si voleva rilassare sul serio si scendeva di un piano e, di fianco al bar, si andava in aula studenti, il regno del bridge e della briscola a chiamata.

Lì stazionava un gruppo di fuoricorso storici, capeggiati da Augusto Naj dell’AGI, l’associazione studentesca di matrice liberale, che ci passavano l’intera giornata . Erano le stesse persone che cercavano, con scarsi esiti, di rinverdire le tradizioni su anziani, matricole e fagioli. Un giorno quelli di ingegneria beccarono anche Gigliola Cinquetti, matricola di architettura, e la fecero salire su un albero a cantare non ho l’età.

gli esami

Per un pinella della Brianza, che non aveva fatto il liceo tutto sommato andò  bene: Analisi 1 a giugno con 24, Fisica 1 e geometria a ottobre con 26 e 23, chimica a febbraio con 21 (il voto più basso della mia carriera di studente).

Per l’esame di chimica mi ero preparato abbastanza a fondo, ma dopo qualche domanda, mi misero davanti una reazione di ossidoriduzione da bilanciare. Mi misi all’opera e quando finii tutto soddisfatto per aver bilanciato le molecole coinvolte, il professore mi disse: lei ha sbagliato, questa reazione non può avvenire per via dei potenziali di ossidoriduzione dei reagenti. Da incazzarsi.

Ero orgogliosissimo di quel 24 in analisi. A giugno su 400 tra fisici e matematici passammo in una quarantina e l’esame di analisi 1 era quello cruciale; se lo passavi eri considerato un iniziato.

L’esame si svolgeva in quattro atti:

  • lo scritto di 6 ore con esercizi vari e come piatto forte lo studio di una famiglia di funzioni i cui andamenti erano almeno di 3 o 4 tipi diversi al variare del parametro,
  • il pre-orale, che era un altro scritto, subito prima del colloquio, su semplici, ma numerosi esercizi relativi all’intero programma,
  • e poi, in sequenza i due orali: sul primo volume con gli assistenti e sul secondo volume con il Ricci. Il giorno dell’orale incominciavi nel primo pomeriggio e finivi la sera tardi.

il secondo anno

Non avevo ancora tirato il fiato per gli esami di ottobre e l’anno già ricominciava con tre corsi annuali di quelli belli tosti: Analisi 2, Fisica 2 e Meccanica Razionale (oltre alla solita fisichetta). C’era anche un colloquio in due lingue straniere a scelta, ma quello fu una passeggiata (Francese e Inglese). Ormai si studiava prevalentemente su libri in quelle due lingue: quelli americani e quelli russi delle edizioni MIR (tradotti in francese).

meccanica razionale

Il corso del biennio che mi è piaciuto di più, che ho seguito senza perdere nè una lezione nè una esercitazione, è stato quello di Meccanica Razionale. Prima di iscrivermi a Fisica non sapevo nemmeno che questa disciplina, figlia dell’Illuminismo, esistesse. Il suo studio mi ha aperto la mente, dai fondamenti della meccanica sino alla meccanica analitica di Lagrange ed Hamilton, che fanno da premessa alla Fisica Teorica.

I primi dieci minuti di lezione il professor Udeschini li passava a disegnare un sistema di N punti materiali con relative interazioni su cui avrebbe poi impostato la trattazione lagrangiana o hamiltoniana. Nelle esercitazioni il professor Barazzetti si dedicava alla impostazione e trattazione di problemi pieni di oggetti interconnessi (fili, sbarre, corpi rigidi estesi, carrucole, …).

Il professor Barazzetti fu esemplare nel trattare configurazioni meccaniche via via più complesse e, nella seconda parte del corso, invece di analizzarli attraverso le leggi fondamentali della meccanica, imparammo a trattarli anche con le lagrangiane.

Avevo una serie di quaderni degli appunti ordinatissimi. Dopo tanto impegno e tanto studio (compresi i due volumi del Finzi e anche la Mecanique di Landau) presi solo 24, mentre un mio  compagno, che non aveva seguito il corso e che si preparò solo sui miei appunti (per altro mai restituiti), prese 30 nella sessione successiva. Da allora ho iniziato a non prendere troppo sul serio i risultati di un esame universitario.

analisi 2

Il corso di Analsi 2 era tenuto dalla professoressa Fulvia Skof, allieva di Ricci (poi entrata in ruolo a Torino); fu quel corso a rischiare di mandarmi in tilt durante la preparazione all’esame sostenuto a fine luglio del 67. Le esercitazioni le faceva il professor Paganoni; algida la Skof e cicciotto il Paganoni. Andavo a dormire a tarda notte e continuavo a vedere serie di funzioni di cui dovevo stabilire la convergenza e se essa fosse uniforme o meno. La convergenza uniforme l’ho finalmente compresa, sul piano della ragion d’essere, anni dopo, studiando questioni di storia della analisi matematica. Non mi preoccupavano invece le parti più concrete come gli integrali e le equazioni differenziali.

Era un programma mastodontico, senza un libro di testo, in cui ciò che doveva costituire l’oggetto principale del corso per dei fisici in formazione e cioè, funzioni a due variabili, calcolo integrale, integrali generalizzati, funzioni nel campo complesso, equazioni differenziali, era dato quasi per scontato e si lavorava prevalentemente sugli approfondimenti e sulle sottigliezze.

Avevo l’impressione che ai matematici non interessasse mai come andassero le cose nella maggioranza dei casi. Li vedevo appassionati all’eccezione, al pelo nell’uovo e io non riuscivo ad abituarmici. Mi dicevo, ma non potrebbe assegnare questi corsi di analisi a dei fisici ? Quelli almeno sanno che cosa ci serve.

il testo della Schaum’s utilizzato per applicare l’analisi matematica al calcolo vettoriale

Mi spiego con un esempio, dopo essere impazzito sul tema della convergenza uniforme (o non uniforme) delle serie di funzioni, mi sono trovato a non aver mai studiato gli sviluppi in serie di Fourier (utili per la MQ) o le trasformate di Laplace. Queste le ho studiate da solo e applicate nel corso di elettronica per lo studio dei fenomeni transitori nello reti circuitali.

Alla fine andò tutto bene, presi 27 e potei dedicarmi all’amata fisica; ma di ciò che di analisi serviva al corso di fisica non mi avevano insegnato niente e dovetti occuparmene da solo, sia per Fisica 2, sia per Istituzioni di Fisica Teorica del III anno. In proposito mi fu di aiuto un manuale della Schaumm Vector Analisys.

fisica 2

Proprio nel 66/67 il professor Piero Caldirola, il decano dei fisici teorici del nord Italia, lasciò la cattedra di Istituzioni di fisica teorica per passare a Fisica 2.

Caldirola era un po’ troppo chiaccherone e asistematico per tenere un corso istituzionale; in più se ne occupava per la prima volta. Per fortuna c’erano due giovani assistenti che supportavano le lezioni, il professor Marcello Fontanesi, futuro rettore della Bicocca e il professor Elio Sindoni, esperto di fisica dei plasmi.

Il programma era enorme, tutto l’elettromagnetismo sino alle equazioni di Maxwell, inclusa la generazione delle onde elettromagnetiche e poi, la teoria delle onde elastiche, l’ottica geometrica e quella ondulatoria.

Matteo Giani il giorno del suo matrimonio insieme a Luca Basanisi e in primo piano il mio regalo di nozze – la mia copia dei 3 volumi delle Lectures on Physics di Ricky Feynman

Per di più non esisteva un testo. Ma erano da poco disponibili le Lectures on Physics di Feynman; le comperai un volume alla volta (dal libraio Agostino Quattri che vendeva libri a casa sua, a fianco di via Saldini) e preparai la parte di elettromagnetismo sul secondo volume e quella di ottica sul primo. La mia formazione di base da perito elettrotecnico fece il resto rispetto a tutte le problematiche di tipo elettrico e arrivò il primo trenta.

Il Feynman mi aprì la mente e il cuore, mi insegnò a non farmi spaventare dalla matematica ma ad usarla in maniera euristica, ad applicare l’adagio di Feynman “se funziona, va bene“. Da allora, quando ho voglia di imparare qualcosa di nuovo, apro i capitoli finali del II e III volume e mi diverto imparando cose che non conosco trattate in modo assolutamente originale (e sono passati ormai più di 50 anni).

Superati i 70 anni di età ho compiuto un atto d’amore o un sacrilegio, a seconda dei punti di vista. Il mio primo ex alunno fisico (Matteo Giani) che si è sposato ha ricevuto in dono i miei tre volumi del Feynman e qui vedete la foto della consegna ideale del testimone.

il secondo biennio

Avevo vinto la sfida; niente richieste di soldi a casa; automantenimento e strada aperta per fare il fisico; ma era l’autunno del 67 e, come è noto, molte cose bollivano in pentola. Ma ne parlerò in un altro capitolo, meglio tenere separate la crescita culturale-scientifica da quella culturale-politica.

Nel III e IV anno capitalizzai gli sforzi che avevo fatto per inserirmi; mi sentivo finalmente a mio agio, a casa mia. Scelsi l’indirizzo applicativo elettronico-cibernetico. Avevo capito che le cose importanti stavano nei libri e che non era indispensabile rincorrere gli appunti. Imparai anche a leggere i libri scientifici acquisendo la capacità di non perdermi dietro ai dettagli.

Così incominciarono a fioccare i voti alti.

esami del III anno

Istituzioni di Fisica teorica: la bestia nera che molti studenti ripetevano più volte. Appoggiandosi sulle conoscenze di meccanica analitica e sugli esperimenti cruciali del primo 900 sul dualismo ondulatorio corpuscolare per la radiazione e per la materia si introduceva la Meccanica Quantistica secondo la modalità De Broglie Schrodinger e poi si lavorava sulla assiomatica. Causa interruzioni per la occupazione arrivammo sino al momento angolare quantizzato. Teoria con il professor Prosperi appena rientrato dagli Usa ed esercitazioni con un gruppo di assistenti e ricercatori molto validi: Lanz, Ramella, Gallone, Cattaneo. scritto e orale 30,

metodi matematici per la fisica: un corso di analisi superiore fatto da fisici per i fisici sulla teoria degli spazi vettoriali e quella degli operatori. Il corso era tenuto da Renzo Cirelli (un ex prete anarchico) con la collaborazione, per le esercitazioni dello stesso gruppo di Teorica. scritto e orale 30 e lode,

struttura della materia : rudimenti di fisica atomica e nucleare con il professor Tagliaferri il responsabile del gruppo di ricerca del Ciclotrone. Non ho seguito il corso che risultava abbastanza noioso e ho lavorato direttamente sui testi di Leighton e sul Finkelburg. Solo orale 27,

Il professor Giovanni Degli Antoni (detto Gianni) elettronico, informatico, inventore del corso di scienza della informazione – mente geniale Piacenza 1935 – Segrate 2016

Elettronica generale: corso tenuto dal professor Degli Antoni che in quell’anno ha lasciato Cibernetica e Teoria dell’Informazione. Degli Antoni già responsabile del gruppo di elettronica di Fisica dello Spazio (Occhialini) stava iniziando a mettere in piedi un gruppo di persone interessate all’Informatica. Testo nuovo, americano, il Millman Halkias oltre a tutta la parte circuitale e sulle trasformate di Laplace.

Durante questo corso è nato il mio rapporto di amicizia con Degli Antoni. Stava illustrando alcuni processi di conduzione nei semiconduttori drogati con passaggio di elettroni dalla banda di valenza a quella di conduzione. Alzai la manina per dire che la spiegazione non sembrava convincente. Degli Antoni sorrise e disse che quella era la spiegazione data da Fermi. Risposta: non ho chiesto di chi sia quella spiegazione; ho detto che non mi pare convincente e spiegai perché. Voto 30,

Laboratorio di elettronica facemmo eperimenti di base di tipo circuitale e poi progettai e realizzai un alimentatore stabilizzato. Voto 30

esami del IV anno

Cibernetica e teoria della Informazione fatto eccezionalmente con Degli Antoni sulle sue dispense senza seguire alcun corso. Imparai un sacco di cose sull’algebra della logica, sulla teoria dell’informazione, sul calcolo delle probabilità, sulla teoria degli automi. Voto 30,

Macchine calcolatrici: era un corso tenuto da uno dei docenti del gruppo di Fisica dello spazio su cose di cui mi occupavo in chiave lavorativa. C’era un po’ della nascente informatica (conoscevo il Fortran e anche un po’ di basic). Voto 30,

Laboratorio di cibernetica: non ricordo i dettaglima con il mio gruppo (tra cui Alberto Bertoni) e sotto la guida di Degli Antoni realizzammo un aggeggio elettronico che utilizzava potenziometri di precisione e costruimmo un modello di macchina che impara. Si incominciava a ragionare di intelligenza artificiale. Voto 30,

Radioattività: L’esame di radioattività non l’ho mai fatto. Durante il quarto anno (68/69) io e un paio di amici politicamente impegnati ci rivolgemmo al professor Ludovico Geymonat per esternargli il nostro desiderio di sostenere l’esame di filosofia della Scienza.

Detto, fatto; concordammo il programma d”esame e coinvolgemmo, in accordo tra le parti, la professoressa Connie Dilworth, moglie di Beppo Occhialini, presso cui lavoravo a part-time. Lei insegnava radioattività e così Geymonat venne nascosto dietro radioattività.

L’esame fu una cosa molto seria per due ragioni: perché ci tenevamo a fare bella figura con il professore, perché lui ci diede un programma di studio di tutto rispetto (il voluminoso testo di Ernst Nagel “Le strutture della scienza” e quattro gruppi di scritti legati alla teoria della conoscenza nel materialismo dialettico rispettivamente di Lenin, Stalin,Trotcky e Mao.

Esame alla presenza di Ludovico Geymonat, Corrado Mangione e Felice Mondella. I maestri della epistemologia in Italia e tra loro il padre fondatore. Ricordo di essere rimasto impressionato dallo studio del Nagel, un testo molto dotto che mi lasciava sempre la impressione che su certe questioni fosse vera una certa tesi, ma anche la sua contraria. Ricordo che ne parlai con Geymonat durante il colloquio. Il Nagel l’ho riletto e ristudiato anni dopo quando ormai ero ferratissimo sul neo-positivismo ed ebbi modo di apprezzarlo più di quanto non feci nel 69. Voto: 27

l’interazione con i docenti

Il 1968, dal punto di vista culturale, fu un anno di svolta. Noi del III anno eravamo sufficientemente navigati per esternare il desiderio di capire attraverso la discussione. Eravamo anche sufficientemente ignoranti per non potercela fare da soli. Così l’incontro scontro con i docenti ci fu, ma non fu all’altezza delle aspettative di ambo le parti.

Mi riferisco al corso di Istituzioni di Fisica Teorica, quello che porta gli studenti di fisica nel mondo nuovo e inesplorato della meccanica quantistica. Noi ponevamo, male, le nostre domande e dall’altra parte ci rispondevano in maniera dogmatica. Ho preso 30 ma ho conservato molti dubbi e ho continuato a studiarla, anche ora che ho superato i 70.

Eccezione il professor Gianni degli Antoni che poi avrebbe creato il corso di laurea in scienza dell’Informazione e siamo diventati amici. Con lui ho fatto gli esami di elettronica e di cibernetica e mi ha fatto da relatore di tesi. Si dialogava molto perché lui era una persona curiosa. L’unico docente che abbia cercato di capirci e lo voglio ringraziare, come fece lui verso di noi alla cerimonia in cui andò in pensione, qualche anno fa.

la laurea con una tesi di logica a infiniti valori (poco fisica)

Mi sono laureato a luglio del quinto anno con una tesi di informatica teorica sulla logica a infiniti valori (i fuzzy set). Relatore Gianni degli Antoni, correlatore Piero Mussio. Piero Mussio era un collaboratore di Degli Antoni, molto simpatico, schierato apertamente a sinistra e con un padre simpaticissimo aderente al Partito Comunista Internazionalista (quello di Bordiga).

Nell’ultimo anno e mezzo, ho anche lavorato di pomeriggio, come perito, per il gruppo di ricerca di fisica dello spazio (facevo programmi in Fortran) che venivano utilizzati per la elaborazione dati di eventi di interazione con i raggi cosmici negli strati alti della atmosfera. Erano gli studi classici del professor Occhialini, mancato premio Nobel alla fine degli anni 40, si dice per ragioni politiche (nel mondo della scienza era considerato un comunista).

Per quanto riguarda la tesi ci fu qualche problema da parte dell’establishment dei fisici che, giustamente osservavano che quella non era roba da fisici, ma da qualche parte doveva pur nascere informatica e caso volle che il primo a muoversi fosse stato un fisico: Gianni degli Antoni.

Alberto Bertoni 1946-2014 il mio compagno di tesi che da studente era uno dei più bravi del nostro anno

La tesi era un lavoro di coppia (altro scandalo!) con Alberto Bertoni, uno di quelli con cui avevo preparato l’esame di Filosofia della Scienza.

Alberto veniva da Barlassina e mi stupiva sempre: Claudio, oggi sul treno mi è venuto in mente che potremmo presentare questo teorema, e giù enunciato e dimostrazione. Mi lasciava di  stucco per la creatività e la capacità di astrazione.

La nostra tesi non poteva essere compilativa perché sull’argomento, in quel momento esisteva un solo articolo in letteratura (quello di Zadeh, fondatore della teoria) e dunque bisognava creare e lui creava. Io, come diceva Gianni degli Antoni, corredavo con preziose idee di tipo applicativo.

Alberto è morto qualche anno fa dopo aver fatto il professore a Informatica e il direttore di dipartimento. Aveva la media leggermente più alta della mia e gli diedero la lode. Io ho preso 109/110; d’altra parte non avevo preso neanche un 29 ….

Tutto il nostro gruppo degli immatricolati nel 65/66 è finito a lavorare con Degli Antoni (Majocchi, Polillo, Lanzarone, De Michelis). Voglio ricordare un compagno che nel biennio faceva coppia fissa con Alberto, Giampiero Banfi (detto John) di Saronno. Si occupava di Fisica dei Plasmi, ha fatto il professore a Pavia e anche lui è morto giovane (nel 2002). Due fisici valenti con trascorsi importanti nel movimento e che decisero di continuare con la fisica. Io no: avevo in mente altre cose


La pagina con l’indice della mia autobiografia da cui potete scegliere i capitoli da leggere


 




novità dalla centrale di Bargi

Il giorno 28 maggio un gruppo di sommozzatori è riuscito finalmente a chiudere la paratia del gruppo 2 della centrale che era rimasta aperta dopo l’incidente del 9 aprile.

La paratia alla profondità di circa 40 metri dalla superficie del lago ha determinato il quasi completo allagamento della centrale a pozzo visto che, essendo deputata allo scambio, lago turbina si trova in corrispondenza degli strati più bassi del pozzo.

Si potrà ora, con tutte le cautele legate allo sversamento degli olii di lubrificazione e di raffreddamento, procedere al graduale svuotamento della centrale.

Nel frattempo è stata avanzata una nuova ipotesi, abbastanza credibile, su quanto accaduto. Mentre era in corso una prova alla massima potenza (valvola di collegamento delle condotte completamente aperta, turbina alla velocità di regime, alternatore connesso alla rete con produzione di energia alla potenza massima di 185 MVA) si sarebbe determinato un problema sul versante dell’alternatore che ha determinato il distacco repentino dalla rete.

Su questo punto ci sono due ipotesi, quelle che ho avanzato nell’articolo a Bargi è andato in corto l’alternatore per un difetto nel rotore o quella di un difettto nei mega interruttori che connettono l’alternatore alla rete.  A inizio maggio sono stati nominati i periti incaricati di dare le risposte (si tratta di docenti universitari delle facoltà di ingegneria, esperti di idraulica e di elettrotecnica) ed entro 60 giorni ne sapremo di più.

la valvola posta a monte della turbina e che intercetta l’acqua della condotta

In ogni caso il distacco repentino dell’alternatore dalla rete elettrica ha prodotto il disastro; infatti la valvola rotativa del diametro interno di 2.30 m e del peso di 130 tonnellate ha ovviamente un tempo di latenza (non si apre e chiude istantaneamente) e in questo caso stavano passando circa 100 m3/s di acqua. Così mentre la turbina stava dando tutta la sua potenza è mancata sul fronte dell’alternatore l’azione resistente di tipo elettromagnetico ed è stata inevitabile la andata in fuga della turbina e con essa del rotore dell’alternatore. Sono i secondi del fischio e del rumore sentiti da tutti sino al botto finale.

In poche parole si tratta di questo: quando l’alternatore genera energia elettrica per effetto del fenomeno fisico della induzione elettromagnetica, la corrente circolante genera a sua volta un campo magnetico che si oppone al fenomeno che l’ha generata (la rotazione del rotore). Questo campo magnetico frena il rotore che, per girare e proidurre energia, ha bisogno della energia meccanica proveniente dall’albero. Si tratta di conservazione della energia: si produce energia elettrica a spese di energia meccanica (per chi ha riminiscenze di studi liceali, Legge di Lentz).

Devo dire che tra difetto sull’alternatore e apertura del sistema di interruttori continuo, astrattamente, a propendere per la prima ipotesi perché quegli apparati hanno sistemi di governo automatici basati sul principioo della controreazione che impediscono fatti sconsiderati del tipo che ho descritto e utilizzano criteri di gradualità nelle manovre. La risposta la daranno i periti nominati dal tribunale.

 

 

 

 

 




a Bargi è andato in corto l’alternatore

ciò che resta dell'alternatore

ciò che resta dell’alternatore

Questo articolo va letto come seguito di quello di qualche giorno fa che spiegava le peculiarità della centrale di Bargi le centrali idroelettriche di pompaggio – la novità di oggi, dopo la pubblicazione della foto con ciò che è rimasto dell’alternatore al piano -8, è la seguente: era in corso una prova di stress dell’alternatore (funzionamento leggermente al di sopra della massima potenza) quando si è verificato un problema al rotore dell’alternatore.

Tale problema ha determinato disallineamenti e problemi al cuscinetto sino allo scardinamento del rotore e conseguente corto circuito con fiammata esplosiva, crollo del solaio tra -8 e -9, rottura di una tubazione (probabilmente di servizio) con acqua, rottura dei circuiti di lubrificazione a bagno d’olio del cuscinetto, probabile danneggiamento meccanico della turbina.

il cuscinetto che regge il peso posto nella parte sommitale dell'alternatore

il cuscinetto che regge il peso posto nella parte sommitale dell’alternatore

Per ragionare meglio su quanto è probabilmente accaduto è bene fornire qualche dato quantitativo e costruttivo. L’immagine qui a lato ci mostra un alternatore verticale della stessa potenza di quello di Bargi. La presenza di personalel lavoro ci consente di stimare le dimensioni. Nella parte alta, quella specie di cupola ospita il cuscinetto che scarica sullo statore tutto il peso dell’albero.

  • correnti alla massima potenza – la potenza dell’alternatore è è di 185 MVA, la tensione è di 17 kVe dunque, in condizioni di massima potenza le correnti sullo statore sono di 185’000/(√3*17) m= 6’300 Ampere. Per avere una idea di che conduttori ci vogliono per correnti di migliaia di Ampere tenete presente che gli elettrodomestici più energivori che usiamo in casa, tipo il forno, usano correnti da 10 A. Ho calcolato le correnti perché sono loro a determinare gli effetti distruttivi sia di tipo termico, sia di tipo elettrodinamico quando c’è un cortocircuito e le correnti in gioco, per qualche secondo, diventano 1’000 volte più grandi. Si tratta di una cosa importante che riprendo più avanti.
  • in un alternatore ci sono essenzialmente due componenti: uno statore (o indotto) in cui ci sono avvolgimenti di rame (3 nei sistemi trifase, disposti simmetricamente a 120° l’uno dall’altro) collocati all’interno di un nucleo di ferro (che serve ad agevolare il campo magnetico).

Tali circuiti sono dimensionati per sopportare le correnti di massimo carico, mentre il numero di spire dipende dalla tensione che si vuole ottenere. Tra una spira e l’altra la tensione non è elevatissima, ma tante spire in serie producono i 17 mila volt e, per questa ragione, i conduttori, in tutto o in parte, sono isolati in bagno d’olio.

Qualunque circuito metallico percorso da corrente genera calore in maniera proporzionale al quadrato della corrente che lo percorre e dunque, anche se a resistenza è bassa,con quelle potenze in gioco, lo statore deve essere raffreddato con circolazione forzata di aria raffreddata dall’acqua del lago. Lo statore, anche se è la parte che genera la energia elettrica, è la parte meno critica della macchina perché non ha parti in movimento e se è stato ben dimensionato non dà problemi.

  • rotore con in primo piano il giuntolato turbina

    rotore con in primo piano il giuntolato turbina

    un rotore (o induttore) costituito da un grande cilindro di ferro entro cui sono disposte spire di rame tra loro ravvicinate sino a determinare un avvolgimento (solenoide). Alle due estremità di questo solenoide, quando viene percorso da una corrente elettrica continua, si creano due poli magnetici N-S. Se se ne mette un altro a 90° si crea una macchina a 4 poli. Se se ne mettono altri due a 45° si crea una macchina a 8 poli come quella di Bargi.

Il numero di poli determina la velocità di rotazione del rotore perché la corrente indotta deve fare 50 cicli al secondo e dunque se i poli sono due il rotore deve fare 50 giri al secondo, 25 con 4, 12.5 con 6, 6,25 con 8. Non sembra un gran che come frequenza angolare, ma tenete presente che si tratta di oggetti di diametro di circa 3 metri, della lunghezza intorno a 3 e del peso di centinaia di tonnellate.

Il rotore è la parte critica dell’alternatore. I conduttori sono cavi e vengono raffreddati con aria forzata, ma la vera criticità sta nel fatto che sono vicini e possono venire facilmente a contatto (deformazioni termiche, effetti centrifughi) producendo dei piccoli  corto circuiti asimmetrici che, oltre al danno elettrico, producono un danno importante sull’albero e sul cuscinetto perchè producono uno squilibrio del sistema.

Il cuscinette lubrificato con olio sotto pressione sta sopra l’alternatore e regge tutto il peso dell’albero e del rotore scaricando tale peso sullo statore. L’albero del rotore nella parte inferiore, attraverso un giunto, è collegato all’albero della turbina da cui riceve la energia meccanica.

Ecco spiegato quanto ho scritto all’inizio sul rumore che tutti hanno sentito prima del botto finale. Il cuscinetto ad ombrello iniziava ad andare in sofferenza e produceva quel rumore anomalo.

  • L’alternatore funziona in base alla legge della induzione elettromagnetica: se un campo magnetico taglia le spire di un avvolgimento si induce in esso una forza elettromotrice (fem) che noi misuriamo in volt. E’ proprio quello che il magnetisno variabile del rotore produce nelle spire dello statore. Tale fem è proporzionale al valore del campo magnetico e alla velocità di rotazione (che, come sappiamo, a regime deve essere quella giusta per dare i 50 hertz).

Dunque per avviare la macchina si fa così: si apre la valvola che mette in comunicazione la condotta con la turbina e si inizia a dare corrente al rotore sino a raggiungere quel valore che determina il massimo di magnetismo (il ferro si comporta così ed è inutile andare oltre perché grandi aumenti di corrente determinerebbero solo piccoli aumenti di campo magnetico). La macchina è stata dimensionata in modo tale che quando gira a 375 giri al minuto e la corrente nei circuiti del rotore (detto anche induttore) è quella giusta abbiamo in uscita 17 kV a 50 hertz.

Quando l’alternatore eroga energia elettrica le correnti che circolano nello statore producono a loro volta un campo magnetico. Per ragioni in cui non mi addentro le correnti alternate trifasi producono un campo magnetico rotante che, in base alla legge della induzione elettromagnetica (Faraday-Neumann-Lentz) si oppone alla causa che le ha generate e dunque questo campo frena il rotore che, per continuare a girare richiede maggiore energia meccanica alla turbina (l’energia si conserva e quella meccanica dovuta alla caduta dell’acqua diventa energia elettrica)

  • Come avete letto, il processo di revisione ed aggiornamento tecnologico era in corso da un paio d’anni, ma tale revisione non aveva riguardato l’alternatore che in questo periodo era rimasto fermo. Quando è stato riavviato è saltato fuori quel problema generato dal rotore

I dettagli non sono ancora noti e le mie sono solo deduzioni razionali: corto circuito di qualche spira, probabile malfunzionamento del cuscinetto fermo da tempo, disallineamento del rotore e dell’albero, problematiche gravi ai cuscinetti, disallineamento importante e contatto devastante tra rotore e statore con corto circuito sui 17 mila volt.

La cosa abbastanza paradossale è che nelle centrali di pompaggio quelle macchine vengono fermate e riavviate ogni sera perché quando si deve ripompare l’acqua dal bacino inferiore a quello superiore la turbina deve diventare una pompa girando al contrario e lo stesso fa l’alternatore che diventa un motore.

  • Quando due fili sono percorsi da corrente si sviluppano tra loro forze (dette elettrodinamiche) che sono proporzionali al prodotto delle correnti e inversamente proporzionali alla distanza.

Nel ferro queste forze hanno valori almeno mille volte superiori a quelle che si hanno in aria. La macchina è dimensionata per sopportare le correnti a pieno carico, ma quando c’è un corto circuito se la corrente aumenta di 1000 volte la forza lo fa di un milione e a ciò si aggiungono gli effetti di riscaldamento. Ne conseguono l’incendio e l’esplosione della macchina come si vede bene dalla immagine che mostra ciò che è rimasto dell’alternatore.

Ecco quanto, probabilmente, è avvenuto quando si è sentito quella specie di fischio (qualcosa che stava girando male e che stressava i cuscinetti) mentre in sala controllo i due lavoratori più anziani (i tecnici esperti) hanno cercato di fare il possibile per salvare il salvabile: hanno dato l’allarme e fatto evacuare i presenti, togliere corrente al rotore, chiudere la valvola di alimentazione della turbina, ma non ce l’hanno fatta; la famosa scatola nera ci dirà come è andata nei dettagli.

Mi sia consentito a conclusione della spiegazione dire qualcosa sulle polemiche rituali relative ai subappalti, ai lavoratori ultrasessantacinquenni e alla mancanza di personale Enel.

Le aziende coinvolte erano tre e rappresentano il meglio del meglio del settore. In particolare mi attendo qualche notizia da ABB Tecnomasio Brown Boveri azienda leader a livello mondiale nel settore delle grandi mcchine elettriche. Immagino che non fosse presente solo per occuparsi di servomeccanismi. Quali controlli erano stati fatti sull’alternatore prima di avviarlo in piena potenza?

I due lavoratori anziani erano consulenti supersperti, sono rimasti al loro posto sapendo che stavano rischiando la vita e si sono comportati da eroi

il personale Enel in funzione di supervisore era presente


 

 

 

 

 

 




quando il motore va in fuga

Dobbiamo andare indietro nel tempo alla primavera del 65, quasi sessantanni fa. Facevo la quinta elettrotecnica all’Hensemberger, la scuola in cui, molti anni dopo ho fatto il dirigente scolastico.

Le ore di laboratorio erano una cosa seria e, se non ricordo male, facevamo 8 ore la settimana di misure elettriche (due pomeriggi di 4 ore). L’elettrotecnica la studiavamo proprio bene con il mitico ingegner Bellini (che vedete nell’ultima fotografia insieme alla intera classe in visita alla Ercole Marelli di Sesto S. Giovanni che produceva grandi macchine elettriche e che ha costruito anche i grandi trasformatori della centrale di Bargi). A misure avevamo un ITP capace che si chiamava Arosio e un docente teorico non altrettanto valido, ma tanto ai difetti di insegnamento sopperiva l’Olivieri Ravelli (che aveva un intero volume, dei tre, dedicato alle misure, oltre a elettrotecnica generale e macchine elettriche).

Studiate le macchine elettriche, in quinta si facevano misure sulle macchine: funzionamento a vuoto e a carico, macchine in c.c. e in c.a., sistemi trifase su motori, dinamo, alternatori, trasformatori.

Il laboratorio dell’Hensemberger, fatto a rettangolo, era bellissimo con tanti banchi per le misure comandati da una consolle. Alcuni banchi avevano accesso alle macchine che erano sul lato lungo opposto agli ingressi, quello con i finestroni lungo via Cavallotti.

Si trattava di gruppi di due macchine che potevano comunicare elettricamente attraverso la rete sui nostri banchi: motori asincroni con freno per simulare un carico, dinamo, motore a corrente continua meccanicamente collegato ad un alternatore e proprio di questo vi voglio raccontare.

L’esperienza madre di tutte le misure è quella di simulare cio che accade nelle centrali: il funzionamento di un alternatore che viene collegato alla rete di distribuzione della energia elettrica. Nel fare questa operazione bisogna che l’alternatore giri alla velocità angolare giusta perché tutte le reti di distribuzione funzionano in corrente alternata a 50 Hertz (cioè la corrente, 50 volte al secondo, segue una sinusoide completa) e anche il tuo alternatore prima di essere connesso deve andare a 50 hertz. Se si tratta di una macchina a due poli dovrà fare 3000 giri al minuto, a 4 poli 1500, a 8 poli 750 e così via.

Per conoscere quando è il momento giusto per collegare l’alternatore alla rete non c’era bisogno di sofisticati frequenzimetri, ma si usava un geniale metodo che sfruttava un sistema di 3 lampadine (con un polo collegato all’alternatore e l’altro alla rete) che si accendevano a turno ruotando e ti dicevano se l’alternatore andava troppo svelto o troppo lento mentre smettavano di ruotare quando si arrivava al sincronismo.

Dunque si procedeva in questo modo:

  • si faceva partire un motore asincrono trifase, di quelli che si usano in tutte le applicazioni industriali in tutto il mondo perché sono robusti, indistruttibili e facili da costruire (questo e anche altro che viene dopo) sono tutte cose inventate da fisici e ingegneri italiani tra fine 800 e inizio 900. Il motore asincrono era collegato meccanicamente ad una dinamo. La dinamo produce corrente continua e si può regolarne la tensione di uscita agendo sul circuito di comando del campo magnetico (cosa che facevamo dai banchi).
  • La corrente continua prodotta dalla dinamo la usavamo per comandare un motore a corrente continua che ha la possibilità di regolare facilmente la velocitàsia agendo sulla tensione di alimentazione sia sul campo magnetico del rotore. Il motore era collegato meccanicamente ad un alternatore. Variando la tensione di alimentazione del motore si può far variare la sua velocità di rotazione che risulta essere proporzionale a tale tensione e inversamente proporzionale al flusso del campo magnetico a sua volta determinato dalla corrente che mandiamo nelle bobine dei poli del motore. Questo è un punto cruciale, se in un motore a c.c,. per una ragione qualsiasi, viene a mancare il campo magnetrico la velocità di rotazione tende a infinito (si dice che il motore va in fuga). Si variava la tensione della dinamo che faceva cambiare la velocità di rotazione del motore e dunque l’alternatore incominciava a produrre energia elettrica trifase con una frequenza dipendente dalla velocità di rotazione. Il valore di tensione prodotta dipende oltre che dalla velocità anche dal campo magnetico dell’alternatore ed agendo su quello controllavamo la tensione in uscita.
  • quando la frequenza (lampadine) e la tensione erano quelle giuste abbassavamo gli interruttori e ci collegavamo alla rete e, spegnendo la alimentazione del motore a c.c., l’alternatore diventava un motore sincrono con velocità assolutamente fissata dalla frequenza della rete e il motore a c.c. diventava una dinamo.

Nella realtà delle centrali c’è l’alternatore ma, al posto del motore a c.c. c’è la turbina anche se lo schema concettuale del processo è lo stesso. Tutto bello. I comandi li davamo dai nostri banchi che erano collegati tra loro e agli strumenti di misura atraverso quei cavi con connettore a banana che si trovano in tutti i laboratori. Eravamo felici di avercela fatta ma uno di noi, non ricordo chi, invece di staccare la alimentazione del motore a c.c. ha staccato la alimentazione del campo magnetico del motore stesso.

Questione di un attimo: il motore ha cercato di andare in fuga ma l’alternatore ormai connesso alla rete non poteva andare a una velocità superiore e gli impediva di farlo. Dunque trovando qualcosa che lo frenava senza scampo il motore ha cominciato a chiedere più corrente alla dinamo.

Sono saltati tutti gli interruttori di protezione ma prima di ciò il laboratorio si è riempito di fumo; erano evaporate in un attimo tutte le protezioni di isolamento dei cavi che usavamo nei nostri banchi per mettere in funzione le macchine.

Alla centrale di Bargi non è andata così perché oggi quelle macchine elettriche sono piene di elettronica che allora non si usava ma quando ho sentito che i lavoratori presenti hanno parlato di uno strano rumore proveniente dall’alternatore la mia memoria è andata al 1965.




la centrale sperimentale del Brasimone

Qualche decennio fa ho accompagnato i miei studenti in viaggio di istruzione al centro ENEA del lago del Brasimone posta sulla sponda del laghetto che fa da bacino superiore per la centrale di Bargi.

Negli anni ho organizzato viaggi alla centrale di pompaggio di Edolo, ad una grande centrale termoelettrica a gas, agli impianti geotermici di Larderello (con annesso museo della geotermia) e, proprio nei giorni scorsi, mi ha fatto senso leggere un commento sgangherato di un fascista che prendeva spunto dalla vicenda di Ilaria Salis per affermare che sono gli ex sessantottini, che insegnano, la tragedia della scuola italiana. Strano commento visto che chi ha fatto il 68 ha più di 70 anni e viaggia verso gli 80, ma nella vis polemica ogni tanto sfugge persino l’aritmetica

Sarebbe colpa di quelli come me se la scuola italiana è piena di analfabeti funzionali (termine che il fascistello non conosce). Il mio sito, il corso di fisica, la raccolta di compiti corretti e commentati, le conferenze, gli articoli dedicati alla politica scolastica che trasudano entusiasmo e passione sono lì a documentarlo. Tutto gratis. Vabbeh.

Qualche decennio fa siamo andati al Brasimone perché lì si trovava, prima del referendum sul nucleare, un impianto sperimentale per la costruzione di un reattore nucleare autofertilizzante gemello del Superphoenix poi realizzato con scarso successo in Francia. Ma le ricerche sugli autofertilizzanti sono andate avanti e potete trovare molte notizie su Wikipedia.

L’impianto del Brasimone c’è ancora perché ci sono pareti in cemento armato di qualche metro di spessore, che a suo tempo mi fecero una grande simpressione, ma ora si fa educazione ambientale e un po’ di ricerca scientifica e tecnologica per conto dell’ENEA. Ieri vi ho raccontato della meraviglia tecnologica delle centrali idroelettriche di pompaggio e oggi vi racconto di questa grandiosa idea dei reattori autofertilizzanti detti anche reattori veloci perché per la fissione utilizzano neutronji di alta energia cinetica.

Si tratta di questo: l’energia da fissione è prodotta nel processo di frammentazione dell’Uranio 235 U235. L’Uranio naturale è quasi interamente composto da Uranio 238 che differisce dal 235 per la presenza nel nucleo di 3 neutroni in più. Tutti gli isotopi radioattivi dei metalli pesanti si trasformano nel tempo e decadono secondo una scala di trasformazioni ben nota al termine della quale troviamo il piombo.

Il decadimento radioattivo è un evento di natura probabilistica e ogni isotopo lo fa ad un ritmo diverso secondo una legge esponenziale decrescente. Per questa ragione noi fisici li classifichiamo usando il concetto di tempo di dimezzamento T1/2 il tempo che l’isotopo presente impiega per ridursi a metà.

I tempi di dimezzamento sono molto diversiper i diversi radioelementi da miliardesimi di secondo a miliardi di anni e nel caso che ci interessa sono piuttosto diversi; 700 milioni di anni per il 235 e 4,5 miliardi di anni per il 238. In origine quando la terra si è formata 4,5 miliardi di anni fa di uranio 235 ce ne era molto di più; da allora, mentre il 238 si è ridotto a metà per il 235 sono passati quasi 7 tempi di dimezzamento e cosi si è ridotto a circa 8 millesimi di quello che c’era. Questo Uranio naturale presente nel nucleo caldo e fuso del nostro pianeta è alla base delle reazioni che lo alimentano.

La lunga digressione che ho fatto ci spiega come mai di U235 ne troviamo solo lo 0.7% di quello naturale ed è un vero peccato perché l’energia da fissione richiede l’uso del 235 e dunque per usare l’Uranio naturale nei reattori bisogna arricchirlo di 235.

Qui casca l’asino perché gli isotopi di qualunque elemento si possono separare solo con procedimenti fisici (un atomo alla volta) e non per via chimica perché chimicamente gli isotopi di un dato elemento si comportano allo stesso modo. Nel caso dei reattori bisogna arrivare almeno al 3% e nel caso delle bombe almeno al 30%.

Il processo di arricchimento è molto complesso, richiede grandi impianti che lavorano in serie e si basa sul fatto che in un gas di uranio gli atomi di 235 hanno una massa leggermente maggiore di quelli del 238 e dunque, a parità di energia media (mv2) fissata dalla temperatura del gas, sono leggermente più veloci. Così, se facciamo diffondere un gas attraverso una parete, dall’altra parte troveremo  un gas leggermente arricchito in 235, e vai con le pareti …

Cosa c’entra tutto ciò con il Brasimone? I reattori nucleari funzionano su una reazione a catena controllata durante la quale un neutrone di bassa energia,  giunto vicino a un nucleo di  U235 lo rende instabile, il nucleo si rompe in due frammenti (due nuovi elementi)  oltre a un paio di neutroni che servono per nuove fissioni  e in tutto ciò si libera un sacco di energia  perché scompare della massa  (avete presente Einstein e  mc2?).

Ma i fisici una ne fanno e cento ne pensano; in questo caso si sono chiesti se non era possibile indurre la fissione direttamente sull’Uranio 238 (99.7% dell’Uranio naturale) per il quale non esistono problemi di approvvigionamento e di arricchimento. La risposta è positiva, anche se poco probabile.

Il processo richiede grandi flussi di neutroni di alta energia; in questo modo si riesce a indurre la fissione del 238 e per di più una frazione di neutroni liberati dalla fissione viene catturata dal 238 producendo il Plutonio 239 che è fissile come il 235 e separabile per via chimica. Per questa ragione questi reattori sono detti autofertilizzanti e producono più materiale fissile di quanto ne consumano.

Detto per inciso, il motivo per il quale il reattore di Chernobyl non aveva la cupola di contenimento in cemento armato (che vedete anche al Brasimone) è che, oltre a produrre energia, quella tipologia di reattori produceva come sottoprodotto il Plutonio (per usi militari) e dunque si doveva essere agevole l’operazione di estrazione periodica delle barre per separare poi il prezioso Plutonio. Per questo a Chernobyl c’era un tetto piano in acciaio che saltò per aria e ricadde poi sul nucleo del reattore liberando una quantità di schifezze.

L’uso della fissione con i neutroni veloci si scontra con il fatto che nel reattore circola un sacco di acqua che serve a raffreddare il nocciolo portando via l’energia prodotta. L’acqua (o meglio l’idrogeno che la compone insieme all’ossigeno) ha il difetto di catturare i neutroni (l’idrogeno si trasforma nel suo isotopo deuterio) e dunque ruba i neutroni indispensabili per la fissione.

Bisogna allora costuire un reattore in cui il circuito refrigerante sia fatto con un liquido che non catturi i neturoni. Tale materiale esiste ed è il sodio, un metallo comune (componente base del sale da cucina fatto da un atomo di cloro e uno di sodio) ma fortemente reattivo e dunque con grossi problemi di contenimento nella cosruzione dei circuiti di raffreddamento.

La centrale del Brasimone, con la sua bella cupola di contenimento è nata per realizzare un prototipo di reattore a neutroni veloci, autofertilizzante e raffreddato a sodio liquido.

Se volete saperne di più potete consultare il mio corso di fisica nella parte dedicata alla fisica del nucleo e alle sue applicazioni. La pagina è molto ampia perché descrive l’intero corso in tutte le sue parti con una breve sintesi di ogni capitolo. Questa è la parte di fisica del nucleo con i relativi link

  • La fisica del nucleo: Il neutrone (genesi della scoperta, perché non possono esistere elettroni nel nucleo; una nuova radiazione penetrante; il lavoro di Chadwick per determinare la massa); conoscenze di tipo quantitativo sul nucleo (stabilità e neutrone; neutrone e decadimento beta; massa, dimensioni e momento magnetico dei nucleoni; sezione d’urto per le interazioni e coefficiente di attenuazione); masse nucleari e distribuzione degli isotopi; il decadimento alfa (perché il tempo di dimezzamento è così variabile; condizioni energetiche per il decadimento, legge di Geiger-Nuttal, spiegazione tramite l’effetto tunnel); il decadimento beta e l’ipotesi del neutrino; il decadimento gamma; le leggi del decadimento radioattivo; le famiglie radioattive. 0702 La fisica del nucleo 28 marzo 2018
  • Applicazioni del nucleare: La scoperta della radioattività artificiale; applicazioni degli isotopi radioattivi in datazione e in medicina; la bomba nucleare (scoperta della fissione; i lavori di Bohr e di Fermi; il progetto Manhattan); energia nucleare da fissione (glossario; problematiche della fissione controllata e incontrollata; tipologie di reattore nucleare); analisi dell’incidente di Chernobyl; misura ed effetti delle radiazioni ionizzanti;  0703 Applicazioni del nucleare (luglio 2006)

 




le centrali idroelettriche di pompaggio

Per capire cosa siano e perché si usino le centrali idroelettriche dette di pompaggio occorre fare una premessa che riguarda le differenze tra le centrali termiche (tra cui anche quelle nucleari) e le centrali idroelettriche.

Le prime sono delle gigantesche macchine termiche che, per ragioni legate al II principio della termodinamica, hanno necessariamente un rendimento piuttosto basso. Nelle grandi centrali si arriva al 40% (al 60% in quelle a ciclo combinato con due macchine termiche che lavorano in serie). Viene prodotto del vapore surriscaldato che fa girare una turbina e questa a sua volta aziona l’alternatore.Queste centrali buttano via un sacco di calore a bassa temperatura e dunque, tra i tanti problemi, determinano anche un effetto di inquinamento termico e, per questa ragione, sono costruite in corrispondenza di grandi corsi d’acqua necessari a portar via il calore a bassa temperatura.

Hanno anche un secondo difetto; per funzionare con quei rendimenti devono andare in continuazione a pieno regime, sono cioè poco flessibili e mal si adattano al fatto che la richiesta di energia elettrica ha dei picchi durante le ore di luce e si abbassa notevolmente di notte.

Le centrali idroelettriche utilizzano l’energia potenziale dell’acqua che, cadendo dall’alto, fa girare una turbina. Hanno rendimenti molto alti (sopra il 90%) e sono molto flessibili, possono essere fermate o portate al massimo regime in pochi minuti e possono fornire potenze variabili a seconda della necessità.

Da qualche decina d’anni, le tradizionali centrali a caduta sono state sostituite dalle cosiddette centrali di pompaggio nelle quali i bacini di accumulo dell’acqua sono due uno a monte e uno a valle. Durante il giorno, nelle ore di punta, funzionano normalmente (producendo energia elettrica e svuotando il bacino a monte) mentre durante la notte l’acqua del bacino inferiore viene ripompata in quello superiore sfruttando due cose:

  • l’energia elettrica in eccesso prodotta dalle centrali termiche per far funzionare le pompe
  • il fatto che sia l’alternatore, sia la turbina sono reversibili e si possono trasformare, funzionando al contrario, in un motore e in una pompa.

L’operazione può essere completamente automatizzata e ormai si è arrivati a costruire impianti di notevole potenza.

Il più grande è quello di Edolo che prende le acque del bacino dell’Adamello con una potenza di circa 1000 MW (con 8 gruppi). La centrale di Bargi utilizza come bacino a valle il lago di Suviana e come bacino a monte quello più piccolo del Brasimone che viene costantemente riempito e svuotato e che si trova a 5 km di distanza circa 350 m più a monte. La potenza installata è di 320 MW con due sole turbine.

Naturalmente le centrali di pompaggio non sono esenti da problemi tecnologici:

  • dimensioni e peso delle turbine; la girante ha un diametro di 4 metri e pesa oltre 30 tonnellate; l’alternatore a 8 coppie polari per produrre corrente alternata a 50 Hz (quella della rete) deve comunque fare 3000/8 = 375 giri al minuto con oggetti che pesano decine di tonnellate. Si pensi per fare un solo esempio all’albero d’acciaio lungo diversi metri su cui è innestata la parte rotante dell’alternatore.
  • quando si apriono e chiudono le valvole che portano l’acqua si verifica un colpo d’ariete di circa 40 atmosfere che va compensato con un pozzo piezometrico più alto del dislivello tra i due bacini
  • l’operazione di commutazione che trasforma l’alternatore in motore è delicatissima con quelle potenze in gioco e richiede un perfetto sincronismo tenendo conto che il motore sincrono, prima di funzionare come tale,  va fatto girare meccanicamente dalla turbina sino a raggiungere la velocità giusta
  • l’alternatore raffreddato dall’acqua del bacino inferiore genera energia elettrica a 40 mila volt e i cavi del sistema trifase vanno all’esterno (isolati e immersi in bagno d’olio) prima che i trasformatori portino la tensione a 380 mila volt
  • le condotte (del diametro di 4 metri) in cui cade l’acqua sono sulla verticale della centrale ma l’acqua arriva in pressione attraverso una galleria di quasi 5 km per portare l’acqua del primo bacino sulla verticale del secondo; la portata delle condotte è di 100 metricubi/secondo

Di fronte ai problemi posti dall’esplosione, incendio e allagamento a quota -40 in tanti si saranno chiesti come mai la centrale è stata del tipo a pozzo e non in caverna come si fa solitamente con le centrali idroelettriche in quota. Diamo intanto qualche elemento dimensionale (dipendente dalla potenza installata); la centrale ha una sezione rettangolare di 60×40 metri con una profondità di 54. Oltre agli aspetti di natura costruttiva (collocazione di un edificio di quelle dimensioni) c’è un elemento legato alla necessità che le pompe e le turbine si trovino al di sotto della quota minima del bacino per minimizzare gli stress che si verificano ogni sera in corrispondenza delle operazioni di commutazione.

Nella foto di Stefano Semanzato la condotta dal Brasimone e la centrale in un momento di svuotamento del bacino con evidenti le prese di carico e scarico dell’acqua.

Ci si interroga su cosa possa essere accaduto, in particolare sulle cause della esplosione: interne all’impianto oppure dovute per esempio all’utilizzo di bombole per saldatura difettose? Si potrà saperne di più se si riuscirà a bloccare l’acqua che, sgorgando da uno dei tubi di raffreddamento danneggiati ha completamento invaso il livello 9.

Una osservazione finale: in questi impianti altamente sofisticati gli incidenti non accadono durante il funzionamento dell’impianto ma durante le operazioni di testing (vedi Chernobyl) o di manutenzione o infine per qualche evento esterno scatenante (come nel caso di Fukushima).

 

 




p v ¬p = vero

Si fa un gran parlare del rischio che la intelligenza artificiale possa soppiantare la creatività umana e in particolare quella giornalistica data la possibilità di attingere per la sua formazione di base a banche dati sterminate cosa che la mente umana non riuscirebbe a fare.

Il rischio è reale e, personalmente, la cosa non mi spaventa più di tanto: la mia tesi di laurea del 1970 verteva sulla logica ad infiniti valori e sui corrispondenti fuzzy set che vedevamo come primi passi sul terreno della intelligenza artificiale.

Poi mi capita di ascoltare a Stampa e Regime su Radio Radicale l’articolo di uno di quei sapientoni di politica estera pagati profumatamente e osannati; ero in macchina e mi è sfuggito il cognome, ma non mi è sfuggita la argomentazione raffinata: per l’attentato di Mosca ci sono solo due possibilità:

  • è stato organizzato direttamente o indirettamente dai servizi segreti russi con lo scopo di accusare poi l’Ucraina
  • è stato organizzato e gestito come si dichiara nella rivendicazione da Isis-K

Dai tempi di Aristotele, ma forse anche prima, se p è vero, non p è falso e la frase disgiunta è vera; se p è falso, non p è vero e la frase disgiunta è vera. Non si scappa; questione di logica elementare.

L’illustre commentatore poteva anche dire che l’attentato l’ha organizzato mio zio oppure non l’ha organizzato mio zio. Un qualunque articolo generato dalla intelligenza artificiale avrebbe esaminato le mille sfaccettature del reale e anche quelle del mondo immaginario assegnando a ciascuna di esse un certa percentuale di plausibilità.

Meno male che c’è l’intelligenza artificiale che potra anche servire all’addestramento delle professioni intellettuali e a scremare  dal gruppo quelli che, sarebbe meglio, si occupassero di funzioni puramente esecutive di tipo molto semplice, non come quelle che fa un robot di quelli utilizzati nella automazione industriale (troppo complesse per il nostro analista).

 

 




Matematica – esame 2023 sessione suppletiva

Ho atteso i primi giorni di luglio per vedere il testo della prova suppletiva e, rispetto alla sessione ordinaria si possono fare le seguenti osservazioni.

I due problemi trattano di diverse questioni di analisi matematica e appaiono comparabili sul piano delle difficoltà e delle competenze richieste con un mix di teoria delle funzioni, studio dell'andamento, calcolo integrale dal punto di vista tecnico e dal punto di vista concettuale.

Nel questionario compaiono geometria razionale, calcolo delle probabilità, problemi di massimo e minimo, geometria analitica dello spazio, teoria delle funzioni, problematiche di calcolo integrale e d'uso del teorema di De L'Hospital che, una volta tanto, è ben posto. Compare anche un quesito (il 5) di livello più alto, perché poco standard, non banale e con conti abbastanza tosti che avrebbero potuto portare alla desistenza.

Complessivamente sono 12 cartelle in formato A4 abbastanza dense. Nel mondo della scuola, lo si dice da tempo, sarebbe necessario togliere di mezzo  il vincolo del 1 solo problema e 4 quesiti (tra gli 8 proposti), niente di più e niente di meno lasciando ai candidati più capaci scarse possibilità di dimostrare il loro valore.

Da Presidente di commissione, tanti anni facevo mettere a verbale la possibilità di premiare prove particolarmente meritevoli sul piano della originalità, del rigore e della capacità argomentativa. Si tratta di una questione spinosa perché le prove hanno dei punteggi massimi e spesso le commissioni finiscono per utilizzare la loro discrezione in sede di valutazione del colloquio.

A questo link trovate la correzione della sessione suppletiva e a quest'altro quello della sessione ordinaria.

I file stanno nella pagina della didattica dedicata ai compiti sia di matematica sia di fisica.

Mettendo mano alla stesura delle correzioni ho preso atto con rammarico che il padre dei programmi di matematica simbolica DERIVE è stato da tempo abbandonato dalla Texas e non gira su Windows 10 (quante cose ci ho fatto).

Ho dovuto fare di necessità virtù e mi sono misurato con Geogebra che incrocia (migliorandole) le caratteristiche di Cabri e quelle di Derive e con Mathematica (la summa) di cui conoscevo le primissime versioni. Direi che con Geogebra (gratuito) si può fare del gran lavoro sul piano della didattica.